La crisi agricola fu così forte che nell'XI piano (1981-85) gli investimenti
nell'agricoltura raggiunsero la cifra astronomica di 170 miliardi di rubli,
mentre il rendimento di ogni centinaio di rubli spesi per le macchine
agricole, i concimi, i materiali da costruzione, continua ad abbassarsi.
Finché, ad un certo punto, il Pcus fu costretto ad ammettere che i rapporti
di proprietà vigenti erano diventati un ostacolo gravissimo al progresso
socio-economico del Paese. Il XXVII congresso del Pcus (1986) riscoprì per
la seconda volta, dopo il X congresso del Pc (b) del 1921, l'importanza
della cooperazione. Al plenum del CC del Pcus (29.VII.1988) Gorbaciov spiegò
chiaramente che "tutte le misure di rafforzamento della base materiale nelle
campagne non avevano sortito l'effetto sperato, perché non erano state
contemporaneamente sostenute da un corrispondente lavoro di modificazione
dei rapporti economici nell'agricoltura". Modificare questi rapporti -egli
ha detto- significa anzitutto permettere che "il contadino diventi davvero
padrone sulla terra che lavora". "Socialismo" significa appunto "porre fine
alla separatezza dell'uomo dai mezzi di produzione".
I COLCOS E LA PERESTROJKA
Le difficoltà che oggi deve affrontare l'agricoltura sovietica dipendono
ancora, in qualche modo, dalla forzata collettivizzazione delle terre negli
anni '20 e '30, dallo scambio ineguale tra città e campagna,
dall'insufficiente sviluppo delle infrastrutture commerciali,
socio-culturali dell'ambiente rurale... I coltivatori sono stati
completamente demotivati, le campagne si sono spopolate. Per tornare alla
"normalità", oggi è impossibile limitarsi a un mero aumento salariale. Il
problema piuttosto è diventato quello di far sentire l'agricoltore vero
"proprietario" della sua terra. Finché il proprietario resta lo Stato, i
lavoratori si sentiranno sempre degli esecutori della volontà dell'apparato
burocratico e politico-amministrativo. Lo Stato quindi deve riconoscere il
primato alla società e, nell'ambito di questa, deve permettere che i
lavoratori, nel rispetto di talune regole generali fondamentali, fruiscano
di un'ampia autonomia economico-finanziaria. Gli organi statali devono
limitarsi a una funzione di indirizzo e di coordinamento, mantenendo
naturalmente i rapporti coll'estero: non possono e non debbono occuparsi
della gestione operativa, del management.
Se questa autonomia sarà garantita, non ci sarà alcuna necessità di
sopprimere i colcos: basterà trasformarli in vere cooperative agricole. Le
aziende individuali non sono l'unica alternativa, né esse avrebbero la forza
di diventarlo. Rimborsare i debiti contratti verso la campagna, in questi
ultimi 60 anni di storia dell'URSS, non significa necessariamente procedere
a una "decollettivizzazione" forzata. Il decreto dell'aprile 1989 sui
"contratti d'affitto" costituisce sicuramente un passo importante verso la
realizzazione di una nuova forma socio-economica di management agricolo.
Esso prevede che nello stadio iniziale il contratto d'affitto sia di breve
durata; i locatari ricevono le commesse dall'alto, e pagano un canone fisso
per i macchinari e le terre loro concesse. In un secondo momento, i locatari
sono in grado di acquistare ciò di cui hanno bisogno coi redditi guadagnati,
senza dover ricorrere al credito. L'amministrazione statale non ha il
diritto di interferire nei loro affari. A questo stadio avanzato, la formula
del contratto d'affitto non riguarderà più singoli settori dell'azienda
agricola, ma l'intera azienda.
Ora, visto e considerato che, a partire dalla perestrojka, si è per così
dire rilanciata la politica della NEP, in quanto l'attuale accento posto sul
calcolo economico, sulle leve e gli stimoli economici concorda nettamente
con lo spirito della svolta del 1921, ci si può chiedere se davvero ha senso
ritenere che la perestrojka altro non sia che un mera riedizione della NEP
classica, seppure col vantaggio del progresso tecnico-scientifico, o se non
sia piuttosto una riforma più profonda. Alcuni esperti ritengono che sia
proprio il divieto di avere dipendenti salariati a costituire la
fondamentale differenza tra le due esperienze (per quanto -è bene
ricordarlo- nel 1923 meno del 16% dei lavoratori era presente nelle imprese
private e nel 1928 circa il 6%).
In effetti, ai tempi della vecchia NEP, quando venne introdotta l'imposta in
natura, facilmente nascevano figure sociali come il kulak, il mercante,
l'imprenditore (nel mercato si potevano acquistare anche certi mezzi
produttivi): queste figure si arricchivano sia sfruttando la favorevole
congiuntura che la forza-lavoro salariata. Nel complesso quindi si apriva
uno spazio notevole per l'azione delle forze spontanee dell'economia, che in
prospettiva avrebbero anche potuto sottomettere il socialismo. Il potere
politico acconsentì coscientemente alla creazione di una situazione di
aperta competizione fra il settore capitalista e quello socialista
dell'economia. Solo il tempo avrebbe potuto stabilire quale settore doveva
prevalere. Lo stesso Lenin, nel 1922, presentò un progetto di risoluzione
all'XI congresso del partito, nel quale si sosteneva che "a proposito
dell'impiego di manodopera salariata in agricoltura e dell'affitto di terre,
il congresso del partito raccomanda a tutti i lavoratori del settore di non
soffocare con formalità eccessive né l'una né l'altra di queste prassi e di
limitarsi... a individuare misure ragionevoli con cui evitare gli eccessi
dannosi nei rapporti sopra citati".
Stando a molti economisti sovietici (p.es. G. Shmeliov), il lavoratore
sovietico non è padrone dei suoi mezzi produttivi, ma è un "dipendente
statale". Con la rivoluzione, infatti, la terra, il sottosuolo, le fabbriche
e le aziende sono passate in proprietà allo Stato, certo non al popolo, il
quale non ha mai potuto esercitare direttamente il potere di amministrare la
proprietà pubblica. Quindi il lavoratore sovietico è sempre stato un
"salariato". Paradossalmente, si potrebbe dire che c'è più "socialismo" in
quei Paesi dove gli operai possiedono azioni delle imprese in cui lavorano.
Ora però anche nell'URSS socialista le cose stanno cambiando: la legge
sull'attività lavorativa individuale ha praticamente reintrodotto il
concetto di "proprietà privata", seppure su piccola scala, mentre la legge
sull'affitto e i rapporti d'affitto permette ai lavoratori di diventare
affittuari non solo della terra ma anche dei rapporti produttivi. Il che è
come se si fossero spezzate le due tavole della legge mosaica, in quanto
pochi economisti sovietici (neppure il progressista A. Aganbeghian)
avrebbero potuto pensare che la "NEP" della perestrojka si sarebbe spinta
fino ad accettare di far entrare nel ciclo commerciale privato i mezzi di
produzione, permettendo così l'assunzione di manodopera salariata.
Gli economisti radicali (tra cui G. Popov) non hanno remore di sorta.
"Mercato socialista" vuol dire mercato delle merci, del denaro, dei titoli e
anche del lavoro. Essi affermano che se il lavoratore è "padrone" della
propria forza-lavoro, dev'essere anche "libero" di contrattarla con
qualunque imprenditore, lasciando allo Stato solo il compito di garantire al
lavoro privato condizioni di lavoro e assistenza sociale non inferiori a
quelle presenti nel settore pubblico.
A questo punto però vien da chiedersi se l'obiettivo degli economisti
radicali sia effettivamente quello di realizzare un "socialismo autogestito
di mercato" o non piuttosto una qualche variante del "capitalismo di stato".
Si può essere infatti d'accordo che un lavoratore dev'essere lasciato libero
di fare il dipendente salariato o il socio di una cooperativa, ma questa
libertà dovrebbe poterla godere in qualsiasi momento e non solo adesso, nel
momento in cui deve scegliere, cioè nel momento in cui tutti i principali
mezzi produttivi sono ancora nelle mani dello Stato sovietico. Questi
radicali sembrano volere una sorta di sistema sociale in cui lo Stato sia
"socialista" e la società sia "capitalista", ma non può essere questo il
modo in cui si costruisce il "socialismo democratico".
La proprietà statale dei mezzi produttivi non può essere messa all'asta, a
disposizione del migliore offerente. Tale proprietà va progressivamente
trasferita nelle mani dei lavoratori, solo ai quali, collettivamente intesi,
spetta il compito di gestirla e controllarla. Certo, è oltremodo superata
l'idea di salvaguardare lo Stato socialista tradizionale, onde impedire che
la perestrojka, sul piano dei rapporti socio-economici, rischi di stimolare
la reintroduzione del capitalismo. Questo modo di vedere le cose è tipico di
chi vuol fare le riforme a metà, cioè di chi si fida di più, in ultima
istanza, dei metodi amministrativi che non di quelli economici. In realtà
costoro si devono rendere conto che non c'è nulla e nessuno che, usando la
forza, può impedire agli uomini di scegliere strade sbagliate. Solo la forza
dell'esempio -insegna il leninismo- può portare gli uomini a scegliere la
giusta via.
Dunque la vera differenza fra la vecchia e la nuova NEP non sta
semplicemente nel fatto -come vuole, ad es., l'economista L. Voskresenski-
che ai lavoratori, ma soprattutto agli agricoltori, si può oggi garantire
una maggiore autonomia economica, nonché un forte sviluppo
tecnico-scientifico; non sta -come vuole, ad es., l'economista D. Vasilev-
nel fatto che oggi manca la "base economica" per rischiare di cadere nel
capitalismo (in quanto nell'URSS è ancora esclusa l'assunzione di
manodopera, l'uso privato dei grandi mezzi produttivi, ecc.), né sta nel
fatto che gli odierni colcos non sono imprese private, in quanto operano
sulla base di una "proprietà collettivizzata" a livello dell'intera URSS, e
neppure sta nel fatto che gli odierni colcos preferiscono vendere le loro
eccedenze allo Stato, ritenuto più solvibile dei privati. La vera differenza
sta nel fatto che la coscienza dell'uomo moderno (incluso quello sovietico)
riuscirebbe a tollerare molto meno l'eventualità che dopo l'attuale "NEP" la
società ripiombi nel buio della dittatura. Solo a partire da questa
consapevolezza gli uomini riusciranno ad accettare le profonde riforme
dell'attuale prestrojka.
STALIN E L'AMERICA
Sotto Stalin vennero gettate, nell'ex-URSS, le basi della politica estera
sovietica, inclusa quella verso gli USA. L'eco di questa politica si è
sentita, praticamente, sino alla svolta gorbacioviana, allorché sono stati
messi all'ordine del giorno i temi dello Stato di diritto, della separazione
fra ideologia e Stato, dell'interdipendenza degli interessi mondiali, della
sicurezza universale, della "casa comune europea" ecc. Ovviamente è
impossibile ricostruire la politica estera di Stalin solo sulla base dei
discorsi, interviste e articoli che gli appartengono. Occorrerebbe esaminare
anche le pubblicazioni occidentali relative a "memorie", rapporti
diplomatici ecc., nonché gli archivi del Pcus, del Ministero della Difesa e
del KGB, gli archivi di L. Trotsky ad Harward e quelli dei Paesi
ex-comunisti dell'Europa orientale, senza dimenticare che ai tempi di
Krusciov e di Breznev furono distrutti tutti i documenti che potevano
compromettere la figura di Stalin.
La visione politica estera staliniana ruotava attorno a due pilastri
fondamentali: il rivoluzionarismo (altrimenti detto "romanticismo
rivoluzionario") e l'idea di una Russia come grande potenza. Il romanticismo
rivoluzionario rappresentava, in sostanza, la filosofia marxista nella sfera
nella politica estera. Esso risaliva alla rivoluzione francese, la quale
aveva proclamato la Francia "alleata naturale" di tutte le nazioni libere,
disposta a sostituire alle relazioni diplomatiche una guerra rivoluzionaria
per la liberazione dell'Europa. Il Manifesto di Marx ed Engels si fondava
appunto, col suo appello all'unificazione del proletariato mondiale, sulle
tradizioni della solidarietà rivoluzionaria. Quelle tradizioni che da più di
mezzo secolo avevano visto intellettuali radicali europei disposti a
partecipare a qualunque tipo di insurrezione per la libertà, fosse essa in
Polonia, Francia, Italia, Grecia o Germania.
Secondo il Manifesto gli operai non hanno patria, e nel sec. XIX in effetti
sembrava così. Anche alla vigilia della I guerra mondiale, i partiti
socialdemocratici al potere ritenevano impossibile che i socialdemocratici
tedeschi potessero sparare sui loro compagni francesi, belgi e russi (25
anni dopo gli operai sovietici pensarono che gli operai tedeschi non
avrebbero sparato su di loro).
Insomma si voleva la rivoluzione mondiale. Si può immaginare con quale stato
d'animo i bolscevichi firmarono il trattato di pace di Brest-Litovsk con la
Germania. La stessa Internazionale Comunista, sin dal suo nascere, aveva
assunto il ruolo di "quartier generale" della rivoluzione mondiale.
Naturalmente la rivoluzione mondiale non era per Stalin la stessa cosa che
per L. Trotsky o G. Dimitrov. Stalin non la considerava come un aiuto
disinteressato ai lavoratori d'altri Paesi in lotta contro lo sfruttamento e
l'oppressione, ma come un'espansione illimitata della rivoluzione russa, che
avrebbe dovuto portare a un impero rivoluzionario.
Questo romanticismo rivoluzionario preoccupava alquanto l'America, che già
nel lontano 1793 aveva espulso il rappresentante francese E.C. Genét che, a
nome della Convenzione, aveva cercato di coinvolgere gli USA nel movimento
rivoluzionario.
Non a caso F.D. Roosevelt, nello stabilire relazioni diplomatiche con
l'URSS, pretese che la seguente complicata garanzia fosse prevista nel
messaggio di M. Litvinov, ambasciatore sovietico negli USA: "Il governo
sovietico s'impegna a non permettere la formazione o la presenza, nel suo
territorio, di alcuna organizzazione o gruppo, o comunque ad adottare misure
preventive contro l'attività di organizzazioni, gruppi o loro singoli
rappresentanti, ovvero funzionari di qualunque apparato o associazione, che
perseguano l'obiettivo, nei confronti degli USA o di una qualunque loro
parte (territori o domini), di rovesciare o modificare con la forza il
regime politico o sociale esistente".
Verso la metà degli anni '30, Stalin, tentando di uscire dall'isolamento
diplomatico, ogniqualvolta incontrava i rappresentanti ufficiali del mondo
occidentale, preferiva dissociarsi dall'idea della rivoluzione mondiale. La
sue dichiarazioni, tuttavia, non suscitavano mai piena fiducia.
Il 1 marzo 1936 egli ebbe una interessante conversazione con l'editore
americano Roy Howard: Stalin: "Se voi pensate che i sovietici vogliano
modificare, anche attraverso l'uso della forza, la fisionomia politica degli
Stati confinanti, vi sbagliate completamente. Certo, i sovietici vorrebbero
tale mutamento, ma questo è un problema di quegli stessi Stati".
Howard: "State forse dicendo che l'URSS ha per così dire abbandonato i suoi
piani e le sue intenzioni di fare la rivoluzione mondiale?"
Stalin: "Noi non abbiamo mai avuto questi piani e queste intenzioni" (E'
sufficiente qui ricordare che nel 1925 Stalin aveva dichiarato, dalla
tribuna del XIV congresso del partito, che l'URSS era "la base della
rivoluzione mondiale" e, un anno più tardi, che il potere sovietico era il
baluardo e il rifugio del movimento rivoluzionario del mondo intero).
Howard: "Mi sembra che da molto tempo il mondo la pensi diversamente".
Stalin: "è il frutto di un malinteso".
Howard: "Un tragico malinteso?"
Stalin: "No, comico, anzi tragicomico". Poi aggiunse: "Vede, noi marxisti
crediamo che la rivoluzione accadrà anche in ogni altro Paese. Ma ciò avrà
luogo solo quando i rivoluzionari di quei Paesi la riterranno possibile o
necessaria. L'esportazione della rivoluzione non ha alcun senso".
In realtà per Stalin era assurdo soltanto un tipo di esportazione, quello
basato sui metodi e mezzi della "cavalleria rossa", che certo ai suoi tempi
era diventata anacronistica. Di fatto il Komintern era lo stato maggiore
della rivoluzione mondiale. Di qui le violente controversie sulle vie di
sviluppo della rivoluzione di questo o quel Paese, la formazione dei quadri
per queste rivoluzioni, l'invio di consiglieri per organizzare la lotta
armata, la regolamentazione della politica dei partiti comunisti degli altri
Paesi, ecc.
Nel 1939 Stalin commise un tragico errore. Egli credette che il nemico n. 1
dell'URSS erano le democrazie occidentali (Inghilterra, Francia e USA),
che -a suo giudizio- volevano spingere la Germania e il Giappone contro
l'URSS. Questa visione delle cose dipendeva probabilmente dal fatto che
Stalin nutriva ancora un forte odio per l'Intesa, da lui considerata come
responsabile principale dell'intervento contro la Russia rivoluzionaria.
Paradossalmente, egli riusciva meno a dimenticare la presenza di piccoli
distaccamenti americani ad Arkhangelsk e a Vladivostok, che non il fatto che
la Germania avesse occupato l'Ucraina, la Bielorussia e i Paesi Baltici,
mentre il Giappone aveva cercato d'invadere l'Estremoriente. (Questo
paradosso si spiega evidentemente col fatto che l'Intesa aveva appoggiato la
guerra civile).
Inoltre la logica imperiale doveva fare di Stalin l'erede della germanofilia
tipica della dinastia Romanov, rafforzata, nel suo caso, sia dalla buona
cooperazione dell'URSS con la Repubblica di Weimar, sia da una loro certa
solidarietà nei confronti degli accordi di Versailles, sia infine dal ruolo
giocato da Trotsky nella pace di Brest-Litovsk, che -come noto- era stato
molto ostile al governo tedesco allora in carica. Infine Stalin ha sempre
provato molta più ostilità verso gli "eretici", come i socialdemocratici o i
democratici in genere, che non verso il fascismo.
Al XVIII congresso del partito, Stalin affermò che il "clamore sospetto"
sollevato dalla stampa anglofrancese e nordamericana, secondo cui il Reich
tedesco voleva annettersi l'Ucraina sovietica, unificandola con l'Ucraina
carpatica, aveva come scopo d'invelenire i rapporti tra URSS e Germania,
portandole alla guerra. Ciò che poi avvenne tre anni dopo. Stalin era
convinto che il principale nemico dell'URSS fosse l'Inghilterra e per molto
tempo non considerò gli americani come alleati potenziali contro
l'aggressione nazista.
Egli si era formato un'immagine dell'America sotto l'influenza delle
concezioni maturate negli anni '20 e '30. All'inizio degli anni '20 egli
aveva capito che il centro dello sviluppo economico (produttivo, commerciale
e finanziario) s'era definitivamente spostato dall'Europa occidentale agli
Stati Uniti. Con quest'ultimi, infatti, egli intendeva far competere l'URSS.
Al XVIII congresso del partito alcuni commissari del popolo chiesero
addirittura di acquisire i metodi americani relativamente all'uso delle
macchine utensili, per poterli superare nella produttività del lavoro.
A quel tempo la società sovietica, nel suo complesso, aveva un'immagine
piuttosto positiva degli USA. Basti pensare al poema di Mayakovsky, Il ponte
di Brooklyn, che esalta il genio dell'industria americana. Lo stesso Stalin,
nel 1931, pur con le sue solite riserve ideologiche, si era sentito indotto
ad ammettere l'importanza del dinamismo americano, la sana attitudine verso
il lavoro, il senso dell'efficienza e della praticità, il clima democratico
che si respirava nell'industria e nelle produzioni tecnologiche, in netto
contrasto -egli rilevava- con lo spirito aristocratico-feudale che ancora
regnava nei Paesi capitalistici della vecchia Europa.
Stalin considerava Roosevelt un politico coraggioso e determinato, un
realista. Egli inoltre apprezzava il poeta Whitman e nelle sue conversazioni
col repubblicano Harold Stassen, affermò, non senza invidia, che l'America
era una nazione fortunata non solo perché protetta da due oceani e
confinante con due Paesi deboli: il Canada e il Messico, che certo non
potevano impensierirla, ma anche perché dopo la guerra d'Indipendenza essa
aveva vissuto in pace per almeno 60 anni, potendo così svilupparsi
rapidamente. Senza considerare che la popolazione americana da tempo s'era
affrancata dal giogo dei re e dell'aristocrazia feudale.
Stalin fece anche notare a Stassen che Germania e Giappone non erano in
grado di competere con gli USA, che i mercati europeo, cinese e nipponico
erano aperti ai prodotti americani e che delle condizioni così favorevoli
gli USA non le avevano mai avute. Si stupì molto però quando apprese da
Stassen che l'export americano non superava il 15%.
Durante la II guerra mondiale gli USA e l'Inghilterra non solo si allearono
con l'URSS, ma -contro ogni aspettativa- riconobbero in Stalin uno degli
artefici dei destini del mondo post-bellico. Esse praticamente compresero
che senza l'appoggio dell'URSS non avrebbero potuto vincere il nazifascismo.
E così, dalla periferia della politica mondiale, Stalin si trovò
improvvisamente al centro, insieme a Roosevelt e a Churchill, avendo come
obiettivo non più quello della rivoluzione mondiale, ma quello della
ripartizione delle sfere d'influenza.
Ad un certo punto egli prese a considerare gli USA come suo partner
principale e formulò la proposta di ripartire il mondo sulla base del
principio della "coesistenza pacifica" (o "non-confronto"). "Si potrebbero
forse evitare delle catastrofi belliche se ci fosse la possibilità di
distribuire periodicamente le materie prime e i mercati di sbocco fra i
diversi Paesi, in rapporto al loro peso economico, attraverso la ricerca di
soluzioni pacifiche concertate". Così disse il 9 febbraio 1946, in un
meeting con i suoi "elettori" al distretto elettorale di Mosca.
In via di principio, Stalin non era contrario alla idea leniniana di
favorire la cooperazione fra due sistemi economici opposti. Egli anzi
riconosceva che il capitalismo mondiale era entrato in una fase di relativa
stabilità, ovvero ch'esso si stava sviluppando più velocemente che nel
passato. Ammetteva addirittura che il sistema americano si reggeva sul
consenso popolare. Esortava a rinunciare alla guerra di propaganda, a non
qualificare il sistema sovietico di "totalitarismo" o quello americano di
"capitalismo monopolistico". Egli stesso si definiva, per piacere agli
americani, un businessman.
Questo suo atteggiamento sortì l'effetto sperato solo su Roosevelt, che, pur
in presenza della guerra fredda, disse al suo amico e biografo J. Daniels,
nel 1949: "Stalin mi piace, assomiglia a Tom Pendergast" (un leader del
partito democratico degli anni '20 nello Stato del Missouri: un tipo
energico e carismatico, ma caduto in disgrazia a causa di uno scandalo e di
un'accusa per corruzione). Roosevelt era convinto che Stalin fosse come
"prigioniero del Politburo".
Al di là delle simpatie di Roosevelt, il piano di Stalin di spartire
pacificamente il mondo, fallì del tutto: sia perché l'occidente interpretò
il suo discorso del 9 febbraio come una dichiarazione di "guerra fredda";
sia perché lo stesso Stalin non fece nulla per incontrare l'occidente a metà
strada. Egli infatti era convinto, ideologicamente, che il sistema
capitalistico fosse prossimo a crollare e che i suoi momentanei
miglioramenti non facessero che accelerare la venuta del giorno fatidico.
A tale proposito Stassen gli aveva fatto notare che nelle condizioni del
capitalismo regolamentato, le crisi che portano alla morte erano
praticamente impossibili. Al che Stalin rispose che ciò avrebbe implicato la
necessità di un governo molto forte e risoluto, che avrebbe potuto essere,
indifferentemente, democratico o repubblicano.
Dalle conversazioni fra Churchill e Stalin risulta chiaramente che
quest'ultimo considerava il pluripartitismo un'aberrazione. Egli inoltre era
convinto che il popolo stimasse solo una cosa: la forza, e che, per questa
ragione, in Inghilterra esso avrebbe votato, durante le elezioni del '45,
per i conservatori. Cosa che invece non avvenne, poiché proprio con quelle
elezioni furono i laburisti ad acquistare una solida maggioranza.
Stalin s'era indignato nel vedere che gli USA non avevano apprezzato la sua
iniziativa di ripartire pacificamente il mondo. Proprio in nome di essa,
egli aveva rinunciato sia all'idea d'impiantare subito dei regimi comunisti
in Europa orientale, sia a quella di appoggiare il partito comunista cinese.
Il ripensamento ebbe luogo nel 1948, con la decisione di far scendere gli
eserciti comunisti sulle strade della Cecoslovacchia, poi venne edificato il
muro di Berlino e si ruppero le relazioni con Tito.
L'influenza postuma di Stalin sulla società sovietica dimostrò ancora di più
la vitalità degli stereotipi ch'egli aveva imposto, quegli stereotipi che
s'erano formati negli anni '20 e consolidati negli anni '48-'52. Dopo il '48
Stalin cominciò a propagandare l'idea che gli USA fossero governati da un
misterioso club di ricchi e che le istituzioni della democrazia borghese non
servissero a nulla. In queste condizioni gli USA avrebbero scatenato la III
guerra mondiale, servendosi dello strumento dell'ONU, dove -a giudizio di
Stalin- dominavano i 10 Paesi-membri del Patto Nord-Atlantico. Tutte le
nazioni che appoggiavano gli USA erano considerate da Stalin "nemiche
dell'URSS". In sostanza, i due "blocchi" dovevano restare separati.
Pur di far credere che gli USA erano in procinto di crollare, Stalin, nel
1952, dichiarò che dopo la fine della II guerra mondiale, due tesi avevano
perso la loro forza: la sua propria, sulla relativa stabilità dei mercati
nell'epoca della crisi generale dell'imperialismo; e quella di Lenin,
secondo cui, nonostante tale crisi globale, il capitalismo si sviluppava in
modo più rapido che nel passato.
Al XIX congresso del partito, Stalin riprese i vecchi slogan sulla
rivoluzione mondiale e sul crollo definitivo degli USA in virtù di tale
rivoluzione. Gli USA furono accusati di continua ingerenza negli affari
dell'URSS. Tutti questi stereotipi non fecero che alimentare il bisogno di
un "nemico".
Stalin arrivò addirittura a sperare che scoppiassero nuove guerre mondiali
imperialiste, all'interno delle quali Inghilterra e Francia da un lato,
Germania e Giappone dall'altro, formassero due blocchi antiamericani.
Egli criticava quei compagni che ritenevano più forti le contraddizioni tra
socialismo e capitalismo, che non quelle interimperialistiche. E criticava
anche quanti sostenevano che gli USA erano già in grado d'impedire che gli
altri Paesi capitalisti si combattessero tra di loro, indebolendosi a
vicenda. A suo parere, la tesi sull'inevitabilità delle guerre tra Paesi
capitalisti restava in vigore. Egli non considerava affatto la guerra il
peggiore dei mali possibili. Anzi, deplorava che il movimento contemporaneo
per la pace non avesse avuto alcuna intenzione di trasformare la guerra
imperialista in guerra civile, come durante la I guerra mondiale. Anche se
non per questo egli escludeva che la lotta per la pace potesse trasformarsi,
poste talune circostanze, in lotta per il socialismo.
Questo modo di vedere le cose non è morto con la morte di Stalin, ma è
proseguito -seppure in forme ideologicamente più sfumate- con l'intervento
armato in Ungheria nel 1956, durante la crisi caraibica del 1962, con la
forme paranoiche di ostilità nei confronti della Cina, con l'invasione della
Cecoslovacchia nel 1968 e, per finire, durante la guerra d'Afghanistan. La
nuova mentalità politica è nata solo nell'aprile 1985, con l'entrata in
scena dell'umanesimo globale di Gorbaciov.
TROTSKI E IL TROTSKISMO
Lev Trotski (pseudonimo di Leib Bronstein) era nato lo stesso giorno della
rivoluzione bolscevica: il 25 ottobre, e lo stesso anno, 1879, del suo
futuro peggior rivale: Stalin. Suo padre disponeva di qualche centinaio di
ettari nel villaggio di Yanovka, a sud dell'Ucraina. La sua
famiglia -Trotski aveva un fratello e una sorella maggiori e un'altra
sorella minore, di nome Olga, che poi sposerà Kamenev- non era
particolarmente agiata, né fruiva di uno status sociale privilegiato. Mai
però dovette affrontare situazioni materialmente difficili o esperienze
d'ingiustizia sociale. Il giovane Trotski non aveva motivazioni particolari,
oggettive, per diventare rivoluzionario.
Egli frequentò il liceo tecnico di Nikolaiev (città portuaria ucraina). Si
distingueva alquanto dai suoi compagni per la sua brillante intelligenza, il
suo eloquio e anche per il bisogno di emergere all'attenzione degli altri.
Assai presto divenne il leader d'un piccolo gruppo di giovani contestatori
facenti capo all'Unione operaia del sud della Russia, un'organizzazione
rivoluzionaria semilegale che combatteva l'autocrazia zarista. Il docente di
medicina, G. Ziv, che studiò con lui a Nikolaiev e a Odessa, scrisse che la
caratteristica principale della personalità di Trotski era la ferma volontà
di arrivare primo in ogni cosa a cui s'applicasse.
A quell'epoca egli non aveva alcun interesse per il marxismo. Ciò che lo
attirava era l'ideologia liberal-populista e in particolare la corrente
dell'economicismo, che era la versione russa dell'opportunismo alla
Bernstein. Trotski poté rimanere alla direzione dell'Unione operaia suddetta
semplicemente perché la polizia segreta zarista tollerava esperienze simili
a quella del cosiddetto "marxismo legale" (Struve, Tugan-Baranovski, ecc.).
Ma quando questa flessibilità venne meno, l'Unione fu smantellata e i suoi
leaders, fra cui Trotski, incarcerati nella prigione di Odessa.
E fu appunto qui che Trotski decise di diventare un professionista della
rivoluzione, scegliendo, come pseudonimo, il nome di un sorvegliante
aguzzino. Era il gennaio 1898: Trotski aveva 19 anni. Venne condannato a 4
anni di esilio nella Siberia orientale, ma dopo circa un anno di permanenza,
fuggì, presentandosi nel 1902 a Lenin che allora viveva, profugo, a Londra.
Nel marzo 1903, Lenin, riconoscendogli le sue molte qualità, gli propose di
lavorare al comitato di redazione dell'Iskra. A ciò si oppose fermamente
Plechanov, ma senza successo. In seguito, i menscevichi, capeggiati da
Martov, Trotski e Akselrod, s'impadroniranno dell'Iskra, approfittando
proprio di una successiva posizione conciliante assunta da Plechanov.
Nello stesso anno venne delegato dall'Unione siberiana (che univa le
organizzazioni socialdemocratiche di molte province siberiane) al II
congresso del Posdr (così si chiamò il Pcus dal 1898 al 1917), destinato,
quest'ultimo, a spaccarsi in bolscevichi e menscevichi. Sin dai primi
giorni, Trotski intervenne a favore di Lenin contro le pretese separatiste
del Bund (unione ebraico-operaia, di tendenza menscevica, operante in
Polonia, Lituania e Russia). Ma al momento dell'esame del programma e degli
statuti del partito, passò dalla parte dei menscevichi, il cui leader era
Martov. Ciò su cui non concordava erano le idee di Lenin relative
all'organizzazione interna del partito (soprattutto la necessità di
rispettare la disciplina e di partecipare attivamente a una delle sue
organizzazioni). Non dimentichiamo che Trotski, fino al 1917, rimase
svincolato da veri e propri legami partitici. Questa tendenza a mutare
bruscamente princìpi e convinzioni, soprattutto ad abbandonare la lotta
rivoluzionaria per ottenere vantaggi politici immediati, costituiva uno dei
tratti principali di Trotski, quello che Lenin meno sopportava. Infatti,
dopo il II congresso i due si separarono per alcuni anni.
Durante la rivoluzione democratico-borghese del 1905-907, Trotski era già
conosciuto in tutta la Russia. Sotto il nome di Yanovski, era diventato il
vicepresidente del soviet dei deputati operai di Pietroburgo, fondato nel
1905. Il presidente, G. Khrustalev-Nosar, era un uomo estremamente prudente,
con concezioni politiche assai vaghe. Con molta facilità Trotski poté
sostituirlo.
Per 52 giorni il soviet organizzò le masse popolari contro il governo.
Trotski scrisse numerosi appelli, manifesti, editoriali nell'organo di
stampa Izvestia, negoziò con il potere (lo stesso primo ministro S. Witte lo
interpellò). Ciò conferì a Trotski un grande prestigio agli occhi dei
lavoratori, un prestigio che aumentò soprattutto dopo la chiusura forzata
del soviet nel dicembre 1905, con arresti e processi dei suoi leaders.
Trotski venne di nuovo condannato all'esilio siberiano. Fuggito mentre stava
per esservi tradotto, riparò di nuovo a Londra, assistendo nel 1907 al V
congresso del Posdr in qualità di socialdemocratico indipendente.
Fu proprio nel corso della I rivoluzione russa che Trotski formulò la sua
teoria della "rivoluzione permanente", riprendendo i concetti fondamentali
elaborati da A. Parvus, un socialdemocratico tedesco originario della
Russia. "Parvus ed io -scrisse Trotski- abbiamo difeso in Nachalo [giornale
da loro edito nel 1905] l'idea che la rivoluzione russa sia il prologo di
un'epoca socialrivoluzionaria nello sviluppo dell'Europa; che la rivoluzione
russa non possa essere condotta a buon fine né attraverso l'alleanza del
proletariato con la borghesia liberale, né attraverso l'alleanza del
proletariato con i contadini rivoluzionari; che la rivoluzione non può
trionfare se non come parte della rivoluzione del proletariato europeo". In
pratica il fallimento dell'esperienza del 1905 lo aveva portato a dubitare
delle capacità sovversive del proletariato russo. In questa valutazione,
tuttavia, Trotski non mise in discussione i metodi di lotta da lui stesso
usati in quel periodo.
Lenin criticò la teoria della "rivoluzione permanente" dicendo ch'essa
desumeva dai bolscevichi l'appello al proletariato per una risoluta lotta
rivoluzionaria e la conquista del potere politico, mentre desumeva dai
menscevichi la "negazione" del ruolo della classe contadina. Una teoria
dunque rivoluzionaria solo in apparenza. Da un lato infatti Trotski
manifestava una forte esigenza di mutamento, dall'altro -soggiogato com'era
dalle sue velleità utopiche- si negava la possibilità di poterla realizzare.
Non a caso, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, egli si dedicò
alla totale riorganizzazione del Posdr sulla base dei princìpi
liberal-borghesi che reggevano i partiti riformisti euroccidentali.
Nel 1912 la conferenza di Praga del Posdr espulse dal partito un gruppo di
opportunisti (chiamati "liquidatori") che chiedeva la trasformazione del
partito da rivoluzionario a riformista. Trotski contrattaccò organizzando il
cosiddetto "blocco d'agosto", che appoggiava questi liquidatori. Ma la
conferenza pose fine all'unità formale di bolscevichi e menscevichi e
rifondò il Posdr. Il "blocco", cui facevano parte anche il Bund e gli
estremisti otzovisti, si dissolse tra il 1913 e il 1914.
Quando scoppiò la I guerra mondiale, Trotski fondò a Parigi, con il
menscevico Martov (leader dell'ala sinistra del menscevismo), il giornale
Nashe Slovo, in cui attaccava i bolscevichi definendoli "scissionisti" e
lanciava appelli per la realizzazione dell'unità coi "difensivisti",
favorevoli a una guerra difensiva della Russia zarista contro la Germania. I
bolscevichi invece erano contro la guerra e comunque speravano in una
sconfitta dello zarismo, ovvero che la guerra imperialista si trasformasse
in guerra civile. All'inizio del 1916 Trotski si recò negli USA per
partecipare alla redazione della rivista socialdemocratica Novy Mir. Su
quest'ultimo impegno Lenin ebbe a dire: "Appena arrivato, Trotski s'è legato
alla destra di Novy Mir contro la sinistra di Zimmerwald: si atteggia a uomo
di sinistra e aiuta di fatto la destra".
Dopo la rivoluzione del febbraio 1917, che rovesciò lo zarismo, Trotski
ritornò a Pietroburgo, giocando di nuovo un ruolo di rilievo
nell'organizzazione interdistrettuale unificata del Posdr, che era su
posizioni centriste, fra i bolscevichi e i menscevichi, e che rimase in
vigore dal 1913 al 1917. Tuttavia, più il fervore rivoluzionario cresceva e
più le masse si spostavano a sinistra, e Trotski con loro.
Nell'agosto 1917, 4.000 membri dell'organizzazione centrista si uniscono al
Posdr durante il suo VI congresso. Fra essi vi è anche Trotski, che aveva
deciso di staccarsi dai "difensivisti". Benché egli non sia presente di
persona al congresso, perché in prigione, si decide di cooptarlo ugualmente
nel C.C. Su 134 congressisti che avevano partecipato all'elezione
dell'organo direttivo del partito, 131 votarono per Trotski (tre voti in
meno che per Lenin). Egli dunque godeva di grande credito in seno al
partito.
Nel maggio 1917 Lenin nutriva ancora dei dubbi sulla personalità di Trotski,
ma due mesi dopo decise di riprendere i rapporti. Nelle tesi che redasse per
il suo rapporto alla "conferenza democratica" di Pietroburgo, che ebbe luogo
l'8 ottobre, Lenin giustificò la candidatura di Trotski sulla base di tre
motivazioni: 1) Trotski aveva adottato una posizione internazionalista (dopo
la rivoluzione del febbraio 1917, Trotski aderì al gruppo degli
"internazionalisti"), 2) s'era battuto in seno all'organizzazione centrista
per la fusione col Posdr, 3) durante le dure giornate di luglio aveva
dimostrato di saper difendere la causa del proletariato. Da notare, a tale
proposito, che, proprio secondo Trotski, il partito bolscevico prese parte
alla conferenza democratica per svolgervi un lavoro organico, non per
denunciarvi le manovre dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi.
All'inizio di settembre, Trotski uscì di prigione e si mise a lavorare nel
C.C. del partito, così come nelle riunioni del soviet di Pietroburgo. Il 24
settembre, una sessione del C.C. deliberò di nominarlo presidente del
soviet. La crescente bolscevizzazione del soviet di Pietroburgo -afferma
Lenin- portava a identificare la parola d'ordine ch'esso, a partire dalla
metà di settembre, aveva lanciato, e cioè "Tutto il potere ai soviet!", con
un invito esplicito all'insurrezione.
Ancora oggi è difficile farsi un'idea giusta di ciò che pensava Trotski
circa l'insurrezione armata. Senza dubbio egli preparò attivamente
l'insurrezione di ottobre, ma la sua partecipazione non fu così decisiva
come lascia credere il menscevico N. Sukhanov o lo stesso Stalin che
nell'articolo La rivoluzione d'Ottobre (apparso sulla Pravda del 6.XI.1918
ma non nelle sue Opere complete), sostenne addirittura che N. Podvoiski (uno
dei principali leader dell'insurrezione armata d'ottobre) e che V.
Antonov-Ovseenko (che guidò l'assalto al Palazzo d'Inverno) erano stati gli
stretti esecutori della volontà di Trotski: il che non fu affatto vero. Nel
1924, nel suo discorso Trotskismo o leninismo, Stalin attribuì un ruolo ben
più modesto a Trotski. Mentre -come noto- nel Sommario di storia del Pc (b)
dell'URSS (1938), Trotski gioca un ruolo del tutto negativo negli
avvenimenti dell'Ottobre.
Nella Storia della rivoluzione russa di Trotski, si ha l'impressione che
senza di lui non si sarebbe compiuta alcuna rivoluzione. Effettivamente, in
quanto presidente del soviet di Pietroburgo egli fece molto per impedire ai
menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari di boicottare il II congresso dei
soviet, fissato al 20 di ottobre e poi posticipato al 25. Trotski partecipò
anche alla creazione e all'attività del comitato rivoluzionario militare
presso il soviet di Pietroburgo; aiutò il comitato ad armare gli operai, a
controllare la fortezza di Pietro e Paolo, che era uno dei principali punti
strategici della città e a far altre cose di carattere organizzativo e
militare. Il 10 ottobre, durante la riunione del C.C. del Posdr, Trotski
votò -come altri 10 membri- a favore della proposta insurrezionale di Lenin.
Tuttavia, nella sessione allargata del C.C. del partito bolscevico, tenutasi
il 16 ottobre, per discutere veramente la questione dell'insurrezione,
Trotski non fu presente. Il motivo non era dovuto a un semplice concorso di
circostanze, come lui stesso ebbe a dire. Di fatto, pur criticando
aspramente molti membri del C.C., specie Zinoviev e Kamenev, per le loro
illusioni parlamentariste, egli, prima dell'assalto al Palazzo d'Inverno,
aveva pubblicamente dichiarato che il comitato rivoluzionario militare era
stato creato non come organo dell'insurrezione ma soltanto come comitato di
"difesa" della rivoluzione. La sua idea era quella di realizzare
un'insurrezione "pacifica", "legale". In ogni caso l'insurrezione avrebbe
dovuto essere rinviata -a suo giudizio- sino al congresso dei soviet.
Trotski ovviamente non osava pronunciarsi contro l'insurrezione armata, ma
in pratica ne comprometteva la riuscita, non foss'altro perché rivelava i
piani al governo borghese e disorganizzava i ranghi rivoluzionari,
demoralizzando le masse pronte a intervenire. Egli in sostanza era convinto
che il rifiuto bolscevico di opporsi alla richiesta del Governo provvisorio
di ritirare le truppe da Pietroburgo, avrebbe assicurato almeno i 3/4 del
successo della rivoluzione (si veda le sue Lezioni dell'Ottobre): il che
però venne contraddetto dal disperato tentativo del governo di scongiurare
la sua fine, dando fondo a tutte le risorse di cui disponeva.
Nel suo libro Su Lenin del 1925, Trotski afferma testualmente che "nel C.C.
s'erano costituiti tre gruppi: gli avversari della presa del potere, che per
forza di cose furono costretti a respingere lo slogan "Il potere ai soviet"
[anzitutto Kamenev e Zinoviev]; Lenin, che insisteva per un'organizzazione
immediata dell'insurrezione, indipendentemente dai soviet; e l'ultimo gruppo
[anzitutto Trotski] che riteneva indispensabile legare strettamente
l'insurrezione con il II congresso dei soviet e quindi di scatenarla
all'ultimo momento". Ciò ovviamente non significava -come sostenne poi
Stalin- che Trotski aveva intenzione di far fallire la rivoluzione, ma
soltanto che la sua posizione era diversa da quella di Lenin. Da notare che
quando il governo provvisorio di Kerenski decise di deferire Lenin al
tribunale, Trotski, Kamenev e altri non si opposero alla richiesta. Lenin
però, senza aspettare d'essere arrestato, era già passato alla
clandestinità.
Dopo l'Ottobre
Nel primo governo sovietico Trotski era commissario del popolo (ministro)
agli affari esteri. Egli pubblicò -cosa, allora, senza precedenti- i
documenti segreti della diplomazia zarista e del governo provvisorio.
Stabilì anche dei contatti con gli ambasciatori delle potenze straniere e
diresse la delegazione sovietica ai negoziati di Brest-Litovsk, sulla
conclusione del trattato di pace con la Germania. Proprio in questi
negoziati le cose di complicarono alquanto quando Trotski volle assumere una
posizione personale, non autorizzata dal partito, mirando a tradurre in
pratica un proprio slogan: "né guerra né pace", ossia: non concludere un
accordo di pace con la Germania (per non accreditare le accuse secondo cui i
bolscevichi altro non erano che agenti dei tedeschi), né opporsi
all'invasione tedesca (cioè la Russia avrebbe smobilitato l'esercito,
dichiarando da sola la fine della guerra). Nel febbraio 1918, contrariamente
alle direttive di Lenin ("la pace a qualsiasi condizione"), rifiutò di
firmare il trattato, fornendo così alla Germania il pretesto di passare
all'offensiva sull'intero fronte contro la repubblica dei soviet, che in
quel momento ancora non disponeva di forze sufficienti per organizzare la
resistenza. Di fronte alla massiccia offensiva tedesca, che penetrò per
lunghi tratti nel territorio sovietico, Trotski decise di passare dalla
parte di Lenin. Il trattato venne firmato il 3 marzo 1918, ovviamente a
condizioni più onerose: Lettonia, Estonia e Polonia passarono alla Germania,
la quale si riservava anche una protezione militare sull'Ucraina.
Il 14 marzo Trotski venne nominato ministro della difesa (prima
dell'esercito, poi anche della marina). Egli divenne presidente del
consiglio militare rivoluzionario della repubblica, creato il 2 settembre
1918 per far fronte alla guerra civile e all'intervento straniero (1918-20).
Furono i suoi anni migliori. In questo campo, Trotski si dimostrava un
dirigente risoluto, capace di mobilitare migliaia di uomini, di realizzare
obiettivi anche molto difficili. In particolare, partecipò alla repressione
della rivolta dei socialisti-rivoluzionari di sinistra, scatenata il
6.VII.1918 a Mosca, allo scopo di rovesciare il governo sovietico e di
sabotare la pace di Brest (a tale scopo gli avventuristi arrivarono persino
a uccidere l'ambasciatore tedesco Mirbach).
Trotski giocò un ruolo centrale anche nell'organizzazione dell'esercito
regolare dell'Armata rossa, che era diventato un compito fondamentale dopo
che le zone più ricche del Paese erano finite nelle mani degli interventisti
stranieri e delle guardie bianche. Eseguendo le direttive del C.C. del
partito, mise in atto i princìpi fondamentali per l'edificazione di questo
esercito: istruzione militare generale e obbligatoria nelle scuole, nelle
fabbriche e nei villaggi, formazione immediata di reparti combattenti
particolarmente disposti al sacrificio, arruolamento di istruttori e
specialisti militari, istituzione di commissari volti a controllare
nell'esercito gli interessi della rivoluzione e del socialismo. Praticamente
si erano riusciti a superare i limiti che in quelle condizioni non avrebbero
permesso alcuna vittoria contro le forze avversarie: il volontariato,
l'esercito non regolare, l'elezione per la scelta dei comandanti, ecc.
Pretendendo il rispetto più rigoroso della disciplina militare, Trotski non
si attirò solo le simpatie di Lenin, ma riuscì anche a debellare la
guerriglia durante la guerra civile.
Vi era tuttavia un rovescio della medaglia. Trotski tendeva ad abusare dei
metodi amministrativi, a sopravvalutare le istanze del potere, a reprimere
eccessivamente i soldati e gli ufficiali. Esigeva la pena di morte per ogni
crimine. "La fucilazione -diceva- è un mezzo di dissuasione, crudele certo,
ma il più efficace". Di qui il tentativo di promuovere, con l'aiuto dei suoi
seguaci, all'interno dell'Armata rossa, il culto della sua personalità. Nel
1922 arrivò persino a inserire nei regolamenti militari la sua biografia
politica, nella quale egli si rappresentava come un eroe, come
l'incarnazione dell'onore rivoluzionario e militare. Sotto questo aspetto,
la sua diversità da Stalin era minima.
Oltre a ciò non si possono tacere i grossolani errori da lui commessi nel
definire la strategia della guerra civile (ad es. nel momento di reprimere
le truppe di Kolciak). Dal 1917 al 1922 egli non fece altro che ribadire,
sotto forme diverse, i suoi concetti di fondo:
il proletariato europeo è più maturo per il socialismo di quello russo;
l'obiettivo principale del potere dei soviet consiste non tanto nel favorire
le condizioni necessarie per edificare il socialismo in Russia, quanto
piuttosto nel cercare di resistere in attesa della rivoluzione mondiale;
la rivoluzione va esportata negli altri paesi attraverso la potenza
dell'Armata rossa. "La guerra rivoluzionaria -scriveva- è la condizione
indiscutibile della nostra politica". Queste tesi ovviamente non erano solo
di Trotski, ma di molti altri leaders politici (ad es., oltre i già citati
Zinoviev e Kamenev, anche M. Lasevic e E. Preobrazhenski).
Trotski sapeva rafforzare la disciplina del lavoro, stimolare l'entusiasmo
della classe operaia, organizzare la produzione, capiva l'importanza del
commercio estero e s'interessava al problema delle nazionalità. Lenin gli
riconosceva queste e altre qualità: lo disse nel dicembre 1920, all'VIII
congresso dei soviet, ed anche nel gennaio 1921.
Tuttavia, i suoi difetti erano per Lenin non meno gravi: pericolosa
soprattutto era la sua tendenza a costruire un "socialismo militarista",
assai simile al "socialismo da caserma" pre-marxista. Un modello, il suo,
basato sull'idea della militarizzazione dell'economia del paese, ovvero
della sua trasformazione in una sorta di gigantesca macchina militare in cui
tutto si fa su ordini ricevuti dall'alto, in cui le masse sono le docili
esecutrici della volontà dei capi.
Il disaccordo con Lenin si riaccese durante il dibattito sui sindacati.
Lenin era convinto che il X congresso del partito (marzo 1921) avrebbe
rifiutato i metodi burocratici di Trotski riguardo alla politica sindacale.
In particolare gli rimproverava di non saper realizzare un vero legame con
le masse. E in effetti il congresso gli diede ragione. Trotski veniva messo
sull'avviso: doveva attenersi alle direttive del partito, evitando di
crearsi propri quadri, con i quali comandare all'interno del partito stesso.
Oltre a ciò, vi era la questione, ben più complessa, dell'indipendenza e
neutralità dei sindacati, che i menscevichi e Trotski sostenevano contro le
tesi bolsceviche, secondo cui i sindacati dovevano essere "una scuola di
comunismo", strettamente legati al partito. Allora vinsero le posizioni
centralistiche di Lenin, ma a scapito del pluralismo. La svolta della NEP,
se proseguita con coerenza, dopo la morte di Lenin, avrebbe probabilmente
risolto anche questo problema.
In una lettera indirizzata al congresso, un anno prima di morire, Lenin
indicò con lungimiranza il dualismo della personalità di Trotski. Lo
riteneva l'uomo più capace del C.C., ma anche quello meno affidabile, perché
troppo sicuro di sé e troppo incline ad esagerare il lato amministrativo
delle cose. Lenin trovò necessario ricordare al partito il "non-bolscevismo"
di Trotski, facendo osservare però che questo limite non poteva essere
imputato a lui personalmente, più di quanto non potesse essere imputato ai
soli Zinoviev e Kamenev il tradimento nell'imminenza della rivoluzione. Una
precisazione che Stalin dimenticherà volentieri. Va tuttavia qui ricordato
che, a proposito di questo testamento, Trotski sarà il solo ad essere
favorevole alla sua pubblicazione, almeno in un primo momento, poiché, in
seguito, per ordine del C.C. del partito egli dichiarerà che non esisteva
alcun "testamento di Lenin".
Ovviamente Lenin vedeva nell'ideologia di Trotski non l'espressione di una
posizione individuale, bensì la manifestazione di uno stato d'animo assai
determinato all'interno del partito, di cui Trotski s'era fatto interprete e
realizzatore. Anche Kamenev aveva manifestato una chiara posizione
non-bolscevica, eppure Lenin non gli impedì di lavorare nel C.C. del
partito. "Quando nel C.C. si formano gruppi più o meno uguali -diceva Lenin-
è il partito che giudica", cioè l'insieme dei militanti. Lenin non offriva
solo la possibilità di correggere gli errori, ma cercava anche di stimolare
un'aperta fiducia nelle capacità di tutti gli attivisti, propagandisti,
intellettuali, operai, contadini..., che lottavano all'interno del partito.
Ma c'è di più. Lenin non stimava necessarie le divisioni, ma neppure se le
nascondeva. In questo senso teneva a precisare due cose: 1) le divisioni
vanno risolte nella legalità, cioè sulla base degli statuti e del programma
del partito; 2) la discussione è una cosa, la linea e la lotta politica del
partito un'altra: "Noi non siamo un club di dibattiti", diceva. Ciò
significava che gli irriducibili andavano, dopo ampie discussioni, espulsi.
Ora, tutte le fondamentali discussioni degli anni '20 s'erano concentrate
sulla possibilità o meno di costruire il socialismo in un solo paese, e
addirittura in un paese economicamente arretrato. Trotski e il blocco dei
suoi sostenitori che s'erano ritrovati sulla piattaforma del trotskismo nel
1926, affermavano che l'insieme della politica economica del paese soffriva
di una deviazione a destra. Nel senso cioè che il partito -secondo questa
opposizione- frenava lo sviluppo dell'industria statale, rispetto al tasso
di crescita dell'intera economia nazionale. Essi in pratica non credevano
nella possibilità di un'industrializzazione pianificata con le sole forze
del Paese e proponevano di avviare l'industrializzazione dapprima a ritmi
forzati, per saturare il mercato di merci, e quindi, rallentando i tempi di
produzione, reggere sino alla vittoria del socialismo nei Paesi capitalisti
più avanzati. Per tale "superindustrializzazione" proponevano di reperire i
mezzi nelle campagne, aumentando le tasse ai contadini.
I trotskisti rifiutavano di considerare che questo provvedimento avrebbe
comportato anche l'aumento dei prezzi di tutti i prodotti agricoli e un
minore potere d'acquisto del rublo, nonché un netto divario fra industria e
agricoltura e l'inevitabile rottura dell'alleanza, indispensabile alla NEP,
tra operai e contadini. I principali beneficiari, di conseguenza, sarebbero
stati i kulaki (contadini ricchi) e la nuova borghesia uscita dalla NEP,
cioè proprio coloro contro cui mirava il programma dei trotskisti! A
ciò -come se non bastasse- va aggiunto che questo blocco radical-gauchiste
utilizzava metodi tipici di una corrente che vuole trasformarsi in un
secondo partito: elaborazione e propaganda della propria piattaforma,
attività frazionistica, diffusione di documenti antipartitici, ecc. In
queste condizioni era indispensabile prendere misure urgenti.
Il plenum del C.C. del partito comunista, tenutosi nel gennaio 1925,
destituì Trotski dal suo posto di presidente del consiglio militare
rivoluzionario e lo sostituì con M. Frunze. Nell'ottobre 1926 Kirov propose
al plenum riunito del C.C. e del C.C. esecutivo, a nome dell'organizzazione
del partito di Leningrado, di escludere Trotski dall'ufficio politico. Un
anno più tardi egli viene anche escluso dal C.C. (insieme a Zinoviev) e nel
novembre -per aver organizzato una manifestazione dei suoi seguaci durante
il X anniversario della Repubblica d'Ottobre- viene anche radiato dalla
lista dei membri del partito. Espulsi dal partito furono anche Kamenev,
Piatakov, Radek e altri ancora.
L'idea trotskista sull'acutizzazione della lotta di classe via via che si
consolidano le basi del socialismo, stava cominciando a dare i suoi effetti,
ma a beneficio dello stanilismo, il quale seppe approfittare della
situazione per iniziare una durissima repressione nei confronti di tutti i
trotskisti. In quell'occasione, Stalin si avvalse degli organi giudiziari,
pur senza imbastire un processo col quale incriminare Trotski ufficialmente
(il che sarebbe apparso ridicolo, poiché Trotski di fronte alla legge non
era colpevole di nulle), ma in seguito le cose andranno ben diversamente.
All'inizio del 1928 Trotski viene inviato in esilio ad Alma-Ata nel
Kazakhstan, ma egli continua la lotta contro il partito e il bolscevismo. Il
plenum del CC del partito (luglio 1926) purtroppo era stato categorico nel
rifiutare il pluripartitismo. La linea del blocco Trotski-Zinoviev ottiene
lo 0,5% del consenso degli iscritti al Pc(b): a questa opposizione non si dà
il diritto di esistere. Trotski chiede di denunciare la politica
"opportunista" della direzione sovietica, esige che si organizzino degli
scioperi, che ci si opponga alla stipula dei contratti collettivi nelle
imprese, ecc. Alla fine di quell'anno, da Mosca un inviato speciale della
polizia politica ad Alma-Ata comunica a Trotski l'ultimatum del governo: o
smette di guidare l'opposizione o verrà espulso dal paese. Trotski sceglie
la seconda alternativa. Insieme ad altri tre membri della sua famiglia,
lasciò l'URSS per sempre. Era la sua terza emigrazione politica. All'esilio
si erano opposti, nel C.C., Bucharin, Rykov e Tomski.
Il governo sovietico si rivolse a molti paesi perché accogliessero Trotski,
ma solo la Turchia, dopo molte trattative, accettò. Solo durante il viaggio
Trotski venne a conoscenza che il luogo del suo esilio era Istanbul: la sua
richiesta d'essere inviato in Germania venne respinta. Arrivato ad Istanbul
il 12 febbraio 1929, visse fino al 1933 nelle isole Kiziladalar, nei pressi
della capitale turca. Nel 1932 viene privato, insieme ai familiari, della
nazionalità sovietica. I suoi sostenitori, in Francia, fecero in modo che
potesse ottenere un visto d'ingresso per questo paese. Ma nell'estate del
1935 è costretto a trasferirsi in Norvegia, ove rimane sino al gennaio 1937,
dopodiché decide di accettare l'invito, grazie agli sforzi di D. Rivera,
noto pittore messicano, del presidente Cardenas di risiedere in Messico.
Prese dunque domicilio a Koyocan, un distretto della capitale, ma il 21
agosto 1940 fu assassinato con un colpo di piccone da Ramon Mercader, su
incarico di Stalin.
La IV Internazionale
Durante l'emigrazione, l'attività di Trotski si concentrò sull'idea di
fondare un'organizzazione chiamata ad attirare nelle sue fila tutti coloro
che erano "a sinistra" dei partiti comunisti e del Komintern. Tale
organizzazione si chiamerà "IV Internazionale". Essa nacque nel settembre
1938 in una conferenza dei trotskisti tenutasi a Parigi.
Trotski preparò la creazione della sua Internazionale scrivendo molti libri:
dalla Rivoluzione permanente (1930) alla Scuola staliniana della
falsificazione (1932), dalla già citata Storia della rivoluzione russa
(1931-33) alla Rivoluzione tradita (1936), nonché una quantità enorme di
articoli. In queste e altre opere del periodo appaiono -come vuole lo
specialista occidentale del trotskismo, I. Deutscher- nuove tesi rispetto a
quelle formulate negli anni '20. La lotta contro lo stalinismo ne
costituisce il perno centrale.
In effetti, dopo l'assassinio di Kirov (1934), Trotski seppe intravedere la
crisi che avrebbe colpito il partito. Egli criticò sia la degenerazione
verso il burocratismo, sia i processi di Mosca, ritenendoli una
mistificazione ordita da Stalin e dal suo gruppo per liquidare gli
avversari. Tuttavia, i suoi avvertimenti non vennero presi in considerazione
né in seno al partito né nel movimento comunista internazionale. Ormai
Trotski, col suo protagonismo a tout prix s'era per così dire "bruciato".
Peraltro egli non aveva altra intenzione che quella di sostituire lo
stalinismo con il "trotskismo". Tutti i difetti e le aberrazioni della
politica staliniana venivano da lui utilizzate come prova della validità
della sua tesi fondamentale della "rivoluzione permamente", ovvero
dell'impossibilità di costruire il socialismo in un solo paese. Se poi
consideriamo il fatto che Trotski, per realizzare il suo modello di
socialismo, avrebbe impiegato dei metodi (si pensi solo all'idea di far
coincidere le circoscrizioni militari con le unità produttive) che non si
distinguevano qualitativamente da quelli di Stalin, si comprende facilmente
quanto sia inutile rivalutare Trotski contro il leninismo.
Oggi, non pochi teorici della IV Internazionale affermano che su taluni
aspetti occorre rivedere le concezioni di Trotski, ma, nonostante questo, il
neo-trotskismo resta una semplice appendice di quello classico. Infatti,
alla base della fraseologia rivoluzionaria di entrambi vi è una tesi comune,
quella della "rivoluzione permanente".
Per elaborare questa tesi, Trotski si era riferito a quella formulata da
Marx ed Engels nel 1850, nell'Indirizzo alla Lega dei comunisti. In esso,
Marx ed Engels, intervenendo contro la subordinazione degli interessi della
classe operaia (nella rivoluzione democratico-borghese) a quelli della
borghesia, scrivevano che il proletariato doveva andare molto più lontano
della borghesia, "rendendo la rivoluzione permanente, finché ogni classe più
o meno possidente sia stata tolta dal potere...". L'opinione di Lenin, sotto
questo aspetto, era analoga: "Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta",
cioè per la trasformazione della rivoluzione borghese in socialista. Lenin
dunque riconosceva la necessità di tappe successive della lotta
rivoluzionaria, ognuna delle quali preparava le condizioni indispensabili
alla transizione verso la tappa seguente.
Viceversa, Trotski presentava l'idea di "permanenza" come il conseguimento
simultaneo di tutti gli obiettivi politici del proletariato, il quale doveva
rovesciare immediatamente, senza tappe successive, il dominio della
borghesia. Ad es. la sua interpretazione delle Tesi di aprile di Lenin è
radicalmente differente da quella che diedero, allora, i bolscevichi. Per
Trotski quelle Tesi erano una proposta immediata della rivoluzione
socialista e non la proposta di un approfondimento della rivoluzione
democratico-borghese. Egli, in sostanza, non comprendeva che per realizzare
la rivoluzione socialista occorreva l'alleanza con i contadini poveri contro
i kulaki. Per lui la rivoluzione non era che uno scontro militare, dove i
due eserciti contrapposti, schierati sin dall'inizio, debbono solo
concludere militarmente uno scontro, i cui termini politici sono chiari fin
da principio ad entrambi gli schieramenti. Trotski insomma era un esteta
della rivoluzione. I suoi appelli avventuristici a bruciare le tappe non
facevano che riflettere una profonda ignoranza delle leggi oggettive dello
sviluppo sociale.
Peraltro un trotskista autentico non potrà mai ammettere che un determinato
Paese s'è incamminato realmente sulla strada del socialismo. La negazione di
una qualunque forma di socialismo si basa proprio sull'idea della
rivoluzione proletaria mondiale. Anche oggi, i trotskisti, esaminando il
fallimento del "socialismo reale", non traggono la conclusione che il
socialismo deve democratizzarsi, ma quella che senza rivoluzione permanente
fra la borghesia "mondiale" e il proletariato "mondiale", non vi potrà mai
essere alcuna vera forma di socialismo: col che, in pratica, non fanno che
avvalorare le tesi borghesi secondo cui l'unica alternativa al socialismo è
il capitalismo.
Per i neo-trotskisti, la rivoluzione proletaria mondiale non è né la somma
delle rivoluzioni nazionali, né l'abbandono progressivo del capitalismo da
parte di diversi Paesi, né un'azione che abbia luogo in tutti i Paesi
contemporaneamente. E' piuttosto un conflitto tra borghesia e proletariato
mondiale, portato avanti per un lungo, indefinito periodo storico. Ciò che
dà senso alla storia, per i trotskisti, è appunto l'eccitazione di una
rivoluzione continua, il prolungamento all'infinito del momento esaltante
della lotta eversiva, contestatrice: non è certo il duro, prosaico lavoro
post-insurrezionale, che rischierebbe di far emergere il vuoto spirituale di
questi "professionisti della rivoluzione", il cui scopo principale è sempre
stato quello di seminare dubbi nella coscienza dei lavoratori circa la
riuscita di una qualunque transizione.
Il fatto che i trotskisti abbiano bisogno di vivere in una situazione
conflittuale in cui i conflitti non vengano mai risolti, è dimostrato anche
dalla tesi sull'utilità della guerra per la rivoluzione mondiale, che
Trotski elaborò nel 1940. Più la guerra è devastante -affermano i
trotskisti- e maggiore sarà il ruolo rivoluzionario ch'essa giocherà nello
sviluppo del mondo. Non a caso essi non fanno distinzione tra "guerra
difensiva" e "guerra offensiva". Non avendo alcuna fiducia nelle forze delle
classi che si oppongono al capitale, propugnano il fatalismo di una "guerra
rivoluzionaria", riflettendo, in ciò, le concezioni degli strati estremisti
piccolo-borghesi, sempre più rovinati dalla logica del profitto. Di fronte
alle difficoltà quotidiane della lotta per la pace, essi si demoralizzano,
non credono al principio dialettico per cui i cambiamenti quantitativi, che
si accumulano nei rapporti di forza, possono condurre a dei profondi
mutamenti qualitativi. Questi militanti dell'antiprosaicità, questi eroi
ultrasinistri che si esaltano solo nei momenti "forti", spettacolari, sono
vittime allucinate della tragica formula: "Meglio una fine orribile che un
orrore senza fine".
Una piccola diversità, tuttavia, esiste fra vecchi e nuovi trotskisti. A suo
tempo, Trotski, come noto, aveva predicato la concezione eurocentrica della
rivoluzione sociale mondiale, affermando che questa non sarebbe stata
possibile che nei Paesi più sviluppati. Egli inoltre negava la potenzialità
rivoluzionaria delle masse agricole, che considerava come una forza
conservatrice se non addirittura reazionaria, contro cui avrebbe dovuto
lottare lo stesso potere rivoluzionario.
Viceversa, i neo-trotskisti (l'economista più significativo è E. Mandel),
dopo aver costatato che l'occidente capitalistico non ha alcuna intenzione,
almeno per il momento, di fare delle rivoluzioni proletarie, hanno preferito
concentrare la loro attenzione, cercando di non autoemarginarsi dalla
storia, sulle "rivoluzioni coloniali" dei Paesi del Terzo mondo, considerate
come fattore prevalente della rivoluzione mondiale. Ora essi sono
addirittura disposti ad ammettere che la classe agricola è la forza
rivoluzionaria per eccellenza dell'epoca contemporanea, ma questa
ammissione, ancora una volta, cela il trucco di sempre. Il loro scopo, in
realtà, è quello di servirsi dei contadini del Terzo mondo per criticare il
proletariato occidentale, non è quello di promuovere un'alleanza tra queste
due forze sociali a livello mondiale. Costatando che il Terzo mondo è
passato da una dipendenza "diretta" a una "indiretta" nei confronti
dell'imperialismo, essi danno per scontato che quest'area geografica, da
sola, non potrà mai veramente liberarsi dalle catene del neocolonialismo. Il
risultato quindi, di tale ragionamento, è l'immobilismo e la solita
fraseologia rivoluzionaria.
I neotrotskisti, lontani mille miglia dalle dinamiche sociali, vorrebbero
una rivoluzione facile, a portata di mano, senza alcun lavoro tra le masse,
che desse loro ogni potere per controllare in modo burocratico e
amministrativo tutta la società. Siccome sanno benissimo di non poter
ottenere questi obiettivi, ne traggono la conclusione che è impossibile
realizzare il socialismo democratico. Di qui il netto rifiuto di creare
legami tra mondo operaio e strati non proletari dei lavoratori, o alleanze
di tipo antimonopolistico, o vaste intese nell'ambito della sinistra. Essi
sanno soltanto difendere l'idea dell'assoluta, totale, autonomia delle
correnti più diverse del movimento democratico. Preferiscono parlare di
"esportazione della rivoluzione" piuttosto che costruirla in casa propria.
Bibliografia
Oltre alle molte opere di Isaac Deutscher, che sono indispensabili per chi
voglia conoscere il trotskismo, si può consultare:
K. Mavrakis, Trotskismo teoria e storia, ed. Mazzotta
AA.VV., Trotski nel movimento operaio del XX sec., in "Il ponte" nn.
11-12/1980 (La Nuova Italia)
Day, Trotski e Stalin, Ed. Riuniti
Diverse opere di Trotski furono pubblicate negli anni '70 dall'ed. Savelli.
IL CASO BUCHARIN
Nikolai Bucharin, 50 anni dopo esser caduto vittima delle purghe staliniane,
è stato riabilitato dalla perestrojka gorbacioviana nel febbraio 1988,
allorché il plenum della Corte suprema della ex-URSS ha respinto la sentenza
che lo accusava di aver partecipato al cosiddetto "blocco antisovietico dei
trotskisti di destra". Non si è trattato semplicemente del riconoscimento di
un gravissimo errore giudiziario, ma anche, in positivo, del tentativo di
far comprendere all'umanità la necessità di distinguere la lotta ideologica
da quella politica, le idee dagli uomini che le professano, ma anche del
tentativo di far comprendere che nella storia esistono sempre diverse
alternative nei cui confronti si gioca la libertà degli uomini, e che quella
risultata alla fine vincente non per questo va considerata la migliore.
Nel momento in cui Bucharin fu chiamato a svolgere un ruolo più
significativo nella lotta che andava svolgendosi in seno al partito negli
anni '20 e '30, egli aveva una considerevole esperienza politica. Già
durante la rivoluzione russa del 1905-907, egli aveva aderito alle
manifestazioni antigovernative e al Posdr (così il Pcus di allora). Lavorava
come agitatore e organizzatore a Mosca. Dopo essere stato più volte
arrestato, fu inviato in esilio, da dove riuscì a evadere, emigrando in
Polonia. Nell'autunno 1912 conobbe a Cracovia Lenin, il quale lo convinse a
lavorare per i circoli socialisti russi di Vienna. Proprio a quell'epoca
egli cominciò a maturare un forte interesse per l'economia.
Durante la Ia guerra mondiale, Bucharin si trovava su posizioni diverse da
quelle di Lenin relativamente alla questione dello Stato e del diritto delle
nazioni all'autodeterminazione, in quanto l'uno privilegiava la lotta per la
democrazia, l'altro quella per il socialismo. Lenin tuttavia non dava molta
importanza a tali divergenze, ritenendole non fondamentali.
Nell'ottobre 1916 Bucharin lasciò l'Europa per gli Stati Uniti. A New York
iniziò a collaborare attivamente per il giornale The New World. Lenin era
pienamente soddisfatto della lotta che allora Bucharin conduceva contro
Trotski. Fu solo dopo la rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917
ch'egli rientrò in Russia. Nell'agosto successivo venne eletto membro del
C.C. al VI congresso del partito bolscevico. In quel momento egli s'opponeva
a coloro che esitavano sulla necessità d'una insurrezione armata contro il
Governo provvisorio di Kerenski. Infatti, dopo la rivoluzione d'ottobre a
Leningrado, fu tra i capi dell'insurrezione di Mosca.
Nel 1918 assunse una posizione errata a proposito della pace con la
Germania: contro essa sosteneva l'esigenza d'una guerra rivoluzionaria. Più
tardi però ammise d'essersi sbagliato. Nel contempo, egli svolgeva un lavoro
assai proficuo in qualità di capo-redattore della Pravda, organo centrale
del partito. Si può dire, nel complesso, che negli anni 1919-20 le
concezioni di Bucharin si caratterizzavano per un "romanticismo
rivoluzionario" assai marcato e per una concezione politica gauchiste. In un
certo senso egli personificava lo spirito del "comunismo di guerra", che
allora albergava in tutti i membri del partito.
Il "comunismo di guerra" -come noto- forzatamente adottato in seguito alla
guerra civile e alla crisi economica, consisteva in una mobilitazione di
tutte le forze e risorse per la difesa. Suoi elementi essenziali furono: la
nazionalizzazione dell'intera grande e media industria, nonché di una buona
parte delle piccole imprese, la massima centralizzazione della direzione
della produzione industriale e della distribuzione, la cessione obbligatoria
allo Stato, da parte dei contadini, a prezzi fissi, di tutte le eccedenze di
grano e di altri prodotti che superassero le norme stabilite per il consumo
personale e per i bisogni economici, l'interdizione del commercio privato,
l'approvvigionamento alimentare pianificato della popolazione e il
livellamento dei salari.
Proprio nel 1920 apparve L'economia del periodo di transizione, l'opera di
Bucharin che meglio generalizzava e assolutizzava la prassi politica ed
economica del suddetto comunismo, il cui valore avrebbe solo dovuto essere
transitorio. Non era quello il libro che avrebbe potuto introdurre la Nuova
Politica Economica (NEP) che lo Stato sovietico applicò dal 1921 al 1929.
Come noto, la NEP voleva essere l'antitesi del "comunismo di guerra": essa
infatti autorizzava il commercio privato, le piccole imprese capitalistiche
sotto rigoroso controllo dello Stato, sollecitava l'industria statale
all'autonomia finanziaria, trasformava le cessioni del surplus agricolo in
imposte in natura. L'essenza di quest'ultima innovazione consisteva nel
fatto che il contadino, dopo la consegna della prestabilita imposta in
natura, poteva amministrare liberamente il prodotto della sua azienda.
Naturalmente tale imposta era inferiore alle consegne obbligatorie. Fu
questa politica economica che consolidò le basi economiche dell'alleanza tra
operai e contadini, che sviluppò non solo i legami dell'industria socialista
con la piccola produzione agricola, usando i rapporti mercantili-monetari,
ma anche le leve economiche nella gestione dell'economia.
Nei più recenti studi della suddetta opera economica, spesso si critica
Bucharin per aver fatto della "coercizione extraeconomica" il principale
metodo di costruzione del socialismo. Con ciò tuttavia si dimentica di
sottolineare il radicale mutamento di posizione di Bucharin dopo il
passaggio alla NEP, nonché il fatto che lo stesso Lenin tendeva a
condividere l'uso di tale coercizione (a condizione naturalmente che
l'autore ne fosse il proletariato). Altri piuttosto erano gli errori
segnalati da Lenin: scolasticismo e antidialetticità. Ma forse il conflitto
maggiore tra Lenin e Bucharin fu quello degli anni '20-'21, allorché Lenin
impedì che i sindacati si staccassero dal partito, temendo l'indebolirsi di
quest'ultimo, appena uscito dalla durissima lotta contro gli interventisti
stranieri e le guardie bianche.
Bucharin, insieme ad altri gruppi frazionisti, era dell'avviso che la
democrazia politica e lo sviluppo produttivo avrebbero tratto beneficio
dall'autonomia dei sindacati, poiché la politica del "comunismo di guerra"
aveva scontentato tutti. Il X Congresso del Pc(b) (marzo 1921) pose fine al
dibattito emanando due importanti risoluzioni: una, politica, sull'unità del
partito, con cui si vietava qualsiasi attività frazionistica; l'altra,
economica, sull'imposta in natura, che costituì il fondamento della NEP.
Tuttavia, nonostante questo conflitto teorico, non ci fu mai alcuna rottura
fra Lenin e Bucharin. Significativo è inoltre il fatto che tutto quanto sarà
rimproverato a Bucharin, al tempo del processo staliniano, non troverà alcun
riscontro nella polemica con Lenin.
Gli anni 1921-27 vedono l'ascesa politica di Bucharin. Nel 1924 viene eletto
membro dell'ufficio politico e gli si affidano posti di responsabilità non
soltanto nel C.C. ma anche nel C.C. esecutivo (che è stato il più importante
organo statale dal 1922 al 1936), nonché nel comitato esecutivo
dell'Internazionale comunista. Egli inoltre faceva parte dello staff del
Komsomol, del consiglio centrale dei sindacati e di vari comitati
scientifici e culturali (ad es. capo-redattore della Pravda, poi della
rivista Bolschevik, ecc.). Sovente rappresentava il partito all'estero.
Dopo la morte di Lenin egli s'impegnò nel partito, a fianco di Stalin,
contro le idee di Trotski, Zinoviev e Kamenev. Bucharin si lanciò in una
polemica così accanita che spesso restava completamente sordo agli argomenti
sensati dei suoi avversari. L'intransigenza ideologica tendeva a
trasformarsi in una sorta di antipatia personale. Stalin, che Trotski
accusava, non senza ragione, di "centralismo senza princìpi", seppe
approfittare della situazione per imporre le sue concezioni politiche,
estromettendo prima Trotski, poi Zinoviev e Kamenev dalla direzione del
partito. In seguito la storia si preoccuperà di dimostrare che molte delle
concezioni teoriche di Stalin erano più vicine a quelle di Trotski che non a
quelle di Bucharin.
Gli anni '20 furono per Bucharin un periodo di grande attività teorica.
Rivedendo alcune sue posizioni, egli sviluppò l'idea leniniana dell'alleanza
operaio-contadina come fondamento del potere sovietico e condizione
obbligata della costruzione del socialismo. Egli inoltre fu uno dei primi a
porre la questione del contributo teorico di Lenin al marxismo. In
particolare egli cercò di sviluppare ulteriormente il concetto di NEP, in
funzione delle concrete condizioni degli anni '20. Nel libro La via al
socialismo e l'unità operaio-contadina (1925), egli tenta di fondare
teoricamente la costruzione del socialismo sulla base della NEP, riprendendo
le idee di Lenin sulla necessità di misure transitorie per condurre al
socialismo un paese in cui dominava la piccola proprietà contadina. In tal
senso egli condivideva pienamente l'idea di Lenin secondo cui il socialismo
doveva essere "un sistema di cooperatori civilizzati". Ciononostante lo
schema di Bucharin presentava una lacuna di non poco conto, in quanto la sua
concezione si basava sull'idea che la NEP avrebbe perso progressivamente
ogni ragion d'essere e che il socialismo si sarebbe radicato lentamente nel
paese, senza salti qualitativi né transizioni rivoluzionarie. Oggi si è
addirittura arrivati a credere che tali "salti" sono indispensabili per lo
sviluppo di tutto il socialismo e non solo del suo periodo di transizione.
Quando uscì il libro di Bucharin, si stava scatenando un'aspra lotta
politica in seno al partito, a causa della contraddittorietà di certe
decisioni prese in precedenza. Da un lato infatti si prospettava l'ulteriore
sviluppo della NEP "classica" attraverso l'estensione dei rapporti
mercantili-monetari, il libero scambio, il permesso di assumere manodopera,
di prendere o cedere in affitto, la soppressione dell'imposta in natura e
l'organizzazione delle forniture alimentari cittadine su basi mercantili.
Misure queste destinate a favorire le iniziative individuali e quindi
l'industrializzazione del paese. Dall'altro lato però, il partito si
cominciava a chiedere come conciliare questa libertà della piccola
produzione con gli obiettivi dell'industrializzazione. Nel 1925 il problema
veniva praticamente regolamentato dallo scambio non equivalente fra la città
e la campagna. Ma un'economia equilibrata non poteva tollerare questo
pompaggio di risorse, anche perché il partito era costretto a ricercare
compromessi sempre più complicati.
Di fatto le linee programmatiche degli anni 1925-27 si basavano sulla
concezione di Bucharin, secondo cui i colcos non erano il mezzo principale
per arrivare al socialismo. Di qui il ritardo della cooperazione produttiva
agricola rispetto all'inizio dell'industrializzazione del paese, la mancata
soluzione del problema cerealicolo e la necessità di far entrare il paese
nella tappa storicamente inevitabile del socialismo attraverso -come dirà
più tardi lo stesso Bucharin- "la porta delle misure straordinarie". È
significativo però che sin dal 1926-27 Bucharin comincerà ad abbandonare
l'idea dello sviluppo economico lento e regolare, prospettando invece
cadenze più rapide. Egli cioè riconosceva alcuni limiti nella politica
lanciata nel 1925.
Al XV congresso del partito (dicembre 1927) la direzione presenta un
programma unanime per una graduale "ricostruzione" della NEP, volto a una
maggiore applicazione della cooperazione produttiva e pianificata, e volto
anche a un'offensiva più vigorosa contro gli elementi capitalistici urbani e
rurali. Tuttavia, la direzione non fece alcun cenno al grave problema dello
stoccaggio dei cereali. Ma dopo alcuni mesi dal congresso, la crisi della
situazione internazionale e delle forniture di grano indussero l'ufficio
politico a esercitare pressioni amministrative e giudiziarie a carico dei
kulaki (contadini ricchi) e dei contadini medi, affinché provvedessero a
rifornire di grano le città. La decisione venne presa da tutti i membri
della direzione, fra cui Rykov (ministro degli interni), Tomski (leader dei
sindacati), Bucharin e Stalin. Quest'ultimo, in particolare, era sempre più
convinto che non si poteva più effettuare il pompaggio o pensare di
risolvere il problema dei cereali con l'aiuto dei meccanismi tradizionali
della NEP. Egli cioè si rendeva conto che il ricorso esclusivo a misure
eccezionali, nei confronti della proprietà contadina individuale, avrebbe
comportato inevitabilmente un calo del volume della semina e dei cereali
destinati alla vendita. Ecco perché Stalin escogitò l'idea di costruire
coattivamente i colcos (azienda collettiva), quali nuovo canale di
pompaggio, sviluppando parallelamente aziende cerealicole di tipo sovcosiano
(statale).
All'inizio nessuno dell'ufficio politico protestò contro questa nuova forma
di pompaggio. Si discuteva soltanto delle sue modalità e dei limiti. Sarà
all'inizio del giugno 1928 che Bucharin scriverà una lettera a Stalin
sostenendo che la costruzione dei colcos non avrebbe potuto far uscire il
paese dalla crisi in un lasso di tempo molto breve, anche perché lo Stato
non era in grado di fornire immediatamente ai colcos i capitali e i
materiali necessari. Egli in pratica rimproverava a Stalin una politica
improvvisata, troppo empirica e, col pretesto di misure eccezionali, assai
diversa dalla linea del XV congresso.
Per Bucharin, in sostanza, la questione si poneva nei termini seguenti: non
essendo i colcos in grado di fornire sufficiente grano, nell'immediato,
occorreva rilanciare le aziende individuali, normalizzando i rapporti coi
ceti rurali. Stalin era invece di tutt'altro avviso: fino a quando i colcos
non sarebbero stati in grado di risolvere il problema cerealicolo, egli
riteneva indispensabile ricorrere alle misure straordinarie. A quel tempo il
principale disaccordo fra i due riguardava meno le questioni dei ritmi di
sviluppo o quella di saper se bisognava o no creare dei colcos, e molto più
la questione di sapere come gestirli, in quanto che essi non erano ancora in
numero sufficiente e non producevano grano.
Nel luglio 1928, al plenum del C.C., Stalin avanza la sua teoria del
"tributo", cioè di una soprattassa a carico dei contadini, cui si era
momentaneamente costretti -a suo giudizio- "per mantenere e accelerare gli
attuali ritmi dello sviluppo industriale". Bucharin non si oppose al
pompaggio né alla sottrazione di una parte della produzione agricola a
beneficio dell'industria pesante, anche se auspicava l'uso di una grande
moderazione.
In sintesi: Stalin riteneva che lo scambio non equivalente (tra industria e
agricoltura) e il mercato fossero due cose incompatibili, in quanto il
secondo ostacolava il primo. Bucharin invece sosteneva che il pompaggio
delle risorse agricole dovesse effettuarsi attraverso i meccanismi di
mercato, sulla base delle aziende individuali, per un periodo di tempo
piuttosto lungo. In altre parole, Bucharin non negava che i colcos e i
sovcos fossero lo strumento più adatto a questo pompaggio: il problema, per
lui, era ch'essi non potevano fornire immediatamente allo Stato i cereali
destinati alla vendita. Chi dei due aveva ragione? Né l'uno né l'altro. Da
un lato infatti era assurdo pensare -e Bucharin più tardi lo comprenderà-
che attraverso il mercato privato fosse possibile travasare le risorse delle
aziende agricole individuali nell'industria pesante, dall'altro era
altrettanto evidente che il ricorso a misure eccezionali avrebbe compromesso
l'alleanza operaio-contadina, mettendo il Paese sull'orlo della guerra
civile. Soltanto lo sforzo di una riflessione collettiva avrebbe permesso di
elaborare un programma costruttivo per il periodo in cui i colcos non erano
ancora in grado di fornire la quantità necessaria di cereali. E comunque il
plenum del C.C. nel luglio 1928 decise a maggioranza di sottoscrivere
l'appello alla prudenza lanciato da Bucharin, Rykov e Tomski.
Nella pratica, tuttavia, le cose andarono ben diversamente, in quanto era il
discorso di Stalin sul "tributo" che in ultima istanza portava avanti la
politica del partito. Di fronte a questa contraddizione, Bucharin cercò di
reagire nell'autunno 1928, segnalando che la situazione economica stava
alquanto peggiorando. Al plenum del C.C. di novembre egli riuscì a far
adottare una risoluzione comune avente come punto fondamentale il
riconoscimento che i contadini poveri e medi andavano incoraggiati. Ma la
risoluzione, benché votata all'unanimità, venne ben presto dimenticata, col
risultato che alla fine del '28 il Paese era piombato in una terribile crisi
cerealicola. I debiti con l'estero non potevano più essere pagati.
S'imposero immediatamente il razionamento del pane e i tagli all'import.
Tutti i programmi produttivi rischiavano di fallire.
Il 30 gennaio 1929, ai membri dell'ufficio politico e il 9 febbraio al
presidium del commissione centrale di controllo del partito, Bucharin, Rykov
e Tomski dichiarano che il dualismo fra la prassi e le decisioni prese dal
partito dipendono dalla posizione personale di Stalin, il quale avendo
accumulato dei poteri straordinari, ne usa in modo arbitrario. Stalin viene
accusato di "etichettare le persone" e di nascondere la verità delle cose,
ma neppure i suoi collaboratori vengono risparmiati. In particolare, l'ala
buchariniana sostiene di non aver mai contestato le decisioni ufficiali del
partito e ch'essa si batteva soltanto contro le deformazioni imposte a
queste decisioni da Stalin e dal suo staff, ovvero contro le misure
eccezionali e contro il fatto di mettere Stalin e il partito sullo stesso
piano. Infine si chiedeva di non considerare questo attacco a Stalin come un
attacco a tutto il partito. "Noi pensiamo -scriveva il gruppo di Bucharin-
che il compagno Stalin dovrebbe seguire il consiglio (assai saggio) dato da
Lenin, rispettando il principio della collegialità. Noi riteniamo che
chiunque debba poter criticare il compagno Stalin, come ogni altro membro
dell'ufficio politico, senza paura di passare per un 'nemico del popolo'".
Un'esigenza, come si può facilmente notare, che non poteva certo far pensare
ad ambizioni di potere personale da parte di Bucharin.
Nel suo discorso al plenum del C.C. d'aprile 1929, Bucharin accusa Stalin
d'aver preso delle misure contro tre membri dell'ufficio politico, al fine
di discreditarli pubblicamente, senza che vi fosse alcun giudizio emesso
dall'organo politico competente. Oltre a ciò Bucharin critica la concezione
staliniana secondo cui la lotta di classe s'inasprisce in rapporto ai
progressi della società socialista. Con questa teoria infatti (che Stalin
prese da Trotski e che formulò nel luglio 1928) si poteva giustificare il
ricorso alle "misure straordinarie". Essa in pratica confondeva, a giudizio
di Bucharin, due cose differenti: "un periodo momentaneo di acuta lotta di
classe con il corso generale dello sviluppo".
Il pensiero di Bucharin intanto evolveva verso la convinzione che le
difficoltà non stavano nei ritmi accelerati dell'industrializzazione, in
quanto tali ritmi avrebbero potuto essere ancora più sostenuti se si fosse
pensato di più a sviluppare l'agricoltura, proteggendo in modo particolare
la produzione cerealicola. Queste difficoltà tuttavia risalivano in gran
parte alle decisioni del 1925. Se il problema cerealicolo s'era imposto in
termini così acuti, ciò in parte era dipeso dal fatto che si era deciso di
industrializzare il Paese puntando a valorizzare le aziende individuali
contadine e non la cooperazione produttiva. I colcos, creati per risolvere
il problema cerealicolo, offrivano appunto la possibilità di una rapida
industrializzazione. A questa conclusione Stalin era arrivato nel gennaio
1928, senza l'aiuto di Bucharin: cosa che se si fosse verificata prima, in
una situazione diversa, avrebbe reso inutile l'adozione di misure
straordinarie, mentre Bucharin, dal canto suo, non avrebbe pagato le
conseguenze della politica che lui stesso aveva promosso nel 1925.
Nell'aprile 1929, Bucharin constata che il piccolo produttore non vende più
il suo grano ma lo consegna allo Stato e che, di conseguenza, il mercato fra
città e campagna è stato rotto. L'introduzione di misure straordinarie e la
forzata concessione di grano allo Stato avevano avuto un effetto assai
demotivante sulla produzione individuale. La moneta era in corso di
svalutazione, non esistevano incentivi di sorta, le pressioni amministrative
aumentavano e anzi di diversificavano, i tentativi di combinare lo sviluppo
degli scambi con i nuovi legami economici fra città e campagna fallirono del
tutto. Il principale problema di gestione consisteva nel fatto che elementi
moderni di regolazione economica si trovavano ad essere affiancati da misure
eccezionali incompatibili con la NEP.
Poggiando su quest'analisi, Bucharin elaborò un programma alternativo. Egli
suggerì d'importare il grano, di rinunciare definitivamente alle misure
straordinarie, di ristabilire la legalità rivoluzionaria, di servirsi dei
prezzi come mezzo di regolazione e d'intensificare la produzione agricola.
Oltre a ciò, egli sosteneva che i prezzi d'acquisto del grano dovevano
essere flessibili e non rigorosamente fissati, in quanto andavano rapportati
all'andamento della stagione e alle diverse zone regionali. Non una parola
però contro lo scambio iniquo tra città e campagna, contro il pompaggio
delle risorse agricole.
Tale progetto non venne approvato dalla maggioranza dei membri del C.C.
Essenzialmente a causa del primo punto, quello su cui Bucharin era
irremovibile. La sua proposta d'importare il grano venne percepita come un
passo indietro, privo di sbocchi per il futuro. In effetti, la questione
principale era quella di scegliere non fra l'import del grano e le misure
eccezionali, ma fra tale import e l'industrializzazione, e la direzione del
partito non aveva dubbi sulla necessità di favorire la seconda strada.
L'atteggiamento intransigente di Bucharin su questo aspetto, indusse la
direzione a rifiutare tutte le sue proposte, compresa quella, così
importante, del rispetto della legalità rivoluzionaria. Nonostante ciò si
decise lo stesso di confermare la sua presenza nell'ufficio politico.
Malgrado la natura controversa del programma di Bucharin e la polemica che
sollevò, la maggioranza dei membri del C.C. mostrò buon senso, e Bucharin
rispettò la loro volontà, ammettendo la possibilità di una rapida
industrializzazione. D'altra parte sia il plenum del C.C. che la XVI
conferenza del partito riconoscevano nell'aprile 1929 l'esistenza simultanea
di ritmi elevati dell'industrializzazione e di ritmi relativamente modesti
della collettivizzazione. L'ala buchariniana apprezzò, come tutto il
partito, alla fine del '29, i risultati raggiunti nel campo dei lavori
pubblici e del movimento colcosiano. Ma, nonostante queste valutazioni
convergenti, Bucharin, Rykov e Tomski continuarono a proclamare
l'inammissibilità delle misure straordinarie. Purtroppo, appoggiando Stalin
su tale questione, il C.C. commise un errore fatale, di cui si renderà conto
solo molto tempo dopo.
Fino al novembre 1929 le esitazioni dei membri del C.C. fecero sì che il
gruppo buchariniano continuasse a giocare il ruolo di contrappeso politico
allo stalinismo emergente. Ma con la sconfitta di questo gruppo e la sua
esclusione dall'ufficio politico, cominciarono a moltiplicarsi gli abusi
nelle campagne e le violazioni dei princìpi leninisti riguardanti i rapporti
coi contadini. Iniziò così il terrore degli anni '30.
A partire dal novembre 1929 la biografia politica di Bucharin diventa
incerta. Gli odierni tentativi degli storici sovietici di utilizzare i testi
degli ultimi interventi di Bucharin suscitano non poche perplessità. Alcuni
addirittura ritengono che il Bucharin degli anni '30 fu un uomo distrutto,
che si sforzò come meglio poteva di accontentare Stalin, ma questa
interpretazione è troppo semplicistica per essere vera. In realtà Bucharin,
oltre che svolgere assai attivamente il suo ruolo di dirigente politico, di
capo-redattore delle Izvestia, di accademico e di economista, esercitava
ancora molta influenza su non pochi membri del C.C. Quest'ultimi, convinti
che l'autocritica di Bucharin fosse sincera, desideravano la sua
riabilitazione politica.
Ma quando si produsse il "grande balzo in avanti", accompagnato da enormi
perdite e sacrifici, e il partito cominciò a porsi la domanda se mantenere
le misure eccezionali, contro cui aveva protestato Bucharin nel '29, oppure
se normalizzare la vita socio-economica, scoppiarono ben presto nuove
furenti polemiche. Bucharin si fece portavoce della normalizzazione ed
elaborò un orientamento generale al plenum del gennaio 1933. Gli "umori" dei
dirigenti sembravano essergli favorevoli. Bucharin riconobbe che il primo
piano quinquennale, nonostante alcuni forti limiti, aveva conseguito molti
importanti obiettivi: l'URSS era diventata "un nuovo Paese". La concezione
economica che Bucharin aveva del socialismo consisteva nel favorire
un'economia di mercato pianificata, in cui il commercio, posto su basi
nuove, giocasse un ruolo fondamentale (ad es. gli incentivi nell'agricoltura
andavano salvaguardati anche se regolamentati). Nel contempo, più ancora di
Rykov e di Tomski, egli sostenne che Stalin, con la sua ferma volontà, si
era conquistato il diritto di dirigere anche in futuro il processo
storico-politico del Paese. Parole, queste, che potevano anche lasciar
pensare che Bucharin volesse restare nell'ufficio politico, per continuare a
influire sugli avvenimenti. Solo molto più tardi però ci si accorgerà che
con esse egli aveva incoraggiato, senza volerlo, la nascita del culto della
personalità.
Viceversa, Stalin non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle misure
straordinarie e, temendo il successo che le idee di Bucharin stavano avendo
negli ambienti di partito, escogitò con il suo entourage il modo per
"incastrarlo". Fu così che la polemica resuscitò su questioni puramente
terminologiche. Bucharin definiva il mutamento dei rapporti produttivi
agricoli come il risultato della gigantesca rivoluzione agraria compiuta
attraverso la dittatura del proletariato, che comportò l'esproprio dei mezzi
produttivi dei kulaki. Al che Stalin obiettava che la politica della
collettivizzazione non doveva essere ridotta al concetto di rivoluzione
agraria. Stalin, in sostanza, tendeva a sopravvalutare i vantaggi (presunti
o reali) della collettivizzazione forzata rispetto ad ogni altra politica
agraria.
Bucharin inoltre considerava la soluzione del problema dei nuovi mezzi
produttivi come centrale per l'edificazione dell'economia socialista. Stalin
invece replicava col dire che anche in questo caso Bucharin peccava di
superficialità, poiché non sapeva cogliere l'importanza dei mezzi produttivi
per l'industria pesante rispetto agli altri settori economici. Lo stesso
Stalin attaccò duramente Bucharin per aver sostenuto che la percentuale del
reddito nazionale destinata all'accumulazione era troppo elevata e che le
forze produttive erano state ridistribuite a svantaggio di altri settori,
specie quello agricolo. Senza entrare nel merito di queste osservazioni
critiche, Stalin se ne servì per accusare il gruppo di Bucharin di
inaffidabilità, dimostrando così che le vere divergenze non erano
nominalistiche e che il problema principale restava sempre lo stesso:
normalizzare la situazione o controllarla con la violenza?
Dopo l'omicidio di Kirov, nel 1934, cui Stalin non può essere considerato
del tutto estraneo, la spada di Damocle pendeva sulla testa di Bucharin e di
altri membri dell'opposizione. All'interno del C.C. si era incerti sul da
farsi: la figura di Bucharin non la si vedeva in alternativa alla direzione
politica, ma neppure la si voleva escludere da essa, poiché le sue idee
antiautoritarie erano condivise. Questo tuttavia non impedì che il plenum
che C.C. di febbraio-marzo 1937, convocato per denunciare i cosiddetti
sabotatori e i trotskisti infiltrati nella leadership del partito, si
aprisse con l'esame del "caso" Bucharin e Rykov (Tomski nel frattempo si era
suicidato, prevedendo il peggio).
L'accusa sosteneva che quest'ultimi conoscevano e appoggiavano un blocco
trotskista-zinovievista clandestino e un centro trotskista parallelo
antisovietico, il cui obiettivo era quello di restaurare il capitalismo con
l'aiuto d'interventisti fascisti stranieri. Tutto ciò era completamente
inventato, e del tutto assurde erano anche le accuse mosse contro Bucharin
di aver voluto organizzare nel 1930-31 un'insurrezione contadina al fine di
creare uno Stato siberiano autonomo che facesse pressione sul regime
staliniano, o l'accusa di aver cospirato per eliminare Stalin.
Bucharin si difese egregiamente e la commissione giudicatrice, presieduta da
Mikoyan, sembrava dargli ragione. Stalin pertanto si vide costretto a
ricorrere all'intrigo (come risulta dalla discussione su quale testo
definitivo dare alla risoluzione di condanna). Due proposte erano state
fatte: la prima prevedeva l'espulsione di Bucharin e Rykov dal C.C. e dal
partito, nonché il processo davanti al tribunale militare con esecuzione
della pena capitale (la fucilazione); la seconda prevedeva il deferimento
alla giustizia senza esecuzione. Astutamente Stalin suggerì di non tradurli
di fronte alla giustizia ma di delegare la gestione del caso al
Commissariato del popolo per gli affari interni, col pretesto di un
supplemento d'indagine. Decisione, questa, accettata all'unanimità, salvo le
due astensioni di Bucharin e Rykov.
L'ultimo atto del dramma di Bucharin fu il processo del 2 marzo 1938,
intentato contro il cosiddetto "blocco trotskista di destra". I 21 imputati
furono accusati dal procuratore A. Vychinski dei crimini più assurdi e più
gravi: dall'aver manipolato la rotazione delle colture all'intenzione di
consegnare l'Ucraina alla Germania nazista. Il processo fu una vera farsa:
tutto era già stato predeterminato. Bucharin, che pure si era confessato
colpevole al pari degli altri (sperando di evitare conseguenze sui
familiari), respinse sino all'ultimo l'accusa per lui più mostruosa, quella
secondo cui nel 1918, all'epoca di Brest-Litovsk, egli avrebbe progettato
con i socialisti-rivoluzionari di uccidere Lenin, così come negò la
partecipazione all'assassinio di Kirov. Dei 21 imputati, il Collegio
militare della Corte suprema decise di condannarne 18 alla fucilazione e tre
a pesanti pene detentive. Con la morte di Bucharin il terrore staliniano era
riuscito ad abbattere l'ultimo grande ostacolo.
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