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IOSIF STALIN - STALINISMO (Continua dalla pagina precedente)

STALIN E LO STALINISMO
 
Stalin con Roosevelt e Churchill si incontrano a Yalta
 

La crisi agricola fu così forte che nell'XI piano (1981-85) gli investimenti nell'agricoltura raggiunsero la cifra astronomica di 170 miliardi di rubli, mentre il rendimento di ogni centinaio di rubli spesi per le macchine agricole, i concimi, i materiali da costruzione, continua ad abbassarsi. Finché, ad un certo punto, il Pcus fu costretto ad ammettere che i rapporti di proprietà vigenti erano diventati un ostacolo gravissimo al progresso socio-economico del Paese. Il XXVII congresso del Pcus (1986) riscoprì per la seconda volta, dopo il X congresso del Pc (b) del 1921, l'importanza della cooperazione. Al plenum del CC del Pcus (29.VII.1988) Gorbaciov spiegò chiaramente che "tutte le misure di rafforzamento della base materiale nelle campagne non avevano sortito l'effetto sperato, perché non erano state contemporaneamente sostenute da un corrispondente lavoro di modificazione dei rapporti economici nell'agricoltura". Modificare questi rapporti -egli ha detto- significa anzitutto permettere che "il contadino diventi davvero padrone sulla terra che lavora". "Socialismo" significa appunto "porre fine alla separatezza dell'uomo dai mezzi di produzione". I COLCOS E LA PERESTROJKA Le difficoltà che oggi deve affrontare l'agricoltura sovietica dipendono ancora, in qualche modo, dalla forzata collettivizzazione delle terre negli anni '20 e '30, dallo scambio ineguale tra città e campagna, dall'insufficiente sviluppo delle infrastrutture commerciali, socio-culturali dell'ambiente rurale... I coltivatori sono stati completamente demotivati, le campagne si sono spopolate. Per tornare alla "normalità", oggi è impossibile limitarsi a un mero aumento salariale. Il problema piuttosto è diventato quello di far sentire l'agricoltore vero "proprietario" della sua terra. Finché il proprietario resta lo Stato, i lavoratori si sentiranno sempre degli esecutori della volontà dell'apparato burocratico e politico-amministrativo. Lo Stato quindi deve riconoscere il primato alla società e, nell'ambito di questa, deve permettere che i lavoratori, nel rispetto di talune regole generali fondamentali, fruiscano di un'ampia autonomia economico-finanziaria. Gli organi statali devono limitarsi a una funzione di indirizzo e di coordinamento, mantenendo naturalmente i rapporti coll'estero: non possono e non debbono occuparsi della gestione operativa, del management. Se questa autonomia sarà garantita, non ci sarà alcuna necessità di sopprimere i colcos: basterà trasformarli in vere cooperative agricole. Le aziende individuali non sono l'unica alternativa, né esse avrebbero la forza di diventarlo. Rimborsare i debiti contratti verso la campagna, in questi ultimi 60 anni di storia dell'URSS, non significa necessariamente procedere a una "decollettivizzazione" forzata. Il decreto dell'aprile 1989 sui "contratti d'affitto" costituisce sicuramente un passo importante verso la realizzazione di una nuova forma socio-economica di management agricolo. Esso prevede che nello stadio iniziale il contratto d'affitto sia di breve durata; i locatari ricevono le commesse dall'alto, e pagano un canone fisso per i macchinari e le terre loro concesse. In un secondo momento, i locatari sono in grado di acquistare ciò di cui hanno bisogno coi redditi guadagnati, senza dover ricorrere al credito. L'amministrazione statale non ha il diritto di interferire nei loro affari. A questo stadio avanzato, la formula del contratto d'affitto non riguarderà più singoli settori dell'azienda agricola, ma l'intera azienda. Ora, visto e considerato che, a partire dalla perestrojka, si è per così dire rilanciata la politica della NEP, in quanto l'attuale accento posto sul calcolo economico, sulle leve e gli stimoli economici concorda nettamente con lo spirito della svolta del 1921, ci si può chiedere se davvero ha senso ritenere che la perestrojka altro non sia che un mera riedizione della NEP classica, seppure col vantaggio del progresso tecnico-scientifico, o se non sia piuttosto una riforma più profonda. Alcuni esperti ritengono che sia proprio il divieto di avere dipendenti salariati a costituire la fondamentale differenza tra le due esperienze (per quanto -è bene ricordarlo- nel 1923 meno del 16% dei lavoratori era presente nelle imprese private e nel 1928 circa il 6%). In effetti, ai tempi della vecchia NEP, quando venne introdotta l'imposta in natura, facilmente nascevano figure sociali come il kulak, il mercante, l'imprenditore (nel mercato si potevano acquistare anche certi mezzi produttivi): queste figure si arricchivano sia sfruttando la favorevole congiuntura che la forza-lavoro salariata. Nel complesso quindi si apriva uno spazio notevole per l'azione delle forze spontanee dell'economia, che in prospettiva avrebbero anche potuto sottomettere il socialismo. Il potere politico acconsentì coscientemente alla creazione di una situazione di aperta competizione fra il settore capitalista e quello socialista dell'economia. Solo il tempo avrebbe potuto stabilire quale settore doveva prevalere. Lo stesso Lenin, nel 1922, presentò un progetto di risoluzione all'XI congresso del partito, nel quale si sosteneva che "a proposito dell'impiego di manodopera salariata in agricoltura e dell'affitto di terre, il congresso del partito raccomanda a tutti i lavoratori del settore di non soffocare con formalità eccessive né l'una né l'altra di queste prassi e di limitarsi... a individuare misure ragionevoli con cui evitare gli eccessi dannosi nei rapporti sopra citati". Stando a molti economisti sovietici (p.es. G. Shmeliov), il lavoratore sovietico non è padrone dei suoi mezzi produttivi, ma è un "dipendente statale". Con la rivoluzione, infatti, la terra, il sottosuolo, le fabbriche e le aziende sono passate in proprietà allo Stato, certo non al popolo, il quale non ha mai potuto esercitare direttamente il potere di amministrare la proprietà pubblica. Quindi il lavoratore sovietico è sempre stato un "salariato". Paradossalmente, si potrebbe dire che c'è più "socialismo" in quei Paesi dove gli operai possiedono azioni delle imprese in cui lavorano. Ora però anche nell'URSS socialista le cose stanno cambiando: la legge sull'attività lavorativa individuale ha praticamente reintrodotto il concetto di "proprietà privata", seppure su piccola scala, mentre la legge sull'affitto e i rapporti d'affitto permette ai lavoratori di diventare affittuari non solo della terra ma anche dei rapporti produttivi. Il che è come se si fossero spezzate le due tavole della legge mosaica, in quanto pochi economisti sovietici (neppure il progressista A. Aganbeghian) avrebbero potuto pensare che la "NEP" della perestrojka si sarebbe spinta fino ad accettare di far entrare nel ciclo commerciale privato i mezzi di produzione, permettendo così l'assunzione di manodopera salariata. Gli economisti radicali (tra cui G. Popov) non hanno remore di sorta. "Mercato socialista" vuol dire mercato delle merci, del denaro, dei titoli e anche del lavoro. Essi affermano che se il lavoratore è "padrone" della propria forza-lavoro, dev'essere anche "libero" di contrattarla con qualunque imprenditore, lasciando allo Stato solo il compito di garantire al lavoro privato condizioni di lavoro e assistenza sociale non inferiori a quelle presenti nel settore pubblico. A questo punto però vien da chiedersi se l'obiettivo degli economisti radicali sia effettivamente quello di realizzare un "socialismo autogestito di mercato" o non piuttosto una qualche variante del "capitalismo di stato". Si può essere infatti d'accordo che un lavoratore dev'essere lasciato libero di fare il dipendente salariato o il socio di una cooperativa, ma questa libertà dovrebbe poterla godere in qualsiasi momento e non solo adesso, nel momento in cui deve scegliere, cioè nel momento in cui tutti i principali mezzi produttivi sono ancora nelle mani dello Stato sovietico. Questi radicali sembrano volere una sorta di sistema sociale in cui lo Stato sia "socialista" e la società sia "capitalista", ma non può essere questo il modo in cui si costruisce il "socialismo democratico". La proprietà statale dei mezzi produttivi non può essere messa all'asta, a disposizione del migliore offerente. Tale proprietà va progressivamente trasferita nelle mani dei lavoratori, solo ai quali, collettivamente intesi, spetta il compito di gestirla e controllarla. Certo, è oltremodo superata l'idea di salvaguardare lo Stato socialista tradizionale, onde impedire che la perestrojka, sul piano dei rapporti socio-economici, rischi di stimolare la reintroduzione del capitalismo. Questo modo di vedere le cose è tipico di chi vuol fare le riforme a metà, cioè di chi si fida di più, in ultima istanza, dei metodi amministrativi che non di quelli economici. In realtà costoro si devono rendere conto che non c'è nulla e nessuno che, usando la forza, può impedire agli uomini di scegliere strade sbagliate. Solo la forza dell'esempio -insegna il leninismo- può portare gli uomini a scegliere la giusta via. Dunque la vera differenza fra la vecchia e la nuova NEP non sta semplicemente nel fatto -come vuole, ad es., l'economista L. Voskresenski- che ai lavoratori, ma soprattutto agli agricoltori, si può oggi garantire una maggiore autonomia economica, nonché un forte sviluppo tecnico-scientifico; non sta -come vuole, ad es., l'economista D. Vasilev- nel fatto che oggi manca la "base economica" per rischiare di cadere nel capitalismo (in quanto nell'URSS è ancora esclusa l'assunzione di manodopera, l'uso privato dei grandi mezzi produttivi, ecc.), né sta nel fatto che gli odierni colcos non sono imprese private, in quanto operano sulla base di una "proprietà collettivizzata" a livello dell'intera URSS, e neppure sta nel fatto che gli odierni colcos preferiscono vendere le loro eccedenze allo Stato, ritenuto più solvibile dei privati. La vera differenza sta nel fatto che la coscienza dell'uomo moderno (incluso quello sovietico) riuscirebbe a tollerare molto meno l'eventualità che dopo l'attuale "NEP" la società ripiombi nel buio della dittatura. Solo a partire da questa consapevolezza gli uomini riusciranno ad accettare le profonde riforme dell'attuale prestrojka. STALIN E L'AMERICA Sotto Stalin vennero gettate, nell'ex-URSS, le basi della politica estera sovietica, inclusa quella verso gli USA. L'eco di questa politica si è sentita, praticamente, sino alla svolta gorbacioviana, allorché sono stati messi all'ordine del giorno i temi dello Stato di diritto, della separazione fra ideologia e Stato, dell'interdipendenza degli interessi mondiali, della sicurezza universale, della "casa comune europea" ecc. Ovviamente è impossibile ricostruire la politica estera di Stalin solo sulla base dei discorsi, interviste e articoli che gli appartengono. Occorrerebbe esaminare anche le pubblicazioni occidentali relative a "memorie", rapporti diplomatici ecc., nonché gli archivi del Pcus, del Ministero della Difesa e del KGB, gli archivi di L. Trotsky ad Harward e quelli dei Paesi ex-comunisti dell'Europa orientale, senza dimenticare che ai tempi di Krusciov e di Breznev furono distrutti tutti i documenti che potevano compromettere la figura di Stalin. La visione politica estera staliniana ruotava attorno a due pilastri fondamentali: il rivoluzionarismo (altrimenti detto "romanticismo rivoluzionario") e l'idea di una Russia come grande potenza. Il romanticismo rivoluzionario rappresentava, in sostanza, la filosofia marxista nella sfera nella politica estera. Esso risaliva alla rivoluzione francese, la quale aveva proclamato la Francia "alleata naturale" di tutte le nazioni libere, disposta a sostituire alle relazioni diplomatiche una guerra rivoluzionaria per la liberazione dell'Europa. Il Manifesto di Marx ed Engels si fondava appunto, col suo appello all'unificazione del proletariato mondiale, sulle tradizioni della solidarietà rivoluzionaria. Quelle tradizioni che da più di mezzo secolo avevano visto intellettuali radicali europei disposti a partecipare a qualunque tipo di insurrezione per la libertà, fosse essa in Polonia, Francia, Italia, Grecia o Germania. Secondo il Manifesto gli operai non hanno patria, e nel sec. XIX in effetti sembrava così. Anche alla vigilia della I guerra mondiale, i partiti socialdemocratici al potere ritenevano impossibile che i socialdemocratici tedeschi potessero sparare sui loro compagni francesi, belgi e russi (25 anni dopo gli operai sovietici pensarono che gli operai tedeschi non avrebbero sparato su di loro). Insomma si voleva la rivoluzione mondiale. Si può immaginare con quale stato d'animo i bolscevichi firmarono il trattato di pace di Brest-Litovsk con la Germania. La stessa Internazionale Comunista, sin dal suo nascere, aveva assunto il ruolo di "quartier generale" della rivoluzione mondiale. Naturalmente la rivoluzione mondiale non era per Stalin la stessa cosa che per L. Trotsky o G. Dimitrov. Stalin non la considerava come un aiuto disinteressato ai lavoratori d'altri Paesi in lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione, ma come un'espansione illimitata della rivoluzione russa, che avrebbe dovuto portare a un impero rivoluzionario. Questo romanticismo rivoluzionario preoccupava alquanto l'America, che già nel lontano 1793 aveva espulso il rappresentante francese E.C. Genét che, a nome della Convenzione, aveva cercato di coinvolgere gli USA nel movimento rivoluzionario. Non a caso F.D. Roosevelt, nello stabilire relazioni diplomatiche con l'URSS, pretese che la seguente complicata garanzia fosse prevista nel messaggio di M. Litvinov, ambasciatore sovietico negli USA: "Il governo sovietico s'impegna a non permettere la formazione o la presenza, nel suo territorio, di alcuna organizzazione o gruppo, o comunque ad adottare misure preventive contro l'attività di organizzazioni, gruppi o loro singoli rappresentanti, ovvero funzionari di qualunque apparato o associazione, che perseguano l'obiettivo, nei confronti degli USA o di una qualunque loro parte (territori o domini), di rovesciare o modificare con la forza il regime politico o sociale esistente". Verso la metà degli anni '30, Stalin, tentando di uscire dall'isolamento diplomatico, ogniqualvolta incontrava i rappresentanti ufficiali del mondo occidentale, preferiva dissociarsi dall'idea della rivoluzione mondiale. La sue dichiarazioni, tuttavia, non suscitavano mai piena fiducia. Il 1 marzo 1936 egli ebbe una interessante conversazione con l'editore americano Roy Howard: Stalin: "Se voi pensate che i sovietici vogliano modificare, anche attraverso l'uso della forza, la fisionomia politica degli Stati confinanti, vi sbagliate completamente. Certo, i sovietici vorrebbero tale mutamento, ma questo è un problema di quegli stessi Stati". Howard: "State forse dicendo che l'URSS ha per così dire abbandonato i suoi piani e le sue intenzioni di fare la rivoluzione mondiale?" Stalin: "Noi non abbiamo mai avuto questi piani e queste intenzioni" (E' sufficiente qui ricordare che nel 1925 Stalin aveva dichiarato, dalla tribuna del XIV congresso del partito, che l'URSS era "la base della rivoluzione mondiale" e, un anno più tardi, che il potere sovietico era il baluardo e il rifugio del movimento rivoluzionario del mondo intero). Howard: "Mi sembra che da molto tempo il mondo la pensi diversamente". Stalin: "è il frutto di un malinteso". Howard: "Un tragico malinteso?" Stalin: "No, comico, anzi tragicomico". Poi aggiunse: "Vede, noi marxisti crediamo che la rivoluzione accadrà anche in ogni altro Paese. Ma ciò avrà luogo solo quando i rivoluzionari di quei Paesi la riterranno possibile o necessaria. L'esportazione della rivoluzione non ha alcun senso". In realtà per Stalin era assurdo soltanto un tipo di esportazione, quello basato sui metodi e mezzi della "cavalleria rossa", che certo ai suoi tempi era diventata anacronistica. Di fatto il Komintern era lo stato maggiore della rivoluzione mondiale. Di qui le violente controversie sulle vie di sviluppo della rivoluzione di questo o quel Paese, la formazione dei quadri per queste rivoluzioni, l'invio di consiglieri per organizzare la lotta armata, la regolamentazione della politica dei partiti comunisti degli altri Paesi, ecc. Nel 1939 Stalin commise un tragico errore. Egli credette che il nemico n. 1 dell'URSS erano le democrazie occidentali (Inghilterra, Francia e USA), che -a suo giudizio- volevano spingere la Germania e il Giappone contro l'URSS. Questa visione delle cose dipendeva probabilmente dal fatto che Stalin nutriva ancora un forte odio per l'Intesa, da lui considerata come responsabile principale dell'intervento contro la Russia rivoluzionaria. Paradossalmente, egli riusciva meno a dimenticare la presenza di piccoli distaccamenti americani ad Arkhangelsk e a Vladivostok, che non il fatto che la Germania avesse occupato l'Ucraina, la Bielorussia e i Paesi Baltici, mentre il Giappone aveva cercato d'invadere l'Estremoriente. (Questo paradosso si spiega evidentemente col fatto che l'Intesa aveva appoggiato la guerra civile). Inoltre la logica imperiale doveva fare di Stalin l'erede della germanofilia tipica della dinastia Romanov, rafforzata, nel suo caso, sia dalla buona cooperazione dell'URSS con la Repubblica di Weimar, sia da una loro certa solidarietà nei confronti degli accordi di Versailles, sia infine dal ruolo giocato da Trotsky nella pace di Brest-Litovsk, che -come noto- era stato molto ostile al governo tedesco allora in carica. Infine Stalin ha sempre provato molta più ostilità verso gli "eretici", come i socialdemocratici o i democratici in genere, che non verso il fascismo. Al XVIII congresso del partito, Stalin affermò che il "clamore sospetto" sollevato dalla stampa anglofrancese e nordamericana, secondo cui il Reich tedesco voleva annettersi l'Ucraina sovietica, unificandola con l'Ucraina carpatica, aveva come scopo d'invelenire i rapporti tra URSS e Germania, portandole alla guerra. Ciò che poi avvenne tre anni dopo. Stalin era convinto che il principale nemico dell'URSS fosse l'Inghilterra e per molto tempo non considerò gli americani come alleati potenziali contro l'aggressione nazista. Egli si era formato un'immagine dell'America sotto l'influenza delle concezioni maturate negli anni '20 e '30. All'inizio degli anni '20 egli aveva capito che il centro dello sviluppo economico (produttivo, commerciale e finanziario) s'era definitivamente spostato dall'Europa occidentale agli Stati Uniti. Con quest'ultimi, infatti, egli intendeva far competere l'URSS. Al XVIII congresso del partito alcuni commissari del popolo chiesero addirittura di acquisire i metodi americani relativamente all'uso delle macchine utensili, per poterli superare nella produttività del lavoro. A quel tempo la società sovietica, nel suo complesso, aveva un'immagine piuttosto positiva degli USA. Basti pensare al poema di Mayakovsky, Il ponte di Brooklyn, che esalta il genio dell'industria americana. Lo stesso Stalin, nel 1931, pur con le sue solite riserve ideologiche, si era sentito indotto ad ammettere l'importanza del dinamismo americano, la sana attitudine verso il lavoro, il senso dell'efficienza e della praticità, il clima democratico che si respirava nell'industria e nelle produzioni tecnologiche, in netto contrasto -egli rilevava- con lo spirito aristocratico-feudale che ancora regnava nei Paesi capitalistici della vecchia Europa. Stalin considerava Roosevelt un politico coraggioso e determinato, un realista. Egli inoltre apprezzava il poeta Whitman e nelle sue conversazioni col repubblicano Harold Stassen, affermò, non senza invidia, che l'America era una nazione fortunata non solo perché protetta da due oceani e confinante con due Paesi deboli: il Canada e il Messico, che certo non potevano impensierirla, ma anche perché dopo la guerra d'Indipendenza essa aveva vissuto in pace per almeno 60 anni, potendo così svilupparsi rapidamente. Senza considerare che la popolazione americana da tempo s'era affrancata dal giogo dei re e dell'aristocrazia feudale. Stalin fece anche notare a Stassen che Germania e Giappone non erano in grado di competere con gli USA, che i mercati europeo, cinese e nipponico erano aperti ai prodotti americani e che delle condizioni così favorevoli gli USA non le avevano mai avute. Si stupì molto però quando apprese da Stassen che l'export americano non superava il 15%. Durante la II guerra mondiale gli USA e l'Inghilterra non solo si allearono con l'URSS, ma -contro ogni aspettativa- riconobbero in Stalin uno degli artefici dei destini del mondo post-bellico. Esse praticamente compresero che senza l'appoggio dell'URSS non avrebbero potuto vincere il nazifascismo. E così, dalla periferia della politica mondiale, Stalin si trovò improvvisamente al centro, insieme a Roosevelt e a Churchill, avendo come obiettivo non più quello della rivoluzione mondiale, ma quello della ripartizione delle sfere d'influenza. Ad un certo punto egli prese a considerare gli USA come suo partner principale e formulò la proposta di ripartire il mondo sulla base del principio della "coesistenza pacifica" (o "non-confronto"). "Si potrebbero forse evitare delle catastrofi belliche se ci fosse la possibilità di distribuire periodicamente le materie prime e i mercati di sbocco fra i diversi Paesi, in rapporto al loro peso economico, attraverso la ricerca di soluzioni pacifiche concertate". Così disse il 9 febbraio 1946, in un meeting con i suoi "elettori" al distretto elettorale di Mosca. In via di principio, Stalin non era contrario alla idea leniniana di favorire la cooperazione fra due sistemi economici opposti. Egli anzi riconosceva che il capitalismo mondiale era entrato in una fase di relativa stabilità, ovvero ch'esso si stava sviluppando più velocemente che nel passato. Ammetteva addirittura che il sistema americano si reggeva sul consenso popolare. Esortava a rinunciare alla guerra di propaganda, a non qualificare il sistema sovietico di "totalitarismo" o quello americano di "capitalismo monopolistico". Egli stesso si definiva, per piacere agli americani, un businessman. Questo suo atteggiamento sortì l'effetto sperato solo su Roosevelt, che, pur in presenza della guerra fredda, disse al suo amico e biografo J. Daniels, nel 1949: "Stalin mi piace, assomiglia a Tom Pendergast" (un leader del partito democratico degli anni '20 nello Stato del Missouri: un tipo energico e carismatico, ma caduto in disgrazia a causa di uno scandalo e di un'accusa per corruzione). Roosevelt era convinto che Stalin fosse come "prigioniero del Politburo". Al di là delle simpatie di Roosevelt, il piano di Stalin di spartire pacificamente il mondo, fallì del tutto: sia perché l'occidente interpretò il suo discorso del 9 febbraio come una dichiarazione di "guerra fredda"; sia perché lo stesso Stalin non fece nulla per incontrare l'occidente a metà strada. Egli infatti era convinto, ideologicamente, che il sistema capitalistico fosse prossimo a crollare e che i suoi momentanei miglioramenti non facessero che accelerare la venuta del giorno fatidico. A tale proposito Stassen gli aveva fatto notare che nelle condizioni del capitalismo regolamentato, le crisi che portano alla morte erano praticamente impossibili. Al che Stalin rispose che ciò avrebbe implicato la necessità di un governo molto forte e risoluto, che avrebbe potuto essere, indifferentemente, democratico o repubblicano. Dalle conversazioni fra Churchill e Stalin risulta chiaramente che quest'ultimo considerava il pluripartitismo un'aberrazione. Egli inoltre era convinto che il popolo stimasse solo una cosa: la forza, e che, per questa ragione, in Inghilterra esso avrebbe votato, durante le elezioni del '45, per i conservatori. Cosa che invece non avvenne, poiché proprio con quelle elezioni furono i laburisti ad acquistare una solida maggioranza. Stalin s'era indignato nel vedere che gli USA non avevano apprezzato la sua iniziativa di ripartire pacificamente il mondo. Proprio in nome di essa, egli aveva rinunciato sia all'idea d'impiantare subito dei regimi comunisti in Europa orientale, sia a quella di appoggiare il partito comunista cinese. Il ripensamento ebbe luogo nel 1948, con la decisione di far scendere gli eserciti comunisti sulle strade della Cecoslovacchia, poi venne edificato il muro di Berlino e si ruppero le relazioni con Tito. L'influenza postuma di Stalin sulla società sovietica dimostrò ancora di più la vitalità degli stereotipi ch'egli aveva imposto, quegli stereotipi che s'erano formati negli anni '20 e consolidati negli anni '48-'52. Dopo il '48 Stalin cominciò a propagandare l'idea che gli USA fossero governati da un misterioso club di ricchi e che le istituzioni della democrazia borghese non servissero a nulla. In queste condizioni gli USA avrebbero scatenato la III guerra mondiale, servendosi dello strumento dell'ONU, dove -a giudizio di Stalin- dominavano i 10 Paesi-membri del Patto Nord-Atlantico. Tutte le nazioni che appoggiavano gli USA erano considerate da Stalin "nemiche dell'URSS". In sostanza, i due "blocchi" dovevano restare separati. Pur di far credere che gli USA erano in procinto di crollare, Stalin, nel 1952, dichiarò che dopo la fine della II guerra mondiale, due tesi avevano perso la loro forza: la sua propria, sulla relativa stabilità dei mercati nell'epoca della crisi generale dell'imperialismo; e quella di Lenin, secondo cui, nonostante tale crisi globale, il capitalismo si sviluppava in modo più rapido che nel passato. Al XIX congresso del partito, Stalin riprese i vecchi slogan sulla rivoluzione mondiale e sul crollo definitivo degli USA in virtù di tale rivoluzione. Gli USA furono accusati di continua ingerenza negli affari dell'URSS. Tutti questi stereotipi non fecero che alimentare il bisogno di un "nemico". Stalin arrivò addirittura a sperare che scoppiassero nuove guerre mondiali imperialiste, all'interno delle quali Inghilterra e Francia da un lato, Germania e Giappone dall'altro, formassero due blocchi antiamericani. Egli criticava quei compagni che ritenevano più forti le contraddizioni tra socialismo e capitalismo, che non quelle interimperialistiche. E criticava anche quanti sostenevano che gli USA erano già in grado d'impedire che gli altri Paesi capitalisti si combattessero tra di loro, indebolendosi a vicenda. A suo parere, la tesi sull'inevitabilità delle guerre tra Paesi capitalisti restava in vigore. Egli non considerava affatto la guerra il peggiore dei mali possibili. Anzi, deplorava che il movimento contemporaneo per la pace non avesse avuto alcuna intenzione di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, come durante la I guerra mondiale. Anche se non per questo egli escludeva che la lotta per la pace potesse trasformarsi, poste talune circostanze, in lotta per il socialismo. Questo modo di vedere le cose non è morto con la morte di Stalin, ma è proseguito -seppure in forme ideologicamente più sfumate- con l'intervento armato in Ungheria nel 1956, durante la crisi caraibica del 1962, con la forme paranoiche di ostilità nei confronti della Cina, con l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e, per finire, durante la guerra d'Afghanistan. La nuova mentalità politica è nata solo nell'aprile 1985, con l'entrata in scena dell'umanesimo globale di Gorbaciov. TROTSKI E IL TROTSKISMO Lev Trotski (pseudonimo di Leib Bronstein) era nato lo stesso giorno della rivoluzione bolscevica: il 25 ottobre, e lo stesso anno, 1879, del suo futuro peggior rivale: Stalin. Suo padre disponeva di qualche centinaio di ettari nel villaggio di Yanovka, a sud dell'Ucraina. La sua famiglia -Trotski aveva un fratello e una sorella maggiori e un'altra sorella minore, di nome Olga, che poi sposerà Kamenev- non era particolarmente agiata, né fruiva di uno status sociale privilegiato. Mai però dovette affrontare situazioni materialmente difficili o esperienze d'ingiustizia sociale. Il giovane Trotski non aveva motivazioni particolari, oggettive, per diventare rivoluzionario. Egli frequentò il liceo tecnico di Nikolaiev (città portuaria ucraina). Si distingueva alquanto dai suoi compagni per la sua brillante intelligenza, il suo eloquio e anche per il bisogno di emergere all'attenzione degli altri. Assai presto divenne il leader d'un piccolo gruppo di giovani contestatori facenti capo all'Unione operaia del sud della Russia, un'organizzazione rivoluzionaria semilegale che combatteva l'autocrazia zarista. Il docente di medicina, G. Ziv, che studiò con lui a Nikolaiev e a Odessa, scrisse che la caratteristica principale della personalità di Trotski era la ferma volontà di arrivare primo in ogni cosa a cui s'applicasse. A quell'epoca egli non aveva alcun interesse per il marxismo. Ciò che lo attirava era l'ideologia liberal-populista e in particolare la corrente dell'economicismo, che era la versione russa dell'opportunismo alla Bernstein. Trotski poté rimanere alla direzione dell'Unione operaia suddetta semplicemente perché la polizia segreta zarista tollerava esperienze simili a quella del cosiddetto "marxismo legale" (Struve, Tugan-Baranovski, ecc.). Ma quando questa flessibilità venne meno, l'Unione fu smantellata e i suoi leaders, fra cui Trotski, incarcerati nella prigione di Odessa. E fu appunto qui che Trotski decise di diventare un professionista della rivoluzione, scegliendo, come pseudonimo, il nome di un sorvegliante aguzzino. Era il gennaio 1898: Trotski aveva 19 anni. Venne condannato a 4 anni di esilio nella Siberia orientale, ma dopo circa un anno di permanenza, fuggì, presentandosi nel 1902 a Lenin che allora viveva, profugo, a Londra. Nel marzo 1903, Lenin, riconoscendogli le sue molte qualità, gli propose di lavorare al comitato di redazione dell'Iskra. A ciò si oppose fermamente Plechanov, ma senza successo. In seguito, i menscevichi, capeggiati da Martov, Trotski e Akselrod, s'impadroniranno dell'Iskra, approfittando proprio di una successiva posizione conciliante assunta da Plechanov. Nello stesso anno venne delegato dall'Unione siberiana (che univa le organizzazioni socialdemocratiche di molte province siberiane) al II congresso del Posdr (così si chiamò il Pcus dal 1898 al 1917), destinato, quest'ultimo, a spaccarsi in bolscevichi e menscevichi. Sin dai primi giorni, Trotski intervenne a favore di Lenin contro le pretese separatiste del Bund (unione ebraico-operaia, di tendenza menscevica, operante in Polonia, Lituania e Russia). Ma al momento dell'esame del programma e degli statuti del partito, passò dalla parte dei menscevichi, il cui leader era Martov. Ciò su cui non concordava erano le idee di Lenin relative all'organizzazione interna del partito (soprattutto la necessità di rispettare la disciplina e di partecipare attivamente a una delle sue organizzazioni). Non dimentichiamo che Trotski, fino al 1917, rimase svincolato da veri e propri legami partitici. Questa tendenza a mutare bruscamente princìpi e convinzioni, soprattutto ad abbandonare la lotta rivoluzionaria per ottenere vantaggi politici immediati, costituiva uno dei tratti principali di Trotski, quello che Lenin meno sopportava. Infatti, dopo il II congresso i due si separarono per alcuni anni. Durante la rivoluzione democratico-borghese del 1905-907, Trotski era già conosciuto in tutta la Russia. Sotto il nome di Yanovski, era diventato il vicepresidente del soviet dei deputati operai di Pietroburgo, fondato nel 1905. Il presidente, G. Khrustalev-Nosar, era un uomo estremamente prudente, con concezioni politiche assai vaghe. Con molta facilità Trotski poté sostituirlo. Per 52 giorni il soviet organizzò le masse popolari contro il governo. Trotski scrisse numerosi appelli, manifesti, editoriali nell'organo di stampa Izvestia, negoziò con il potere (lo stesso primo ministro S. Witte lo interpellò). Ciò conferì a Trotski un grande prestigio agli occhi dei lavoratori, un prestigio che aumentò soprattutto dopo la chiusura forzata del soviet nel dicembre 1905, con arresti e processi dei suoi leaders. Trotski venne di nuovo condannato all'esilio siberiano. Fuggito mentre stava per esservi tradotto, riparò di nuovo a Londra, assistendo nel 1907 al V congresso del Posdr in qualità di socialdemocratico indipendente. Fu proprio nel corso della I rivoluzione russa che Trotski formulò la sua teoria della "rivoluzione permanente", riprendendo i concetti fondamentali elaborati da A. Parvus, un socialdemocratico tedesco originario della Russia. "Parvus ed io -scrisse Trotski- abbiamo difeso in Nachalo [giornale da loro edito nel 1905] l'idea che la rivoluzione russa sia il prologo di un'epoca socialrivoluzionaria nello sviluppo dell'Europa; che la rivoluzione russa non possa essere condotta a buon fine né attraverso l'alleanza del proletariato con la borghesia liberale, né attraverso l'alleanza del proletariato con i contadini rivoluzionari; che la rivoluzione non può trionfare se non come parte della rivoluzione del proletariato europeo". In pratica il fallimento dell'esperienza del 1905 lo aveva portato a dubitare delle capacità sovversive del proletariato russo. In questa valutazione, tuttavia, Trotski non mise in discussione i metodi di lotta da lui stesso usati in quel periodo. Lenin criticò la teoria della "rivoluzione permanente" dicendo ch'essa desumeva dai bolscevichi l'appello al proletariato per una risoluta lotta rivoluzionaria e la conquista del potere politico, mentre desumeva dai menscevichi la "negazione" del ruolo della classe contadina. Una teoria dunque rivoluzionaria solo in apparenza. Da un lato infatti Trotski manifestava una forte esigenza di mutamento, dall'altro -soggiogato com'era dalle sue velleità utopiche- si negava la possibilità di poterla realizzare. Non a caso, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, egli si dedicò alla totale riorganizzazione del Posdr sulla base dei princìpi liberal-borghesi che reggevano i partiti riformisti euroccidentali. Nel 1912 la conferenza di Praga del Posdr espulse dal partito un gruppo di opportunisti (chiamati "liquidatori") che chiedeva la trasformazione del partito da rivoluzionario a riformista. Trotski contrattaccò organizzando il cosiddetto "blocco d'agosto", che appoggiava questi liquidatori. Ma la conferenza pose fine all'unità formale di bolscevichi e menscevichi e rifondò il Posdr. Il "blocco", cui facevano parte anche il Bund e gli estremisti otzovisti, si dissolse tra il 1913 e il 1914. Quando scoppiò la I guerra mondiale, Trotski fondò a Parigi, con il menscevico Martov (leader dell'ala sinistra del menscevismo), il giornale Nashe Slovo, in cui attaccava i bolscevichi definendoli "scissionisti" e lanciava appelli per la realizzazione dell'unità coi "difensivisti", favorevoli a una guerra difensiva della Russia zarista contro la Germania. I bolscevichi invece erano contro la guerra e comunque speravano in una sconfitta dello zarismo, ovvero che la guerra imperialista si trasformasse in guerra civile. All'inizio del 1916 Trotski si recò negli USA per partecipare alla redazione della rivista socialdemocratica Novy Mir. Su quest'ultimo impegno Lenin ebbe a dire: "Appena arrivato, Trotski s'è legato alla destra di Novy Mir contro la sinistra di Zimmerwald: si atteggia a uomo di sinistra e aiuta di fatto la destra". Dopo la rivoluzione del febbraio 1917, che rovesciò lo zarismo, Trotski ritornò a Pietroburgo, giocando di nuovo un ruolo di rilievo nell'organizzazione interdistrettuale unificata del Posdr, che era su posizioni centriste, fra i bolscevichi e i menscevichi, e che rimase in vigore dal 1913 al 1917. Tuttavia, più il fervore rivoluzionario cresceva e più le masse si spostavano a sinistra, e Trotski con loro. Nell'agosto 1917, 4.000 membri dell'organizzazione centrista si uniscono al Posdr durante il suo VI congresso. Fra essi vi è anche Trotski, che aveva deciso di staccarsi dai "difensivisti". Benché egli non sia presente di persona al congresso, perché in prigione, si decide di cooptarlo ugualmente nel C.C. Su 134 congressisti che avevano partecipato all'elezione dell'organo direttivo del partito, 131 votarono per Trotski (tre voti in meno che per Lenin). Egli dunque godeva di grande credito in seno al partito. Nel maggio 1917 Lenin nutriva ancora dei dubbi sulla personalità di Trotski, ma due mesi dopo decise di riprendere i rapporti. Nelle tesi che redasse per il suo rapporto alla "conferenza democratica" di Pietroburgo, che ebbe luogo l'8 ottobre, Lenin giustificò la candidatura di Trotski sulla base di tre motivazioni: 1) Trotski aveva adottato una posizione internazionalista (dopo la rivoluzione del febbraio 1917, Trotski aderì al gruppo degli "internazionalisti"), 2) s'era battuto in seno all'organizzazione centrista per la fusione col Posdr, 3) durante le dure giornate di luglio aveva dimostrato di saper difendere la causa del proletariato. Da notare, a tale proposito, che, proprio secondo Trotski, il partito bolscevico prese parte alla conferenza democratica per svolgervi un lavoro organico, non per denunciarvi le manovre dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi. All'inizio di settembre, Trotski uscì di prigione e si mise a lavorare nel C.C. del partito, così come nelle riunioni del soviet di Pietroburgo. Il 24 settembre, una sessione del C.C. deliberò di nominarlo presidente del soviet. La crescente bolscevizzazione del soviet di Pietroburgo -afferma Lenin- portava a identificare la parola d'ordine ch'esso, a partire dalla metà di settembre, aveva lanciato, e cioè "Tutto il potere ai soviet!", con un invito esplicito all'insurrezione. Ancora oggi è difficile farsi un'idea giusta di ciò che pensava Trotski circa l'insurrezione armata. Senza dubbio egli preparò attivamente l'insurrezione di ottobre, ma la sua partecipazione non fu così decisiva come lascia credere il menscevico N. Sukhanov o lo stesso Stalin che nell'articolo La rivoluzione d'Ottobre (apparso sulla Pravda del 6.XI.1918 ma non nelle sue Opere complete), sostenne addirittura che N. Podvoiski (uno dei principali leader dell'insurrezione armata d'ottobre) e che V. Antonov-Ovseenko (che guidò l'assalto al Palazzo d'Inverno) erano stati gli stretti esecutori della volontà di Trotski: il che non fu affatto vero. Nel 1924, nel suo discorso Trotskismo o leninismo, Stalin attribuì un ruolo ben più modesto a Trotski. Mentre -come noto- nel Sommario di storia del Pc (b) dell'URSS (1938), Trotski gioca un ruolo del tutto negativo negli avvenimenti dell'Ottobre. Nella Storia della rivoluzione russa di Trotski, si ha l'impressione che senza di lui non si sarebbe compiuta alcuna rivoluzione. Effettivamente, in quanto presidente del soviet di Pietroburgo egli fece molto per impedire ai menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari di boicottare il II congresso dei soviet, fissato al 20 di ottobre e poi posticipato al 25. Trotski partecipò anche alla creazione e all'attività del comitato rivoluzionario militare presso il soviet di Pietroburgo; aiutò il comitato ad armare gli operai, a controllare la fortezza di Pietro e Paolo, che era uno dei principali punti strategici della città e a far altre cose di carattere organizzativo e militare. Il 10 ottobre, durante la riunione del C.C. del Posdr, Trotski votò -come altri 10 membri- a favore della proposta insurrezionale di Lenin. Tuttavia, nella sessione allargata del C.C. del partito bolscevico, tenutasi il 16 ottobre, per discutere veramente la questione dell'insurrezione, Trotski non fu presente. Il motivo non era dovuto a un semplice concorso di circostanze, come lui stesso ebbe a dire. Di fatto, pur criticando aspramente molti membri del C.C., specie Zinoviev e Kamenev, per le loro illusioni parlamentariste, egli, prima dell'assalto al Palazzo d'Inverno, aveva pubblicamente dichiarato che il comitato rivoluzionario militare era stato creato non come organo dell'insurrezione ma soltanto come comitato di "difesa" della rivoluzione. La sua idea era quella di realizzare un'insurrezione "pacifica", "legale". In ogni caso l'insurrezione avrebbe dovuto essere rinviata -a suo giudizio- sino al congresso dei soviet. Trotski ovviamente non osava pronunciarsi contro l'insurrezione armata, ma in pratica ne comprometteva la riuscita, non foss'altro perché rivelava i piani al governo borghese e disorganizzava i ranghi rivoluzionari, demoralizzando le masse pronte a intervenire. Egli in sostanza era convinto che il rifiuto bolscevico di opporsi alla richiesta del Governo provvisorio di ritirare le truppe da Pietroburgo, avrebbe assicurato almeno i 3/4 del successo della rivoluzione (si veda le sue Lezioni dell'Ottobre): il che però venne contraddetto dal disperato tentativo del governo di scongiurare la sua fine, dando fondo a tutte le risorse di cui disponeva. Nel suo libro Su Lenin del 1925, Trotski afferma testualmente che "nel C.C. s'erano costituiti tre gruppi: gli avversari della presa del potere, che per forza di cose furono costretti a respingere lo slogan "Il potere ai soviet" [anzitutto Kamenev e Zinoviev]; Lenin, che insisteva per un'organizzazione immediata dell'insurrezione, indipendentemente dai soviet; e l'ultimo gruppo [anzitutto Trotski] che riteneva indispensabile legare strettamente l'insurrezione con il II congresso dei soviet e quindi di scatenarla all'ultimo momento". Ciò ovviamente non significava -come sostenne poi Stalin- che Trotski aveva intenzione di far fallire la rivoluzione, ma soltanto che la sua posizione era diversa da quella di Lenin. Da notare che quando il governo provvisorio di Kerenski decise di deferire Lenin al tribunale, Trotski, Kamenev e altri non si opposero alla richiesta. Lenin però, senza aspettare d'essere arrestato, era già passato alla clandestinità. Dopo l'Ottobre Nel primo governo sovietico Trotski era commissario del popolo (ministro) agli affari esteri. Egli pubblicò -cosa, allora, senza precedenti- i documenti segreti della diplomazia zarista e del governo provvisorio. Stabilì anche dei contatti con gli ambasciatori delle potenze straniere e diresse la delegazione sovietica ai negoziati di Brest-Litovsk, sulla conclusione del trattato di pace con la Germania. Proprio in questi negoziati le cose di complicarono alquanto quando Trotski volle assumere una posizione personale, non autorizzata dal partito, mirando a tradurre in pratica un proprio slogan: "né guerra né pace", ossia: non concludere un accordo di pace con la Germania (per non accreditare le accuse secondo cui i bolscevichi altro non erano che agenti dei tedeschi), né opporsi all'invasione tedesca (cioè la Russia avrebbe smobilitato l'esercito, dichiarando da sola la fine della guerra). Nel febbraio 1918, contrariamente alle direttive di Lenin ("la pace a qualsiasi condizione"), rifiutò di firmare il trattato, fornendo così alla Germania il pretesto di passare all'offensiva sull'intero fronte contro la repubblica dei soviet, che in quel momento ancora non disponeva di forze sufficienti per organizzare la resistenza. Di fronte alla massiccia offensiva tedesca, che penetrò per lunghi tratti nel territorio sovietico, Trotski decise di passare dalla parte di Lenin. Il trattato venne firmato il 3 marzo 1918, ovviamente a condizioni più onerose: Lettonia, Estonia e Polonia passarono alla Germania, la quale si riservava anche una protezione militare sull'Ucraina. Il 14 marzo Trotski venne nominato ministro della difesa (prima dell'esercito, poi anche della marina). Egli divenne presidente del consiglio militare rivoluzionario della repubblica, creato il 2 settembre 1918 per far fronte alla guerra civile e all'intervento straniero (1918-20). Furono i suoi anni migliori. In questo campo, Trotski si dimostrava un dirigente risoluto, capace di mobilitare migliaia di uomini, di realizzare obiettivi anche molto difficili. In particolare, partecipò alla repressione della rivolta dei socialisti-rivoluzionari di sinistra, scatenata il 6.VII.1918 a Mosca, allo scopo di rovesciare il governo sovietico e di sabotare la pace di Brest (a tale scopo gli avventuristi arrivarono persino a uccidere l'ambasciatore tedesco Mirbach). Trotski giocò un ruolo centrale anche nell'organizzazione dell'esercito regolare dell'Armata rossa, che era diventato un compito fondamentale dopo che le zone più ricche del Paese erano finite nelle mani degli interventisti stranieri e delle guardie bianche. Eseguendo le direttive del C.C. del partito, mise in atto i princìpi fondamentali per l'edificazione di questo esercito: istruzione militare generale e obbligatoria nelle scuole, nelle fabbriche e nei villaggi, formazione immediata di reparti combattenti particolarmente disposti al sacrificio, arruolamento di istruttori e specialisti militari, istituzione di commissari volti a controllare nell'esercito gli interessi della rivoluzione e del socialismo. Praticamente si erano riusciti a superare i limiti che in quelle condizioni non avrebbero permesso alcuna vittoria contro le forze avversarie: il volontariato, l'esercito non regolare, l'elezione per la scelta dei comandanti, ecc. Pretendendo il rispetto più rigoroso della disciplina militare, Trotski non si attirò solo le simpatie di Lenin, ma riuscì anche a debellare la guerriglia durante la guerra civile. Vi era tuttavia un rovescio della medaglia. Trotski tendeva ad abusare dei metodi amministrativi, a sopravvalutare le istanze del potere, a reprimere eccessivamente i soldati e gli ufficiali. Esigeva la pena di morte per ogni crimine. "La fucilazione -diceva- è un mezzo di dissuasione, crudele certo, ma il più efficace". Di qui il tentativo di promuovere, con l'aiuto dei suoi seguaci, all'interno dell'Armata rossa, il culto della sua personalità. Nel 1922 arrivò persino a inserire nei regolamenti militari la sua biografia politica, nella quale egli si rappresentava come un eroe, come l'incarnazione dell'onore rivoluzionario e militare. Sotto questo aspetto, la sua diversità da Stalin era minima. Oltre a ciò non si possono tacere i grossolani errori da lui commessi nel definire la strategia della guerra civile (ad es. nel momento di reprimere le truppe di Kolciak). Dal 1917 al 1922 egli non fece altro che ribadire, sotto forme diverse, i suoi concetti di fondo: il proletariato europeo è più maturo per il socialismo di quello russo; l'obiettivo principale del potere dei soviet consiste non tanto nel favorire le condizioni necessarie per edificare il socialismo in Russia, quanto piuttosto nel cercare di resistere in attesa della rivoluzione mondiale; la rivoluzione va esportata negli altri paesi attraverso la potenza dell'Armata rossa. "La guerra rivoluzionaria -scriveva- è la condizione indiscutibile della nostra politica". Queste tesi ovviamente non erano solo di Trotski, ma di molti altri leaders politici (ad es., oltre i già citati Zinoviev e Kamenev, anche M. Lasevic e E. Preobrazhenski). Trotski sapeva rafforzare la disciplina del lavoro, stimolare l'entusiasmo della classe operaia, organizzare la produzione, capiva l'importanza del commercio estero e s'interessava al problema delle nazionalità. Lenin gli riconosceva queste e altre qualità: lo disse nel dicembre 1920, all'VIII congresso dei soviet, ed anche nel gennaio 1921. Tuttavia, i suoi difetti erano per Lenin non meno gravi: pericolosa soprattutto era la sua tendenza a costruire un "socialismo militarista", assai simile al "socialismo da caserma" pre-marxista. Un modello, il suo, basato sull'idea della militarizzazione dell'economia del paese, ovvero della sua trasformazione in una sorta di gigantesca macchina militare in cui tutto si fa su ordini ricevuti dall'alto, in cui le masse sono le docili esecutrici della volontà dei capi. Il disaccordo con Lenin si riaccese durante il dibattito sui sindacati. Lenin era convinto che il X congresso del partito (marzo 1921) avrebbe rifiutato i metodi burocratici di Trotski riguardo alla politica sindacale. In particolare gli rimproverava di non saper realizzare un vero legame con le masse. E in effetti il congresso gli diede ragione. Trotski veniva messo sull'avviso: doveva attenersi alle direttive del partito, evitando di crearsi propri quadri, con i quali comandare all'interno del partito stesso. Oltre a ciò, vi era la questione, ben più complessa, dell'indipendenza e neutralità dei sindacati, che i menscevichi e Trotski sostenevano contro le tesi bolsceviche, secondo cui i sindacati dovevano essere "una scuola di comunismo", strettamente legati al partito. Allora vinsero le posizioni centralistiche di Lenin, ma a scapito del pluralismo. La svolta della NEP, se proseguita con coerenza, dopo la morte di Lenin, avrebbe probabilmente risolto anche questo problema. In una lettera indirizzata al congresso, un anno prima di morire, Lenin indicò con lungimiranza il dualismo della personalità di Trotski. Lo riteneva l'uomo più capace del C.C., ma anche quello meno affidabile, perché troppo sicuro di sé e troppo incline ad esagerare il lato amministrativo delle cose. Lenin trovò necessario ricordare al partito il "non-bolscevismo" di Trotski, facendo osservare però che questo limite non poteva essere imputato a lui personalmente, più di quanto non potesse essere imputato ai soli Zinoviev e Kamenev il tradimento nell'imminenza della rivoluzione. Una precisazione che Stalin dimenticherà volentieri. Va tuttavia qui ricordato che, a proposito di questo testamento, Trotski sarà il solo ad essere favorevole alla sua pubblicazione, almeno in un primo momento, poiché, in seguito, per ordine del C.C. del partito egli dichiarerà che non esisteva alcun "testamento di Lenin". Ovviamente Lenin vedeva nell'ideologia di Trotski non l'espressione di una posizione individuale, bensì la manifestazione di uno stato d'animo assai determinato all'interno del partito, di cui Trotski s'era fatto interprete e realizzatore. Anche Kamenev aveva manifestato una chiara posizione non-bolscevica, eppure Lenin non gli impedì di lavorare nel C.C. del partito. "Quando nel C.C. si formano gruppi più o meno uguali -diceva Lenin- è il partito che giudica", cioè l'insieme dei militanti. Lenin non offriva solo la possibilità di correggere gli errori, ma cercava anche di stimolare un'aperta fiducia nelle capacità di tutti gli attivisti, propagandisti, intellettuali, operai, contadini..., che lottavano all'interno del partito. Ma c'è di più. Lenin non stimava necessarie le divisioni, ma neppure se le nascondeva. In questo senso teneva a precisare due cose: 1) le divisioni vanno risolte nella legalità, cioè sulla base degli statuti e del programma del partito; 2) la discussione è una cosa, la linea e la lotta politica del partito un'altra: "Noi non siamo un club di dibattiti", diceva. Ciò significava che gli irriducibili andavano, dopo ampie discussioni, espulsi. Ora, tutte le fondamentali discussioni degli anni '20 s'erano concentrate sulla possibilità o meno di costruire il socialismo in un solo paese, e addirittura in un paese economicamente arretrato. Trotski e il blocco dei suoi sostenitori che s'erano ritrovati sulla piattaforma del trotskismo nel 1926, affermavano che l'insieme della politica economica del paese soffriva di una deviazione a destra. Nel senso cioè che il partito -secondo questa opposizione- frenava lo sviluppo dell'industria statale, rispetto al tasso di crescita dell'intera economia nazionale. Essi in pratica non credevano nella possibilità di un'industrializzazione pianificata con le sole forze del Paese e proponevano di avviare l'industrializzazione dapprima a ritmi forzati, per saturare il mercato di merci, e quindi, rallentando i tempi di produzione, reggere sino alla vittoria del socialismo nei Paesi capitalisti più avanzati. Per tale "superindustrializzazione" proponevano di reperire i mezzi nelle campagne, aumentando le tasse ai contadini. I trotskisti rifiutavano di considerare che questo provvedimento avrebbe comportato anche l'aumento dei prezzi di tutti i prodotti agricoli e un minore potere d'acquisto del rublo, nonché un netto divario fra industria e agricoltura e l'inevitabile rottura dell'alleanza, indispensabile alla NEP, tra operai e contadini. I principali beneficiari, di conseguenza, sarebbero stati i kulaki (contadini ricchi) e la nuova borghesia uscita dalla NEP, cioè proprio coloro contro cui mirava il programma dei trotskisti! A ciò -come se non bastasse- va aggiunto che questo blocco radical-gauchiste utilizzava metodi tipici di una corrente che vuole trasformarsi in un secondo partito: elaborazione e propaganda della propria piattaforma, attività frazionistica, diffusione di documenti antipartitici, ecc. In queste condizioni era indispensabile prendere misure urgenti. Il plenum del C.C. del partito comunista, tenutosi nel gennaio 1925, destituì Trotski dal suo posto di presidente del consiglio militare rivoluzionario e lo sostituì con M. Frunze. Nell'ottobre 1926 Kirov propose al plenum riunito del C.C. e del C.C. esecutivo, a nome dell'organizzazione del partito di Leningrado, di escludere Trotski dall'ufficio politico. Un anno più tardi egli viene anche escluso dal C.C. (insieme a Zinoviev) e nel novembre -per aver organizzato una manifestazione dei suoi seguaci durante il X anniversario della Repubblica d'Ottobre- viene anche radiato dalla lista dei membri del partito. Espulsi dal partito furono anche Kamenev, Piatakov, Radek e altri ancora. L'idea trotskista sull'acutizzazione della lotta di classe via via che si consolidano le basi del socialismo, stava cominciando a dare i suoi effetti, ma a beneficio dello stanilismo, il quale seppe approfittare della situazione per iniziare una durissima repressione nei confronti di tutti i trotskisti. In quell'occasione, Stalin si avvalse degli organi giudiziari, pur senza imbastire un processo col quale incriminare Trotski ufficialmente (il che sarebbe apparso ridicolo, poiché Trotski di fronte alla legge non era colpevole di nulle), ma in seguito le cose andranno ben diversamente. All'inizio del 1928 Trotski viene inviato in esilio ad Alma-Ata nel Kazakhstan, ma egli continua la lotta contro il partito e il bolscevismo. Il plenum del CC del partito (luglio 1926) purtroppo era stato categorico nel rifiutare il pluripartitismo. La linea del blocco Trotski-Zinoviev ottiene lo 0,5% del consenso degli iscritti al Pc(b): a questa opposizione non si dà il diritto di esistere. Trotski chiede di denunciare la politica "opportunista" della direzione sovietica, esige che si organizzino degli scioperi, che ci si opponga alla stipula dei contratti collettivi nelle imprese, ecc. Alla fine di quell'anno, da Mosca un inviato speciale della polizia politica ad Alma-Ata comunica a Trotski l'ultimatum del governo: o smette di guidare l'opposizione o verrà espulso dal paese. Trotski sceglie la seconda alternativa. Insieme ad altri tre membri della sua famiglia, lasciò l'URSS per sempre. Era la sua terza emigrazione politica. All'esilio si erano opposti, nel C.C., Bucharin, Rykov e Tomski. Il governo sovietico si rivolse a molti paesi perché accogliessero Trotski, ma solo la Turchia, dopo molte trattative, accettò. Solo durante il viaggio Trotski venne a conoscenza che il luogo del suo esilio era Istanbul: la sua richiesta d'essere inviato in Germania venne respinta. Arrivato ad Istanbul il 12 febbraio 1929, visse fino al 1933 nelle isole Kiziladalar, nei pressi della capitale turca. Nel 1932 viene privato, insieme ai familiari, della nazionalità sovietica. I suoi sostenitori, in Francia, fecero in modo che potesse ottenere un visto d'ingresso per questo paese. Ma nell'estate del 1935 è costretto a trasferirsi in Norvegia, ove rimane sino al gennaio 1937, dopodiché decide di accettare l'invito, grazie agli sforzi di D. Rivera, noto pittore messicano, del presidente Cardenas di risiedere in Messico. Prese dunque domicilio a Koyocan, un distretto della capitale, ma il 21 agosto 1940 fu assassinato con un colpo di piccone da Ramon Mercader, su incarico di Stalin. La IV Internazionale Durante l'emigrazione, l'attività di Trotski si concentrò sull'idea di fondare un'organizzazione chiamata ad attirare nelle sue fila tutti coloro che erano "a sinistra" dei partiti comunisti e del Komintern. Tale organizzazione si chiamerà "IV Internazionale". Essa nacque nel settembre 1938 in una conferenza dei trotskisti tenutasi a Parigi. Trotski preparò la creazione della sua Internazionale scrivendo molti libri: dalla Rivoluzione permanente (1930) alla Scuola staliniana della falsificazione (1932), dalla già citata Storia della rivoluzione russa (1931-33) alla Rivoluzione tradita (1936), nonché una quantità enorme di articoli. In queste e altre opere del periodo appaiono -come vuole lo specialista occidentale del trotskismo, I. Deutscher- nuove tesi rispetto a quelle formulate negli anni '20. La lotta contro lo stalinismo ne costituisce il perno centrale. In effetti, dopo l'assassinio di Kirov (1934), Trotski seppe intravedere la crisi che avrebbe colpito il partito. Egli criticò sia la degenerazione verso il burocratismo, sia i processi di Mosca, ritenendoli una mistificazione ordita da Stalin e dal suo gruppo per liquidare gli avversari. Tuttavia, i suoi avvertimenti non vennero presi in considerazione né in seno al partito né nel movimento comunista internazionale. Ormai Trotski, col suo protagonismo a tout prix s'era per così dire "bruciato". Peraltro egli non aveva altra intenzione che quella di sostituire lo stalinismo con il "trotskismo". Tutti i difetti e le aberrazioni della politica staliniana venivano da lui utilizzate come prova della validità della sua tesi fondamentale della "rivoluzione permamente", ovvero dell'impossibilità di costruire il socialismo in un solo paese. Se poi consideriamo il fatto che Trotski, per realizzare il suo modello di socialismo, avrebbe impiegato dei metodi (si pensi solo all'idea di far coincidere le circoscrizioni militari con le unità produttive) che non si distinguevano qualitativamente da quelli di Stalin, si comprende facilmente quanto sia inutile rivalutare Trotski contro il leninismo. Oggi, non pochi teorici della IV Internazionale affermano che su taluni aspetti occorre rivedere le concezioni di Trotski, ma, nonostante questo, il neo-trotskismo resta una semplice appendice di quello classico. Infatti, alla base della fraseologia rivoluzionaria di entrambi vi è una tesi comune, quella della "rivoluzione permanente". Per elaborare questa tesi, Trotski si era riferito a quella formulata da Marx ed Engels nel 1850, nell'Indirizzo alla Lega dei comunisti. In esso, Marx ed Engels, intervenendo contro la subordinazione degli interessi della classe operaia (nella rivoluzione democratico-borghese) a quelli della borghesia, scrivevano che il proletariato doveva andare molto più lontano della borghesia, "rendendo la rivoluzione permanente, finché ogni classe più o meno possidente sia stata tolta dal potere...". L'opinione di Lenin, sotto questo aspetto, era analoga: "Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta", cioè per la trasformazione della rivoluzione borghese in socialista. Lenin dunque riconosceva la necessità di tappe successive della lotta rivoluzionaria, ognuna delle quali preparava le condizioni indispensabili alla transizione verso la tappa seguente. Viceversa, Trotski presentava l'idea di "permanenza" come il conseguimento simultaneo di tutti gli obiettivi politici del proletariato, il quale doveva rovesciare immediatamente, senza tappe successive, il dominio della borghesia. Ad es. la sua interpretazione delle Tesi di aprile di Lenin è radicalmente differente da quella che diedero, allora, i bolscevichi. Per Trotski quelle Tesi erano una proposta immediata della rivoluzione socialista e non la proposta di un approfondimento della rivoluzione democratico-borghese. Egli, in sostanza, non comprendeva che per realizzare la rivoluzione socialista occorreva l'alleanza con i contadini poveri contro i kulaki. Per lui la rivoluzione non era che uno scontro militare, dove i due eserciti contrapposti, schierati sin dall'inizio, debbono solo concludere militarmente uno scontro, i cui termini politici sono chiari fin da principio ad entrambi gli schieramenti. Trotski insomma era un esteta della rivoluzione. I suoi appelli avventuristici a bruciare le tappe non facevano che riflettere una profonda ignoranza delle leggi oggettive dello sviluppo sociale. Peraltro un trotskista autentico non potrà mai ammettere che un determinato Paese s'è incamminato realmente sulla strada del socialismo. La negazione di una qualunque forma di socialismo si basa proprio sull'idea della rivoluzione proletaria mondiale. Anche oggi, i trotskisti, esaminando il fallimento del "socialismo reale", non traggono la conclusione che il socialismo deve democratizzarsi, ma quella che senza rivoluzione permanente fra la borghesia "mondiale" e il proletariato "mondiale", non vi potrà mai essere alcuna vera forma di socialismo: col che, in pratica, non fanno che avvalorare le tesi borghesi secondo cui l'unica alternativa al socialismo è il capitalismo. Per i neo-trotskisti, la rivoluzione proletaria mondiale non è né la somma delle rivoluzioni nazionali, né l'abbandono progressivo del capitalismo da parte di diversi Paesi, né un'azione che abbia luogo in tutti i Paesi contemporaneamente. E' piuttosto un conflitto tra borghesia e proletariato mondiale, portato avanti per un lungo, indefinito periodo storico. Ciò che dà senso alla storia, per i trotskisti, è appunto l'eccitazione di una rivoluzione continua, il prolungamento all'infinito del momento esaltante della lotta eversiva, contestatrice: non è certo il duro, prosaico lavoro post-insurrezionale, che rischierebbe di far emergere il vuoto spirituale di questi "professionisti della rivoluzione", il cui scopo principale è sempre stato quello di seminare dubbi nella coscienza dei lavoratori circa la riuscita di una qualunque transizione. Il fatto che i trotskisti abbiano bisogno di vivere in una situazione conflittuale in cui i conflitti non vengano mai risolti, è dimostrato anche dalla tesi sull'utilità della guerra per la rivoluzione mondiale, che Trotski elaborò nel 1940. Più la guerra è devastante -affermano i trotskisti- e maggiore sarà il ruolo rivoluzionario ch'essa giocherà nello sviluppo del mondo. Non a caso essi non fanno distinzione tra "guerra difensiva" e "guerra offensiva". Non avendo alcuna fiducia nelle forze delle classi che si oppongono al capitale, propugnano il fatalismo di una "guerra rivoluzionaria", riflettendo, in ciò, le concezioni degli strati estremisti piccolo-borghesi, sempre più rovinati dalla logica del profitto. Di fronte alle difficoltà quotidiane della lotta per la pace, essi si demoralizzano, non credono al principio dialettico per cui i cambiamenti quantitativi, che si accumulano nei rapporti di forza, possono condurre a dei profondi mutamenti qualitativi. Questi militanti dell'antiprosaicità, questi eroi ultrasinistri che si esaltano solo nei momenti "forti", spettacolari, sono vittime allucinate della tragica formula: "Meglio una fine orribile che un orrore senza fine". Una piccola diversità, tuttavia, esiste fra vecchi e nuovi trotskisti. A suo tempo, Trotski, come noto, aveva predicato la concezione eurocentrica della rivoluzione sociale mondiale, affermando che questa non sarebbe stata possibile che nei Paesi più sviluppati. Egli inoltre negava la potenzialità rivoluzionaria delle masse agricole, che considerava come una forza conservatrice se non addirittura reazionaria, contro cui avrebbe dovuto lottare lo stesso potere rivoluzionario. Viceversa, i neo-trotskisti (l'economista più significativo è E. Mandel), dopo aver costatato che l'occidente capitalistico non ha alcuna intenzione, almeno per il momento, di fare delle rivoluzioni proletarie, hanno preferito concentrare la loro attenzione, cercando di non autoemarginarsi dalla storia, sulle "rivoluzioni coloniali" dei Paesi del Terzo mondo, considerate come fattore prevalente della rivoluzione mondiale. Ora essi sono addirittura disposti ad ammettere che la classe agricola è la forza rivoluzionaria per eccellenza dell'epoca contemporanea, ma questa ammissione, ancora una volta, cela il trucco di sempre. Il loro scopo, in realtà, è quello di servirsi dei contadini del Terzo mondo per criticare il proletariato occidentale, non è quello di promuovere un'alleanza tra queste due forze sociali a livello mondiale. Costatando che il Terzo mondo è passato da una dipendenza "diretta" a una "indiretta" nei confronti dell'imperialismo, essi danno per scontato che quest'area geografica, da sola, non potrà mai veramente liberarsi dalle catene del neocolonialismo. Il risultato quindi, di tale ragionamento, è l'immobilismo e la solita fraseologia rivoluzionaria. I neotrotskisti, lontani mille miglia dalle dinamiche sociali, vorrebbero una rivoluzione facile, a portata di mano, senza alcun lavoro tra le masse, che desse loro ogni potere per controllare in modo burocratico e amministrativo tutta la società. Siccome sanno benissimo di non poter ottenere questi obiettivi, ne traggono la conclusione che è impossibile realizzare il socialismo democratico. Di qui il netto rifiuto di creare legami tra mondo operaio e strati non proletari dei lavoratori, o alleanze di tipo antimonopolistico, o vaste intese nell'ambito della sinistra. Essi sanno soltanto difendere l'idea dell'assoluta, totale, autonomia delle correnti più diverse del movimento democratico. Preferiscono parlare di "esportazione della rivoluzione" piuttosto che costruirla in casa propria. Bibliografia Oltre alle molte opere di Isaac Deutscher, che sono indispensabili per chi voglia conoscere il trotskismo, si può consultare: K. Mavrakis, Trotskismo teoria e storia, ed. Mazzotta AA.VV., Trotski nel movimento operaio del XX sec., in "Il ponte" nn. 11-12/1980 (La Nuova Italia) Day, Trotski e Stalin, Ed. Riuniti Diverse opere di Trotski furono pubblicate negli anni '70 dall'ed. Savelli. IL CASO BUCHARIN Nikolai Bucharin, 50 anni dopo esser caduto vittima delle purghe staliniane, è stato riabilitato dalla perestrojka gorbacioviana nel febbraio 1988, allorché il plenum della Corte suprema della ex-URSS ha respinto la sentenza che lo accusava di aver partecipato al cosiddetto "blocco antisovietico dei trotskisti di destra". Non si è trattato semplicemente del riconoscimento di un gravissimo errore giudiziario, ma anche, in positivo, del tentativo di far comprendere all'umanità la necessità di distinguere la lotta ideologica da quella politica, le idee dagli uomini che le professano, ma anche del tentativo di far comprendere che nella storia esistono sempre diverse alternative nei cui confronti si gioca la libertà degli uomini, e che quella risultata alla fine vincente non per questo va considerata la migliore. Nel momento in cui Bucharin fu chiamato a svolgere un ruolo più significativo nella lotta che andava svolgendosi in seno al partito negli anni '20 e '30, egli aveva una considerevole esperienza politica. Già durante la rivoluzione russa del 1905-907, egli aveva aderito alle manifestazioni antigovernative e al Posdr (così il Pcus di allora). Lavorava come agitatore e organizzatore a Mosca. Dopo essere stato più volte arrestato, fu inviato in esilio, da dove riuscì a evadere, emigrando in Polonia. Nell'autunno 1912 conobbe a Cracovia Lenin, il quale lo convinse a lavorare per i circoli socialisti russi di Vienna. Proprio a quell'epoca egli cominciò a maturare un forte interesse per l'economia. Durante la Ia guerra mondiale, Bucharin si trovava su posizioni diverse da quelle di Lenin relativamente alla questione dello Stato e del diritto delle nazioni all'autodeterminazione, in quanto l'uno privilegiava la lotta per la democrazia, l'altro quella per il socialismo. Lenin tuttavia non dava molta importanza a tali divergenze, ritenendole non fondamentali. Nell'ottobre 1916 Bucharin lasciò l'Europa per gli Stati Uniti. A New York iniziò a collaborare attivamente per il giornale The New World. Lenin era pienamente soddisfatto della lotta che allora Bucharin conduceva contro Trotski. Fu solo dopo la rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 ch'egli rientrò in Russia. Nell'agosto successivo venne eletto membro del C.C. al VI congresso del partito bolscevico. In quel momento egli s'opponeva a coloro che esitavano sulla necessità d'una insurrezione armata contro il Governo provvisorio di Kerenski. Infatti, dopo la rivoluzione d'ottobre a Leningrado, fu tra i capi dell'insurrezione di Mosca. Nel 1918 assunse una posizione errata a proposito della pace con la Germania: contro essa sosteneva l'esigenza d'una guerra rivoluzionaria. Più tardi però ammise d'essersi sbagliato. Nel contempo, egli svolgeva un lavoro assai proficuo in qualità di capo-redattore della Pravda, organo centrale del partito. Si può dire, nel complesso, che negli anni 1919-20 le concezioni di Bucharin si caratterizzavano per un "romanticismo rivoluzionario" assai marcato e per una concezione politica gauchiste. In un certo senso egli personificava lo spirito del "comunismo di guerra", che allora albergava in tutti i membri del partito. Il "comunismo di guerra" -come noto- forzatamente adottato in seguito alla guerra civile e alla crisi economica, consisteva in una mobilitazione di tutte le forze e risorse per la difesa. Suoi elementi essenziali furono: la nazionalizzazione dell'intera grande e media industria, nonché di una buona parte delle piccole imprese, la massima centralizzazione della direzione della produzione industriale e della distribuzione, la cessione obbligatoria allo Stato, da parte dei contadini, a prezzi fissi, di tutte le eccedenze di grano e di altri prodotti che superassero le norme stabilite per il consumo personale e per i bisogni economici, l'interdizione del commercio privato, l'approvvigionamento alimentare pianificato della popolazione e il livellamento dei salari. Proprio nel 1920 apparve L'economia del periodo di transizione, l'opera di Bucharin che meglio generalizzava e assolutizzava la prassi politica ed economica del suddetto comunismo, il cui valore avrebbe solo dovuto essere transitorio. Non era quello il libro che avrebbe potuto introdurre la Nuova Politica Economica (NEP) che lo Stato sovietico applicò dal 1921 al 1929. Come noto, la NEP voleva essere l'antitesi del "comunismo di guerra": essa infatti autorizzava il commercio privato, le piccole imprese capitalistiche sotto rigoroso controllo dello Stato, sollecitava l'industria statale all'autonomia finanziaria, trasformava le cessioni del surplus agricolo in imposte in natura. L'essenza di quest'ultima innovazione consisteva nel fatto che il contadino, dopo la consegna della prestabilita imposta in natura, poteva amministrare liberamente il prodotto della sua azienda. Naturalmente tale imposta era inferiore alle consegne obbligatorie. Fu questa politica economica che consolidò le basi economiche dell'alleanza tra operai e contadini, che sviluppò non solo i legami dell'industria socialista con la piccola produzione agricola, usando i rapporti mercantili-monetari, ma anche le leve economiche nella gestione dell'economia. Nei più recenti studi della suddetta opera economica, spesso si critica Bucharin per aver fatto della "coercizione extraeconomica" il principale metodo di costruzione del socialismo. Con ciò tuttavia si dimentica di sottolineare il radicale mutamento di posizione di Bucharin dopo il passaggio alla NEP, nonché il fatto che lo stesso Lenin tendeva a condividere l'uso di tale coercizione (a condizione naturalmente che l'autore ne fosse il proletariato). Altri piuttosto erano gli errori segnalati da Lenin: scolasticismo e antidialetticità. Ma forse il conflitto maggiore tra Lenin e Bucharin fu quello degli anni '20-'21, allorché Lenin impedì che i sindacati si staccassero dal partito, temendo l'indebolirsi di quest'ultimo, appena uscito dalla durissima lotta contro gli interventisti stranieri e le guardie bianche. Bucharin, insieme ad altri gruppi frazionisti, era dell'avviso che la democrazia politica e lo sviluppo produttivo avrebbero tratto beneficio dall'autonomia dei sindacati, poiché la politica del "comunismo di guerra" aveva scontentato tutti. Il X Congresso del Pc(b) (marzo 1921) pose fine al dibattito emanando due importanti risoluzioni: una, politica, sull'unità del partito, con cui si vietava qualsiasi attività frazionistica; l'altra, economica, sull'imposta in natura, che costituì il fondamento della NEP. Tuttavia, nonostante questo conflitto teorico, non ci fu mai alcuna rottura fra Lenin e Bucharin. Significativo è inoltre il fatto che tutto quanto sarà rimproverato a Bucharin, al tempo del processo staliniano, non troverà alcun riscontro nella polemica con Lenin. Gli anni 1921-27 vedono l'ascesa politica di Bucharin. Nel 1924 viene eletto membro dell'ufficio politico e gli si affidano posti di responsabilità non soltanto nel C.C. ma anche nel C.C. esecutivo (che è stato il più importante organo statale dal 1922 al 1936), nonché nel comitato esecutivo dell'Internazionale comunista. Egli inoltre faceva parte dello staff del Komsomol, del consiglio centrale dei sindacati e di vari comitati scientifici e culturali (ad es. capo-redattore della Pravda, poi della rivista Bolschevik, ecc.). Sovente rappresentava il partito all'estero. Dopo la morte di Lenin egli s'impegnò nel partito, a fianco di Stalin, contro le idee di Trotski, Zinoviev e Kamenev. Bucharin si lanciò in una polemica così accanita che spesso restava completamente sordo agli argomenti sensati dei suoi avversari. L'intransigenza ideologica tendeva a trasformarsi in una sorta di antipatia personale. Stalin, che Trotski accusava, non senza ragione, di "centralismo senza princìpi", seppe approfittare della situazione per imporre le sue concezioni politiche, estromettendo prima Trotski, poi Zinoviev e Kamenev dalla direzione del partito. In seguito la storia si preoccuperà di dimostrare che molte delle concezioni teoriche di Stalin erano più vicine a quelle di Trotski che non a quelle di Bucharin. Gli anni '20 furono per Bucharin un periodo di grande attività teorica. Rivedendo alcune sue posizioni, egli sviluppò l'idea leniniana dell'alleanza operaio-contadina come fondamento del potere sovietico e condizione obbligata della costruzione del socialismo. Egli inoltre fu uno dei primi a porre la questione del contributo teorico di Lenin al marxismo. In particolare egli cercò di sviluppare ulteriormente il concetto di NEP, in funzione delle concrete condizioni degli anni '20. Nel libro La via al socialismo e l'unità operaio-contadina (1925), egli tenta di fondare teoricamente la costruzione del socialismo sulla base della NEP, riprendendo le idee di Lenin sulla necessità di misure transitorie per condurre al socialismo un paese in cui dominava la piccola proprietà contadina. In tal senso egli condivideva pienamente l'idea di Lenin secondo cui il socialismo doveva essere "un sistema di cooperatori civilizzati". Ciononostante lo schema di Bucharin presentava una lacuna di non poco conto, in quanto la sua concezione si basava sull'idea che la NEP avrebbe perso progressivamente ogni ragion d'essere e che il socialismo si sarebbe radicato lentamente nel paese, senza salti qualitativi né transizioni rivoluzionarie. Oggi si è addirittura arrivati a credere che tali "salti" sono indispensabili per lo sviluppo di tutto il socialismo e non solo del suo periodo di transizione. Quando uscì il libro di Bucharin, si stava scatenando un'aspra lotta politica in seno al partito, a causa della contraddittorietà di certe decisioni prese in precedenza. Da un lato infatti si prospettava l'ulteriore sviluppo della NEP "classica" attraverso l'estensione dei rapporti mercantili-monetari, il libero scambio, il permesso di assumere manodopera, di prendere o cedere in affitto, la soppressione dell'imposta in natura e l'organizzazione delle forniture alimentari cittadine su basi mercantili. Misure queste destinate a favorire le iniziative individuali e quindi l'industrializzazione del paese. Dall'altro lato però, il partito si cominciava a chiedere come conciliare questa libertà della piccola produzione con gli obiettivi dell'industrializzazione. Nel 1925 il problema veniva praticamente regolamentato dallo scambio non equivalente fra la città e la campagna. Ma un'economia equilibrata non poteva tollerare questo pompaggio di risorse, anche perché il partito era costretto a ricercare compromessi sempre più complicati. Di fatto le linee programmatiche degli anni 1925-27 si basavano sulla concezione di Bucharin, secondo cui i colcos non erano il mezzo principale per arrivare al socialismo. Di qui il ritardo della cooperazione produttiva agricola rispetto all'inizio dell'industrializzazione del paese, la mancata soluzione del problema cerealicolo e la necessità di far entrare il paese nella tappa storicamente inevitabile del socialismo attraverso -come dirà più tardi lo stesso Bucharin- "la porta delle misure straordinarie". È significativo però che sin dal 1926-27 Bucharin comincerà ad abbandonare l'idea dello sviluppo economico lento e regolare, prospettando invece cadenze più rapide. Egli cioè riconosceva alcuni limiti nella politica lanciata nel 1925. Al XV congresso del partito (dicembre 1927) la direzione presenta un programma unanime per una graduale "ricostruzione" della NEP, volto a una maggiore applicazione della cooperazione produttiva e pianificata, e volto anche a un'offensiva più vigorosa contro gli elementi capitalistici urbani e rurali. Tuttavia, la direzione non fece alcun cenno al grave problema dello stoccaggio dei cereali. Ma dopo alcuni mesi dal congresso, la crisi della situazione internazionale e delle forniture di grano indussero l'ufficio politico a esercitare pressioni amministrative e giudiziarie a carico dei kulaki (contadini ricchi) e dei contadini medi, affinché provvedessero a rifornire di grano le città. La decisione venne presa da tutti i membri della direzione, fra cui Rykov (ministro degli interni), Tomski (leader dei sindacati), Bucharin e Stalin. Quest'ultimo, in particolare, era sempre più convinto che non si poteva più effettuare il pompaggio o pensare di risolvere il problema dei cereali con l'aiuto dei meccanismi tradizionali della NEP. Egli cioè si rendeva conto che il ricorso esclusivo a misure eccezionali, nei confronti della proprietà contadina individuale, avrebbe comportato inevitabilmente un calo del volume della semina e dei cereali destinati alla vendita. Ecco perché Stalin escogitò l'idea di costruire coattivamente i colcos (azienda collettiva), quali nuovo canale di pompaggio, sviluppando parallelamente aziende cerealicole di tipo sovcosiano (statale). All'inizio nessuno dell'ufficio politico protestò contro questa nuova forma di pompaggio. Si discuteva soltanto delle sue modalità e dei limiti. Sarà all'inizio del giugno 1928 che Bucharin scriverà una lettera a Stalin sostenendo che la costruzione dei colcos non avrebbe potuto far uscire il paese dalla crisi in un lasso di tempo molto breve, anche perché lo Stato non era in grado di fornire immediatamente ai colcos i capitali e i materiali necessari. Egli in pratica rimproverava a Stalin una politica improvvisata, troppo empirica e, col pretesto di misure eccezionali, assai diversa dalla linea del XV congresso. Per Bucharin, in sostanza, la questione si poneva nei termini seguenti: non essendo i colcos in grado di fornire sufficiente grano, nell'immediato, occorreva rilanciare le aziende individuali, normalizzando i rapporti coi ceti rurali. Stalin era invece di tutt'altro avviso: fino a quando i colcos non sarebbero stati in grado di risolvere il problema cerealicolo, egli riteneva indispensabile ricorrere alle misure straordinarie. A quel tempo il principale disaccordo fra i due riguardava meno le questioni dei ritmi di sviluppo o quella di saper se bisognava o no creare dei colcos, e molto più la questione di sapere come gestirli, in quanto che essi non erano ancora in numero sufficiente e non producevano grano. Nel luglio 1928, al plenum del C.C., Stalin avanza la sua teoria del "tributo", cioè di una soprattassa a carico dei contadini, cui si era momentaneamente costretti -a suo giudizio- "per mantenere e accelerare gli attuali ritmi dello sviluppo industriale". Bucharin non si oppose al pompaggio né alla sottrazione di una parte della produzione agricola a beneficio dell'industria pesante, anche se auspicava l'uso di una grande moderazione. In sintesi: Stalin riteneva che lo scambio non equivalente (tra industria e agricoltura) e il mercato fossero due cose incompatibili, in quanto il secondo ostacolava il primo. Bucharin invece sosteneva che il pompaggio delle risorse agricole dovesse effettuarsi attraverso i meccanismi di mercato, sulla base delle aziende individuali, per un periodo di tempo piuttosto lungo. In altre parole, Bucharin non negava che i colcos e i sovcos fossero lo strumento più adatto a questo pompaggio: il problema, per lui, era ch'essi non potevano fornire immediatamente allo Stato i cereali destinati alla vendita. Chi dei due aveva ragione? Né l'uno né l'altro. Da un lato infatti era assurdo pensare -e Bucharin più tardi lo comprenderà- che attraverso il mercato privato fosse possibile travasare le risorse delle aziende agricole individuali nell'industria pesante, dall'altro era altrettanto evidente che il ricorso a misure eccezionali avrebbe compromesso l'alleanza operaio-contadina, mettendo il Paese sull'orlo della guerra civile. Soltanto lo sforzo di una riflessione collettiva avrebbe permesso di elaborare un programma costruttivo per il periodo in cui i colcos non erano ancora in grado di fornire la quantità necessaria di cereali. E comunque il plenum del C.C. nel luglio 1928 decise a maggioranza di sottoscrivere l'appello alla prudenza lanciato da Bucharin, Rykov e Tomski. Nella pratica, tuttavia, le cose andarono ben diversamente, in quanto era il discorso di Stalin sul "tributo" che in ultima istanza portava avanti la politica del partito. Di fronte a questa contraddizione, Bucharin cercò di reagire nell'autunno 1928, segnalando che la situazione economica stava alquanto peggiorando. Al plenum del C.C. di novembre egli riuscì a far adottare una risoluzione comune avente come punto fondamentale il riconoscimento che i contadini poveri e medi andavano incoraggiati. Ma la risoluzione, benché votata all'unanimità, venne ben presto dimenticata, col risultato che alla fine del '28 il Paese era piombato in una terribile crisi cerealicola. I debiti con l'estero non potevano più essere pagati. S'imposero immediatamente il razionamento del pane e i tagli all'import. Tutti i programmi produttivi rischiavano di fallire. Il 30 gennaio 1929, ai membri dell'ufficio politico e il 9 febbraio al presidium del commissione centrale di controllo del partito, Bucharin, Rykov e Tomski dichiarano che il dualismo fra la prassi e le decisioni prese dal partito dipendono dalla posizione personale di Stalin, il quale avendo accumulato dei poteri straordinari, ne usa in modo arbitrario. Stalin viene accusato di "etichettare le persone" e di nascondere la verità delle cose, ma neppure i suoi collaboratori vengono risparmiati. In particolare, l'ala buchariniana sostiene di non aver mai contestato le decisioni ufficiali del partito e ch'essa si batteva soltanto contro le deformazioni imposte a queste decisioni da Stalin e dal suo staff, ovvero contro le misure eccezionali e contro il fatto di mettere Stalin e il partito sullo stesso piano. Infine si chiedeva di non considerare questo attacco a Stalin come un attacco a tutto il partito. "Noi pensiamo -scriveva il gruppo di Bucharin- che il compagno Stalin dovrebbe seguire il consiglio (assai saggio) dato da Lenin, rispettando il principio della collegialità. Noi riteniamo che chiunque debba poter criticare il compagno Stalin, come ogni altro membro dell'ufficio politico, senza paura di passare per un 'nemico del popolo'". Un'esigenza, come si può facilmente notare, che non poteva certo far pensare ad ambizioni di potere personale da parte di Bucharin. Nel suo discorso al plenum del C.C. d'aprile 1929, Bucharin accusa Stalin d'aver preso delle misure contro tre membri dell'ufficio politico, al fine di discreditarli pubblicamente, senza che vi fosse alcun giudizio emesso dall'organo politico competente. Oltre a ciò Bucharin critica la concezione staliniana secondo cui la lotta di classe s'inasprisce in rapporto ai progressi della società socialista. Con questa teoria infatti (che Stalin prese da Trotski e che formulò nel luglio 1928) si poteva giustificare il ricorso alle "misure straordinarie". Essa in pratica confondeva, a giudizio di Bucharin, due cose differenti: "un periodo momentaneo di acuta lotta di classe con il corso generale dello sviluppo". Il pensiero di Bucharin intanto evolveva verso la convinzione che le difficoltà non stavano nei ritmi accelerati dell'industrializzazione, in quanto tali ritmi avrebbero potuto essere ancora più sostenuti se si fosse pensato di più a sviluppare l'agricoltura, proteggendo in modo particolare la produzione cerealicola. Queste difficoltà tuttavia risalivano in gran parte alle decisioni del 1925. Se il problema cerealicolo s'era imposto in termini così acuti, ciò in parte era dipeso dal fatto che si era deciso di industrializzare il Paese puntando a valorizzare le aziende individuali contadine e non la cooperazione produttiva. I colcos, creati per risolvere il problema cerealicolo, offrivano appunto la possibilità di una rapida industrializzazione. A questa conclusione Stalin era arrivato nel gennaio 1928, senza l'aiuto di Bucharin: cosa che se si fosse verificata prima, in una situazione diversa, avrebbe reso inutile l'adozione di misure straordinarie, mentre Bucharin, dal canto suo, non avrebbe pagato le conseguenze della politica che lui stesso aveva promosso nel 1925. Nell'aprile 1929, Bucharin constata che il piccolo produttore non vende più il suo grano ma lo consegna allo Stato e che, di conseguenza, il mercato fra città e campagna è stato rotto. L'introduzione di misure straordinarie e la forzata concessione di grano allo Stato avevano avuto un effetto assai demotivante sulla produzione individuale. La moneta era in corso di svalutazione, non esistevano incentivi di sorta, le pressioni amministrative aumentavano e anzi di diversificavano, i tentativi di combinare lo sviluppo degli scambi con i nuovi legami economici fra città e campagna fallirono del tutto. Il principale problema di gestione consisteva nel fatto che elementi moderni di regolazione economica si trovavano ad essere affiancati da misure eccezionali incompatibili con la NEP. Poggiando su quest'analisi, Bucharin elaborò un programma alternativo. Egli suggerì d'importare il grano, di rinunciare definitivamente alle misure straordinarie, di ristabilire la legalità rivoluzionaria, di servirsi dei prezzi come mezzo di regolazione e d'intensificare la produzione agricola. Oltre a ciò, egli sosteneva che i prezzi d'acquisto del grano dovevano essere flessibili e non rigorosamente fissati, in quanto andavano rapportati all'andamento della stagione e alle diverse zone regionali. Non una parola però contro lo scambio iniquo tra città e campagna, contro il pompaggio delle risorse agricole. Tale progetto non venne approvato dalla maggioranza dei membri del C.C. Essenzialmente a causa del primo punto, quello su cui Bucharin era irremovibile. La sua proposta d'importare il grano venne percepita come un passo indietro, privo di sbocchi per il futuro. In effetti, la questione principale era quella di scegliere non fra l'import del grano e le misure eccezionali, ma fra tale import e l'industrializzazione, e la direzione del partito non aveva dubbi sulla necessità di favorire la seconda strada. L'atteggiamento intransigente di Bucharin su questo aspetto, indusse la direzione a rifiutare tutte le sue proposte, compresa quella, così importante, del rispetto della legalità rivoluzionaria. Nonostante ciò si decise lo stesso di confermare la sua presenza nell'ufficio politico. Malgrado la natura controversa del programma di Bucharin e la polemica che sollevò, la maggioranza dei membri del C.C. mostrò buon senso, e Bucharin rispettò la loro volontà, ammettendo la possibilità di una rapida industrializzazione. D'altra parte sia il plenum del C.C. che la XVI conferenza del partito riconoscevano nell'aprile 1929 l'esistenza simultanea di ritmi elevati dell'industrializzazione e di ritmi relativamente modesti della collettivizzazione. L'ala buchariniana apprezzò, come tutto il partito, alla fine del '29, i risultati raggiunti nel campo dei lavori pubblici e del movimento colcosiano. Ma, nonostante queste valutazioni convergenti, Bucharin, Rykov e Tomski continuarono a proclamare l'inammissibilità delle misure straordinarie. Purtroppo, appoggiando Stalin su tale questione, il C.C. commise un errore fatale, di cui si renderà conto solo molto tempo dopo. Fino al novembre 1929 le esitazioni dei membri del C.C. fecero sì che il gruppo buchariniano continuasse a giocare il ruolo di contrappeso politico allo stalinismo emergente. Ma con la sconfitta di questo gruppo e la sua esclusione dall'ufficio politico, cominciarono a moltiplicarsi gli abusi nelle campagne e le violazioni dei princìpi leninisti riguardanti i rapporti coi contadini. Iniziò così il terrore degli anni '30. A partire dal novembre 1929 la biografia politica di Bucharin diventa incerta. Gli odierni tentativi degli storici sovietici di utilizzare i testi degli ultimi interventi di Bucharin suscitano non poche perplessità. Alcuni addirittura ritengono che il Bucharin degli anni '30 fu un uomo distrutto, che si sforzò come meglio poteva di accontentare Stalin, ma questa interpretazione è troppo semplicistica per essere vera. In realtà Bucharin, oltre che svolgere assai attivamente il suo ruolo di dirigente politico, di capo-redattore delle Izvestia, di accademico e di economista, esercitava ancora molta influenza su non pochi membri del C.C. Quest'ultimi, convinti che l'autocritica di Bucharin fosse sincera, desideravano la sua riabilitazione politica. Ma quando si produsse il "grande balzo in avanti", accompagnato da enormi perdite e sacrifici, e il partito cominciò a porsi la domanda se mantenere le misure eccezionali, contro cui aveva protestato Bucharin nel '29, oppure se normalizzare la vita socio-economica, scoppiarono ben presto nuove furenti polemiche. Bucharin si fece portavoce della normalizzazione ed elaborò un orientamento generale al plenum del gennaio 1933. Gli "umori" dei dirigenti sembravano essergli favorevoli. Bucharin riconobbe che il primo piano quinquennale, nonostante alcuni forti limiti, aveva conseguito molti importanti obiettivi: l'URSS era diventata "un nuovo Paese". La concezione economica che Bucharin aveva del socialismo consisteva nel favorire un'economia di mercato pianificata, in cui il commercio, posto su basi nuove, giocasse un ruolo fondamentale (ad es. gli incentivi nell'agricoltura andavano salvaguardati anche se regolamentati). Nel contempo, più ancora di Rykov e di Tomski, egli sostenne che Stalin, con la sua ferma volontà, si era conquistato il diritto di dirigere anche in futuro il processo storico-politico del Paese. Parole, queste, che potevano anche lasciar pensare che Bucharin volesse restare nell'ufficio politico, per continuare a influire sugli avvenimenti. Solo molto più tardi però ci si accorgerà che con esse egli aveva incoraggiato, senza volerlo, la nascita del culto della personalità. Viceversa, Stalin non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle misure straordinarie e, temendo il successo che le idee di Bucharin stavano avendo negli ambienti di partito, escogitò con il suo entourage il modo per "incastrarlo". Fu così che la polemica resuscitò su questioni puramente terminologiche. Bucharin definiva il mutamento dei rapporti produttivi agricoli come il risultato della gigantesca rivoluzione agraria compiuta attraverso la dittatura del proletariato, che comportò l'esproprio dei mezzi produttivi dei kulaki. Al che Stalin obiettava che la politica della collettivizzazione non doveva essere ridotta al concetto di rivoluzione agraria. Stalin, in sostanza, tendeva a sopravvalutare i vantaggi (presunti o reali) della collettivizzazione forzata rispetto ad ogni altra politica agraria. Bucharin inoltre considerava la soluzione del problema dei nuovi mezzi produttivi come centrale per l'edificazione dell'economia socialista. Stalin invece replicava col dire che anche in questo caso Bucharin peccava di superficialità, poiché non sapeva cogliere l'importanza dei mezzi produttivi per l'industria pesante rispetto agli altri settori economici. Lo stesso Stalin attaccò duramente Bucharin per aver sostenuto che la percentuale del reddito nazionale destinata all'accumulazione era troppo elevata e che le forze produttive erano state ridistribuite a svantaggio di altri settori, specie quello agricolo. Senza entrare nel merito di queste osservazioni critiche, Stalin se ne servì per accusare il gruppo di Bucharin di inaffidabilità, dimostrando così che le vere divergenze non erano nominalistiche e che il problema principale restava sempre lo stesso: normalizzare la situazione o controllarla con la violenza? Dopo l'omicidio di Kirov, nel 1934, cui Stalin non può essere considerato del tutto estraneo, la spada di Damocle pendeva sulla testa di Bucharin e di altri membri dell'opposizione. All'interno del C.C. si era incerti sul da farsi: la figura di Bucharin non la si vedeva in alternativa alla direzione politica, ma neppure la si voleva escludere da essa, poiché le sue idee antiautoritarie erano condivise. Questo tuttavia non impedì che il plenum che C.C. di febbraio-marzo 1937, convocato per denunciare i cosiddetti sabotatori e i trotskisti infiltrati nella leadership del partito, si aprisse con l'esame del "caso" Bucharin e Rykov (Tomski nel frattempo si era suicidato, prevedendo il peggio). L'accusa sosteneva che quest'ultimi conoscevano e appoggiavano un blocco trotskista-zinovievista clandestino e un centro trotskista parallelo antisovietico, il cui obiettivo era quello di restaurare il capitalismo con l'aiuto d'interventisti fascisti stranieri. Tutto ciò era completamente inventato, e del tutto assurde erano anche le accuse mosse contro Bucharin di aver voluto organizzare nel 1930-31 un'insurrezione contadina al fine di creare uno Stato siberiano autonomo che facesse pressione sul regime staliniano, o l'accusa di aver cospirato per eliminare Stalin. Bucharin si difese egregiamente e la commissione giudicatrice, presieduta da Mikoyan, sembrava dargli ragione. Stalin pertanto si vide costretto a ricorrere all'intrigo (come risulta dalla discussione su quale testo definitivo dare alla risoluzione di condanna). Due proposte erano state fatte: la prima prevedeva l'espulsione di Bucharin e Rykov dal C.C. e dal partito, nonché il processo davanti al tribunale militare con esecuzione della pena capitale (la fucilazione); la seconda prevedeva il deferimento alla giustizia senza esecuzione. Astutamente Stalin suggerì di non tradurli di fronte alla giustizia ma di delegare la gestione del caso al Commissariato del popolo per gli affari interni, col pretesto di un supplemento d'indagine. Decisione, questa, accettata all'unanimità, salvo le due astensioni di Bucharin e Rykov. L'ultimo atto del dramma di Bucharin fu il processo del 2 marzo 1938, intentato contro il cosiddetto "blocco trotskista di destra". I 21 imputati furono accusati dal procuratore A. Vychinski dei crimini più assurdi e più gravi: dall'aver manipolato la rotazione delle colture all'intenzione di consegnare l'Ucraina alla Germania nazista. Il processo fu una vera farsa: tutto era già stato predeterminato. Bucharin, che pure si era confessato colpevole al pari degli altri (sperando di evitare conseguenze sui familiari), respinse sino all'ultimo l'accusa per lui più mostruosa, quella secondo cui nel 1918, all'epoca di Brest-Litovsk, egli avrebbe progettato con i socialisti-rivoluzionari di uccidere Lenin, così come negò la partecipazione all'assassinio di Kirov. Dei 21 imputati, il Collegio militare della Corte suprema decise di condannarne 18 alla fucilazione e tre a pesanti pene detentive. Con la morte di Bucharin il terrore staliniano era riuscito ad abbattere l'ultimo grande ostacolo.

 
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