CHIESA E RIVOLUZIONE FRANCESE.
LE PREMESSE
La chiesa cattolico-nazionale, cioè "gallicana", della Francia si basava
giuridicamente, prima dell'Ottantanove, sul Concordato del 1516 stipulato a
Bologna dal re Francesco I e dal papa Leone X, col quale il primo aveva
rivendicato il diritto di nominare i candidati alle più alte cariche
ecclesiastiche, e il secondo l'investitura canonica degli stessi. In cambio
di questa sottomissione del clero, il re si assumeva l'onere di versare alla
curia romana le cosiddette "annate", cioè un anno del reddito teorico di
ogni beneficio (diocesi, abbazia, ecc.) che cambiava titolare. Grazie a
"questo codice di brigantaggio -come lo chiama C. Fauchet, l'autore De la
religion nationale (1789)-, il capo del sacerdozio e quello dello stato si
concedevano ciò che, secondo l'opinione universale, non apparteneva né
all'uno né all'altro: i diritti dei popoli [alla scelta dei pastori] e il
denaro della chiesa".
Ma, nonostante il cattolicesimo fosse una religione di stato, verso la metà
del XVI sec. si diffuse nel sud della Francia il calvinismo, e subito furono
eccidi e massacri fra le due confessioni. L'Editto di Nantes (1598)
riconobbe agli ugonotti la libertà di culto, ma il cattolicesimo, facendo
leva sul prestigio della propria "maggioranza", continuò a perseguitarli
duramente, almeno sino al 1787, allorché un decreto regio concesse ai
riformati: lo stato civile dei loro matrimoni (senza più l'intermediazione
del prete cattolico) la possibilità di battezzare i figli (prima era
d'obbligo il rito cattolico), di praticare il culto in privato e di accedere
ad alcune cariche pubbliche di minor rilievo. Gli ultimi due protestanti ad
essere torturati e impiccati, rispettivamente nel 1761 e 1766, furono il
mercante J. Calas e il cavaliere La Barre. Il loro numero complessivo, alla
vigilia della rivoluzione, si aggirava sul mezzo milione.
Drammatica era anche la situazione dei giansenisti, la cui dottrina
filocalvinista era già stata condannata nel 1713 dalla bolla Unigenitus.
Usciti malconci dallo scontro con i gesuiti (l'abbazia di Port-Royal venne
distrutta nel 1710 da Luigi XIV), nel 1749 i giansenisti dovettero subire
anche l'umiliazione dei billets de confession: una vera e propria
sottomissione scritta alla suddetta bolla che l'arcivescovo di Parigi
pretendeva da parte di tutti quei moribondi sospettati di giansenismo, senza
la quale non avrebbero potuto ricevere l'assoluzione. Condannata dal
parlamento parigino, la richiesta non mancò di suscitare seri tumulti presso
il palazzo arcivescovile. Tuttavia il giansenismo poté prendersi la
rivincita sulla Compagnia di Gesù (già disciolta però nel 1773), fondendosi,
negli anni della rivoluzione, col "richerismo", un movimento di soldati
semplici e caporali del clero parrocchiale che rivendicava una gestione
democratica e comunitaria della chiesa francese. E. Richer (1560-1631),
sindaco della facoltà teologica di Parigi, fu appunto il primo a sostenere
la pari dignità dei poteri di tutto il clero.
Molto discriminata era anche la minoranza ebraica, concentrata soprattutto
in Alsazia. I 40.000 ebrei pagavano imposte speciali d'ogni tipo (ad es. il
prezzo della loro protezione al re, al vescovo, al feudatario locale, oppure
per entrare in città loro interdette). Erano esclusi senza eccezione dai
pubblici uffici. Talvolta il loro numero era limitato per legge (ad es. non
più di 450 famiglie a Metz). Non potevano contrarre matrimonio coi cattolici
e i diritti di cittadinanza venivano loro concessi solo dove potevano
avanzare una richiesta di naturalizzazione in base al luogo di nascita, il
che però non era facile. Per quanto riguarda il culto fruivano di maggiori
libertà rispetto ai protestanti, essendo ideologicamente meno temuti dai
cattolici.
I tempi tuttavia erano così maturi per una più generale e radicale
affermazione dei diritti umani e civili, che la necessità di riconoscere un
culto pubblico assolutamente libero a tutte le confessioni minoritarie, era
ormai diventato per il cattolicesimo e per la monarchia borbonica il
problema minore.
Le prime avvisaglie di quella che di lì a poco sarebbe apparsa come la
maggior sfida europea ai privilegi feudali, si ebbero con la pubblicazione
dell'Encyclopédie (1751). Le forti accuse di Diderot, d'Alembert, Voltaire,
Rousseau, Helvétius, Holbach indirizzate al fanatismo, all'intolleranza, al
dogmatismo, alla superstizione, al temporalismo dei papi, al clericalismo,
ai principi di "autorità" e di "tradizione" nelle scienze, ecc., indussero
il cattolicesimo conservatore, a partire dal 1770, a sferrare un attacco
frontale contro questi philosophes 'colpevoli' di ateismo, miscredenza,
empietà. N.S. Bergier venne ufficialmente incaricato dall'Assemblea del
clero di Francia di aprire le ostilità. Non pochi tuttavia erano gli
scettici nell'imminenza di questa battaglia. Fra le stesse file dell'alto
clero il lusso e la corruzione erano così vasti e profondi che la
maggioranza dei vescovi si sentiva quasi completamente estranea agli ideali
della chiesa cattolica. S'incontravano persino figure inclini all'ateismo e
favorevoli alle idee del "libero pensiero", come l'arcivescovo di Tolosa
Loménie de Brienne, che riuscì a ottenere da Luigi XVI la concessione dello
stato civile ai protestanti, il mons. De Vintimille, Grimaldi di Mans, il
card. di Rohan e altri ancora, il cui ateismo tuttavia non implica di
necessità -come vuole la storiografia cattolica- la "corruzione". Se dunque
resistenza c'era ai nuovi orientamenti intellettuali e morali, i motivi
vanno ricercati negli interessi di potere, che però fino all'Ottantanove non
sembravano minacciati da forze sociali politicamente determinate: la
maggioranza dei filosofi era filomonarchica, sebbene volta al riformismo
giurisdizionalista.
Dal canto suo il basso clero, a causa delle forti discriminazioni di cui era
oggetto, vedeva spesso di buon grado le critiche che il movimento filosofico
progressista rivolgeva al sistema (basta leggersi il famoso pamphlet del
vicario generale di Chartres, E.J. Sieyès, Qu'est-ce que le Tiers état?).
Sull'atteggiamento di questi curati, la storiografia cattolica è sempre
stata abbastanza severa: si è rimproverato loro un "eccessivo" rancore
contro il lusso dell'alto clero, un desiderio d'indipendenza "troppo vivo" e
addirittura uno spirito patriottico "superiore" a quello ecclesiastico (cfr
le tradizionali storie della chiesa di R. Spiazzi, A. Saba e quella
illustrata nelle ed. Marietti).
La situazione generale del clero
"Primo dei tre ordini fra i quali si dividono 25.000.000 di francesi, il
clero conta, all'incirca, 130.000 membri, di cui 70.000 regolari -che
pronunciano voti monastici, obbediscono a una regola e vivono, per lo più,
in conventi- e 60.000 secolari, che non pronunciano voti monastici e vivono
nel mondo"(così A. Dansette, Chiesa e società nella Francia contemporanea,
ed. Vallecchi).
Essendo il primo degli ordini dello stato, il clero, che era il più grande
proprietario del regno, fruiva di particolari privilegi: politici,
giudiziari e fiscali. Già si è detto del sistema beneficiario col quale il
re assicurava le cariche religiose ai suoi cortigiani oppure ai figli
cadetti dell'aristocrazia più facoltosa. I titolari, in sostanza,
percepivano 1/3 delle rendite dei vescovadi o abbazie, risiedendo
prevalentemente nei dintorni di Versailles, presso la corte regia, e
delegando l'effettivo esercizio del ministero pastorale e amministrativo ad
ecclesiastici stipendiati (nel 1764 a Parigi vivevano non meno di 40
vescovi!). Cosa di cui non ci deve meravigliare poiché, dipendendo la nomina
dalla nascita o dalle relazioni, era impossibile che questi prelati avessero
una buona formazione teologica o un vero interesse "etico-religioso" per i
benefici ottenuti. Generalmente anzi, la loro condotta e i loro principi
erano improntati alla mondanità e allo scetticismo dell'ambiente di corte.
Oggi si è soliti ritenere, sulla base di dati approssimativi, che il clero
possedesse fino al 10% della proprietà nazionale, ma il rendimento di questi
immobili, nel complesso, restava molto al di sotto delle loro reali
potenzialità. Con l'assenteismo cronico dei beneficiari e le ingiustizie
perpetrate ai danni della popolazione contadina, la gestione veniva svolta
in maniera alquanto improduttiva. Lo attesta il fatto che la decima
percepita da vescovi, abati e canonici sui prodotti agricoli e sugli armenti
aveva un valore equivalente alle rendite dei possedimenti rurali. Nonostante
questo però il credito della chiesa restava di gran lunga migliore di quello
dello Stato. Le proprietà fruttavano un'entrata annua pari a circa 1/4 della
ricchezza fondiaria in ogni provincia del regno. Oltre a ciò bisogna mettere
nel conto gli "incassi" delle varie fondazioni assistenziali, sanitarie ed
educative, grazie alle quali la chiesa monopolizzava quasi completamente la
gestione della vita sociale e culturale. Quando si parla di questi enti la
storiografia cattolica è solita usare il termine di "oneri", ma tutti si
rendono conto -poiché ancora oggi è così- che tali ambiti d'intervento
gestiti dalla chiesa fruiscono sempre di ampie agevolazioni fiscali, di
forti contributi statali, di lasciti e donazioni di privati cittadini, per
non parlare del fatto che, ad es., i 562 ginnasi tenuti allora dal clero,
erano riservati alla nobiltà o comunque a quelle famiglie in grado di
mantenere i figli agli studi.
I monasteri e i conventi erano ricchissimi: frati e monaci, in genere,
oziavano con buone rendite e grandi proprietà. Ad eccezione di quelli che si
dedicavano all'insegnamento o all'assistenza medica, gli ordini religiosi
venivano considerati socialmente inutili. Ignavia e rapacità le accuse
principali al loro indirizzo, benché non manchino i monaci appassionati alle
idee dei filosofi. Fallita la riforma del 1776, che aveva cercato di porre
rimedio alla decadenza dei costumi e allo spopolamento dei conventi, due
anni dopo si decise di chiuderne 426, sopprimendo 8 ordini religiosi. Tra il
1768 e l'89 la crisi delle vocazioni fu notevolissima. Ciononostante la
chiesa continuava a proclamare l'eternità dei voti monastici e lo Stato ne
sorvegliava l'adempimento: se i religiosi abbandonavano il convento, vi
tornavano accompagnati dalla forza pubblica.
Tutto il clero era esente dai gravami di carattere municipale e da qualunque
imposta fiscale regia, diretta e indiretta. I beni della chiesa non pagavano
alcun diritto neppure nei trasferimenti di proprietà. Ogni quinquennio le
assemblee generali di questo ordine votavano un contributo fiscale detto
"donazione gratuita" da versare nelle casse dello Stato con rate annuali: si
trattava, in sostanza, del 2% di tutti gli introiti, l' entità effettiva dei
quali però era sconosciuta al governo (da notare che la percentuale era
stata decisa nel 1561 e da allora, malgrado l'esorbitante rialzo delle altre
imposte, era rimasta immutata). Oltre a ciò il clero possedeva propri
tribunali, da cui dipendevano non solo tutti gli ecclesiastici, ma anche i
laici per cause riguardanti la religione (vedi ad es. la legislazione
matrimoniale). Gli attentati alla fede, la bestemmia e il sacrilegio
potevano essere puniti con la morte.
In questo contesto va però distinta la situazione del basso clero (curati,
vicari e cappellani), che è escluso completamente dalla carriera episcopale
e che trae il proprio sostentamento dalla modesta "congrua" (porzione della
decima) e dai redditi, più o meno variabili, inerenti all'officiatura delle
varie cerimonie religiose (il "casuale"). Il più delle volte i sacerdoti di
campagna, reclutati fra la piccola borghesia rurale, vivono in condizioni
più precarie rispetto ai loro colleghi di città, reclutati fra la media
borghesia (assenti, fra i preti, persone di origine operaia o contadina, in
quanto i candidati al sacerdozio dovevano dimostrare all'atto
dell'ordinazione di avere una rendita patrimoniale). Numerosi sono i preti
"clientelari", che vanno in cerca di messe senza appartenere ad alcuna
parrocchia e non pochi sono quelli che vivono di un modesto beneficio senza
esercitare alcuna vera attività pastorale.
In campagna il clero rappresenta buona parte della cultura: tiene lo stato
civile, registrando battesimi, matrimoni e decessi; simpatizza, senza
esporsi troppo, per le idee dei filosofi, che vanno peraltro facendosi
strada fra categorie sociali tendenti all'agnosticismo: borghesia rurale,
funzionari locali, artigiani, vecchi soldati, bettolieri, ecc. Il prete è
anche diffusore delle ordinanze reali, ausiliario della giustizia, banditore
di vendite immobiliari. I beni della parrocchia sono il presbiterio, la
scuola, il cimitero e tutti gli immobili lasciati in eredità da fedeli pii e
timorosi. Qualunque forma di manutenzione dell'edificio adibito al culto è a
carico dei parrocchiani.
In città (si pensi p.es. a Nancy) i contrasti fra alto e basso clero sono
più sentiti: qui infatti le esigenze democratiche ed egualitarie vengono
avanzate con più decisione. Nel 1779 i parroci organizzati in una sorta di
'sindacato ecclesiastico' già rivendicavano maggiori 'salari'. H. Reymond,
loro rappresentante, nell'opera del 1776 intitolata Droits des curés et des
paroisses sous le double rapport spirituel et temporel, aveva proposto di
creare a Parigi una Camera consultiva del basso clero, ma l'Assemblea del
clero ottenne nel 1782 da Luigi XVI la proibizione per i parroci di "formare
tra loro alcuna associazione e di rendere deliberazioni senza aver ottenuto
espressa autorizzazione". Nonostante ciò, detto movimento para-sindacale,
col passar del tempo, limitandosi sempre meno alla mera questione della
congrua, cominciò a pretendere una riforma generale di tutta
l'amministrazione dei beni mobili e immobili della chiesa, onde favorire la
situazione delle diocesi e delle parrocchie più povere (cfr l'opera dei
fratelli Delacour, Voeux de la raison pour le paroisses, les curés, les
pauvres, à Louis XVI dans l'Assemblée des Notables). Reymond, che si
ispirava al richerismo e che diventerà vescovo costituzionale di Grenoble,
presumeva di fondare il diritto dei curati sulla storia dei primi secoli
della chiesa, sulla tradizione dei concili e sulla dottrina dei Padri.
Grazie anche alla sua attività, si andava lentamente formando una sorta di
partito gallicano-giansenista, che mentre rivendicava un maggior potere dei
preti rispetto ai vescovi, trovava anche molti di questi disposti a lottare
contro i 'colleghi' filoromani contrari a una maggiore indipendenza dalla
Santa sede.
Stante questa situazione non ci si deve stupire che dalle masse popolari la
religione fosse vissuta con molto conformismo e poca convinzione. Non si
trattava solo di vocazioni in forte calo, ma anche -come le più recenti
indagini hanno messo in luce- di scarsa partecipazione nella pratica dei
sacramenti e in particolare durante le festività pasquali, di forte
diminuzione delle offerte per le messe a suffragio, di aumento delle nascite
illegittime, di bassa tiratura dei libri a carattere religioso, ecc. Dopo il
1760 inizia anche la contraccezione, qui da segnalare più che altro per
l'avversione ch'essa suscita ancora oggi nell'ambito di certo cattolicesimo.
E se ciò non bastasse, si potrebbe anche ricordare la solenne processione
del Santo sacramento per le vie di Versailles, in occasione della
convocazione degli Stati generali: col cero in mano incedevano, dietro gli
ordini privilegiati, gli esponenti del Terzo stato, ovvero i Mirabeau e i
Robespierre!
Ma l'aspetto pacifico e tranquillo della vita religiosa del '700, dopo le
aspre battaglie del secolo precedente, non deve essere visto come un indice
della scarsa conflittualità esistente nell'ambito della chiesa. Qui bisogna
sfatare uno dei miti di certa storiografia cattolica contemporanea, secondo
cui "nulla lasciava presagire...che la rivoluzione che incominciava avrebbe
costituito per la chiesa di Francia il periodo più drammatico della sua
storia"(così si legge nel vol.VIII/1 della monumentale Storia della chiesa
curata da H. Jedin, ed. Jaca Book). Col che, in pratica, o si fa una lode
alla storia e all'esistenza degli uomini, le cui vicende risultano sempre
molto più complesse e imprevedibili di tutte le ipotesi o le teorie che si
possono elaborare (ma in questo caso il merito va alle masse popolari);
oppure si tende a giustificare l'inerzia e lo status quo delle classi
dominanti, le quali naturalmente non potevano né volevano prevedere cose
funeste per le loro posizioni privilegiate (ma in quest'altro caso
bisognerebbe precisare che da parte delle masse rivoluzionarie forse si
immaginarono cose ancora più radicali di quelle che poi effettivamente
accaddero, cose che solo per l'immaturità dei tempi, la debolezza teorica e
pratica delle stesse masse e dei leaders alla loro testa non poterono essere
realizzate).
In effetti, se non si considera che 'molte cose' già da tempo lasciavano
facilmente intuire quel che sarebbe successo, si è poi portati a credere che
la rivoluzione non fu il frutto spontaneo di una crisi di enormi
proporzioni, l'esito più maturo di ingiustizie accumulatesi nel corso di
vari secoli, ma piuttosto una sorta di 'golpe' tramato da classi e gruppi
sociali desiderosi di prendere il posto degli ordini privilegiati: un colpo
di stato le cui motivazioni andrebbero ricercate nei sentimenti di invidia,
gelosia e rancore. Questa, appunto, la tesi sostenuta dall'ex-gesuita A.
Barruel, allora profugo in esilio, che con le sue Memorie per servire alla
storia del giacobinismo fornì ampio materiale alla successiva storiografia
cattolica e borghese controrivoluzionaria. Barruel era convinto che la
rivoluzione fosse il risultato di una cospirazione contro il cristianesimo,
la monarchia e la proprietà dei ceti privilegiati, tramata e condotta
dall'illuminismo ateo, dalla massoneria e dalla setta para-socialista degli
Illuminati, diffusasi in Baviera tra il 1776 e l'86. I giacobini non
avrebbero fatto altro che sintetizzare queste tre correnti, che,
rispettivamente, sul piano morale rappresentavano l'empietà, la ribellione e
l'anarchia. Da notare però che il gesuita afferma che i militanti giacobini
erano almeno 300.000 e i simpatizzanti più o meno attivi, sparsi in tutta la
Francia, almeno 2 milioni!
E' evidente, da questo punto di vista, che la rivoluzione poteva essere
avvertita come un dramma solo dall'alto clero. Viceversa, dal punto di vista
delle masse, anche di quelle tradizionalmente religiose, la rivoluzione non
poteva essere considerata che come un evento liberatorio, emancipativo, come
una vera e propria catarsi. E il fatto che il basso clero sia stato subito
appoggiato dai parlamentari sin dalle prime sedute degli Stati generali, è
appunto indicativo di quale diversa sensibilità caratterizzasse i ceti
sociali meno favoriti.
E' assai banale quindi sostenere che la chiesa di Francia, se avesse voluto,
avrebbe potuto riformarsi da sola, senza aspettare l'ondata rivoluzionaria
della borghesia o sostenere addirittura, con Daniel Rops, che la rivoluzione
avrebbe potuto essere più "umana" se fosse stata più "cristiana" (in La
chiesa delle rivoluzioni, ed. Marietti). come era strutturata, non poteva
fare alcunché di veramente innovativo. Essa, come la monarchia e soprattutto
l'aristocrazia, rifletteva rapporti socio-economici che le impedivano
qualunque rinnovamento democratico. Negli stessi cahiers de doléances,
prodotti in vista degli Stati generali, appare in modo assai chiaro quanto
fosse vasta e profonda la crisi della chiesa francese, e quanto fossero
pesanti le accuse contro i privilegi e gli abusi del clero, contro le decime
e la decadenza del monachesimo. Al massimo dunque essa avrebbe potuto
rendere meno catastrofico il terremoto che la sconvolse, ma in nessun modo
avrebbe potuto evitarlo. A certi livelli (si pensi al basso clero
intellettuale) poteva anche affrettarne la venuta servendosi della stessa
religione, ma non senza l'aiuto, in quel momento, della nuova classe
emergente: la borghesia.
IL 10 AGOSTO E LA SCRISTIANIZZAZIONE
Caduto il trono, sembrava che l'ora del Quarto stato, cioè dei sanculotti
fosse giunta. Ma il potere restava nelle mani di un partito della borghesia
agiata: i girondini. Di fronte alla minaccia di un'occupazione straniera, di
fronte alla possibilità concreta di costringere la borghesia ad accettare
riforme più radicali e più coerenti con gli ideali rivoluzionari, qualsiasi
tentativo di sottrarsi al proprio dovere di patriota e di cittadino
democratico rischiava di passare per un atto controrivoluzionario. Se prima
del 10 agosto 1792 l'atteggiamento del clero refrattario poteva in qualche
modo essere giustificato, ora non può più esserlo. Gli stessi foglianti, che
in parlamento rappresentano la destra, rivendicano la pace religiosa più che
altro con intenti restaurativi.
Già il 17 ottobre 1791 l'Assemblea legislativa aveva deciso di chiudere le
due grandi scuole di teologia, il collegio di Navarra e la Sorbona, i cui
maestri, a maggioranza, avevano rifiutato il giuramento. Fouchet, vescovo
costituzionale, richiese la soppressione di qualsiasi pensione e di
qualsiasi trattamento economico per tutti i preti ostili al giuramento. Il
29 novembre l'Assemblea era stata costretta ad adottare misure d'urgenza per
reprimere i tumulti provocati dai refrattari nei dipartimenti dell'ovest (ad
Avignone era stato ucciso un rivoluzionario). Il decreto, cui il re oppose
il veto, esigeva da tutti i preti un nuovo giuramento civico: in caso
contrario sarebbero stati ritenuti "sospetti di rivolta contro la legge e di
ribellione alla patria".
Era infatti inevitabile che il pericolo proveniente dalle regioni di
frontiera portasse a supporre rapporti di collusione dei preti refrattari
con la reazione europea, e le prove non mancavano. Quando poi la guerra con
l'Austria evidenziò in un primo momento i forti limiti dell'esercito
francesi, immediatamente venne lanciata l'accusa di "tradimento". Si diffuse
così la voce che i refrattari, pur non parlando pubblicamente contro la
Costituzione, lo facessero in privato, servendosi del confessionale: la
propaganda di quest'ultimi, svolta soprattutto tra le famiglie contadine, si
serviva dell'idea che i preti giurati erano scismatici, per cui i loro
sacramenti non erano validi. La conseguenza fu che il 27 maggio 1792
l'Assemblea, che da Costituente s'era trasformata in Legislativa, autorizzò
i direttori dipartimentali a deportare in Guyana, su domanda di 20 cittadini
attivi o in seguito a una denuncia, ogni prete che non avesse giurato la
Costituzione civile. Un provvedimento davvero pesante: chi più lo pretese,
tra i vescovi presenti in aula, fu Claude Fouchet.
Dopo il crollo della monarchia, il 10 agosto, le repressioni si diffusero a
macchia d'olio. Il 16 agosto, la Comune insurrezionale di Parigi (l'organo
che determinò, in ultima istanza, la deposizione del re) proibì le
processioni e ogni esteriorità di culto. Il 18 vengono sciolte le
congregazioni maschili e femminili socialmente utili, che la Costituente
aveva risparmiato, e si rinnova al clero il divieto di portare l'abito
talare al di fuori dell'esercizio ministeriale. Il 26 l'Assemblea dà 15
giorni di tempo ai refrattari per abbandonare la Francia, minacciandoli di
deportazione. Danton sostiene la necessità di adottare il sistema delle
"visite domiciliari" per requisire le armi e arrestare i traditori, preti o
nobili che siano. Il 2 settembre, nel timore che i "traditori della patria"
possano organizzare -e già lo vanno facendo- una rivolta carceraria,
approfittando della crisi generale della rivoluzione e in particolare della
presenza prussiana a Verdun, vengono giustiziate circa 1.400 persone, fra
cui più di 200 preti(1). Il 20 settembre la Convenzione, succeduta a
un'Assemblea legislativa screditatasi con i tragici fatti del Campo di
Marte, sancisce per le municipalità, dopo aver decretato la Repubblica, la
laicizzazione dello stato civile e il divieto per i sacerdoti di tenere
qualunque registro: battesimi, matrimoni e funerali religiosi non avrebbero
più avuto alcun valore legale. Questa la prima vera tappa sulla via della
separazione fra Stato e chiesa. Nello stesso giorno venne istituito il
divorzio.
Per le esigenze della guerra si cominciarono a requisire le campane e le
argenterie delle chiese anche ai preti costituzionali, i quali chiedendo di
evitare una rigorosa applicazione della legge contro i refrattari e
simpatizzando spesso per il federalismo, rischiavano di perdere le simpatie
dei repubblicani. Significativa, a tale proposito, è una lettera del vescovo
giurato Ch. de la Font de Savine, indirizzata ai ministro dell'Interno,
Roland, ove si manifesta l'idea, assai lungimirante, che "anche la
Costituzione civile del clero sta per finire. E' evidente che lo Stato, come
conseguenza necessaria dei suoi principi, diventerà del tutto estraneo alle
cose della religione; che lo stipendio attribuito ai ministri cattolici sarà
considerato nient'altro che la corresponsione di una pensione e un
indennizzo simbolico dei beni che possedevano; che le leggi di tolleranza
totale sono incompatibili col privilegio di una spesa pubblica accordata
esclusivamente ad una confessione, così come non avrà senso una
regolamentazione della gerarchia determinata dalle leggi. La Convenzione
abrogherà inevitabilmente questa Costituzione". Di qui la richiesta di non
punire i vescovi che non l'avevano accettata. Ma il ministro dell'Interno
non poteva, dopo il '10 agosto', permettersi il lusso di entrare nel merito
di queste pur giuste osservazioni, per cui intimò al vescovo, con una
risposta molto secca e burocratica, di continuare a vigilare
sull'applicazione della legge. In pratica la chiesa costituzionale era
diventata una mera appendice funzionale dello Stato. Essa stessa, d'altra
parte, aveva contribuito a questa sua progressiva involuzione ostacolando la
laicizzazione della società civile.
Impossibilitati a ottenere con la forza dei decreti una chiesa fedele a uno
Stato progressista, i costituenti cercavano ora di costringerla con la forza
delle armi. 30.000 ecclesiastici scelsero la strada dell'emigrazione,
soprattutto verso l'Inghilterra e gli stati pontifici, ove l'accoglienza era
migliore, sebbene nei territori della chiesa venisse loro imposto un
giuramento di obbedienza alle bolle papali contro giansenismo e
gallicanesimo. Correnti quest'ultime per le quali invece la Spagna, a
differenza dell'Austria, impedì loro di dedicarsi a qualunque attività
religiosa, tranne la celebrazione della messa. In Svizzera e in Germania gli
esuli vivranno in ristrettezze, mentre addirittura dall'Olanda e dal Belgio
saranno cacciati dopo l'occupazione francese.
Purtroppo la rivoluzione ancora non era in grado di distinguere il cittadino
dal credente: se prima del 10 agosto non era riuscita a farlo, dopo, con
l'eversione in atto da affrontare, non si poteva neanche immaginarlo. Al
contrario, essa cercava d'imporre alla coscienza dei cattolici un'immagine
di 'cittadino-credente' conforme agli ideali rivoluzionari, alla volontà del
governo. Non riuscendo a delimitare la partecipazione di tutti i credenti
(cattolici e riformati, giurati e refrattari) alle questioni più
strettamente sociali ed economiche, la rivoluzione inevitabilmente si
sentiva indotta ad estendere le sue competenze anche alle questioni che più
da vicino riguardavano l'ideologia religiosa (come ad es. il matrimonio dei
preti). Se a questo si aggiunge -come vuole D. Guérin- che la borghesia,
inizialmente, si servì del terrore per bloccare il potenziale rivoluzionario
del proletariato lanciandolo contro il clero, si comprende in definitiva
perché lo Stato, convinto della giustezza dei suoi principi, finisse con
l'obbligare la chiesa non solo a rispettare le leggi ma anche a modificare
le proprie. Cioè si comprende perché da un lato i costituenti subordinavano
la politica alla loro ideologia, mentre dall'altro impedivano alla società
di esprimere ideologie diverse: il che peraltro contraddiceva al dettato
della Dichiarazione dei diritti, secondo cui "Nessuno può essere
perseguitato per le sue opinioni, anche religiose".
La Convenzione puntò tutte le sue carte sulla realizzazione del fine
strategico e dimenticò i fini intermedi, quelli che si ottengono con la
tattica. Quando poi si ha la pretesa di realizzare determinati obiettivi
senza l'appoggio sicuro e concreto delle masse; quando la crisi economica
invece di risolversi si acuisce, ecco che forze controrivoluzionarie (in
questo caso i preti refrattari) possono facilmente sfruttare i sentimenti
religiosi della gente meno cosciente e più marginale, indirizzandoli verso
una protesta sociale e politica destabilizzante. Fu appunto questo il caso
della rivolta in Vandea, dove -come disse il vescovo costituzionale
Grégoire- "preti scellerati in nome del cielo predicano il massacro".
Scoppiata nel marzo 1793, prendendo a pretesto il rifiuto della coscrizione
obbligatoria per fronteggiare l'offensiva austro-prussiana, questa
insurrezione, in cui vennero coinvolti popolani dalla mentalità rozza e
primitiva ma con esigenze reali di democratizzazione, e che trovò un certo
seguito in altre regioni occidentali della Francia, dimostrò assai
chiaramente come provvedimenti giusti, privi di consenso popolare
sufficientemente vasto, possono ben presto trasformarsi in azioni sbagliate
e controproducenti. Tanto che ancora oggi la storiografia cattolica vede in
questa guerra civile il paradigma del vero contenuto dei rapporti che la
rivoluzione voleva stabilire con la religione. Lo storico P. Chaunu l'ha
paragonata a un genocidio di tipo 'nazista' e, come lui, altri storici hanno
espresso giudizi fortemente negativi (ad es. R. Secher, C. Tilly, J. Huguet,
J.C. Martin, R. Dupuy). Partendo da pregiudizi antirivoluzionari, è senza
dubbio difficile accettare l'idea che durante una rivoluzione possano essere
compiuti degli abusi (in questo caso peraltro i motivi erano gravissimi) e
che in tali abusi la ragione non stia tutta dalla parte di chi li subisce
(come noto la guerra civile scoppiò quando all'arruolamento coatto i
contadini inferociti di Machecoul risposero massacrando centinaia di
patrioti repubblicani).E comunque sostenere che proprio in nome di questi
abusi la rivoluzione non andava fatta, significa sconfessare non uno ma
tutti gli ideali che l'hanno generata, significa cioè mettersi dalla parte
di chi, ancora oggi, non vuole alcun mutamento sociale e politico.
La dura repressione subìta in questo frangente dai refrattari, ha potuto
facilmente offrire allo storico Mezzadri (più 'prete' che 'storico' in
verità) l'occasione per sostenere che i 374 'martiri' finora riconosciuti e
gli altri 500 in corso di beatificazione(2) "rinnovano le pagine epiche del
cristianesimo primitivo", proprio quello stesso cristianesimo che anche i
costituzionali erano convinti di rinnovare! A dispetto di una qualunque
indagine storica che sia un po' seria, la storiografia cattolica non ha
scrupoli nel mettere sullo stesso piano cristiani progressisti e
conservatori, governi rivoluzionari e reazionari. Questo perchè rifiuta
categoricamente di vedere in tale esplosione di protesta motivi di carattere
socio-economico. Sia come sia, "l'insurrezione della Vandea - ha scritto
Soboul- costituì la manifestazione più pericolosa di tutte le resistenze
incontrate dalla rivoluzione e del malcontento delle masse contadine". Essa
contribuì fortemente ad accelerare la caduta della Gironda.
Una settimana dopo lo scoppio di questa rivolta integralista e
filomonarchica, il governo girondino aveva decretato che i refrattari
rimasti in patria sarebbero stati giudicati da un tribunale militare e
condannati a morte nel giro di 24 ore. Ma ormai la Gironda non era più in
grado di scongiurare i pericoli che minacciavano il paese (sconfitte
militari in Belgio e sul Reno, scarsità di viveri, moneta svalutata,
disoccupazione in ascesa). I girondini gridavano alla dittatura ma, sotto la
spinta della pressione popolare, il potere venne preso dai montagnardi,
espressione della piccola borghesia commerciale e artigiana (giugno 1793).
I compiti che il nuovo governo dovette affrontare erano enormi: alla rivolta
vandeana s'era aggiunta quella federalista(3) e l'invasione straniera, per
non parlare della crisi economica che continuava a peggiorare. Arrabbiati,
hébertisti e giacobini si misero quasi subito ad accusare i montagnardi di
scarsa sensibilità per le necessità dei sanculotti (il popolo minuto). Dopo
pochi mesi infatti, le forti esigenze economiche portarono quest'ultimi al
trionfo politico e al tentativo di organizzare una dittatura giacobina di
salute pubblica. Nasce così il Terrore e all'interno di questa campagna si
scatena un processo di scristianizzazione che dilaga in tutto il paese.
Principale fautore dell'iniziativa fu P.G. Chaumette, del partito
hébertista.
La scristianizzazione fu determinata non solo dalle profonde radici
anticlericali sottese alla politica religiosa che il governo rivoluzionari
aveva manifestato sin dallo scisma della chiesa costituzionale, ma anche dal
desiderio dei sanculotti di por fine una volta per sempre (con metodi senza
dubbio discutibili ma temporaneamente efficaci) alle mire
controrivoluzionarie dei refrattari e allo schieramento moderato di molti
costituzionali favorevoli alla Gironda e al federalismo. Nel contempo
emergevano esigenze di ordine pratico, come la ricerca dei metalli preziosi
per sostenere gli assegnati e del bronzo delle campane per costruire
cannoni. Va detto inoltre che si stava facendo sempre più strada la volontà
di organizzare una sorta di 'culto civico', puramente laico, la cui festa
dell'Unità e Indivisibilità del 10 agosto 1793 sarebbe stato l'esempio più
significativo, prima della proposta di Robespierre d'istituire il culto
dell'Essere Supremo.
Se almeno su un aspetto borghesia rivoluzionaria e avanguardia popolare
andavano d'accordo era senz'altro questo: la declericalizzazione della vita
quotidiana. Forse anzi si può dire che buona parte dei rivoluzionari
(incluso Robespierre) si illuse di poter risolvere i molti problemi sociali
di quel tempo cercando una convergenza ideale fra borghesia e sanculotti sul
terreno dell'anticlericalismo
La scristianizzazione vera e propria si affermò all'inizio nei dipartimenti,
sotto la spinta di alcuni rappresentanti della Convenzione, mandati in
missione speciale nelle province in rivolta, ma la Convenzione non fece
nulla per impedirla o circoscriverla. La storiografia cattolica è solita
dire che la scristianizzazione fu opera soprattutto delle frange estremiste
della borghesia, che volevano offrire un diversivo al proletariato nei
confronti del quale non riuscivano a garantire le riforme richieste e
promesse. Tale giudizio è senz'altro parziale e riduttivo, sia perché non si
tiene conto dell'effettivo pericolo causato alla nazione dalla lotta
eversiva dei preti refrattari a fianco dei nobili e dei monarchici, sia
perché non si considera che uno spirito ideologico fortemente anticlericale
caratterizzava i rivoluzionari nella loro globalità, tanto che -e lo
vedremo- la reazione termidoriana non sarà, agli inizi, meno intollerante
della dittatura giacobina in materia di libertà religiosa. Considerato però
astrattamente, il giudizio pesca nel vero, e lo dimostra il fatto che di lì
a poco lo stesso Robespierre si renderà conto che la forte campagna
anticristiana rischiava di conseguire un effetto opposto a quello voluto, e
cioè un ulteriore progresso della resistenza cattolica conservatrice, fino
allo sbocco controrivoluzionario registratosi in Vandea.
In sostanza, di quale campagna si trattò? Anzitutto si decise, nell'ottobre
1793, l'adozione del calendario rivoluzionario, che divideva il mese in tre
decadi, facendo partire l'anno dal 22 settembre 1792, cioè dal giorno
successivo alla proclamazione della repubblica; in secondo luogo, si
sostituirono, con feste civiche e con il culto dei martiri della libertà (il
primo dei quali era Marat(4)), il tradizionale culto dei santi e le feste
religiose del calendario gregoriano. Ciò implicava, per la Convenzione,
l'eliminazione di tutte le insegne religiose che si trovavano sulle strade,
nelle piazze e nei luoghi pubblici, nonché la sostituzione di tutti i nomi,
comuni e propri, che ricordassero le tradizioni cristiane, e la
sconsacrazione di tutti gli edifici di culto (a volte in verità anche la
loro distruzione, tanto che il vescovo Grégoire si sentì in dovere di
protestare vivacemente: a lui peraltro si deve il neologismo di
"vandalismo").
Oltre a ciò, si recepì positivamente la sentenza di un tribunale del
distretto di Langeais, che imponeva a un prete giurato di celebrare il
sacramento del matrimonio a un prete già sposato in civile (11 settembre
1793). Il tribunale - si legge in essa- considerava "immorale e impolitico
consentire ai ministri del culto cattolico di rifiutare arbitrariamente la
consacrazione del matrimonio -soprattutto ai preti che si sposano- col
pretesto che il matrimonio è incompatibile con l'ordine". Detto altrimenti:
"I ministri religiosi non debbono porsi come giudici della verità della
professione di chi si dice appartenente alla loro confessione". Il che in
pratica significava che la chiesa costituzionale doveva sentirsi costretta a
celebrare le nozze anche ai sacerdoti, ai religiosi e ai divorziati che, pur
privi di alcuna dispensa, lo richiedessero. Disposizione, questa, che, a
giudizio del Rops, portava dritta dritta al "crollo delle fondamenta della
società cristiana"!
Non è però assolutamente vero -come vuole Dansette- che "la rivoluzione
sottomise lo spirituale al temporale, mentre l'antico regime conformava il
temporale allo spirituale". La sottomissione e la conformazione dell'uno
all'altro erano praticate da entrambi i regimi: la differenza stava nel
fatto che la rivoluzione era progressista e l'ancien régime conservatore (ad
es. quest'ultimo considerava il divieto del divorzio valido anche per lo
stato civile, quella invece pretendeva di autorizzare il divorzio anche per
lo stato religioso). Gli eventi successivi alla rivoluzione si sono poi
incaricati di dimostrare che una sottomissione e una conformazione di questo
genere, neppure il regime politico più progressista è in grado di
giustificarle.
Ma forse l'iniziativa più interessante, in questo periodo, sul piano dei
riti rivoluzionari, fu quella d'istituire il culto della Ragione, che è una
conseguenza dell'operazione dello "spretamento". L'idea, promossa dai
circoli giacobini e dalla comune di Parigi (in particolare da Hébert, J.B.
Cloots, barone renano di origine olandese, e Pereira, ebreo portoghese di
Amsterdam), avrebbe dovuto, stando al progetto originario, tenere uniti i
credenti di ogni confessione in un minimo di fede deista. Tuttavia, quelli
che la misero in pratica (soprattutto Chaumette) le impressero una forma
nettamente ateista, col proposito di liquidare la chiesa costituzionale,
tanto che ad un certo punto gli edifici ecclesiastici vennero trasformati in
templi della dea Ragione e della Libertà, e si propose la fine delle
sovvenzioni statali al clero. "Non ci sono più preti, non ci sono più dèi
all'infuori di quelli che la natura ci offre", così Chaumette giustificava
l'iniziativa. Questi giacobini estremisti emanarono una serie di decreti coi
quali si intimava a tutti i chierici di abiurare al loro sacerdozio.
L'arcivescovo di Parigi, J.B. Gobel, diede l'esempio di questa solenne
apostasia, pronunciando un famoso discorso alle Tuileries. Per chi, come
lui, aveva seguito con passione e avvedutezza (con "opportunismo", direbbe
lo storico cattolico) le vicende rivoluzionarie sin dalle prime battute,
mantenendosi disponibile a rivedere le proprie posizioni teoriche e
politiche, l'abiura del cattolicesimo appariva come una logica e naturale
conseguenza. "Ora che la libertà avanza a grandi passi -egli disse-, ora che
non deve esistere altro culto nazionale che quello della libertà e
dell'uguaglianza, io rinuncio alle funzioni di ministro del culto
cattolico". Al che il presidente dell'Assemblea rispose che ora i ministri
non dovevano avere altro desiderio "che quello di predicare la pratica delle
virtù sociali e morali". Una convinzione, questa, senza dubbio degna di
rilievo, ma patrimonio purtroppo solo di una ristretta minoranza di
intellettuali progressisti (gli abdicatari furono tra i 10 e i 20.000), la
cui fretta di volerla imporre alla nazione intera non poteva portare che a
risultati disastrosi. Lo stesso Gobel, che pur in carcere ritratterà
l'abiura, finirà coinvolto e vittima di questa intransigenza ideologica in
occasione del processo per "empietà" e "ateismo" a Chaumette.
In una seduta del club giacobino, Robespierre accusò gli hébertisti d'essere
"assoldati dalle corti straniere per risvegliare il fanatismo". Sulla base
di una sua proposta la Convenzione decretò nuovamente il 6 dicembre 1793 la
libertà dei culti, riservandosi il diritto di colpire "tutti coloro che
tentassero di abusare del pretesto della religione per compromettere la
causa della libertà". Ma pochi giorni dopo essa affermò di non voler porre
rimedio alle misure prese in precedenza, per cui la scristianizzazione
continuerà almeno sino al 7 maggio 1794, allorché la Convenzione deciderà di
adottare il culto dell'Essere Supremo. La libertà dei culti, questa volta,
verrà affermata solennemente, con la riserva, legittima, che "ogni riunione
contraria all'ordine pubblico sarà repressa". L'adozione di questo nuovo
culto, conforme alla filosofia rousseauviava del leader giacobino, marciò di
pari passo con le vittorie della rivoluzione sul movimento federalista,
vandeano e straniero. Questo fu il momento migliore della rivoluzione, ma
anche quello più breve.
(1) Di queste vittime, molte delle quali avevano preannunciato il replay
della notte di s.Bartolomeo contro i rivoluzionari, 121 sono state
beatificate nel 1926.
(2) Per riconoscere la "gloria del martirio", occorre accertare i due
elementi essenziali: l'odium fidei e l'accettazione della morte per motivi
riconducibili alla fede.
(3) Insurrezione borghese filo-girondina scoppiata per motivi politici ed
economici a Lione, Tolone e in 60 dipartimenti.
(4) Marat viene considerato dallo storico Rogier, nell'opera già citata, un
"pericoloso psicopatico", Chaumette un "degenerato", Gobel un "servile",
Robespierre un "nevrotico", Hèbert un "sadico e crudele"...Ce n'è insomma
per tutti!
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