LE VICENDE LEGATE ALLA COSTITUZIONE CIVILE DEL CLERO
Poco tempo dopo la soppressione degli ordini religiosi, a conferma che il
governo rivoluzionario era intenzionato a servirsi della religione come
prima se ne serviva l'ancien régime, cioè per confermare il sistema politico
vigente, si obbligarono tutti i preti a leggere e commentare dai pulpiti
delle loro chiese le decisioni della Costituente. Cosa che venne fatta, a
dire il vero, senza troppe difficoltà. Anzi, nel Midì il problema che il
governo doveva affrontare era l'opposto, ovvero quello di come impedire ai
preti cattolici di considerarsi gli unici autorizzati a svolgere tale
propaganda. L'Assemblea infatti si era già espressa a favore della libertà
di culto e cercava di non discriminare ugonotti ed ebrei.
Conformemente allo spirito democratico della Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e alle molte misure politico-giuridiche prese dall'Assemblea, si
approvò nell'estate del '90 l'importantissima Costituzione civile del clero,
con la quale, in aperta violazione del Concordato del 1516:
1) si riorganizzava la distribuzione geografica delle diocesi e delle
parrocchie, facendole coincidere con le nuove circoscrizioni amministrative
(il loro numero ovviamente diminuiva di parecchio, tanto che d'ora in poi
tutti i vescovi della nazione vengono posti sotto l'autorità di 10
metropoliti e il numero massimo di fedeli per costituire una parrocchia
diventa di 6.000);
2) si regolamentava il trattamento economico degli ecclesiastici, che
diventano così funzionari stipendiati dallo Stato, tenuti a esercitare il
ministero gratuitamente (qui gli uffici riconosciuti sono solo sette:
metropolita, vescovo, parroco e quattro tipi di vicari);
3) infine si stabiliva il nuovo sistema di elezione popolare dei vescovi e
dei sacerdoti, accogliendo le richieste del partito gallicano-giansenista di
eleggere vescovi e parroci, rispettivamente, da assemblee dipartimentali e
distrettuali, composte da cittadini attivi (inclusi ebrei e protestanti) che
pagavano tasse pari a dieci giorni di lavoro. Poteva essere eletto vescovo
solo chi avesse esercitato il ministero pastorale per quindici anni entro i
confini della diocesi, parroco chi l'aveva svolto per almeno cinque anni.
In sostanza i vescovi dovevano ricevere l'istituzione canonica dal
metropolita del loro dipartimento (se il metropolita mancava era sufficiente
il vescovo più anziano, se era contrario si poteva ricorrere a due notai).
Al papa si riconosceva un semplice primato d'onore, ovvero il diritto di
essere informato della nuova elezione. I vescovi erano altresì obbligati a
risiedere in diocesi e i loro atti diventavano legittimi solo se suffragati
dal consenso del consiglio episcopale, ordinario e permanente, formato dai
rappresentanti dei parroci (quest'ultimi potevano scegliere i loro vicari
sulla base di una lista ammessa dal vescovo).
Come si può notare, il tentativo era quello di democratizzare la vita della
chiesa cattolica, prendendo come modelli ampi aspetti delle confessioni
protestante, anglicana e ortodossa. In ciò vi era pure l'ambizione di
riportare il cattolicesimo francese alle origini del cristianesimo, cioè al
tempo in cui la vita religiosa ruotava attorno alla figura del vescovo, la
cui credibilità e legittimità dipendeva sempre e comunque ex consensu
ecclesiae, mentre a livello nazionale il metropolita svolgeva funzioni di
indirizzo e coordinamento, senza pretendere alcun riconoscimento
giurisdizionale particolare. Una strutturazione ecclesiastica assai
somigliante a quella ortodossa dell'est europeo, che certo molto più della
cattolica era rimasta legata all'ideale di cristianità dei Padri. Spinte
insomma da idee gianseniste (cioè antipapali), da idee presbiteriane (cioè
antiepiscopali) e da idee richeriste, tendenti a porre il potere
ecclesiastico sotto il controllo di quello politico, le forze
gallicane -rappresentate da avvocati e giuristi di fama, come Treilhard,
Lanjuinais, Martineau, Durand de Maillane- cercarono di superare il
Concordato del 1516, prospettando una chiesa nazionale indipendente da Roma
e altrettanto vincolata allo Stato francese.
L'Assemblea nazionale promulgò la Costituzione dopo aver ascoltato il
rapporto del comitato ecclesiastico, ma quest'ultimo forse non avrebbe
approvato il progetto così in fretta se l'Assemblea stessa, in un secondo
momento, non l'avesse costretto ad accettare una quindicina di riformatori
convinti. L'art. su cui il dissenso era molto forte riguardava appunto
quello del conferimento delle cariche. L'alto clero, ritenendosi un corpo
politico, non voleva perdere i suoi legami internazionali con lo stato
pontificio, soprattutto in considerazione del fatto ch'esso, nella sua
grande maggioranza, s'era piegato alle esigenze della rivoluzione più che
altro per necessità e quieto vivere.
Guidati da Boisgelin, arcivescovo d'Aix, 30 dei 32 vescovi deputati
all'Assemblea (i dissenzienti erano Talleyrand e Gobel), decisero di
pubblicare una Esposizione dei principi sulla Costituzione civile del clero,
in cui protestavano contro una modifica dello statuto della chiesa
cattolica, avvenuta senza negoziato con il papato o per lo meno senza la
possibilità di convocare i sinodi provinciali se non addirittura un concilio
nazionale. Dopo qualche settimana i vescovi firmatari erano diventati 93. Il
polemista Barruel aveva consigliato, ma invano, un compromesso: che il papa
potesse delegare ai metropoliti il diritto di confermare i vescovi. Questo
per lui significava 'battezzare' la Costituzione del clero.
La rivendicazione dell'episcopato a una piena autonomia disciplinare era
senz'altro giustificata, anche perché esso aveva esplicitamente dichiarato
che l'opposizione alla grande riforma non implicava quella alla rivoluzione.
Ma la Costituente, limitata da scelte di natura "classista", in quanto
prevalentemente composta da ceti borghesi, non voleva sentir parlare di
concilio nazionale. In gioco non era soltanto l'esigenza del governo di
controllare gli effetti politici di determinate decisioni innovative prese
in materia di religione, ma anche l'esigenza di indirizzare tali decisioni
verso un certo modo di concepire e vivere la religione.
In altre parole, l'Assemblea rifiutò l'idea di convocare un concilio non
solo perché temeva che questo venisse strumentalizzato per fini eversivi e
destabilizzanti (il che però non giustifica il rifiuto), ma anche perché
voleva essere sicura che i cattolici fossero dalla sua parte, anche a costo
d'intromettersi nella loro vita ecclesiale (il che, come noto, crea sempre
effetti opposti a quelli desiderati). La Costituzione del clero -dirà J.
Jaurès- "laicizzava la chiesa stessa" e mai l'Assemblea avrebbe permesso che
il clero si ricostituisse come ordine. La convinzione che l'ideale
democratico-religioso fosse giusto appariva come un motivo sufficiente per
imporlo, senza compromesso alcuno, anche a chi la pensava in modo
completamente diverso.
Sperare poi che il pontefice approvasse una riforma del genere pare troppo
assurdo per credere che fosse davvero questa l'intenzione dei costituenti.
Pio VI aveva già condannato, seppure ufficiosamente, sia la proibizione dei
voti monastici che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Il governo aveva
in realtà bisogno di un pretesto per giustificare la necessità di una
dittatura democratico-borghese, sul modello, già collaudato, della monarchia
inglese che, ai tempi dei Tudor, si era servita della mancata ratifica
papale al divorzio di Enrico VIII da Caterina d'Aragona per imporre a Roma
lo scisma. L'esigenza di una dittatura borghese dipendeva appunto dal fatto
che il popolo, e cioè i contadini, gli operai, gli artigiani e i piccoli
proprietari, già rimasto deluso dalla natura antidemocratica di talune
risoluzioni della Costituente (negli anni 1789-91 l'Assemblea approvò anche
delle leggi per reprimere gli scioperi e le rivolte popolari -vedi quella Le
Chapelier), tendeva ad appoggiare con minor entusiasmo il governo al potere.
Di fronte al temporeggiare calcolato del papa, che si era limitato a "brevi"
indirizzati al re e ai prelati contro la Costituzione civile, in quanto
sperava che la monarchia riprendesse le redini del paese o che fosse
comunque una grande maggioranza del clero a chiedergli d'intervenire
pubblicamente (a ciò va aggiunta la paura di ripetere, mutatis mutandis, la
rottura anglicana e di perdere Avignone e il contado Venassino, i cui
cittadini reclamavano l'annessione alla Francia)- di fronte dunque a questo
atteggiamento, l'Assemblea, esasperata dalla resistenza che avvertiva da
parte del clero più conservatore, pretese, aggiungendo errore su errore,
l'applicazione per legge della Costituzione del clero, cui il re,
forzatamente, aveva dato il consenso. E siccome le proteste non mancarono (a
Nimes 300 morti in sanguinosi incidenti!),essa impose a tutti gli
ecclesiastici funzionari un giuramento di fedeltà alla nazione, al re e alla
legge, pena l'interdizione dagli uffici o la privazione dello stipendio (nel
senso cioè che quanti vi si fossero opposti sarebbero stati sostituiti e nel
peggiore dei casi considerati dei sovversivi). Anche Talleyrand, nella sue
Memorie, ammise il grave errore politico di questa decisione.
Il risultato fu assai deludente per i rivoluzionari: i 2/3 degli
ecclesiastici deputati alla Costituente, tutti i vescovi, eccetto sette (fra
questi Talleyrand e Loménie de Brienne), nonché la metà del clero
parrocchiale rifiutarono di prestare il giuramento. Come mai solo la metà
dei sacerdoti lo spiega il Dansette, sottolineando che "le eccessive
preoccupazioni terrene, l'abbandono delle virtù cristiane, tolsero ogni
valore esemplare all'opposizione dell'episcopato": il basso clero, specie
quello urbano, si sentì di agire diversamente.
Lo scisma tuttavia era scoppiato e la guerra civile per motivi religiosi era
alle porte. Ora i partiti cattolici su posizioni contrapposte erano due:
quello costituzionale (o giurato) e quello refrattario. Con quest'ultimo la
storiografia marxista non è mai stata molto tenera, ma qui bisogna fare dei
distinguo. Che i refrattari, ancora prima della Costituzione civile,
avessero tenuto, nel complesso, un comportamento ambiguo, benché non
dichiaratamente ostile, nei confronti della rivoluzione, è fuor di dubbio.
Ed è altresì pacifico che la loro decisione di rifiutare la riforma
democratica della chiesa esprimeva una tendenza conservatrice di tipo
"integralistico", cioè di dominio politico della religione -checché ne pensi
la storiografia cattolica, per la quale "se tra i costituzionali ci furono
dei buoni preti, nel campo refrattario furono tutti eccellenti"(come dice
Rops. Da noi di recente Vittorio Messori ha avuto il coraggio di parlare di
"farsa della Bastiglia", di rivoluzione come di "un mix di ridicolo e di
orrore", paragonando "il popolo vero" al "popolo della controrivoluzione"!).
Però è anche vero che il modo in cui il governo cercò di varare la riforma
non poteva favorire il consenso di quei cittadini-cattolici ancora incerti
sulla gestione rivoluzionaria dell'89. I quali, proprio per questo,questo,
avrebbero facilmente potuto porre delle obiezioni sulle questioni non tanto
di merito quanto di metodo. Certo, non nel senso che potevano avanzare delle
motivazioni per respingere lo strumento in sé di una Costituzione 'civile'
del clero (tale sensibilità allora mancava), ma nel senso che potevano
rifiutare che una riforma così radicale della chiesa avvenisse senza una
preventiva consultazione della base.
Come noto, il legislatore costituzionale si difese da queste accuse
sostenendo che il testo, essendo appunto "civile", non aveva carattere
'antidogmatico'. In teoria era senz'altro così, di fatto però la modifica
dell'istituzione canonica del clero contraddiceva a norme amministrative
fondamentali della chiesa romana, acquisite da secoli, sebbene si potessero
trovare ampie e documentate conferme nella tradizione dei Padri, nella
chiesa ortodossa(1) e negli stessi paesi della Riforma. Il neo-eletto
vescovo A. Lamourette scrisse che "l'essere chiamati dai suffragi del
popolo, come nei primi tempi del cristianesimo, a esercitare il sacro
ministero...era cosa onorevole e vantaggiosa per un pastore della chiesa".
L'Assemblea in sostanza, se poteva avere ragione a livello ideologico
(compatibilmente alle esigenze e alle possibilità di quei tempi), aveva però
torto a livello politico; e il fatto che i refrattari fruissero di così
vasti appoggi popolari, stava appunto a dimostrare che la direzione
"classista" della rivoluzione non rispondeva in modo adeguato agli interessi
delle masse.
L'Assemblea chiese al clero il giuramento di fedeltà il 27 novembre 1790. I
primi vescovi a farlo furono Grégoire, Talleyrand e Gobel. Molti parroci
refrattari cominciarono ad essere sostituiti da vicari in cerca di
parrocchia, da ex-religiosi, da seminaristi giovanissimi o da vecchi preti
che, disposti a giurare, venivano eletti col suffragio popolare. La chiesa
giurata prese così a organizzarsi, pur fra mille difficoltà e resistenze,
che misero a disagio un'Assemblea incerta sul da farsi. A giurare fu quasi
il 60% di coloro che erano tenuti a farlo: a Parigi fu la stragrande
maggioranza. Talleyrand, per togliere alla curia romana il pretesto di
accusare il clero costituzionale d'esser caduto nell'eresia presbiteriana
(che affida al consiglio dei preti l'amministrazione di tutta la chiesa),
decise di consacrare due vescovi. Gobel, divenuto arcivescovo di Parigi, lo
imita ordinandone altri 36. La rapidità di queste sostituzioni si spiega
anche con la bassa considerazione in cui il gallicanesimo teneva il papato.
E' solo a questo punto che Pio VI rende pubblica la sua condanna della
Costituzione civile del clero. Prima di farlo, naturalmente, chiede ai
vescovi refrattari di avanzare una formale richiesta d'intervento, affinché
dimostrino la loro subordinazione alla Santa sede. E così con il breve
Caritas interdice ai vescovi di nuova nomina l'esercizio del ministero e
minaccia di scomunica tutti i preti costituzionali che non avessero
ritrattato il giuramento entro 40 giorni. Poi con il breve Quod aliquantum
attacca direttamente la Costituzione del clero, facendo il punto
sull'opinione della chiesa ufficiale in merito a tutta l'esperienza
rivoluzionaria francese.
Senza alcuna possibilità di appello ("dall'inizio alla fine -sono le sue
parole testuali- non vi si trova nulla che non sia pericoloso e
condannabile"), il pontefice rifiuta praticamente tutto: la libertà di
religione, l'uguaglianza degli uomini, l'abolizione della primazia e
giurisdizione della Santa sede, il potere dei sinodi locali sui vescovi, lo
stipendio statale per il clero, l'esproprio dei beni, la soppressione degli
ordini e dei voti. Non accetta neppure il potere dell'Assemblea sui vescovi,
asserendo che lo scopo della rivoluzione era quello di "annientare la
religione cattolica e con essa l'obbedienza dovuta ai re" (in realtà la
Costituzione del clero toccava solo un aspetto veramente spinoso per i
cattolici francesi: il primato del papa. Che poi questo principio sia stato
usato dai conservatori per motivazioni tutt'altro che ideali, questo è un
altro discorso). Pio VI paragona inoltre l'Assemblea ai valdesi, ai begardi,
ai seguaci di Wiclef, a Lutero e Calvino, a Marsilio da Padova e Jean de
Jandun, ovvero ai 'peggiori' eretici e scismatici degli ultimi secoli.
Naturalmente conferma in toto il Concordato del 1516, anche se, in via
diplomatica, per non rompere i rapporti con la monarchia, afferma di
condividere "alcune cose" del nuovo regime stabilitosi in Francia. Di fatto
però egli rivolgerà insistenti appelli alle potenze cattoliche europee
nonché a Caterina II di Russia e a Giorgio III d'Inghilterra perché
venissero in aiuto del re francese contro i suoi stessi sudditi e perché
alla Santa sede venissero restituiti Avignone e il contado Venassino.
Ora, chiunque si rende conto che in tali condizioni dialogo proprio non
poteva esserci, né poteva esistere per la chiesa gallicana (giurata o
refrattaria qui non importa) la possibilità di rivedere anche uno solo degli
articoli del Concordato del 1516. La lezione della Germania,
dell'Inghilterra e di tutti gli altri Paesi protestanti era sufficiente per
impedire qualunque trattativa, per cui la posizione del pontefice si poteva
riassumere in questa paternalistica offerta: "per calmare e moderare il
Terzo stato, abbiamo ordinato di sospendere l'esazione delle tasse". Ma
subito dopo egli precisa, risentito: "Questa nostra generosità è stata
ripagata dall'ingratitudine".
Al di fuori di questo breve, il papa, per bocca del segretario di stato,
card. Zelada, rifiutò anche l'idea dell'arcivescovo refrattario moderato,
Boisgelin, di attribuire ad un concilio della chiesa gallicana il diritto di
giudicare sul conferimento o ritiro dell'istituzione canonica. Col che egli
dimostrava di non avere alcuna intenzione di avallare le classiche tesi del
gallicanesimo, secondo cui l'ultima vera istanza della chiesa risiede nel
concilio ecumenico, mentre la giurisdizione spirituale e pastorale dei
vescovi proviene direttamente da Cristo e non dal papa.
Dal canto suo l'Assemblea, invece di far leva, adeguando il proprio
comportamento, sugli ideali di uguaglianza e di giustizia che il basso clero
e il laicato cattolico manifestavano, invitandoli, senza forzarne la
volontà, a rendersi consapevoli che il pontefice e tutta la curia romana
avevano attaccato non solo la Costituzione del clero ma anche la
Dichiarazione dei diritti umani; invece di approfittare di questa mossa
sbagliata della Santa sede prospettando l'ipotesi di poter indire un
concilio nazionale per discutere la ratifica della Costituzione, preferisce
decretare, incurante delle proteste dei costituzionali, la libertà di culto,
seppure in edifici privati, per i preti refrattari. I quali, accortisi della
debolezza del governo, organizzano subito varie iniziative sovversive.
Sicché nella prima metà del '92 l'Assemblea si troverà brutalmente sospinta
dalla forza degli eventi verso una strada senza uscita: sia che si prosegua
sulla linea scismatica, sia che si cerchi un compromesso con lo stato
pontificio, il rischio è sempre quello di veder minacciati o comunque
fortemente rallentati i progressi della rivoluzione.
Una soluzione veniva offerta da coloro che propendevano per l'istituzione di
un culto civico, come poi si farà, ma per il momento l'inizio della guerra
con l'Austria e la Prussia, e soprattutto il rovesciamento della monarchia
non potevano portare -a giudizio dell'Assemblea- che all'adozione di metodi
drastici e coercitivi. "Poiché la guerra esterna e la guerra civile
continuavano -dirà con acume Soboul- e la borghesia rifiutava l'appoggio
popolare per timore della democrazia sociale, una necessità ineluttabile
portava la Repubblica dei proprietari a rafforzare a poco a poco, dietro la
facciata liberale, i poteri dell'esecutivo"(in La rivoluzione francese, ed.
Newton).
Naturalmente la storiografia cattolica ha tutto l'interesse ad affermare che
"la maggioranza dei vescovi e gran parte dei preti ritenne inaccettabile la
Costituzione civile, in quanto essa misconosceva l'autorità del papa sui
vescovi e sulle chiese locali"(così ad es. J. Comby in Concilium, n 1/89).
In realtà il "misconoscimento" fu solo un pretesto e i costituenti lo
avvertirono come tale. La vera causa del rifiuto va invece vista nel fatto
che la radicale riforma della chiesa non passava per il tramite del collegio
episcopale, come per tradizione ci si doveva aspettare, ma piuttosto per
quello dell'intellighenzia laica progressista, più o meno credente e
praticante, cui volentieri si associarono i prelati di vedute lungimiranti.
In un primo momento, infatti, i vescovi refrattari, pur opponendosi alla
riforma, non condivisero minimamente la linea papale di condanna senza
appello della Dichiarazione dei diritti. Proprio per questo motivo la vera
differenza fra l'alto clero conservatore e quello democratico non
stava -come vuole P. Eicher (in Concilium, cit.)- semplicemente nel fatto
che quest'ultimo era convinto di poter conciliare le funzioni della chiesa
con le libertà fondate sui diritti dell'uomo, o nel fatto di aver scelto la
repubblica in luogo della monarchia. La differenza non stava tanto in
astratte considerazioni filosofiche o giuridiche, quanto piuttosto
nell'esigenza di salvaguardare un determinato potere politico ed economico.
I conservatori erano favorevoli più che a una Costituzione "civile" del
clero a una Costituzione 'clericale' dello Stato: nel senso cioè che il
potere civile avrebbe dovuto ammettere, specie nelle questioni morali o di
principio, una stretta subordinazione del trono all'altare, o comunque della
rivoluzione alla religione. Quando poi i vescovi giurati, spogliati del loro
potere economico, si accorgeranno che la repubblica poteva benissimo fare a
meno di loro, in quanto non si riconosceva alla chiesa cattolica (romana e
gallicana) alcun vero ruolo politico-ideale, il passaggio nelle file dei
conservatori per molti diverrà automatico. La compatibilità con i principi
rivoluzionari non avrebbe certo potuto implicare, per costoro, la fine del
protagonismo politico del cattolicesimo.
Anche un intelligente vescovo come Grégoire risentì di questa limitata
impostazione del problema. La sua speranza era quella che si formasse un
cittadino nel contempo democratico di fronte allo Stato e credente di fronte
alla chiesa. Ma quando si renderà conto che per la rivoluzione le due
identità potevano anche marciare separate, in quanto la fede -essa diceva-
appartiene, nel migliore dei casi, alle mere opzioni di coscienza, la sua
posizione muterà colore, benché sempre nei limiti della legalità.
(1) Quanto forti fossero avvertiti, nell'ambito ecclesiale più progressista,
i rapporti fra cattolicesimo e ortodossia, lo attestano due importanti
contributi di Grégoire, assai poco noti al pubblico italiano: Progetto di
una riunificazione della chiesa russa con la chiesa latina (1799) e
Memorandum sui mezzi per giungere alla riunione delle chiese greca e latina
(1814).
DAGLI STATI GENERALI ALLA COSTITUENTE. LE PRIME RIFORME RELIGIOSE
Nel maggio 1789, sotto la pressione del deficit finanziario dello Stato e
per la difficoltà d'imporre nuove tasse senza consultare l'intera nazione,
vennero convocati gli Stati generali, su proposta dell'arcivescovo Loménie
de Brienne. Il primo problema da risolvere era quale sistema di votazione da
adottare: se per ordine o nominale, come reclamava il Terzo stato, il quale,
avendo ottenuto dal ministro Necker un numero doppio di rappresentanti,
poteva disporre da solo della metà dei voti. Il regolamento regio per
l'elezione dei deputati del clero aveva finito col favorire i parroci (che
avrebbero votato personalmente), mentre i conventi e i capitoli erano
soltanto rappresentati da delegati. Nell'ambito dell'Assemblea, e di fronte
al re, preti e vescovi risultavano giuridicamente paritetici, anzi i primi
superavano i secondi di molte unità (208 su 296). Il 13 giugno tre curati
decisero di trasferirsi dalla sala del loro ordine a quella del Terzo stato.
Le defezioni, col passare dei giorni, si moltiplicarono. Finché, dopo
l'autoproclamazione in Assemblea nazionale proposta dal prete Sieyès, il
clero, con pochi voti di maggioranza, deliberò di unirsi alla borghesia.
Su questa decisione due cose almeno vanno dette: anzitutto non è vero -come
sostiene in genere la storiografia cattolica- ch'essa risultò decisiva ai
fini dell'istituzione dell'Assemblea costituente, avendo fatto acquisire
alla borghesia la maggioranza. In realtà avvenne proprio il contrario:
l'ordine del clero decise di unirsi al Terzo stato solo dopo che questo
aveva manifestato la chiara intenzione di opporsi al re e alla nobiltà.
Senza la volontà politica della borghesia, il basso clero, che pur
apparteneva per origine sociale al Terzo stato, difficilmente sarebbe
arrivato alla rottura con i prelati, o forse vi sarebbe arrivato seguendo
altre strade (ad es. l'eresia. Qui anzi ci si può chiedere se non sia stata
proprio la mancata realizzazione di una riforma protestante francese a
impedire il formarsi di una valvola di sfogo per le acutissime
contraddizioni sociali che travagliavano l'intera nazione: forse che tale
riforma non si ebbe proprio perché l'autonomia gallicana la rese per così
dire meno urgente?)
In secondo luogo è senza dubbio limitativo sostenere, come vuole ad es.
Dansette, che il basso clero si unì al Terzo stato "per gelosia verso l'alto
clero". Basta leggersi alcuni brani dei famosi 60.000 cahiers de doléances
per convincersi di come e quanto i problemi si ponessero più sul terreno
sociale e meno su quello personale. "Di tutti gli abusi che esistono in
Francia -viene detto nel cahier del visconte di Mirabeau, militante del
Terzo stato- quello che maggiormente affligge il popolo e più fa disperare i
poveri è l'immensa ricchezza, l'oziosità, le esenzioni [fiscali], il lusso
inaudito dell'alto clero. Queste ricchezze si sono in gran parte formate col
sudore dei popoli, sui quali il clero percepisce un'orribile imposta che va
sotto il nome di decima; essa assorbe ogni dieci anni a vantaggio di
illustri fannulloni la totalità del reddito agricolo [annuale] del regno". E
più avanti: "Le spese per le chiese, i presbiteri, i cimiteri sono a carico
delle comunità, che tuttavia continuano a pagare per battesimi, matrimoni,
sepolture, senza che la decima venga diminuita. I poveri non sono più
soccorsi e pagano la decima"(vedi il libro di D. Menozzi, Cristianesimo e
rivoluzione francese, ed. Queriniana. Ora anche la Cinque lune ha pubblicato
qualche brano dei cahiers). Sotto accusa anche i monaci e il seminario
locale, che percepiscono una decima in covoni di grano dalla comunità,
mentre in cambio non danno nulla. Il canonico, dal canto suo, si differenzia
solo perché la percepisce in moneta.
Non si chiedeva solo la soppressione degli abusi del sistema beneficiario,
il miglioramento delle condizioni dei curati a congrua, il divieto di
cumulare più benefici, l'obbligo di residenza dei vescovi nella diocesi e la
loro elezione da parte del capitolo (contro il Concordato del 1516), e poi
il conferimento delle cariche ecclesiastiche in base ai meriti e
all'anzianità, la soppressione delle tasse per matrimoni e sepolture e delle
annate (quelle pagate al papa), la fine della decima e delle sperequazioni
fiscali che dividevano i tre ordini dello Stato, e poi ancora lo
scioglimento delle congregazioni religiose, la diffusione di centri
d'istruzione per i giovani: non si chiedeva solo tutto questo e altre cose
ancora direttamente collegate alle discriminazioni di carattere sociale; si
chiedeva anche di modificare alcune tradizioni di vita ecclesiale che ancora
oggi permangono immutate nell'ambito del cattolicesimo. Si legge, p.es., nel
quaderno di Chalais: "Che tutti i preti si sposino. La tenerezza delle loro
spose risveglierebbe nei loro cuori la sensibilità, la riconoscenza, la
pietà -così naturali per l'uomo- che i voti di castità e di solitudine hanno
spento in quasi tutti coloro che li hanno pronunciati".
Proprio queste rimostranze hanno indotto certa storiografia cattolica, meno
conservatrice di quella che nella rivoluzione francese (si pensi a Taparelli
d'Azeglio o a Del Noce) vede il culmine di una 'disgrazia' cominciata col
Rinascimento e la Riforma protestante, una disgrazia dilatatasi a macchia
d'olio con la società capitalistica ed esplosa, assumendo un'espressione
'demoniaca' nei paesi comunisti; si diceva, proprio le doglianze dei cahiers
hanno indotto storici e intellettuali come Burke e Taine (per l'Italia
bisogna pensare a Papi, Cuoco, Botta, Manzoni...) a riconoscere l'esigenza
di un "riformismo forte" nell'ambito della chiesa settecentesca. Ma la tesi
fondamentale di questa corrente liberal-utopistica fu quella che vedeva
nella rivoluzione un serio ostacolo al processo di graduale evoluzione verso
il superamento del vecchio regime: processo che - a suo giudizio- era stato
inaugurato dai sovrani "illuminati" e che sicuramente avrebbe reso inutile
qualunque rivolgimento traumatico.
Pur di ridimensionare l'importanza della rivoluzione francese, certi storici
cattolici (si pensi p.es. a V.Giuntella) sono addirittura propensi a
considerare la rivoluzione americana o anche quella inglese del secolo
precedente, molto più democratiche nei contenuti e nei metodi (il termine
più usato qui è "non violenza" ovvero "rivoluzione incruenta". Vedi anche le
tesi dell'ultraconservatore F. Furet). Eppure tutti sanno che la
Costituzione americana del 1787, al pari della rivoluzione 'parlamentare'
inglese, fu soltanto il frutto di un compromesso fra la borghesia e i
latifondisti (negli Usa c'erano i piantatori del sud), cui le masse popolari
cercarono di porre rimedio rivendicando l'importante Bill of rights. Se poi
si vuole sostenere che i principi democratici della borghesia trovarono una
loro prima applicazione nella Dichiarazione americana d'indipendenza del
1776, ebbene allora si deve aggiungere che tale Dichiarazione, per quanto
non permettesse politicamente la formazione d'uno Stato unitario
dell'America (in questo senso era meno avanzata della Costituzione del
1787), rifletteva le posizioni più progressiste proprio della filosofia
francese (specie la linea di Rousseau), per cui l'avversione al regime di
privilegio risultava superiore a quella della stessa Dichiarazione francese
dei diritti umani (ad es.non si prevedeva la proprietà come diritto
"naturale" ma solo come diritto 'civile' connesso al lavoro). Oltre a ciò
bisogna precisare che se nelle colonie americane la rivoluzione non sviluppò
una particolare ostilità nei confronti della religione, fu proprio a causa
del pluralismo delle confessioni qui largamente rappresentato, frutto della
rottura dell'unità cattolica europea.
Ma procediamo. I chierici collaborarono con entusiasmo all'interno della
Costituente: forti delle loro tradizioni gallicane, neppure per un istante
si chiesero in che misura Roma avrebbe approvato il loro comportamento.
Dall'agosto al novembre del 1789, dopo la presa della Bastiglia, la rivolta
delle città e delle campagne (la cd. "grande paura"), l'Assemblea prenderà
tre decisioni fondamentali:
1) l'abolizione di tutti i privilegi feudali (decime, annate (1), franchigie
ecclesiastiche in materia d'imposte, diritti signorili, ecc.);
2) la nazionalizzazione delle proprietà immobiliari della chiesa (terre,
foreste, beni derivanti da fondazioni, ospedali, scuole ecc.);
3) il sostentamento del clero da parte dello Stato per l'esercizio del
ministero. Provvedimenti, questi, assolutamente rivoluzionari rispetto
all'epoca in cui vennero adottati.
Il primo incontrò il consenso di tutti i cittadini e di tutti i cattolici
non privilegiati, cioè della stragrande maggioranza della nazione. Anche
molti vescovi vi acconsentirono: un po' per convinzione, un po' perché
impauriti dall'assalto della Bastiglia. Si noti, in questo senso, come la
storiografia cattolica, messa alle strette, si faccia vanto del fatto che
"le teorie che la rivoluzione francese ha cercato di mettere in pratica nei
confronti della chiesa e della religione non sono nate nel cervello di
uomini di Stato bensì di uomini di chiesa, di teologi"(cfr L. Rogier e
altri, che ovviamente danno un giudizio molto pesante su questi
ecclesiastici, nella loro Nuova storia della chiesa, ed. Marietti 1976). Ciò
tuttavia non dimostra la superiorità della religione in generale o del
cattolicesimo in particolare, quanto semmai la dipendenza dell'ideologia
religiosa dalle concrete esigenze degli uomini, morali e materiali, nonché
dall'evoluzione dominante del pensiero laico progressista.
Il secondo provvedimento -resosi necessario a causa della crescente crisi
finanziaria, dovuta all'impossibilità di riscuotere le tasse dopo i
disordini di luglio- venne naturalmente accettato con molte riserve, ma
grazie alla mediazione del vescovo di Autun, Talleyrand -che Dansette, con
molta superficialità e pregiudizio, qualifica come "il più empio, il più
corrotto, il più cinico fra tutti quelli dell'antico regime" -si riuscirono
ad ottenere 568 voti contro 346. A tale proposito ci pare alquanto riduttivo
sostenere che "l'Assemblea era assillata dallo spettro del fallimento più
che dall'ideale della laicizzazione" (vedi l'opera citata dello Jedin). Se
gli ideali vengono realizzati dietro la spinta di esigenze concrete, ciò non
significa ch'essi siano poco importanti o poco sentiti dagli uomini che li
manifestano. Il fatto è che per realizzare determinati ideali rivoluzionari
(e questo della confisca era avvertito in Francia ben prima dell'89) occorre
la volontà e la partecipazione democratica delle masse. Altrimenti gli
ideali sono soltanto, nel migliore dei casi, il frutto della elaborazione
teorica di qualche intellettuale progressista, cioè un'utopia. Non è forse
significativo che nell'Assemblea la proposta della confisca sia stata
avanzata da nobili di idee liberali, e che i vescovi non abbiano fatto alcun
obbligo di coscienza ai fedeli di opporvisi, e che persino i semplici
sacerdoti si siano sentiti in dovere di rinunciare ai loro diritti casuali o
di stola? Se non fosse esistito un forte movimento spontaneo di protesta,
protrattosi per anni e anni, avrebbero gli ordini al potere rinunciato con
così relativa facilità ai loro privilegi e immunità?
Il terzo provvedimento rappresentava la contropartita all'incorporazione
coatta delle proprietà ecclesiastiche. Sostenuto dalla stragrande
maggioranza del basso clero, che così poteva percepire un reddito di molto
superiore a quello pre-rivoluzionario, il compromesso trovava consenzienti
anche le frange meno conservatrici dell'alto clero, le quali in ogni caso
riuscivano ad ottenere che il cattolicesimo, pur nel riconoscimento
giuridico della libertà di religione, sancito dalla Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino (votata il 26 agosto), costituisse l'unica
religione i cui ministri erano stipendiati dallo Stato. Dal canto suo
quest'ultimo s'incaricava di provvedere all'assistenza dei poveri, degli
ammalati e all'insegnamento (ivi incluso il sostegno finanziario a quello
dei seminari diocesani).
A ben guardare però lo Stato non trasse un vero vantaggio economico da
questa nazionalizzazione, a motivo del fatto che l'immissione contemporanea
sul mercato di una così grande quantità di terre ne fece rapidamente
precipitare il valore. Correlato a questo fatto è l'altro, quello degli
"assegnati": una sorta di "buoni del tesoro" il cui valore -secondo il
governo- doveva essere equivalente a quello delle proprietà ecclesiastiche
confiscate. In pratica lo Stato li emise fingendo di aver già incamerato
l'importo complessivo delle terre: il che presupponeva, ovviamente, un
reciproco rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Tuttavia, essendo una
cartamoneta convertibile solo in terre a un tasso del 5%, il suo abuso portò
subito a una violenta inflazione, al punto che il prezzo del pane aumentò di
mille volte in 4 anni! Nel contempo però l'operazione fece ottenere al
governo un vantaggio politico: "borghesi e contadini, indipendentemente dai
loro sentimenti religiosi -come vuole Dansette-, diventarono alleati della
rivoluzione: e reagiranno contro tutti i tentativi di ritorno al passato che
potessero compromettere i loro interessi"(naturalmente col termine
'contadini' va qui intesa la borghesia rurale). La vendita dei cosiddetti
'beni neri' finirà solo alla vigilia del Concordato del 1801.
Altri decreti molto importanti furono quello emanato il 22 dicembre 1789,
col quale si secolarizzò la direzione generale dell'insegnamento, togliendo
ai vescovi, per affidarla alle amministrazioni dipartimentali, la
sorveglianza dell'educazione pubblica; nonché quello del 24 settembre 1789,
col quale si ammisero ai pubblici uffici tutti i protestanti. Due anni dopo
quest'ultimo provvedimento venne esteso anche agli ebrei. A favore
dell'emancipazione politico-giuridica degli ebrei s'impegnò assiduamente
l'abbé Grégoire (cfr. il Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e
politica degli ebrei, 1788)
Si è detto della Dichiarazione dei diritti. L'art. 10 prevedeva la piena
libertà di religione (non però anche quella 'dalla' religione). Il decreto
del 13 aprile 1790 che definisce il criterio interpretativo del suddetto
art. 10, precisa che l'Assemblea nazionale non poteva riconoscere
esplicitamente il cattolicesimo come "religione della nazione" e il suo
culto come "il solo culto pubblico autorizzato", per quanto -si aggiunge- la
devozione dell'Assemblea a tale culto "non può essere messa in dubbio, dal
momento in cui questo culto sta per diventare il più rilevante capitolo
della spesa pubblica". In pratica il legislatore, subito dopo aver messo
sullo stesso piano giuridico tutte le religioni, le distingue su quello
politico. Questa ambiguità, tipica dell'ideologia borghese, sarà alla fonte
di tutte le future contraddizioni nel rapporto fra Stato e chiesa: non solo
perché la rivoluzione troverà sempre grandissima difficoltà ad affermare un
proprio carattere laico e aconfessionale, ma anche perché i cattolici
faranno di tutto per non perdere quei pochi privilegi che l'Assemblea aveva
loro in un primo momento concesso.
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