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LA RIVOLUZIONE FRANCESE - CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE
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LA RIVOLUZIONE FRANCESE, CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE |
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Va detto tuttavia, con A. Soboul, che i costituenti, quali rappresentanti
della nazione, si ritenevano autorizzati a riformare in modo democratico la
chiesa e non pensavano a costruire un regime di separazione vero e proprio,
che in quel momento sarebbe apparso come un'idea blasfema e anticristiana.
Tanto è vero che nella commissione per redigere la Costituzione e la
Dichiarazione dei diritti erano presenti non pochi prelati: dagli abati
Sieyès e Grégoire ai vescovi Talleyrand, de Lubersac, de la Luzerne, ecc.
Resta comunque significativo che, nonostante una semplice allusione
all'Essere supremo, non si faccia alcun riferimento, nel preambolo della
Dichiarazione, ai "diritti di dio". Lo storico Mathiez l'ha giustamente
sottolineato dicendo: "I principi del 1789 si presentano come un corpo di
dottrina autosufficiente, che trae il proprio valore dall'evidenza razionale
e non dalla rivelazione. Così l'umanità pone se stessa come suo proprio
dio".
Il desiderio di "riformare" il cristianesimo spiega anche la decisione di
sospendere l'emissione dei voti (giudicati contrari ai diritti umani) in
tutti i monasteri, nonché quella del 13 febbraio 1790 di sopprimere tutti
gli ordini che pronunciavano voti solenni. Sin dall'inizio la rivoluzione si
caratterizzerà per un marcato accento "confessionale", che si presumeva
alternativo all'ideologia cattolica ufficiale. Non voleva certo essere una
rivoluzione anticristiana o antireligiosa, ma anticlericale sì. Una cosa
infatti è l'esproprio dei beni del clero, secolare e regolare, un'altra è la
soppressione d'ufficio dei voti e degli stessi ordini: qui l'ingerenza è
netta. Evidentemente il governo, forte dell'ostilità cui i regolari erano
oggetto da parte del laicato cattolico, ritenne opportuno colpire questa
categoria di agiati ecclesiastici sul piano sia economico che politico,
impedendo il formarsi di trame e collegamenti nazionali ed europei di tipo
eversivo (gli ordini regolari facilmente si prestavano a questo utilizzo;
forte peraltro era il loro legame con la curia romana). Ciò non toglie
tuttavia la particolare drasticità del provvedimento, sebbene sulle prime
venissero risparmiati gli ordini femminili e gli istituti maschili
esercitanti attività ospedaliera e/o scolastica.
In altre parole, si sarebbe dovuto puntare su una lenta e graduale
estinzione degli ordini, prescindendo da pressioni amministrative, che
spesso rischiano di sortire l'effetto contrario, oppure di costituire un
pericoloso precedente per ulteriori vessazioni. Né serve, a titolo di
giustificazione del provvedimento, sottolineare il fatto che la fine del
valore legale dei voti non comportò praticamente alcuna resistenza,
determinando anzi il subitaneo spopolamento della maggior parte dei
monasteri (a Parigi ad es. i religiosi favorevoli alla secolarizzazione
raggiungevano il 48%). Qui ha ragione il Dansette, quando afferma che
l'Assemblea impediva ai monaci di restare nei conventi "così come il re ne
sbarrava le porte impedendo loro d'uscirne". Va poi detto, in definitiva,
che l'Assemblea, con tale provvedimento, non poté vantare alcuna particolare
coerenza. Essa infatti volle assicurare a quegli ex-monaci ricondotti allo
stato civile, che avevano rifiutato di continuare la vita monastica in
conventi appositamente adibiti, una sorta di pensione statale, come
indennizzo per l'esproprio causato. Col che, in pratica, si permetteva loro
di continuare a fare quello che avevano sempre fatto, cioè i rentiers.
LA CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE
Robespierre, forte del suo realismo politico, volle garantita la libertà
religiosa nella misura in cui l'associazione dei cittadini a scopo di culto
non costituisse il pretesto per dar vita a un'opposizione politica ai
decreti della Convenzione. Egli tuttavia era ben lontano dall'immaginare un
regime di separazione fra Stato e chiesa. Nella sua concezione di Stato, il
governo era totalmente libero di servirsi di strumenti politici per
intromettersi nella gestione interna delle varie confessioni religiose
(specie la cattolica), modificandone eventualmente anche i dogmi o la
prassi. Giustamente però egli riteneva impraticabile l'idea di Hébert e
Chaumette di imporre l'ateismo (cioè il culto della Ragione) in modo
politico. A suo parere, il popolo, ancora troppo religioso, aveva bisogno di
credere in un dio, seppure un dio diverso, più tollerante rispetto a quello
del cattolicesimo tradizionale (era il principio: la religione per il
popolo, la filosofia per gli intellettuali, che troverà molta fortuna nel
secolo successivo, fino all'idealismo di Croce e Gentile). Peraltro
Robespierre era ideologicamente lontano dal materialismo ateo di Helvetius e
Holbach. Il suo merito sta nell'aver capito che la religione non può essere
eliminata in modo politico o amministrativo; il suo torto nell'aver creduto
che si potesse farlo creando semplicemente un'alternativa 'spiritualistica'
sul terreno ideologico, culturale e rituale, senza tener conto di quali
condizionamenti sociali ed economici alimentano un fenomeno come quello
della religione.
Istituito con decreto statale il 7 maggio 1794, il culto nazionale
dell'Essere Supremo, che voleva dirsi civico ma che era squisitamente
"religioso", in quanto ufficializzava il deismo panteista e razionalista di
molti philosophes illuministi, attirò a Robespierre le inimicizie dei
partigiani della scristianizzazione violenta e dei fautori dello Stato
laico, e non gli valse la fiducia dell'alto clero costituzionale, che non
amava la "concorrenza", né tanto meno di quello refrattario, ostile a
qualunque culto legato alla Repubblica. Il successo tuttavia fu notevole fra
il popolo, naturalmente anche in virtù degli obiettivi che la dittatura
giacobina era riuscita a conseguire dalla metà del '93 alla metà del '94.
Con il decisivo appoggio dei sanculotti, che "tendevano, seppure in modo
confuso, verso l'istituzione della democrazia diretta"(Soboul), essa poté
distruggere il feudalesimo come nessun'altra forza politica era riuscita a
fare, stroncando la resistenza dei nemici interni ed esterni.
Ma il peggio doveva ancora venire. La borghesia, piegatasi al dominio dei
giacobini solo perché questi, nella lotta contro la reazione feudale
fruivano di vasti appoggi popolari, cercò con ogni mezzo e modo, quando
l'esito della battaglia fu sicuro, di sbarazzarsi dello scomodo alleato e
soprattutto delle sue pretese di 'dirigere' l'economia. Purtroppo i
giacobini, incapaci di venire incontro, una volta conquistato il potere,
alle esigenze degli strati più poveri delle città e delle campagne (si pensi
p. es. ai contadini che non riuscivano ad acquistare le terre vendute
all'incanto), cominciarono a perdere sempre più prestigio e credibilità. Il
club dei cordiglieri, diretto dagli hébertisti, intensificò le accuse contro
l'attività del Comitato di salute pubblica. I giacobini, rifiutando
qualunque critica e autocritica, risposero facendo giustiziare Hébert e
molti suoi seguaci. Grande fu lo scontento nella capitale: gli hébertisti
erano sì estremisti (lo si era visto durante la scristianizzazione) ma
nessuno poteva negare loro un certo ascendente sulle masse, specie quelle
della capitale (la Comune insurrezionale era stata infatti guidata da Marat,
Hébert e Chaumette). I giacobini ghigliottinarono anche Danton e i capi
della sua fazione che su posizioni di destra volevano dividere il partito.
Praticamente tutte le forme di opposizione palese al governo rivoluzionario
erano finite.
Questo atteggiamento autoritario fece maturare l'esigenza di organizzare una
nuova congiura antigovernativa all'inizio del luglio 1794. Robespierre venne
accusato dai seguaci di Danton e di Hébert scampati al massacro e da altri
deputati della Convenzione, d'essere un dittatore e di alimentare il culto
della sua personalità. Il 27 luglio la congiura si trasformò in un colpo di
stato controrivoluzionario (chiamato dagli storici "termidoriano" dal nome
del mese di luglio mutato in "termidoro", secondo il calendario
repubblicano). Il giorno dopo, nonostante l'opposizione della Comune di
Parigi, si riuscì a condannare a morte i dirigenti del governo giacobino
(fra cui Saint-Just e lo stesso Robespierre), senza alcuna forma di
processo. La rivoluzione era praticamente finita.
Eliminato il governo rivoluzionario, i termidoriani, che esprimevano gli
interessi della borghesia più ricca, diedero inizio al terrore "bianco",
smantellando progressivamente molte leggi e istituzioni favorevoli al
popolo. Sul piano religioso la Convenzione, nelle persone soprattutto di
Fouché, Fréron e Tallien, riuscì ad ottenere ciò che i governi precedenti
non avevano mai osato rischiare: la completa laicizzazione dello Stato,
ovvero l'effettiva uguaglianza di tutte le religioni. Infatti, per ragioni
economiche si soppresse il bilancio della chiesa giurata: "La Repubblica
francese -si disse- non paga più spese né salari di alcun culto"(18
settembre 1794). In tal modo la Costituzione civile del clero perdeva la sua
ragion d'essere e veniva affermata la separazione di Stato e chiesa. Il
governo vietò anche il culto dell'Essere Supremo, ritenuto "filo-cattolico",
e autorizzò solo quello decadario.
Gli storici cattolici rifiutano, in genere, di considerare questo
provvedimento come un atto anticipatore della separazione fra Stato e
chiesa, in quanto -essi precisano- ogni culto doveva rimanere interdetto per
la Convenzione. In realtà, sia il governo giacobino sia quello termidoriano,
più che abolire tout-court i culti religiosi della nazione (compito che
nessun governo al mondo potrebbe permettersi), miravano a istituirne uno
condivisibile da tutti i francesi. In tal senso, se eccessi vi furono, ciò
dipese dalla stretta dipendenza della politica governativa dall'ideologia,
in materia di atteggiamento verso la religione. Una dipendenza che si faceva
più sentire ogni volta che nella società civile emergevano tendenze
clericali antirivoluzionarie. Senza queste tendenze non si sarebbe
verificata alcuna scristianizzazione, ma semmai la convivenza, problematica
ma non impossibile, fra un culto pubblico obbligatorio e uno o più culti
privati facoltativi.
"Le misure contro i preti refrattari -ha scritto Soboul- rimasero in vigore
e le chiese chiuse. Tuttavia, man mano che la reazione andava affermandosi,
molti francesi rimpiangevano le antiche cerimonie religiose e i fedeli
giunsero a reclamare l'apertura delle chiese. Il culto civico, troppo
intellettuale ed ora spogliato di ogni carattere patriottico e democratico,
non poteva più infervorare i sanculotti". E così, poche settimane dopo la
caduta di Robespierre, in numerosi punti della Francia si ricominciò a
celebrare la messa, si riaprirono i vecchi oratori, si videro affluire nelle
province di frontiera dei preti emigrati. Tuttavia in molte altre province e
soprattutto a Parigi si continuava a ghigliottinare, benché le
amministrazioni non mettessero più lo zelo di prima nell'applicare i
provvedimenti di scristianizzazione. Il recupero della libertà religiosa
tardava dunque a farsi strada.
Quando il vescovo costituzionale deputato alla Convenzione, H.B. Grégoire,
propose, il 21 dicembre 1794, un decreto che sancisse la piena libertà di
culto, in conformità alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo, non riuscì
neppure a finire il suo discorso. "Declamare continuamente contro gli
ecclesiastici - affermò il prelato-, anziché legarli alla repubblica per
mezzo dell'uguaglianza dei diritti, è un errore. [...]Un'opinione cede ai
lampi dei lumi, mai alla violenza. [...]Si può esigere dai membri della
compagine sociale altro dovere che quello di essere un buon cittadino?
[...]Il governo non deve adottare, e ancor meno salariare, alcun culto,
sebbene debba riconoscere a ciascun individuo il diritto di professare il
suo. Il governo non può rifiutare protezione né accordare privilegi a
nessuna confessione religiosa. [...]Deve tenere tutte le confessioni nel
loro giusto equilibrio, impedendo che qualunque culto venga turbato e che
esso turbi l'ordine pubblico. [...]Che nessuna religione pretenda
abusivamente al titolo di dominante".
Dice ancora Grégoire, con grande acume e spirito critico, anticipando una
tematica che nella sua interezza verrà ripresa solo dalle rivoluzioni
socialiste: "Sarebbe necessario mettere al bando una religione intollerante,
che non ammettesse la sovranità nazionale, l'uguaglianza, la libertà, la
fratellanza...; ma dal momento in cui appare evidente che nessun culto
ferisce questi principi, e dal momento in cui tutti coloro che lo
professano, giurano fedeltà ai dogmi politici, che un individuo sia
battezzato o circonciso, che adori Allah o Jehova, tutto questo è al di
fuori dell'ambito della politica". Il vescovo concluse osservando che i più
gravi pericoli per lo Stato non sono i culti religiosi, bensì la
superstizione e il fanatismo. (Detto altrimenti: una religione non è
contraria al governo rivoluzionario solo perché è una religione.
L'atteggiamento controrivoluzionario va dimostrato.) A questo naturalmente i
deputati potevano obiettare che i cattolici avevano dato prova, a più
riprese, d'essere alquanto ostili al governo repubblicano, ma la proposta
del vescovo era appunto quella di bandìre l'anticlericalismo ad oltranza,
permettendo così ai cattolici un'adesione più spontanea alle leggi dello
Stato.
Dette da un 'vescovo' queste cose oggi ci appaiono davvero singolari, dette
poi da un vescovo 'cattolico' addirittura strabilianti. Immaginiamoci -se
una tale posizione risultava così fastidiosa alle orecchie di quei deputati-
quale grande attaccamento dovesse avere la borghesia per le idee
anticlericali, deiste o agnostiche o atee dei philosophes ed enciclopedisti.
Se vogliamo, proprio in questa esigenza di anteporre a tutto l'ideologia
stava uno dei maggiori limiti della rivoluzione. Ci piace però qui ricordare
che alla morte di Grégoire, il 28 maggio 1831, Santo Domingo ed Haiti
proclamarono il lutto nazionale, alla memoria dell'"amico degli uomini di
ogni colore". Grazie a lui infatti si emanò nel 1794 il decreto
sull'abolizione della schiavitù, "senza contropartita né riscatto". Nel 1950
Ho Chi Minh rese omaggio ufficiale a questo "apostolo della libertà dei
popoli", che la maggior parte degli storici cattolici continua a considerare
con disprezzo come un "giacobino regicida".
Col passare del tempo, per poter tutelare efficacemente gli interessi della
grande borghesia, il nuovo governo si vide costretto a scegliere la strada
del compromesso. Dalla tribuna della Convenzione, Boissy d'Anglas,
nonostante accusi i preti "d'instupidire la specie umana", riconosce che è
inutile "pretendere d'estirpare l'errore con la violenza". Di lì a poco
infatti si deciderà di concedere ai ribelli della Vandea la libertà di
culto, il diritto di scegliere i loro preti anche fra gli emigrati e la
facoltà di tenere una "guardia territoriale" locale. Il documento che sancì
una certa tolleranza nei confronti delle diverse confessioni fu il trattato
di Jaunaye del 17 febbraio 1795, in cui si dichiarava: 1) "ogni individuo e
ogni sezione di cittadini possono esercitare liberamente e pacificamente il
culto", e 2) "gli individui e i ministri di ogni culto non potranno essere
disturbati, inquietati né ricercati a motivo dell'esercizio libero, pacifico
e non pubblico del loro culto". Il culto privato -come noto- implicava che
lo si tenesse non nelle chiese ufficiali, che erano state trasformate in
"templi dello Stato" per il culto decadario, ma in altri luoghi gestiti a
proprie spese, e che l'uso degli abiti religiosi, delle campane, ecc.
restasse vietato, inoltre che i sacerdoti prestassero il giuramento del 14
luglio 1792 alla libertà e all'uguaglianza.
Paradossalmente, mentre al tempo della dittatura giacobina si negava la
libertà di culto per difendere gli ideali rivoluzionari (cioè si faceva una
cosa giusta in un modo sbagliato), ora invece i termidoriani concedono,
seppur limitatamente, questa libertà, ma solo per difendere degli ideali
reazionari. La borghesia infatti non voleva rinunciare alla propria
ideologia anticlericale, né voleva perdere il suo potere politico sulla
chiesa, ma allo stesso tempo non voleva lasciarsi coinvolgere in una guerra
di religione; anzi, se possibile, voleva cercare di riguadagnarsi la fiducia
del clero cattolico, da utilizzarsi, eventualmente, contro gli interessi
sociali e materiali delle masse. Questa esigenza diventava tanto più forte
quanto più cresceva l'opposizione popolare al nuovo regime.
Nella primavera del 1795 i lavoratori di Parigi insorsero due volte contro
la politica antidemocratica del governo, ma senza conseguire successi. I
termidoriani non solo ebbero la meglio in politica interna, ma anche in
quella estera, ottenendo grandi vittorie militari. Furono proprio loro che
ereditarono i risultati dell'immenso lavoro del governo giacobino. La
Convenzione termidoriana seppe anche impedire la restaurazione del
feudalesimo e della monarchia. Promulgò una Costituzione assai
conservatrice, ma imperniata sul rafforzamento delle istituzioni
repubblicane. Sul piano dei rapporti fra Stato e chiesa faticava alquanto a
farsi strada una separazione rigorosa, a livello ideologico, della politica
dalla religione. La tesi del vescovo Grégoire secondo cui un cattolico può
essere un buon credente di fronte alla chiesa e, nel contempo un buon
cittadino di fronte allo Stato, continuava a essere vista con sospetto.
E l'Enciclica di diversi vescovi di Francia agli altri vescovi loro fratelli
e alle chiese vacanti del 15 marzo 1795, offriva ai dubbi delle buone
motivazioni. E' vero che con essa i costituzionali riconoscevano "che il
governo della chiesa riguarda lo spirituale e non può estendersi né
direttamente né indirettamente [qui il riferimento è alla teoria del
Bellarmino] sopra il temporale" e che "le religione non gode più in Francia
di uno status politico". Ma è anche vero che i vescovi firmatari (fra cui il
Grégoire) volevano riprendere i rapporti con lo stato pontificio, cioè con
una delle espressioni più retrive di tutta l'Europa feudale, pur
ribadendo -è bene ricordarlo- il valore dei quattro Articoli gallicani
votati dall'assemblea del clero nel 1682(1).
In effetti, a parole i vescovi giurati ostentavano approvazione per le
misure adottate dalla rivoluzione riguardo alla gestione amministrativa
della chiesa (elezione del clero, collegialità della diocesi, ecc.), ma nei
fatti la loro unica preoccupazione era quella di riportare la chiesa
francese nell'alveo ideologico del cattolicesimo tradizionale, soprattutto
sul piano etico e disciplinare. Di qui le forti accuse che nell'enciclica di
muovono contro quei ministri che avevano condiviso le leggi sul divorzio e
sul matrimonio dei preti. Si trattava in sostanza di una lettera
ideologicamente refrattaria che voleva apparire politicamente
costituzionale. Molti addirittura chiedevano un esplicito ritorno
all'obbedienza "romana": lo attesta ad es. un rapporto indirizzato al papa
dal moderato Emery, superiore del seminario di s.Sulpizio (13 ottobre 1795).
Ancor meno rassicurante era l'atteggiamento con cui il clero refrattario
aveva accolto il decreto del 30 maggio 1795, che autorizzava l'uso degli
edifici religiosi, indifferentemente, ai diversi culti: costituzionale,
refrattario e decadario, alla sola condizione di rispettare tutte le leggi
della repubblica. Come Grégoire aveva previsto, la maggior parte dei preti
refrattari, appoggiati dai vescovi emigrati e dal re "in esilio" Luigi
XVIII, rifiutò il nuovo giuramento, giungendo persino a diffondere false
lettere di Pio VI per giustificare tale decisione. Cosa che indusse la
Convenzione a proibire agli ecclesiastici di leggere nelle chiese lettere
provenienti da persone residenti fuori della Francia.
Con la nuova Costituzione, entrata in vigore nel novembre 1795, il potere
esecutivo passò nelle mani del Direttorio, permettendo alla borghesia piena
libertà economica. "L'orgia borghese del Direttorio" -come la chiamava
Marx-, con la sua sfrenata speculazione e l'aggiotaggio, garantì enormi
profitti ai ceti più agiati. Le contraddizioni antagonistiche divennero così
profonde che questa volta la ribellione delle masse assunse caratteri
para-socialisti. Infatti, la Congiura degli eguali, capeggiata da Babeuf, si
pose come obiettivo fondamentale, per la prima volta nella storia della
Francia, l'abolizione della proprietà privata. Il pericolo fu talmente
grande che il Direttorio cercò sostegni politici a destra e a sinistra.
Inevitabilmente mutò anche il suo rapporto nei confronti dei cattolici: in
primo luogo con i refrattari, ai quali volle garantire l'abrogazione della
legge sulla deportazione e promettere il ritorno ad un regime di piena
libertà religiosa. L'uso strumentale della religione per fini
controrivoluzionari era evidente. Lo stesso papato si piegava facilmente a
tale necessità: lo testimonia il breve Sollicitudo (8 giugno 1796), con cui
si esortano i cattolici francesi a una docile sottomissione al governo. Ma
altrettanto evidente era la debolezza del Direttorio, che alla fine del '96
si vide costretto ad abrogare tutta la legislazione contro i preti
refrattari (ad es. la legge del 24 agosto 1797 accordò ai preti giurati e
refrattari la piena libertà di esercitare il proprio ministero, abolendo
tutti i giuramenti e consentendo anche qualche manifestazione esteriore di
culto).
La situazione sarebbe precipitata nel caos più totale, a vantaggio delle
forze restauratrici e filomonarchiche sempre presenti, se il Direttorio non
si fosse deciso per un colpo di stato militare nel fruttidoro 1797. Tra i
cattolici, i refrattari incitavano alla diserzione i figli dei loro seguaci,
a non pagare le tasse, a cacciare i preti costituzionali, a disobbedire al
giuramento del 29 settembre 1795 di sottomissione alle leggi della
repubblica. Il generale repubblicano Clarke, mandato dal Direttorio in
missione in Italia, scrisse in un rapporto del 1796: "siamo arrivati al
punto di aver bisogno dello stesso papa per ottenere che da noi la
rivoluzione sia assecondata dai preti e dalle campagne che essi sono
riusciti a governare di nuovo". La tendenza integralista di destra, che
ancora oggi sussiste nei gruppi che fanno capo al vescovo Lefebvre, prese il
nome di "Piccole chiese".
In materia di religione, i provvedimenti del nuovo Direttorio furono molto
severi: ripristinata la legge sulla deportazione, si pretese da tutto il
clero un giuramento di "odio alla monarchia". In pratica non si chiedeva più
di 'credere' nell'ideologia della classe borghese, ma solo di rifiutare
politicamente il vecchio regime borbonico. Singolare è il fatto che ai preti
che ostentavano un finto imbarazzo di fronte all'idea di provare sentimenti
di "odio" per i parassiti e sfruttatori della casa reale, persino i vescovi
d'ancien régime rimasti in Francia assicuravano che il giuramento aveva il
semplice significato di dichiarare la volontà di vivere conformemente alle
leggi repubblicane. Viceversa, i vescovi dell'emigrazione si affrettarono a
proibirlo con molta risolutezza, offrendo ai refrattari più
intransigenti -definiti ormai dal governo col termine di "ribelli"-
ulteriori pretesti per svolgere attività eversiva (nell'aprile 1799, ad es.,
diffusero la falsa notizia che Pio VI aveva dichiarato illecito il
giuramento. Oltre a ciò risposavano e ribattezzavano i parrocchiani dei
costituzionali, lanciando anatemi contro gli acquirenti dei beni nazionali).
Più diplomatica invece, la Santa sede mirava ad appoggiare i refrattari
concilianti, detti "sottomessi", avendo compreso che col regime del
Direttorio era più facile dialogare che col governo giacobino. La politica
di tolleranza, in effetti, avrà la meglio: la maggioranza degli
ecclesiastici prestò il giuramento di sottomissione. Bisognerà
tuttavia -osserva Dansette- che "Bonaparte tolga ai ribelli i loro argomenti
domando i fanatici dell'irreligione e imponendo la pace religiosa, perché i
cattolici moderati trionfino di nuovo e questa volta per lungo tempo".
Nei riguardi della chiesa costituzionale, ormai moribonda (ha già perduto i
3/4 del suo episcopato e la grande maggioranza dei preti), il regime, nel
complesso, tenne un atteggiamento poco costruttivo: il culto non era
perseguitato, ma restava spogliato di ogni carattere di ufficialità e non
disponeva di sovvenzioni statali. L'arcivescovo Grégoire riunì a Parigi un
concilio per giungere a un accordo con i refrattari e con Roma (da notare
che nel decreto di pacificazione, mal visto dal governo, si rinunciava
definitivamente alla Costituzione civile del clero). Ma la controparte
esigeva un "pentitismo" senza condizioni: in particolare essa chiedeva il
riconoscimento del primato giurisdizionale del papato, su cui invece i
costituzionali non transigevano, limitandosi a quello morale o di onore(2).
In tale quadro, ove gli interessi strumentali della borghesia, che vorrebbe
servirsi della religione per controllare le masse, si scontravano con le
rivendicazioni ecclesiastiche di autonomia politica, facilmente si finiva
col creare situazioni incerte e contraddittorie. Indubbiamente l'ostilità
verso la religione continuava ad essere molto sentita, specie fra i ceti
borghesi e intellettuali delle città. Ciononostante da più parti si voleva
un ritorno alla 'normalità' e alla pacificazione. I tradizionali principi
del cattolicesimo-gallicano, ora depurati dalle molte scorie del passato
regime, sembravano ritrovare, seppur senza particolari entusiasmi, un certo
consenso. Sintomatico, in questo senso, che degli 11.000 ordini di arresto e
deportazione, emessi verso l'inizio del 1798 contro i preti 'realisti'
(9.000 in Belgio, 2.000 in Francia), la maggior parte di essi rimase senza
effetto, in quanto la coerenza fra i principi professati e le azioni
concrete da tempo era venuta meno. Le autorità locali, ben consapevoli delle
ambiguità del governo in materia di tolleranza religiosa, sentivano di non
avere valide motivazioni per applicare alla lettere le sue direttive.
Nonostante i culti decadario e teofilantropico(3) continuassero a fruire di
vasti appoggi da parte del Direttorio, di fatto erano i tradizionali culti
religiosi ad essere maggiormente seguiti dai cattolici. Di qui la lotta fra
costituzionali e governo per l'osservanza della domenica in luogo del
decadì, per l'uso delle chiese e l'introduzione dell'insegnamento religioso
confessionale nelle scuole statali
Per queste ed altre ragioni il Direttorio aveva urgenza di giungere ad un
accordo con la Santa sede. Approfittando delle vittorie di Napoleone in
Italia, esso aveva chiesto a Pio VI di annullare tutti gli atti di condanna
della politica ecclesiastica dei governi succedutisi dall'inizio della
rivoluzione in poi. Ma il papa non ne volle sapere. L'unico risultato
raggiunto fu la pace di Tolentino nel febbraio 1797, in cui si regolarono
solo gli aspetti territoriali e finanziari pendenti fra i due Stati. A ciò
seguì la deportazione di Pio VI in Francia, dopo l'occupazione francese di
Roma, e la morte di quest'ultimo il 29 agosto 1799.
Una vera svolta invece si verificò allorquando la borghesia volle por fine
alla politica incerta e altalenante del Direttorio con il colpo di stato del
9 novembre (18 brumaio) 1799, che instaurò la dittatura militare di
Napoleone Bonaparte, ovvero il passaggio dalla Repubblica all'Impero. La
politica ecclesiastica di questo nuovo regime, prima della vittoria di
Marengo (1800), fu caratterizzata da molti tatticismi: si restituirono le
chiese alle confessioni che vi esercitavano il culto prima della loro
chiusura, si abrogarono i provvedimenti delle autorità locali con cui si
decretava la chiusura delle chiese all'infuori dei decadì, si esclusero
dalla deportazione i preti giurati e quelli che avevano contratto
matrimonio, si decretarono pubblici onori alla salma di Pio VI, s'impose al
clero un giuramento di fedeltà alla Costituzione, ovvero un puro e semplice
riconoscimento del governo di fatto, senza un impegno di fedeltà per i suoi
atti futuri, come invece intendeva la Costituzione del clero (il che però
non impedì nuove accese discussioni).
Dopo Marengo, Napoleone cercò a tutti i costi d'intavolare delle trattative
con Roma per avere in Francia una chiesa fedele alle sue direttive. Sono
note le sue considerazioni opportunistiche circa la religione: "Nessuna
società può reggersi in piedi se non è fondata sulla religione, e non c'è
buona morale se non c'è religione: soltanto la religione offre allo Stato un
appoggio stabile e sicuro". E ancora: "Quando un uomo muore di fame vicino a
un altro che si abbuffa, è impossibile fargli ammettere questa differenza se
non c'è un'autorità che gli dica: Dio vuole che ci siano dei ricchi e dei
poveri, ma poi per l'eternità ci si dividerà in ben altro modo". Concetto,
questo, che sintetizzò magnificamente allorquando disse che "la società non
può esistere senza l'ineguaglianza dei beni né questa senza la religione".
La storiografia cattolica più conservatrice giustifica questo atteggiamento
col dire che Napoleone, volendo "salvare" la rivoluzione, capì che
l'influenza dei preti era meglio utilizzarla che ostacolarla. Ovverosia la
differenza fra Napoleone e Robespierre starebbe nel fatto che il primo -come
vuole ad es. Mezzadri- "rispettò le convinzioni del popolo, mentre l'altro
gliene voleva imporre di nuove". In realtà questo modo di vedere le cose è
alquanto apologetico ed è soprattutto espressione di chi, desiderando una
chiesa forte, capace di dominare la scena politica, considera appunto la
politica come un ambito riservato ai cosiddetti "potenti", ove le masse
hanno possibilità di accesso solo per qual tanto o per quel poco che, con
fare strumentale, viene loro permesso. E' evidente, in questo senso, che,
non potendo più scegliere il privilegio esclusivo di cui fruiva sotto
l'ancien régime, una chiesa del genere non può che preferire il regime di
compromesso (cioè di relativo privilegio e asservimento) a quello di
separazione. La storia ha in realtà dimostrato sia che gli ideali della
rivoluzione erano stati traditi prima ancora che Napoleone cercasse l'intesa
con la chiesa romana, sia che con tale iniziativa si voleva garantire
proprio alla controrivoluzione un'esistenza il più possibile tranquilla e
duratura. Di questo lo stesso Napoleone era perfettamente consapevole: "Si
pretende -egli disse- che io sia un papista, ma non lo sono affatto; in
Egitto ero maomettano, qui sarò cattolico per il bene del popolo. Nella
religione io non vedo il mistero dell'Incarnazione, ma quello dell'ordine
sociale".
Convocato dunque il clero a Milano, Napoleone pronunciò alla sua presenza un
discorso in cui condannò l'atteggiamento tenuto verso la religione dai
philosophes e dai giacobini e dichiarò di essere pronto a negoziare con
Roma. Poco dopo fece cantare un Te Deum di ringraziamento in duomo per la
vittoria di Marengo: era la prima volta, dopo la proclamazione della
repubblica, che un capo di Stato francese partecipava a una cerimonia del
genere. Con ciò naturalmente non si deve pensare che Napoleone fosse un
"credente". "E' chiaro -egli disse- che le religioni vanno bene per uomini
che si trovano ancora ad uno stadio infantile. I preti hanno insinuato,
sempre e dappertutto, la frode e la menzogna".
Intanto al soglio pontificio era salito il card. Chiaramonti, disponibile
verso i regimi democratici (è noto il suo aforisma: "Siate buoni cristiani e
sarete buoni democratici"). Le opposizioni all'intesa però non erano poche:
da Luigi XVIII, che si era proclamato re in esilio a quella parte
dell'entourage di Napoleone ancora legata alla politica ecclesiastica della
rivoluzione (si pensi a Talleyrand e Fouché), dalla chiesa costituzionale
(con Grégoire in testa), che temeva di perdere la sua indipendenza da Roma,
agli ambienti legittimisti (soprattutto la chiesa "ribelle") che speravano
in un ritorno della monarchia e temevano che l'accordo avrebbe loro tolto il
consenso delle masse cattoliche. Ma, nonostante tutto ciò, il Concordato si
fece (1801), seppur dopo otto mesi di difficili trattative. La chiesa, che
non voleva assolutamente cedere sul riconoscimento della libertà di culto
per le altre confessioni e sulla necessità, imposta dal governo francese, di
dimettere i vescovi emigrati, fu messa con le spalle al muro dalla minaccia
di Napoleone di creare una chiesa scismatica e di farsi "protestante".
I punti salienti, in breve, possono essere considerati i seguenti:
1) il papa riconosce la repubblica come governo legittimo della Francia;
2) Napoleone riconosce il cattolicesimo come "religione maggioritaria" della
sua nazione (il che in pratica vuol dire: libertà di culto per tutte le
confessioni ma soprattutto per quella cattolica. In particolare i consoli
della repubblica sono tenuti a professare la fede cattolica);
3) il papa ottiene le dimissioni di tutti i vescovi e la possibilità di
istituire canonicamente i loro successori dopo che questi siano stati
nominati dal capo dello Stato (in pratica si poneva fine alla chiesa
costituzionale e ai culti rivoluzionari: quello decadario era già stato
abolito nel 1800, quello teofilantropico lo sarà nel 1801. Talleyrand
suggerì il riconoscimento dei vincoli coniugali contratti da quei preti e
vescovi che avrebbero potuto essere riammessi alla comunione con la chiesa
di Roma, ma la proposta fu respinta. Venne altresì abolita l'elettività
popolare del clero).
4) In cambio Napoleone ottiene, in virtù del giuramento, la fedeltà al
governo di tutti i nuovi vescovi e inoltre che i vescovi nominino solo i
parroci graditi al governo;
5) i beni espropriati alla chiesa non vengono restituiti e la chiesa
s'impegna a non richiederli (in cambio il governo assicura a vescovi e
parroci uno stipendio);
6) la chiesa ottiene di poter rivedere le circoscrizioni diocesane, di poter
istituire seminari o capitoli metropolitani senza oneri per lo Stato, di
poter conservare la proprietà delle chiese non alienate e il diritto di
ricevere lasciti e donazioni da parte dei fedeli;
7) si dispensava il clero dal servizio militare, si consentiva ai parroci di
non amministrare il sacramento del matrimonio a chi fosse vincolato da
impedimenti canonici e si tutelava l'autonomia giurisdizionale
dell'ordinario sugli ecclesiastici che avessero commesso reati canonici o
politici.
Con questo Concordato si torna praticamente alla situazione
prerivoluzionaria, cioè al Concordato del 1516, con la differenza che ora la
chiesa cattolica ha un potere economico e quindi politico notevolmente
ridimensionati. Tuttavia, nei confronti della chiesa gallicana e di tutti
coloro che, in un modo o nell'altro, volevano una religione più 'civile' o
più conforme all'ideale evangelico, la vittoria della Santa sede era stata
grande, sul terreno sia politico che ideologico, benché si sia trattata di
una vittoria ottenuta grazie all'appoggio di una nuova classe sociale ad
essa tendenzialmente ostile: la borghesia. In seguito, taluni punti non
previsti dal Concordato vennero inclusi unilateralmente l'8 aprile 1802,
nello strumento approvato dal governo francese (i cd. "Articoli organici"),
come ad es. l'insegnamento dei Quattro articoli gallicani, la pretesa
d'imporre in Francia un solo catechismo e una sola liturgia, ecc. Il che, in
sostanza, stava ad indicare che Napoleone rifiutava al cattolicesimo-romano
il rango di religione di stato. In ogni caso il papato era riuscito a
ripristinare in Francia la sua autorità giurisdizionale, facendo chiaramente
capire che le idee di democrazia e uguaglianza non avrebbero potuto portare,
sic et simpliciter, alla distruzione della compagine gerarchica e
burocratizzata che da secoli e secoli la chiesa s'era data.
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