Pour venger les Girondins, elle poignarda Marat dans son bain. Charlotte Corday : arrière petite nièce de Corneille, elle avait le caractère d'un homme et tout le charme d'une jeune fille. Etait-elle royaliste, "girondine", républicaine? Avait-on téléguidé son bras? Pour elle, On ne saurait pas le dire. Elle-même, le sait-elle? Certes, on connaît cette phrase de Mlle Corday : j'étais républicaine bien avant la révolution. Autre phrase "Marat était un monstre, indigne de vivre" Fervente lectrice de Plutarque, Tacite, Rousseau et adepte des idées nouvelles, elle se rallia à la Révolution. C'est après la proscription des Girondins* le 2 juin 1793, qu'entrée en contact avec certains des chefs de l'insurrection fédéraliste de Normandie elle décida de tuer Marat, principal responsable à ces yeux de l'élimination des Girondins et de l'instauration du régime de la terreur*. Arrivée à Paris au début juillet, elle obtint le 13 juillet une entrevue avec Marat, qui la reçu dans son bain, o7u le jeune fille le poignarda. Emprisonnée à l'Abbaye puis à la Conciergerie*, jugée par le tribunal révolutionnaire dès le 17 juillet, condamnée à mort et exécutée. © LE ROBERT des noms propres. Adieux de Charlotte Corday à son père, 1793. Pardonnez-moi, mon cher papa, d'avoir disposé de mon existence sans votre permission. J'ai vengé bien d'innocentes victimes, j'ai prévenu bien d'autres désastres. Le peuple, un jour désabusé, se réjouira d'être délivré d'un tyran. Si j'ai cherché à vous persuader que je passais en Angleterre, c'est que j'espérais garder l'incognito, mais j'en ai reconnu l'impossibilité. J'espère que vous ne serez point tourmenté. (...)J'ai pris pour défenseur Doulcet : un tel attentat ne permet nulle défense, c'est pour la forme. Adieu mon cher papa, je vous prie de m'oublier, ou plutôt de vous réjouir de mon sort, la cause en est belle. J'embrasse ma sour que j'aime de tout mon cour, ainsi que tous mes parents. N'oubliez pas ce vers de [Thomas] Corneille : "Le crime fait la honte et non pas l'échafaud." c'est demain à 8 heures qu'on me juge. Ce 16 juillet. Charlotte CUSTINE Adam Philippe Custine Adam Philippe, ( comte de ) Général français né à Metz (1740 - 1793. Il combattit en Amérique, occupa Mayence en 1792 et commanda l'armée du Nord en 1793; il mourut sur l'échafaud pour avoir perdu Condé et Mayence. © Petit Larousse 1969 Nommé maréchal de camp après sa participation à la guerre d'Indépendance américaine, il fut élu député de la Noblesse aux Etats généraux en 1789 et se rallia à la Révolution, tout en votant avec la droite sur sertaines questions, notamment sur le drois de la Paix et de la guerre accordé au roi, commandant de l'armée du Rhin, il s'empara successivement de Spire le 25 septembre 1792, de Worms le 6 Octobre, de Mayenne le 21 octobre et de Francfort le 23 octobre. Après la défaite et la trahison de Dumouriez en mars 1793, l'armée de Custine fut repoussée au sud par celle du duc de Brunswick qui reprit Worms et Spire et assiégea Mayenne. De retour à Paris, Custine fut nommé général en chef de l'armée du Nord le 13 mai 1793. Mais après la reddition de Condé et la perte de Mayenne, il fut accusé de trahison et condamné à mort par le tribunal révolutionnaire. Danton, come Robespierre e Marat, è una creazione della rivoluzione. Egli sorge dall'immenso avvenimento senza alcun preavviso. Malgrado gli sforzi dei suoi biografi per cercare nella sua giovinezza dei segni premonitori, si fa fatica a scorgere nel giovane Danton dei loro ritratti un personaggio già calamitato verso la futura rivoluzione. Era nato ad Arcis-sur-Aube nel 1759, in un ambiente di piccola borghesia di toga, uscita solo di recente dalla classe contadina. Aveva compiuto studi irregolari presso gli oratoriani, era diventato praticante nell'ufficio di un procuratore a Parigi, poi avvocato. Alla vigilia della rivoluzione è un avvocato modesto, meno miserabile di quanto abbiano detto i suoi avversari (per meglio valorizzare il carattere improvviso e sconveniente della sua fortuna), ma meno florido di quanto affermino i suoi seguaci. Senza dubbio aveva l'Encyclopédie nella sua biblioteca, fra Plutarco e Beccaria, ma tale possesso, allora quasi obbligato, non può far concludere che si nutrisse di Diderot. Nella sua prima causa aveva dovuto difendere un pastore contro un nobile, ma a quale avvocato illuminato non era capitato di trattare, a quei tempi, questo magnifico soggetto? Nulla di tutto ciò basta a spiegare un impegno rivoluzionario. Madame Roland, che lo odiava, ha visto giusto dicendo che egli "era nato nella sua sezione". Ciò è confermato da una testimonianza di Laveaux, il quale scoprì con stupore, il 23 luglio 1789, il suo collega Danton, fino allora "mite, modesto e silenzioso", in piedi su un tavolo, intento a sobillare i cittadini. Tale è l'ingresso di Danton nella vita pubblica: egli appare sulla scena della rivoluzione come agitatore di piazza. Ed è sempre come agitatore che compie il suo apprendistato rivoluzionario a capo dei cordiglieri, il distretto del suo quartiere. Questo distretto d'avanguardia si batte, per tutto il 1790, contro il "dispotismo municipale" e contro Bailly, l'uomo della Pallacorda. Una guerriglia incessante, che procurerà a Danton, eletto e rieletto presidente del distretto, un mandato d'arresto, e che gli permetterà di mettere a punto un talento oratorio il cui effetto, come ebbe a scrivere Thibaudeau, era prodigioso. Al tempo stesso aumenta la sua reputazione di tribuno di quartiere, di Mirabeau da strada. Infatti Danton, come Mirabeau, è un "tipo", un personaggio profondamente teatrale. Per le sue proporzioni: "Atlante", "Ercole", "Ciclope", i contemporanei non hanno saputo come rendere le "forme atletiche" di cui, un po' fanfarone, egli diceva di esser stato provvisto dalla natura.Per l'unione di tratti contraddittori: un viso "ripugnante e atroce" con un aria di grande giovialità", massacratore senza ferocia, gaudente senza avidità, terrorista senza principi, parvenu senza avarizia, pigro frenetico, tenero colosso, Danton ha avuto sempre la capacità dì ispirare il ritratto antitetico. Infine, per le crisi drammatiche della rivoluzione, da cui non può separarsi; perché, a questa "natura", la rivoluzione darà qualcosa di più di un impiego: un'identità. Come Robespierre, infatti, Danton ha ricevuto in sorte il potere di incarnare la rivoluzione. Intorno alla sua persona si è formata ben presto una leggenda, si è scatenata una polemica ideologica e politica, si è riunita una schiera di dantonisti militanti, impegnati nell'immensa revisione del processo fatto a Danton da Saint-Just e Robespierre. Un processo in cui era stata emessa una sentenza, ma non pronunciata un'arringa di difesa: tanto che l'arringa postuma creata per Danton dai suoi seguaci è, inscindibilmente, una requisitoria contro coloro che avevano macchinato la sua rovina, e diventa un giudizio comparato di Robespierre e di Danton. Il parallelo fra i due uomini, topos della storiografia rivoluzionaria, è stato tracciato cento volte. Si è contrapposto Robespierre a Danton come la virtù al vizio, l'incorruttibilità alla venalità, la laboriosità all'indolenza, la fede al cinismo: è la versione dei robespierristi o, come dice Michelet, dei "cattolico-robespierristi", felici "di 'settembrizzare' la memoria degli increduli". Ma si possono anche contrapporre i due uomini come il malaticcio al vigoroso, il sospettoso al generoso, il femminile al maschile - o meglio al maschio - l'astratto al concreto, lo scritto all'orale, il sistema morto alla viva improvvisazione: ed eccoci, questa volta, in pieno dantonismo. Della leggenda dantoniana, Mathiez ha detto che era una fioritura tardiva, scolastica e povera, opera esclusiva della République des camarades. L'immagine di Danton, tuttavia, si è già formata col Romanticismo. Quando Michelet, nelle prime pagine della sua Storia della rivoluzione francese, incontra Danton e Desmoulins, sa che "essi ci seguiranno, non ci lasceranno più", perché "la commedia, la tragedia della rivoluzione vivono in loro, o in nessuno". Nel corso del suo lavoro Michelet scoprirà le eclissi del suo luminoso eroe, ma continuerà ugualmente a fare di lui l'incarnazione della rivoluzione, "il vero genio pratico, la forza e la sostanza che la caratterizzano nel fondo". Che cos'è questo genio? "L'azione, come dice un antico. E che cos'altro? L'azione. E, come terzo elemento, ancora e sempre, l'azione." Si sarà riconosciuta qui la parafrasi del celebre triplice appello di Danton all'audacia, in cui Quinet, a sua volta - che aveva attinto da Baudot la sua ammirazione per il "sovrano rivoluzionario -scorge "il motto di un intero popolo". La letteratura e la drammaturgia romantiche non sono state da meno. ilugo, che fa dialogare Marat, Robespierre e Danton in una bettola del distretto dei cordiglieri, attribuisce a Danton questa battuta decisiva: "Ero lì il 14 luglio, ero lì il 6 ottobre, ero lì il 20 giugno, ho fatto il 10 agosto." E Bùchner: "AI Campo di Marte ho dichiarato guerra alla monarchia, l'ho abbattuta il 10 agosto, l'ho uccisa il 21 gennaio, e ho lanciato ai re una testa di re in segno di sfida." Il Danton romantico, visto nella drammatica luce della morte, è il Danton dalla parola elettrizzata dai "subitanei moti dell'anima", la cui forza vitale genera e riassume al tempo stesso eventi inauditi, il Danton delle "giornate". E vera quest'immagine? Il 14 luglio, non v'è traccia di Danton: nessuno l'ha visto alla presa della Bastiglia. Lo si è visto prima, il 13, mentre arringava le BAILLY Jean Sylvain BARBAROUX Charles Henri Marie BARÈRE DE VIEUZAC Bertrand BARNAVE Antoine BERTIER DE SAUVIGNY Louis Bénigne BESENVAL Pierre Victor (de) BEURNONVILLE Pierre Riel (comte puis marquis) BILLAUD-VARENNES Jacques Jean BONNEVILLE Nicolas (de) BOUILLE François Claude Amour (marqui de.) BOURBOTTE Pierre BRISSOT Chartres BROGLIE Victore François BUZOT François Nicolas Léonard CAMBACERES Jean-Jacques-Régis de ( 1753 - 1824 ). CAMBON Joseph CAMUS Armand Gaston CARNOT Lazare Nicolas Marguerite CARRA Jean-Louis CASTHELINEAU CHAPPE Claude (l'abbé) CHARLES X Charles de France, comte d'Artois CHAUMETTE Pierre Gaspard dit ANAXAGORAS (1763-1794) CLAVIERE Etienne COLLOT D'HERBOIS Jean Marie CONDÉ Louis Joseph de Bourbon ( prince de) CORDAY D'ARMONT Charlotte CUSTINE Adam Philippe DANTON Georges Jacques DE BRY Jean Antoine Joseph D'EGLANTINE Nazaire François Philippe FABRE DELACROIX Jean-François Lacroix, ou DELMAS Jean François Bertrand DESÈZE ou DE SÈZE Raymond Romain (comte) DESMOULLINS Camille DILLON Arthure (comte) DILLON Théobald ( chevalier de ) son frère DUBOIS-CRANCE Edmond Louis (dit Dubois de Crané) DUMOURIEZ Charles François DUPORT ou DU PORT Adrien Jean François FLESSELLES Jacques (de) FOULLON Joseph François FRAVRAS Thomas de MAHY (marquis de) GARAT Dominique Joseph GENSONNÉ Armand GILLET François GIRONDIN GONCHON Clément GRÉGOIRE Henry (l'abbé) GUADET Marguerite Elie GUYTON DE MORVEAU Louis Bernard (baron) HEBERT Jacques René HÉRAULT de SECHELLES Marie Jean ISNARD Honoré Maximin JOURDAN Mathieu Jouve (dit JOURDAN COUPE-TETE) LAFAYETTE Marie Joseph Paul Yves Roch Gilbert (marqui de.) LAMBESC Charles Eugène de LORRAINE duc d'ELBEUF et prince (de) LASOURCE Marie David Albin LAUNAY Bernard JORDAN (de) LAVOISIER Antoine Laurent LE CHAPELIER Isaac René Guy LE PELETIER de SAINT-FARGEAU LOUIS MICHEL LEFRANC Jean Georges de POMPIGNAN LINDET Jean Baptiste Robert LOUIS XVI LUCKNER Nicolas MAILHE Jean Baptiste MALESHERBES Chrétien Guillaume MANUEL Pierre louis MARAT Jean Paul MARIE-ANTOINETTE MERLIN Philippe Antoine (comte) MIRABEAU Honoré Gabriel RIQUETI (comte de) MOMORO Antoine François MOUNIER Jean Joseph NECKER Jacques (1732-1804) ORLÉANS Louis Philippe Joseph (duc d') PASCAL ou Pasquale Paoli PETION de VILLENEUVE Jérôme PHILIPPE EGALITE' Louis, Philippe, Joseph Duc d'Orléans PRIEUR DE LA MARNE Pierre Louis QUINETTE Nicolas Marie (baron de Rochemont) ROBESPIERRE Maximilien (de) ROCHAMBEAU Jean Baptiste Donatien de Vimeur (comte de) ROLAND de la Platière Jean Marie ROUGET DE L'ISLE Claude Joseph ROUX Jacques SAINT-JUST Louis Antoine SALICETTI Antoine Christophe SERVAN DE GERBEY Joseph SIEYÈS Emmanuel Joseph (dit l'abbé Sieyès) STOFFLET Jean Nicolas THÉROIGNE DE MÉRICOURT Anne-Josèphe Therwagne THOURET Jacques Guillaume TREILHARD Jean BaptisteVARLET Jean François VERGNIAUD Pierre Victurnien truppe cordigliere, e dopo, nella notte dal 15 al 16, mentre le trascinava verso la fortezza per far arrestare un governatore fayettista, ben presto rilasciato. È' assente anche dalle giornate di ottobre. Ma, prima, aveva redatto il manifesto dei cordiglieri che chiamava alle armi i parigini e, dopo, ringraziò Luigi XVI per essere tornato fra i suoi. 1118 aprile 1791 - giorno in cui il re tenta di raggiungere Saint-Cloud - il suo ruolo è ancora retrospettivo: ai giacobini, tira le somme della giornata. 1117 luglio è assente dal Campo di Marte, ma vi si trovava la vigilia per presentare, con Brissot, il testo di sapore orléanista che chiedeva all'Assemblea di ricevere l'abdicazione del re, e, il giorno dopo, giudica prudente fuggire da Parigi. Nella notte del 10 agosto lo si vede soltanto durante una capatina alla sua sezione, e un'altra all'Hòtel de Ville ("Tu fosti assente in quella terribile notte," gli dirà SaintJust). Ma, prima, aveva tracciato ai federati la loro linea di condotta e fatto votare, nel rifugio della sua sezione, la celebre dichiarazione in cui, abolendo la distinzione fra cittadini attivi e passivi, fondava l'uguaglianza politica sul pericolo in cui versava la patria. Ma dopo, eccolo ministro della giustizia, titolo che consolida la sua reputazione di uomo del 10 agosto. Lo era, in ogni caso, agli occhi del ministero girondino. I suoi buoni rapporti con la Comune insurrezionale - che lo aveva riportato alle sue funzioni di sostituto - potevano bastare a imporlo come uomo dell'insurrezione; Condorcet gliene aveva quasi accordato il brevetto, convinto com'era che al ministero occorresse un "uomo che, per il suo ascendente, potesse tenere a freno gli strumenti miserabili di una rivoluzione peraltro utile, gloriosa e necessaria". Danton è quindi diventato ministro, come dice Camille Desmoulins, "in grazia del cannone", un cannone che tuttavia si era accontentato di ascoltare. Dimentichiamo perciò la tradizione romantica. Danton ha organizzato, preparato ("ho preparato il 10 agosto," disse al Tribunale rivoluzionario) delle giornate cui non ha partecipato. In compenso, sono le giornate a creare lui, e in particolare il 10 agosto. Questa data apre una frattura nella vita di Danton: ieri agitatore di quartiere, domani capo della rivoluzione. Una nuova versione della leggenda avrebbe poi fatto omaggio esclusivo a Danton di questa parte di capo. La scuola positivista, come ha scritto Mathiez, si azzardò a "scegliersi un precursore nello sbracato gaudente dei cordiglieri" e a dipingere Danton come figlio di Diderot. Delle tre filosofie che si sono spartite il XVIII secolo, Comte aborre in effetti quella di Voltaire (il trono senza l'altare), quella di Rousseau (l'altare senza il trono), ma riverisce la scuola enciclopedica, sia per il radicalismo della sua emancipazione (né altare, né trono), sia per il suo atteggiamento "relativistico": termine che, nel linguaggio del positivismo, significa che, lungi dal conferire al presente un valore assoluto, non si perde di vista l'avvenire, il quale deve dare al presente il suo colore e il suo senso. Ora, nonostante il carattere necessariamente incerto della filosofia degli enciclopedisti (poiché, se è vero che le credenze teologiche sono morte, le credenze positive non sono ancora nate), essa ha tuttavia prodotto due eroi: uno teorico, che è Condorcet, l'altro pratico, che èDanton. Il terzo volume del Corso di filosofia positiva contiene perciò l'inaspettato elogio dei dieci mesi in cui trionfa la "tendenza organica" della rivoluzione francese, fase ascendente in cui, contemporaneamente, si sostituisce la rivoluzione alla monarchia, si tenta di fondare una religione respingendo la teologia, si riunisce la nazione intorno alla salute pubblica, si istituisce un governo civile capace di unire l'ordine alla libertà. L'anima di questa breve epoca è Danton, il quale aveva compreso che a un regime transitorio occorre una dittatura transitoria, una "dittatura nuda". Dopo di che, col retrogrado Robespierre, l'ondata rivoluzionaria rifluisce. Nel ritratto tracciato da Comte, e poco dopo da Robinet e Laffitte, scartiamo ciò che rientra in un incerta agiografia: Danton è stato l'anima della lotta repubblicana contro Luigi XVI? Nulla è meno sicuro: sia le dichiarazioni di Danton ai giacobini (su "l'individuo regale che non può più essere re se diventa imbecille") sia la petizione redatta con Brissot per il Campo di Marte lasciano spazio a un dubbio (si trattava di un passo verso la repubblica o verso il duca d'Orléans?) che l'atteggiamento di Danton nel processo del re non aiuta a risolvere. D'altra parte, egli è stato davvero l'uomo del culto della Ragione, come avrebbero voluto pensare i positivisti allergici all'Essere supremo? E un'ipotesi ancor più difficile da sostenere. Perché, anche se si tiene presente la superba risposta di Danton al Tribunale rivoluzionario - "La mia residenza? Domani nel Nulla" - non è possibile dimenticare le sue frasi di tono voltairiano sui preti consolatori di un popolo diseducato, né ignorare l'appoggio che egli ha dato alla politica moderata di Robespierre. Ciò è dipeso dalle circostanze, replicano i positivisti dantoniani. Ma per l'appunto: sul problema della religione, come su quello della repubblica, Danton ha solo convinzioni di circostanza. Resta l'argomento principe dei positivisti, quello che fa di Danton l'uomo che ha compreso "il carattere transitorio della situazione sociale", che ha sostenuto l'eccezionalità delle circostanze rivoluzionarie e ha definito la rivoluzione, senza debolezze, come un evento straordinario. In tal senso, le vere "giornate" rivoluzionarie di Danton sono quelle dell'8, 9, 10 e 11 marzo 1793, quando, di ritorno dal Belgio, egli invita i deputati ad accorrere personalmente alle sezioni di Parigi per accelerare il reclutamento. E in quei giorni che appoggia il discorso di Robespierre per un governo forte; che chiede, contro il parere dei girondini, la creazione di un Tribunale rivoluzionario, poiché "non vede alcuna via di mezzo" tra questa istituzione e le forme ordinarie; e suggerisce ai deputati di scegliere i ministri anche nel proprio seno. Una proposta cui la Convenzione rimane sorda: il Comitato di salute pubblica che essa ha istituito il 6 aprile deve certamente "sorvegliare" l'azione del consiglio esecutivo, ma non sostituirsi a esso. L'estate seguente, Danton tornerà alla carica, sostenendo il decreto che autorizza anche il Comitato di salute pubblica a emettere a sua volta mandati d'arresto, e proponendo di erigere il Comitato a governo provvisorio, "in attesa" che la costituzione possa essere applicata. In questo suo mettere da parte i principi, i positivisti riconoscono e venerano l'atteggiamento "relativistico". Lo stesso Danton, del resto, lo ha benissimo definito, in una formula che sembra essere stata coniata apposta per Robespierre: "E impossibile fare la rivoluzione geometricamente." Il programma politico di Danton, nell'anno 1793, consiste perciò nella rottura con il dogma della separazione dei poteri e nell'abbandono della diffidenza che i costituenti avevano mostrato nei riguardi del potere esecutivo. Consiste nel sogno di un governo forte che non abbia soltanto un ruolo esecutivo ma anche di incitamento e di guida, i cui ministri scelti in seno all'Assemblea siano solidalmente responsabili davanti a essa per ogni decisione. Consiste anche in una trovata originale, la breve durata (un mese) del mandato del Comitato, che consente di mantenere l'armonia fra l'esecutivo e la maggioranza del momento. Questa disposizione fa scorgere talvolta in Danton il vero inventore del regime parlamentare alla francese, con un governo espresso dal potere legislativo, eppur distinto da esso e munito di poteri effettivi. Con tutto ciò, Auguste Comte insiste nel fare di Danton l'iniziatore di una dittatura "paragonabile a quella di Luigi XI, di Richelieu, di Cromwell e anche di Federico Il". In questa luce, l'unico vero errore commesso da Danton - nemmeno Jaurès glielo perdona - è di aver indietreggiato, venendo meno alle proprie convinzioni, davanti alla dittatura personale e rifiutato di entrare nel Comitato di salute pubblica. Ma questo non è tanto un errore di Danton quanto un difetto nell'armatura che i positivisti gli hanno inventato, attribuendogli una coerenza che egli era lungi dal possedere. Docile alla forza delle cose, insensibile alla legittimità del numero, mai preoccupato di giustificare l'insurrezione, il Danton del 1793 è proprio l'uomo che vuol stabilizzare la rivoluzione rafforzando l'autorità del governo, che impone il Tribunale rivoluzionario, la centralizzazione, la giustizia militare, e non si cura affatto di creare istituzioni destinate a durare in eterno. Ma in lui questo "rifiuto della metafisica" non era il frutto di un pensiero sistematico. Agli inizi della Convenzione aveva sostenuto idee esattamente opposte, e in particolare che i ministri non dovevano essere scelti dai deputati, neppure in caso di dimissioni. Quando Danton ricorre alla forza, non la erige mai a principio, né teorizza la dittatura. Insomma, non merita affatto il posto che Comte gli ha assegnato, nella "gloriosa falange dei dittatori occidentali". L'impiego del termine "dittatura", che in Comte aveva una connotazione molto particolare, era assai inopportuno per degli incensatori. I repubblicani dantonisti l'abbandoneranno ben presto, trasformando il Danton del comtismo in una scipita figura di opportunista. Dell'eroe positivista manterranno soltanto quei tratti che, dopo la disfatta del 1870, l'umiliazione della patria e la laboriosa conquista della repubblica da parte dei repubblicani, meglio si accordano coi tempi calamitosi. Per tutta una corrente del dantonismo universitario, di cui Aulard è il principale esponente, Danton diviene una prima incarnazione di Gambetta. In lui si mette in rilievo il precursore delle leggi scolastiche (basandosi sul discorso, piuttosto piatto a dire il vero, che egli aveva dedicato all'istruzione gratuita, ma non obbligatoria). E soprattutto l'uomo della patria in pericolo, che si sforza di unire contro il nemico tutte le energie della nazione. La storiografia degli ultimi vent'anni del XIX secolo vuol ricordare solo il Danton delle tragiche ore dell'invasione dell'agosto 1792, che si oppone al ripiegamento dietro la Loira e che organizza la leva di 30 000 uomini, ministro della difesa nazionale assai più che della giustizia, suo titolo ufficiale; o quello della primavera 1793 che, di ritorno dal Belgio, fa accelerare il reclutamento di 300 000 uomini, questa volta; o, ancora, quello che, venuta l'estate, fa decidere un'altra leva - di 400 000 uomini - e ottiene che venga votata la creazione dell' "armata rivoluzionaria". In queste grandi occasioni, la parola di Danton fa prodigi. Per il suo entusiasmo contagioso, "poiché, se è bene fare le leggi con ponderazione, la guerra si fa bene solo con entusiasmo"; per le sue metafore spontaneamente guerresche; per l'uso così particolare e così trascinante del presente indicativo, che descrive i risultati previsti come già ottenuti per sola virtù del verbo ("tutto si agita, tutto si muove, tutto brucia dalla voglia di combattere") e che è il tempo stesso del prodigio. Lo stesso Danton aveva predetto che i posteri si sarebbero stupiti del contagio che emanava dalla sua parola; una "commozione generale", una "febbre nazionale" istantaneamente feconde. Sicché, di tutte le rappresentazioni di Danton, l'immagine popolare diffusa dai manuali scolastici della Terza repubblica è senza dubbio, paradossalmente, la più autentica. Se l'eloquenza di Danton suscita miracoli, è perché il pericolo della patria ha sempre suscitato la reazione di Danton. L'eroica semplicità di quest'immagine non avrebbe resistito alla riedizione del processo di Danton da parte degli storici robespierristi. Laponneraye, Buchez e Roux l'avevano già cominciata da tempo: la loro bibbia era la requisitoria costruita da Saint-Just sul canovaccio fornito da Robespierre. Ma né Laponneraye né Buchez e Roux si erano azzardati a riempire gli spazi lasciati in bianco dagli accusatori. Questa fu opera di Mathiez che, sistematosi nella poltrona di Fouquier-Tinville, sviluppò in modo prodigioso le motivazioni della sentenza. Mathiez ha spulciato instancabilmente i conti di Danton; ha analizzato il suo impiego del tempo, seguendo le sue tracce nei momenti in cui, come aveva detto Saint-Just, prendeva "la via della ritirata"; ha fatto l'inventario di tutti i suoi amici sospetti; ha stigmatizzato l'uomo amante dei piaceri e delle donne; e ha lasciato in retaggio alla storiografia della rivoluzione i suoi argomenti più poveri: come quello, sviluppato di recente da Frédéric Bluche, secondo cui, nel caso di Danton, l'iniquità propria del Tribunale rivoluzionario raggiunge una certa giustizia. Questa ripresa accanita del processo a Danton ha trasmesso alla storiografia contemporanea la questione della sua venalità; e, molto più importante di questa, il problema di sapere se, tra venalità e "disfattismo", tra venalità e indulgenza, vi sia un valido nesso: insomma, se tutta la politica di Danton stia nella sua venalità. Su questa venalità i contemporanei non avevano dubbi. Oggi, pur eliminando le testimonianze evidentemente ricusabili dei suoi nemici (quelle di Brissot, di Bertrand de Moleville) o le induzioni di Mathiez al quale, come a Camille Desmoulins, bastavano "forti indizi" per trarre delle conclusioni, se ne dubita ancora meno. Non solo Danton si è liberato molto presto dei debiti fatti per ottenere la sua carica di avvocato, ma ha pure acquistato dei beni nazionali (e in contanti, senza approfittare della clausola delle dodici annualità), ha arrotondato costantemente, da saggio contadino della Champagne, il suo patrimonio durante la rivoluzione. Da dove veniva il denaro? Dalla corte, come sembra indicare una lettera di Mirabeau (il documento più schiacciante dì tutti, perché Mirabeau, che sapeva di che cosa parlava, non accompagnava a questa constatazione nessun giudizio morale)? Non è impossibile, dato che Danton aveva desiderato senza dubbio di salvare Luigi XVI. Dal duca di Orléans? Anche questo è possibile, poiché la petizione del Campo di Marte suggeriva di sostituire Luigi XVI "per vie costituzionali", aprendo così la porta alla reggenza. Dall'aggiotaggio e dai loschi traffici dei suoi amici implicati nell'affare della Compagnia delle Indie? O, ancora, dalle occasioni che aveva Danton di servirsi da sé nelle casse dello stato? Ogni volta che egli ha dovuto presentare dei rendiconti - dopo il ministero della giustizia, o al ritorno dal Belgio - la sua difesa è stata piuttosto pietosa: ha invocato le circostanze straordinarie e confessato di "non avere quietanze del tutto legali". Questa disinvoltura nei riguardi della contabilità, del resto, rimanda sempre, in lui, a una costante convinzione: seminare l'oro a piene mani gli era sempre sembrato utile per far progredire la causa della rivoluzione, ed è verosimile che non abbia voluto escludere se stesso da questa magica possibilità. La questione sembra perciò risolta e sarebbe priva d'interesse se la storiografia robespierrista non avesse fatto derivare da questa venalità tutta la politica, interna ed estera, di Danton. La politica estera di Danton è collegata generalmente a una certa idea della Francia: quella di un territorio compreso fra il Reno, le Alpi, i Pirenei e l'Oceano, le cui popolazioni ardono dal desiderio di fare tutt'uno con la rivoluzione e di liberarsi dai re. Tale convinzione, "di mirabile nettezza", secondo Jaurès, anima il discorso del 28 settembre 1792: "Abbiamo il diritto di dire ai popoli: non avrete più re." Ed è sempre la stessa che ispira, il 31 gennaio 1793, il discorso sull'annessione del Belgio: "Io dico che invano si vuoI far temere di dare troppa estensione alla Repubblica; i suoi confini sono segnati dalla natura." Se la "nettezza" della sua convinzione - Jaurès senza dubbio la esagerava, perché Danton aveva esitato sulla necessità della guerra - si offusca, ciò è dovuto al fatto che egli non aveva previsto la sconfitta di Dumouriez (fu l'ultimo a ritirargli la fiducia), né che la rivoluzione non avrebbe potuto sopportare le disfatte del proprio esercito. Una volta capito questo, nell'aprile del 1793 - quando è membro del primo Comitato di salute pubblica - rompe con l'interventismo, spinge la Convenzione a sconfessare la guerra di propaganda e a permettere implicitamente dei negoziati. E il segno, come ha affermato Mathiez, che Danton disperava della vittoria e aveva accettato moralmente la sconfitta? Allora bisognerebbe ammettere che una politica audace in materia di difesa è incompatibile con una politica di negoziati, senza capire che il realismo politico impone di cercar sempre la pace, e di non parlarne mai. Si possono certo rilevare, nella politica dantoniana, esitazioni e contraddizioni (egli aveva contribuito a provocare la guerra contro l'Inghilterra, eppure aveva lavorato al riavvicinamento fra i due paesi). Ma erano anche quelle del Comitato di salute pubblica. Soprattutto, non si può metterle in rapporto con l'oro seminato dagli agenti corrotti e dai traditori. I dantonisti, accusati di ingenuità da Mathiez, hanno sempre fatto osservare che il denaro ricevuto con ogni probabilità da Danton non ha influito in modo visibile su nessuna delle sue decisioni. Su questo punto, bisogna dar loro ragione: i servizi resi da Danton alla controrivoluzione sono inavvertibili. Resta il problema più interessante, che ha costituito la sostanza del processo di Danton: l'imputazione di "indulgenza", divenuta talvolta un pretesto per rendergli onore. Stranamente essa è apparsa intollerabile ai dantonisti, ansiosi di lavare il loro eroe dall' "oltraggioso elogio per la sua clemenza". Quest'indulgenza può essere considerata almeno in due modi: come un episodio, l'ultimo, della vita di Danton (nel qual caso egli non sfuggirebbe alla regola secondo cui ogni rivoluzionario, annacquando il suo vino, approderebbe infine all'indulgenza), segno della sua effimera appartenenza all'ambigua "fazione" di cui Desmoulins è il portavoce, ma che riunisce uomini corrotti, compromessi nello scandalo della Compagnia delle Indie, come Chabot e Basire; oppure come un tratto profondamente legato alla sua personalità. Per sostenere la tesi di un'indulgenza del tutto contingente, i buoni argomenti non mancano: Danton è divenuto un borghese agiato, marito felice di una giovane fanciulla, vorrebbe salvare i suoi loschi amici che sono minacciati, prendere un po' di respiro anche lui, insomma l'eroe è stanco. Donde le espressioni di un'indulgenza di fresca data. La tesi è tanto più forte in quanto la reputazione di Danton non era precisamente quella di un "indulgente". Aveva creato il Tribunale rivoluzionario, e si presentava davanti al giudizio della Storia, come dirà Louis Blanc, "ancora con le mani macchiate del sangue di settembre", e inseguito del resto, nella Convenzione, dalle grida di "settembre, settembre". Sappiamo ora che Danton non aveva organizzato i massacri, che il resoconto che egli ne ha dato non è meno piattamente convenzionale di quello di Roland ("stendiamo un velo pietoso su tutti questi avvenimenti"), e che in seguito avrebbe sostenuto fermamente la teoria montagnarda di un Terrore organizzato, più economico e meno crudele del Terrore selvaggio: "Siamo terribili per risparmiare al popolo di esserlo." Ma non aveva mosso un dito per arrestare la carneficina, un'inerzia dettata dal senso dell'irreparabile, che è probabilmente la vera coerenza di Danton; esso ispirerà il suo atteggiamento anche al momento dell'eliminazione dei girondini. Questo consenso all'inevitabile rende difficile presentare Danton come un "indulgente" a tutta prova. Aveva detto egli stesso che era meglio "forzare la libertà piuttosto che dare ai nostri nemici la minima speranza Si può tuttavia sostenere con successo l'altra ipotesi: quella che fa del consenso al Terrore un episodio, e dell'indulgenza, invece, il fondo di un carattere e di una politica, molto prima che faccia la sua comparsa ufficiale la fazione indulgente. Allora si possono individuare, nel bel mezzo delle circostanze eccezionali cui Danton si arrende perché le crede irresistibili, i gesti dell'indulgenza (in settembre salva Duport) e la volontà di sfruttare tutte le procedure di conciliazione: lo dimostra con Dumouriez ("sono ricorso a tutti i mezzi per ricondurre quest'uomo ai buoni principi"); o al momento del conflitto fra i girondini e i montagnardi, che egli tenta di scongiurare sino alla fine con appelli alla moderazione e all'unità, cui rinuncerà solo quando sarà spinto all'estremo dall'acrimonia girondina. Levasseur ha raccontato che questa rottura era stata per la Montagna una splendida sorpresa, tanto Danton aveva cercato fino allora di assicurare la riconciliazione fra le due parti dell'Assemblea. Alla tesi dell'indulgenza si possono ancora aggiungere la sua dichiarazione sul trattamento economico dei preti, e la sua decisione di non scegliere i deputati da mandare in missione "a seconda che siedano da una parte o dall'altra della sala". Anche dopo la drammatica seduta del 1~ aprile 1793 alla Convenzione, in cui la Gironda mette in discussione la sua alleanza con Dumouriez, e in cui egli si separa definitivamente dai girondini, per lui "rottura" non significa "rivincita": respinge la richiesta della sezione della Halle-au-Blé che voleva mettere sotto accusa Roland, e supplica di non imbarcarsi in un mare di "calunnie e di errori". Dopo la mutilazione della Convenzione, il 2 giugno, pur aderendo all'interpretazione dell'avvenimento data dai montagnardi, avanza una proposta che accorda ventiquattr'ore di grazia agli "amministratori che avrebbero potuto essere traviati". Mille dichiarazioni dello stesso tenore permettono quindi di comporre il ritratto di un Danton preoccupato non tanto, come dice Jaurès, "di arrestare dei traditori, quanto di procurarsi delle armi". Qui si può cogliere la sua differenza da Desmoulins: mentre Camille fa dell'indulgenza un'arma contro gli hébertisti, Danton fa rimettere in libertà Vincent e Ronsin. Si tratta soltanto di una politica più duttile? C'è qualcos'altro. Danton mostra una specie di incapacità di considerare le "fazioni" e le "cospirazioni" nel modo vago e indistinto che risulta dal discorso di Marat o da quello di Robespierre. "Secondo me, non esistono in quest'assemblea le cospirazioni che suppongono alcuni." E ancora: "Non possono esistere fazioni in una repubblica." Quando, nel settembre 1792, comincia a circolare l'accusa di dittatura, egli protesta contro "un'imputazione vaga e indeterminata, colui che l'ha fatta (si tratta di Lasource) deve firmarla". Esistono certo, per Danton, dei cospiratori individuali, dei quali non gli dispiace affatto veder cadere la testa, e dei delitti particolari, ma questi non compongono una cospirazione astratta. Infine, il tratto decisivo, che basterebbe da solo a stabilire l'indulgenza come il vero fondo della personalità di Danton, è il suo rifiuto di trattare con malevolenza le abitudini degli uomini, la sua comprensione per coloro che vogliono vivere fuori della stretta politica. Esistono uomini, Danton lo ripete instancabilmente, "che non sono nati col vigore rivoluzionario e non devono per questo esser trattati come colpevoli". Una maggioranza silenziosa che "ama la libertà, ma teme le tempeste". Gli uomini ardenti devono forse escludere dalle loro file "quelli che hanno un'anima meno protesa verso la libertà, ma che non la amano meno di loro"? Bisogna trattare da nemica questa massa moderata solo perché "essa condanna spesso l'energia che reputa di solito fuori posto o pericolosa"? La risposta è altrettanto indubbia nel 1792, nel 1793, di quanto non lo sia nel breve episodio che porta l'etichetta di "indulgenza". E sempre lo stesso linguaggio, che stabilisce il diritto degli uomini a vivere senza pensare di essere immersi nella rivoluzione. E curioso vedere l'uomo dell'energia assolvere quelli che ne sono sprovvisti. Ma occorre notare che, anche nelle sue dichiarazioni più folgoranti, la tolleranza non perde mai i suoi diritti. Con la sottigliezza che gli deriva dall'odio, Saint-Just l'ha capito benissimo: "Tutti i tuoi esordi alla tribuna cominciavano in modo tonante, e poi finivi per conciliare la verità con la menzogna." I discorsi di Danton sono, in effetti, dei curiosi pas-de-deux fra l'audacia e la moderazione. Un solo esempio, il discorso sul tradimento di Dumouriez: Danton comincia col non reclamare lo scioglimento della Convenzione (moderazione), poi sostiene che non si può tuttavia rappresentare legittimamente la nazione se non si è avuto il coraggio di dire che "bisogna uccidere il re" (audacia). Prosegue: "Chiediamo a tutti coloro che non hanno votato per la morte di riconoscere che sono dei vigliacchi" (audacia senza conseguenze, un vero petardo bagnato). Poi formula il voto che la Convenzione "si purghi" (audacia), "senza lacerazioni" (moderazione). Infine conclude: "Abbiamo tutte le intenzioni di mostrarci saggi e calmi" (moderazione), "ma se alzate ancora la testa, sarete annientati" (audacia). La logica del "tenetemi o faccio un macello" sembra governare da cima a fondo questa curiosa eloquenza discontinua e contraddittoria, questo motore a due tempi. Si può allora esser tentati di collegare l'indulgenza di Danton a un'intima debolezza del colosso: "Le tue forme robuste," diceva ancora Saint-Just, "sembravano mascherare la debolezza dei tuoi propositi." Così si spiegherebbero la mancanza di coerenza (gli mancava, secondo Sorel, "l'impulso sordo e continuo della volontà"), le fughe improvvise ad Arcis-sur-Aube, le dimissioni dal ministero della giustizia, la scomparsa nell'estate del 1793, insomma le sue eclissi. Vi è però un modo più positivo di valutare su che cosa si fonda l'indulgenza di Danton. Innanzi tutto, come ha ben compreso Condorcet, l'impermeabilità assoluta al risentimento: "Danton ha una qualità preziosa che gli uomini comuni non hanno: non odia e non teme né i Lumi né i talenti né la virtù." Soprattutto, in Danton, c'è non solo una dualità vissuta, ma l'idea esplicita che gli uomini hanno il diritto di essere duplici (il suo ritratto di Dumouriez annuncia così quello che traccerà Jaurès), e che le inclinazioni private delle persone possono sfuggire alla tirannia dei personaggi pubblici Più di Mirabeau, più di Condorcet, Danton protesta con la sua esistenza e il suo pensiero contro l'assimilazione giacobina del privato al pubblico. In tal senso, è pari alla propria leggenda. In tal senso, Robespierre e Saint-Just non hanno sbagliato avversario. Mona Ozouf DANTON Georges Jacques http://www.cronologia.it/storia/biografie/danton.htm http://www.encyclopedia.com/html/D/Danton-G1.asp http://fr.encyclopedia.yahoo.com/articles/ni/ni_260_p0.html http://revolution.1789.free.fr/Les_personnages.htm http://membres.lycos.fr/histoire1789/danton.htm DE BRY Jean Antoine Joseph Né à Verbins (Aisne) le 25 novembre 1760, décédé à Paris le 6 janvier 1834. Avocat, président du grenier à sel de Vervins, administrateur du département de l'Aisne en 1790, il fut envoyé à la Législative par ce même département. le 18 novembre 1791, il demanda la déportation des prêtres non assermentés, et en janvier 1792 celle des princes émigrés. Il les fit mettre en accusation et demanda que le futur Louis XVIII, par le fait de son émigration, perde ses droits à la régence. Le 26 aout il se ridiculisa en proposant de former un corps de 1 200 volontaires "tyrannicides pour attaquer corps à corps les rois et les chefs des armée ennemis". Député de l'Aisne. Suppléant au comité diplomatique. - Parle sur les affaires d'Avignon - Propose d'ériger un monument à la mémoire du maire d'Etampes - Parle sur les troubles de l'Aisne, sur la mise en accusation de Delessart et sur les marchés de grains D'EGLANTINE Nazaire François Philippe FABRE Poète et homme politique français (Limoux Carcassonne le 28 décembre 1756 - Paris le 5 avril 1794) Auteur de chansons sentimental ( il pleut, il peut, bergère) il donna leurs noms aux mois du calendrier républicain. Se montre moins délicat quand il maniait les fonds publics. Ses d'autres prévaricateurs au procès du célèbre tribune. Et fut guillotiné avec les daltonismes le 5 avril 1794. Homme de lettres élu député à la Convention*, il se lia particulièrement, au club des Cordeliers*, avec Danton* et Desmoulins* Il travailla à l'institution du calendrier révolutionnaires. Convaincu de malversation dans l'affaire de la liquidation de la Compagnie des Indes, il fut condamné et guillotiné avec les Dantonistes. © l'histoire de la France édition Larousse Discours à la Convention du 8 brumaire an II / [Fabre d'Eglantine] ; [à la] Convention nationale ; impr. par ordre du Sénat et de la Chambre des députés http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N042695 Arrêté du district des Cordeliers : du 5 mars 1790 / [Fabre d'Eglantine, Paré, Pierre-J. Duplain] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048120 Lettre de M. Fabre d'Eglantine à Monsieur de *** : relativement à la contestation survenue au sujet du "Présomptueux ou l'Heureux imaginaire" , & les "Chateaux en Espagne" : comédies en 5 actes & en vers http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048156 [Le] convalescent de qualité ou L'aristocrate : comédie en deux actes et en vers / par P.F.N. Fabre d'Eglantine http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048267 [L']intrigue épistolaire : comédie en cinq actes et en vers / par P. F. N. Fabre d'Eglantine http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048268 [Le] Philinthe de Molière, ou La suite du Misanthrope : comédie en cinq actes et en vers / par P. F. N. Fabre d'Eglantine http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048269 [Les] précepteurs : comédie en cinq actes et en vers : ouvrage posthume / de P.F.N. Fabre d'Eglantine http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048270 [Le] présomptueux, ou L'heureux imaginaire : comédie en cinq actes et en vers / par Phil. Franç. Nazaire Fabre d'Eglantine http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048271 Rapport fait à la Convention nationale dans la séance du 3 du second mois de la seconde année de la République française, au nom de la Commission chargée de la confection du calendrier / par P. F. N. Fabre-d'Eglantine ; imprimé par ordre de la Convention http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048746 [L']évangile des républicains / [P. Salles]. précédé du Rapport fait par le citoyen Fabre d'Eglantine, sur le nouveau calendrier décrété par la Convention nationale http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048824 Calendrier de la république française, une et indivisible, au nom de la commission chargée de sa confection / par Ph.-Fr.-Na. Fabre d'Eglantine http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N073937 Delacroix Jean-François Lacroix, ou Né à Pont-Audemer (Eure) le 3 avril 1753, décédé à Paris le 5 avril 1794. Fils d'un chirurgien Avocat à Anet avant la Révolution, Lacroix est élu procureur syndic du département d'Eure et Loire en 1790 puis juge au tribunal de cassation. Il se fait ensuite élire à la Législative ou il n'intervient quasiment pas puis à la Convention ou il siège à gauche sans toutefois apparaître comme un Montagnard très prononcé. Décidé à se faire une place dans la vie politique parisienne, Lacroix s'inscrit au club des Jacobins* et traîne un temps ses guêtres avec les orléanistes. Il se fait ensuite de plus en plus virulent et se met à attaquer les ministres, la famille royale et Capet* lui même après quoi il se lie avec Danton* et s'oppose à deux reprises à Robespierre*. Lacroix part ensuite en mission en Belgique avec son ami Danton. Tout deux rentreront quelques temps en France pour voter le mort de Capet après quoi ils reprirent la route de la Belgique. Il est certain que les deux compères furent plus occupés à se remplir les poches qu'à surveiller les agissements de Dumouriez*. Abusé par ce dernier Lacroix va s'efforcer de le défendre devant la Convention. Elu au Comité de Salut public avec Danton le 7 avril 1793, Lacroix va s'efforcer de contrer les attaques des Girondins dont il va contribuer à l'élimination. Par la suite Robespierre va s'en prendre à lui en lui reprochant d'avoir défendu Dumouriez, éliminé du Comité, Lacroix préfère repartir en mission à la fin août. Rappelé à Paris, il est accusé de s'être enrichi en Belgique et d'avoir couvert Dumouriez. Il est envoyé à l'échafaud avec son alter ego Danton le 5 avril 1794. Projet de cahier pour le Tiers-Etat du bailliage et de la vicomté de Paris / par M. D. L. C. [Jacques-Vincent Delacroix] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N047973 Très humbles représentations à MM. les députés du Tiers état / par M. Delacroix,... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048049 Projet de loi sur l'éducation commune / par Ch. Delacroix,... ; impr. par ordre de la Convention nationale http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048883 DELMAS Jean François Bertrand Né à Toulouse le 3 janvier 1751, décédé à Paris en 1798. Officier de carrière, il fut élu député de la Haute-Garonne ) la Législative, puis à la Convention. Il vota la mort du roi. Fait un rapport sur les moyens d'exécution du décret rendu le 14 février 1792 en faveur des gardes-françaises. Membre du comité militaire - Parle sur l'organisation des canonniers gardes nationaux. Il donna bientôt des signes de folie. Interné le 6 octobre 1798 dans la maison de la Santé du citoyen Albert, il y mouruut peu après dans un état de complète aliénation. DESÈZE ou DE SÈZE Raymond Romain (comte) Avocat français né à Bordeaux en 1748, décédé à Paris en 1828. Avocat de Louis XVI, lors du procès de ce dernier. Il en prit la défense devant la Convention le 26 Décembre 1792. Emprisonné peu après jusqu'au 9 Thermidor (27 juillet 1794). Il fut le premier président de la Cour de cassation sous la DESMOULLINS Camille Publiciste et homme politique (Guise le 2 mars 1760 - Paris le 5 avril 1794) Il a contribué, le 12 Juillet 1789 il appela aux armes la foule réunie dans les jardins du Palais-Royal, est lance l'engrenage qui le broiera. Il s'apercevra trop tard, après avoir aidé la Montagne à éliminer ses adversaires, qu'il figure lui aussi sur la "liste" de Robespierre. Guillotiné en même temps que son ami Danton, le 5 Avril 1794 Sa femme Lucile (1771-1794), fut exécutée pour avoir protesté auprès de Robespierre, contre le sort de son marie Opere, testi, documenti disponibili in: Gallica.BNF [Le] vieux cordelier : seule édition complète / de Camille-Desmoulins,... [précédé d'un Essai sur la vie de Camille-Desmoulins] / par M. Matton aîné,... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N039380 Discours de la lanterne aux Parisiens / [par Camille Desmoulins] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N040484 [Le] cahier rouge de Lucile Desmoulins / publ. par Georges Lecocq http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N074578 DILLON Arthure (comte) Général français d'origine irlandaise né à Braywick, Berkshire en 1750 décédé à Paris en 1794. Gouverneur de Tobago en 1786, député de la Martinique aux Etats généraux en 1789, il se rallia comme son frère, à la Révolution et fut nommé lieutenant général en 1792, Après avoir commandé les armées du Nord et du Centre, il fut accusé de trahison et condamné à mort. DILLON Théobald ( chevalier de ) Général français d'origine irlandaise né à Dublin en 1745 décédé à Lille en 1792. Rallié à la Révolution, il fu nommé maréchal de camp en 1791. Ayant ordonné la retraite devant les Autrichiens le 29 avril 1792 à ses soldats, il fut tué par ceux-ci qui le soupçonnaient de trahison DUBOIS-CRANCE Edmond Louis (dit Dubois de Crané) Né à Charleville le 14 octobre 1747, mort à Réthel le 28 juin 1814 Il est issu d'une illustre famille de marchends et militaires de Châlons en Champagne. En avril 1789, à 42 ans, il est élu aux Etats Généraux par le Tiers Etat de Vitry le François. Petit à petit il joue un rôle prépondérant et devient membre du 1er comité de salut Public le 26 mars 1793... Il meurt le 29 juin 1814 à Rethel. Il est à l'origine de l'armée des soldats de l'AN II et fut ministre de la guerre Opere, testi, documenti disponibili in: Gallica.BNF Compte rendu à la Convention nationale, de la mission des représentans du peuple à l'armée des Alpes, Dubois-Crancé & Gauthier, depuis le 3 mai jusqu'au 12 octobre 1793 (vieux style) l'an II... / par Dubois-Crancé ; impr. par ordre de la Convention nationale http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N041505 Première partie de la réponse de Dubois-Crancé, aux inculpations de ses collègues, Couthon & Maignet ; [Seconde partie de la réponse de Dubois-Crancé, aux inculpations de ses collègues, Couthon et Maignet] ; [Troisième et dernière partie de la réponse de Dubois-Crancé aux inculpations de ses collègues Couthon et Maignet] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N041506 Moyens de rétablir l'ordre dans les finances de la République française / par Dubois-Crancé ; impr. par ordre de la Convention nationale http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N043293 Opinion de Dubois-Crancé, sur les moyens de restauration du crédit public : séance du 7 ventôse, l'an IVe / [du] Conseil des Cinq-cents http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N043294 Rapport sur l'embrigadement des armées, au nom du Comité militaire / par le citoyen Dubois-Crancé http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N043974 Rapport et projet de décret sur la situation des armées, présentés au nom des comités militaires et de salut public : du 18 pluviôse, l'an III de la République française une & indivisible / [réd.] par Dubois-Crancé http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N043975 Rapport et tableau des officiers généraux, adjudans généraux et commissaires des guerres qui doivent être en activité de service la campagne prochaine dans les armées de la République : présentés à la discussion de la Convention nationale au nom du Comité de salut public / par Dubois-Crancé http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N044006 Rapport et projet de résolution sur un message du Directoire exécutif, concernant la levée d'un trentième cheval dans la République : séance du 7 pluviose, l'an IV de la République / par Dubois-Crancé ; au nom de la Commission nommée ad hoc ; [publ. par le] Conseil des Cinq-Cents http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N044293 Rapport fait au Conseil des Cinq-Cents, par Dubois-Crancé, concernant les jugements militaires : séance du 30 ventôse, an 4 http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N044294 Discours de Dubois-Crancé sur la pétition des défenseurs officieux des individus traduits devant le Conseil de guerre de la dix-septième division : séance du 1er germinal an V / [publ. par le] Conseil des Cinq-Cents http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N044300 Analyse de la Révolution française depuis l'ouverture des États généraux jusqu'au 6 brumaire an IV de la République ; Compte-rendu fait par Dubois Crancé de son administration au Ministère de la guerre / ouvrage posthume publ. par Th. Iung,... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N046852 Rapport et projet de décret, présenté au nom des comités des finances et d'agriculture réunis, sur les avantages ou les inconvéniens de l'impôt en nature / [réd.] par Dubois-Crancé,... ; impr. par ordre de la Convention nationale http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N056887 DUMOURIEZ Charles François Cambrai 1739 Turville-Park Angleterre 1823 Ministre Girondin des affaires étrangères en 1792, puis commandant de l'armée du Nord, il fut vainqueur à Valmy puis à Jemmapes et conquit la Belgique, battu à Neewinder et rappelé à Paris, il passa dans les rangs Autrichiens. Général français né à Cambrai en 1739 décédé à Turville Park Oxfordshire en 1823. Officier en 1758, il participa à la guerre de sept ans, puis entra dans la diplomatie secrète en 1763 et fut chargé par Choiseul de plusieurs missions. Chef de la Garde nationale, acquis aux idées révolutionnaire, lié à Mirabeau*, à La Fayette* et au duc d'Orléans*, et membres du Club des Jacobin* en 1790, il fut nommé ministre des Affaires étrangères dans le gouvernement girondin* le 10 mars 1792 et contribua à décider Louis XVI à déclarer la guerre. Après le revoi des ministres girondins le 13 juin, il démissionna le 15 juin Commandant en chef des armées du Nord, il gagna, avec Kellermann, la bataille de Valmy contre les Prussiens, puis celle de Jemappes contre les Autichiens, et occupa la Belgique. Après la formation de la première coalition début 1793, Dumouriez proposa un plan d'offencive qui fut adopté, entra en Hollande le 16 février 1793, s'empara de Breda le 25 février, mais il fut vaincu à Neerwinden le 18 mars 1793, puis à louvain le 21 mars par le duc de Saxe Cobourg avec qui il entra en relation. Accusé de trahison Dumouriez livra aux Autrichiens les commissaires envoyés par la Convention pour enquêter sur sa conduite, avant de passer lui-même à l'énnemi. Ses défaites et leurs conséquences construirent la chute des Girondin. DUPORT ou DU PORT Adrien Jean François Homme politique français né à Paris le 5 février 1759, décédé à Appenzell en suisse le 2 août 1798. Député de la Noblesse de Paris aux Etat généraux en 1789, il fut un des premiers à se rallier au Tiers Etat. Au sein de l'Assemblée nationale constituante, il forma avec Barnave* et A. de Lameth* le triumvirat qui tenta de concilier les principes révolutionnaires et la monarchie, et se fit remarquer par son rapport sur l'organisation de la justice en 1790, qui contribua à faire adopter l'institution des jurys. Après la fuite du roi, il rallia aux feuillants*. Après le 10 août 1792* il réussit à s'enfuir en Angleterre. Il rentra en France après le 9 thermidor en juillet 1794, puis dut émigrer en Suisse en 1797. Opere, testi, documenti disponibili in: Gallica.BNF
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LA RIVOLUZIONE FRANCESE - CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE

LA RIVOLUZIONE FRANCESE, CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE
 
Gioacchino Murat, Rivoluzione Francese
 

Va detto tuttavia, con A. Soboul, che i costituenti, quali rappresentanti della nazione, si ritenevano autorizzati a riformare in modo democratico la chiesa e non pensavano a costruire un regime di separazione vero e proprio, che in quel momento sarebbe apparso come un'idea blasfema e anticristiana. Tanto è vero che nella commissione per redigere la Costituzione e la Dichiarazione dei diritti erano presenti non pochi prelati: dagli abati Sieyès e Grégoire ai vescovi Talleyrand, de Lubersac, de la Luzerne, ecc. Resta comunque significativo che, nonostante una semplice allusione all'Essere supremo, non si faccia alcun riferimento, nel preambolo della Dichiarazione, ai "diritti di dio". Lo storico Mathiez l'ha giustamente sottolineato dicendo: "I principi del 1789 si presentano come un corpo di dottrina autosufficiente, che trae il proprio valore dall'evidenza razionale e non dalla rivelazione. Così l'umanità pone se stessa come suo proprio dio". Il desiderio di "riformare" il cristianesimo spiega anche la decisione di sospendere l'emissione dei voti (giudicati contrari ai diritti umani) in tutti i monasteri, nonché quella del 13 febbraio 1790 di sopprimere tutti gli ordini che pronunciavano voti solenni. Sin dall'inizio la rivoluzione si caratterizzerà per un marcato accento "confessionale", che si presumeva alternativo all'ideologia cattolica ufficiale. Non voleva certo essere una rivoluzione anticristiana o antireligiosa, ma anticlericale sì. Una cosa infatti è l'esproprio dei beni del clero, secolare e regolare, un'altra è la soppressione d'ufficio dei voti e degli stessi ordini: qui l'ingerenza è netta. Evidentemente il governo, forte dell'ostilità cui i regolari erano oggetto da parte del laicato cattolico, ritenne opportuno colpire questa categoria di agiati ecclesiastici sul piano sia economico che politico, impedendo il formarsi di trame e collegamenti nazionali ed europei di tipo eversivo (gli ordini regolari facilmente si prestavano a questo utilizzo; forte peraltro era il loro legame con la curia romana). Ciò non toglie tuttavia la particolare drasticità del provvedimento, sebbene sulle prime venissero risparmiati gli ordini femminili e gli istituti maschili esercitanti attività ospedaliera e/o scolastica. In altre parole, si sarebbe dovuto puntare su una lenta e graduale estinzione degli ordini, prescindendo da pressioni amministrative, che spesso rischiano di sortire l'effetto contrario, oppure di costituire un pericoloso precedente per ulteriori vessazioni. Né serve, a titolo di giustificazione del provvedimento, sottolineare il fatto che la fine del valore legale dei voti non comportò praticamente alcuna resistenza, determinando anzi il subitaneo spopolamento della maggior parte dei monasteri (a Parigi ad es. i religiosi favorevoli alla secolarizzazione raggiungevano il 48%). Qui ha ragione il Dansette, quando afferma che l'Assemblea impediva ai monaci di restare nei conventi "così come il re ne sbarrava le porte impedendo loro d'uscirne". Va poi detto, in definitiva, che l'Assemblea, con tale provvedimento, non poté vantare alcuna particolare coerenza. Essa infatti volle assicurare a quegli ex-monaci ricondotti allo stato civile, che avevano rifiutato di continuare la vita monastica in conventi appositamente adibiti, una sorta di pensione statale, come indennizzo per l'esproprio causato. Col che, in pratica, si permetteva loro di continuare a fare quello che avevano sempre fatto, cioè i rentiers. LA CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA E IL CONCORDATO DI NAPOLEONE Robespierre, forte del suo realismo politico, volle garantita la libertà religiosa nella misura in cui l'associazione dei cittadini a scopo di culto non costituisse il pretesto per dar vita a un'opposizione politica ai decreti della Convenzione. Egli tuttavia era ben lontano dall'immaginare un regime di separazione fra Stato e chiesa. Nella sua concezione di Stato, il governo era totalmente libero di servirsi di strumenti politici per intromettersi nella gestione interna delle varie confessioni religiose (specie la cattolica), modificandone eventualmente anche i dogmi o la prassi. Giustamente però egli riteneva impraticabile l'idea di Hébert e Chaumette di imporre l'ateismo (cioè il culto della Ragione) in modo politico. A suo parere, il popolo, ancora troppo religioso, aveva bisogno di credere in un dio, seppure un dio diverso, più tollerante rispetto a quello del cattolicesimo tradizionale (era il principio: la religione per il popolo, la filosofia per gli intellettuali, che troverà molta fortuna nel secolo successivo, fino all'idealismo di Croce e Gentile). Peraltro Robespierre era ideologicamente lontano dal materialismo ateo di Helvetius e Holbach. Il suo merito sta nell'aver capito che la religione non può essere eliminata in modo politico o amministrativo; il suo torto nell'aver creduto che si potesse farlo creando semplicemente un'alternativa 'spiritualistica' sul terreno ideologico, culturale e rituale, senza tener conto di quali condizionamenti sociali ed economici alimentano un fenomeno come quello della religione. Istituito con decreto statale il 7 maggio 1794, il culto nazionale dell'Essere Supremo, che voleva dirsi civico ma che era squisitamente "religioso", in quanto ufficializzava il deismo panteista e razionalista di molti philosophes illuministi, attirò a Robespierre le inimicizie dei partigiani della scristianizzazione violenta e dei fautori dello Stato laico, e non gli valse la fiducia dell'alto clero costituzionale, che non amava la "concorrenza", né tanto meno di quello refrattario, ostile a qualunque culto legato alla Repubblica. Il successo tuttavia fu notevole fra il popolo, naturalmente anche in virtù degli obiettivi che la dittatura giacobina era riuscita a conseguire dalla metà del '93 alla metà del '94. Con il decisivo appoggio dei sanculotti, che "tendevano, seppure in modo confuso, verso l'istituzione della democrazia diretta"(Soboul), essa poté distruggere il feudalesimo come nessun'altra forza politica era riuscita a fare, stroncando la resistenza dei nemici interni ed esterni. Ma il peggio doveva ancora venire. La borghesia, piegatasi al dominio dei giacobini solo perché questi, nella lotta contro la reazione feudale fruivano di vasti appoggi popolari, cercò con ogni mezzo e modo, quando l'esito della battaglia fu sicuro, di sbarazzarsi dello scomodo alleato e soprattutto delle sue pretese di 'dirigere' l'economia. Purtroppo i giacobini, incapaci di venire incontro, una volta conquistato il potere, alle esigenze degli strati più poveri delle città e delle campagne (si pensi p. es. ai contadini che non riuscivano ad acquistare le terre vendute all'incanto), cominciarono a perdere sempre più prestigio e credibilità. Il club dei cordiglieri, diretto dagli hébertisti, intensificò le accuse contro l'attività del Comitato di salute pubblica. I giacobini, rifiutando qualunque critica e autocritica, risposero facendo giustiziare Hébert e molti suoi seguaci. Grande fu lo scontento nella capitale: gli hébertisti erano sì estremisti (lo si era visto durante la scristianizzazione) ma nessuno poteva negare loro un certo ascendente sulle masse, specie quelle della capitale (la Comune insurrezionale era stata infatti guidata da Marat, Hébert e Chaumette). I giacobini ghigliottinarono anche Danton e i capi della sua fazione che su posizioni di destra volevano dividere il partito. Praticamente tutte le forme di opposizione palese al governo rivoluzionario erano finite. Questo atteggiamento autoritario fece maturare l'esigenza di organizzare una nuova congiura antigovernativa all'inizio del luglio 1794. Robespierre venne accusato dai seguaci di Danton e di Hébert scampati al massacro e da altri deputati della Convenzione, d'essere un dittatore e di alimentare il culto della sua personalità. Il 27 luglio la congiura si trasformò in un colpo di stato controrivoluzionario (chiamato dagli storici "termidoriano" dal nome del mese di luglio mutato in "termidoro", secondo il calendario repubblicano). Il giorno dopo, nonostante l'opposizione della Comune di Parigi, si riuscì a condannare a morte i dirigenti del governo giacobino (fra cui Saint-Just e lo stesso Robespierre), senza alcuna forma di processo. La rivoluzione era praticamente finita. Eliminato il governo rivoluzionario, i termidoriani, che esprimevano gli interessi della borghesia più ricca, diedero inizio al terrore "bianco", smantellando progressivamente molte leggi e istituzioni favorevoli al popolo. Sul piano religioso la Convenzione, nelle persone soprattutto di Fouché, Fréron e Tallien, riuscì ad ottenere ciò che i governi precedenti non avevano mai osato rischiare: la completa laicizzazione dello Stato, ovvero l'effettiva uguaglianza di tutte le religioni. Infatti, per ragioni economiche si soppresse il bilancio della chiesa giurata: "La Repubblica francese -si disse- non paga più spese né salari di alcun culto"(18 settembre 1794). In tal modo la Costituzione civile del clero perdeva la sua ragion d'essere e veniva affermata la separazione di Stato e chiesa. Il governo vietò anche il culto dell'Essere Supremo, ritenuto "filo-cattolico", e autorizzò solo quello decadario. Gli storici cattolici rifiutano, in genere, di considerare questo provvedimento come un atto anticipatore della separazione fra Stato e chiesa, in quanto -essi precisano- ogni culto doveva rimanere interdetto per la Convenzione. In realtà, sia il governo giacobino sia quello termidoriano, più che abolire tout-court i culti religiosi della nazione (compito che nessun governo al mondo potrebbe permettersi), miravano a istituirne uno condivisibile da tutti i francesi. In tal senso, se eccessi vi furono, ciò dipese dalla stretta dipendenza della politica governativa dall'ideologia, in materia di atteggiamento verso la religione. Una dipendenza che si faceva più sentire ogni volta che nella società civile emergevano tendenze clericali antirivoluzionarie. Senza queste tendenze non si sarebbe verificata alcuna scristianizzazione, ma semmai la convivenza, problematica ma non impossibile, fra un culto pubblico obbligatorio e uno o più culti privati facoltativi. "Le misure contro i preti refrattari -ha scritto Soboul- rimasero in vigore e le chiese chiuse. Tuttavia, man mano che la reazione andava affermandosi, molti francesi rimpiangevano le antiche cerimonie religiose e i fedeli giunsero a reclamare l'apertura delle chiese. Il culto civico, troppo intellettuale ed ora spogliato di ogni carattere patriottico e democratico, non poteva più infervorare i sanculotti". E così, poche settimane dopo la caduta di Robespierre, in numerosi punti della Francia si ricominciò a celebrare la messa, si riaprirono i vecchi oratori, si videro affluire nelle province di frontiera dei preti emigrati. Tuttavia in molte altre province e soprattutto a Parigi si continuava a ghigliottinare, benché le amministrazioni non mettessero più lo zelo di prima nell'applicare i provvedimenti di scristianizzazione. Il recupero della libertà religiosa tardava dunque a farsi strada. Quando il vescovo costituzionale deputato alla Convenzione, H.B. Grégoire, propose, il 21 dicembre 1794, un decreto che sancisse la piena libertà di culto, in conformità alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo, non riuscì neppure a finire il suo discorso. "Declamare continuamente contro gli ecclesiastici - affermò il prelato-, anziché legarli alla repubblica per mezzo dell'uguaglianza dei diritti, è un errore. [...]Un'opinione cede ai lampi dei lumi, mai alla violenza. [...]Si può esigere dai membri della compagine sociale altro dovere che quello di essere un buon cittadino? [...]Il governo non deve adottare, e ancor meno salariare, alcun culto, sebbene debba riconoscere a ciascun individuo il diritto di professare il suo. Il governo non può rifiutare protezione né accordare privilegi a nessuna confessione religiosa. [...]Deve tenere tutte le confessioni nel loro giusto equilibrio, impedendo che qualunque culto venga turbato e che esso turbi l'ordine pubblico. [...]Che nessuna religione pretenda abusivamente al titolo di dominante". Dice ancora Grégoire, con grande acume e spirito critico, anticipando una tematica che nella sua interezza verrà ripresa solo dalle rivoluzioni socialiste: "Sarebbe necessario mettere al bando una religione intollerante, che non ammettesse la sovranità nazionale, l'uguaglianza, la libertà, la fratellanza...; ma dal momento in cui appare evidente che nessun culto ferisce questi principi, e dal momento in cui tutti coloro che lo professano, giurano fedeltà ai dogmi politici, che un individuo sia battezzato o circonciso, che adori Allah o Jehova, tutto questo è al di fuori dell'ambito della politica". Il vescovo concluse osservando che i più gravi pericoli per lo Stato non sono i culti religiosi, bensì la superstizione e il fanatismo. (Detto altrimenti: una religione non è contraria al governo rivoluzionario solo perché è una religione. L'atteggiamento controrivoluzionario va dimostrato.) A questo naturalmente i deputati potevano obiettare che i cattolici avevano dato prova, a più riprese, d'essere alquanto ostili al governo repubblicano, ma la proposta del vescovo era appunto quella di bandìre l'anticlericalismo ad oltranza, permettendo così ai cattolici un'adesione più spontanea alle leggi dello Stato. Dette da un 'vescovo' queste cose oggi ci appaiono davvero singolari, dette poi da un vescovo 'cattolico' addirittura strabilianti. Immaginiamoci -se una tale posizione risultava così fastidiosa alle orecchie di quei deputati- quale grande attaccamento dovesse avere la borghesia per le idee anticlericali, deiste o agnostiche o atee dei philosophes ed enciclopedisti. Se vogliamo, proprio in questa esigenza di anteporre a tutto l'ideologia stava uno dei maggiori limiti della rivoluzione. Ci piace però qui ricordare che alla morte di Grégoire, il 28 maggio 1831, Santo Domingo ed Haiti proclamarono il lutto nazionale, alla memoria dell'"amico degli uomini di ogni colore". Grazie a lui infatti si emanò nel 1794 il decreto sull'abolizione della schiavitù, "senza contropartita né riscatto". Nel 1950 Ho Chi Minh rese omaggio ufficiale a questo "apostolo della libertà dei popoli", che la maggior parte degli storici cattolici continua a considerare con disprezzo come un "giacobino regicida". Col passare del tempo, per poter tutelare efficacemente gli interessi della grande borghesia, il nuovo governo si vide costretto a scegliere la strada del compromesso. Dalla tribuna della Convenzione, Boissy d'Anglas, nonostante accusi i preti "d'instupidire la specie umana", riconosce che è inutile "pretendere d'estirpare l'errore con la violenza". Di lì a poco infatti si deciderà di concedere ai ribelli della Vandea la libertà di culto, il diritto di scegliere i loro preti anche fra gli emigrati e la facoltà di tenere una "guardia territoriale" locale. Il documento che sancì una certa tolleranza nei confronti delle diverse confessioni fu il trattato di Jaunaye del 17 febbraio 1795, in cui si dichiarava: 1) "ogni individuo e ogni sezione di cittadini possono esercitare liberamente e pacificamente il culto", e 2) "gli individui e i ministri di ogni culto non potranno essere disturbati, inquietati né ricercati a motivo dell'esercizio libero, pacifico e non pubblico del loro culto". Il culto privato -come noto- implicava che lo si tenesse non nelle chiese ufficiali, che erano state trasformate in "templi dello Stato" per il culto decadario, ma in altri luoghi gestiti a proprie spese, e che l'uso degli abiti religiosi, delle campane, ecc. restasse vietato, inoltre che i sacerdoti prestassero il giuramento del 14 luglio 1792 alla libertà e all'uguaglianza. Paradossalmente, mentre al tempo della dittatura giacobina si negava la libertà di culto per difendere gli ideali rivoluzionari (cioè si faceva una cosa giusta in un modo sbagliato), ora invece i termidoriani concedono, seppur limitatamente, questa libertà, ma solo per difendere degli ideali reazionari. La borghesia infatti non voleva rinunciare alla propria ideologia anticlericale, né voleva perdere il suo potere politico sulla chiesa, ma allo stesso tempo non voleva lasciarsi coinvolgere in una guerra di religione; anzi, se possibile, voleva cercare di riguadagnarsi la fiducia del clero cattolico, da utilizzarsi, eventualmente, contro gli interessi sociali e materiali delle masse. Questa esigenza diventava tanto più forte quanto più cresceva l'opposizione popolare al nuovo regime. Nella primavera del 1795 i lavoratori di Parigi insorsero due volte contro la politica antidemocratica del governo, ma senza conseguire successi. I termidoriani non solo ebbero la meglio in politica interna, ma anche in quella estera, ottenendo grandi vittorie militari. Furono proprio loro che ereditarono i risultati dell'immenso lavoro del governo giacobino. La Convenzione termidoriana seppe anche impedire la restaurazione del feudalesimo e della monarchia. Promulgò una Costituzione assai conservatrice, ma imperniata sul rafforzamento delle istituzioni repubblicane. Sul piano dei rapporti fra Stato e chiesa faticava alquanto a farsi strada una separazione rigorosa, a livello ideologico, della politica dalla religione. La tesi del vescovo Grégoire secondo cui un cattolico può essere un buon credente di fronte alla chiesa e, nel contempo un buon cittadino di fronte allo Stato, continuava a essere vista con sospetto. E l'Enciclica di diversi vescovi di Francia agli altri vescovi loro fratelli e alle chiese vacanti del 15 marzo 1795, offriva ai dubbi delle buone motivazioni. E' vero che con essa i costituzionali riconoscevano "che il governo della chiesa riguarda lo spirituale e non può estendersi né direttamente né indirettamente [qui il riferimento è alla teoria del Bellarmino] sopra il temporale" e che "le religione non gode più in Francia di uno status politico". Ma è anche vero che i vescovi firmatari (fra cui il Grégoire) volevano riprendere i rapporti con lo stato pontificio, cioè con una delle espressioni più retrive di tutta l'Europa feudale, pur ribadendo -è bene ricordarlo- il valore dei quattro Articoli gallicani votati dall'assemblea del clero nel 1682(1). In effetti, a parole i vescovi giurati ostentavano approvazione per le misure adottate dalla rivoluzione riguardo alla gestione amministrativa della chiesa (elezione del clero, collegialità della diocesi, ecc.), ma nei fatti la loro unica preoccupazione era quella di riportare la chiesa francese nell'alveo ideologico del cattolicesimo tradizionale, soprattutto sul piano etico e disciplinare. Di qui le forti accuse che nell'enciclica di muovono contro quei ministri che avevano condiviso le leggi sul divorzio e sul matrimonio dei preti. Si trattava in sostanza di una lettera ideologicamente refrattaria che voleva apparire politicamente costituzionale. Molti addirittura chiedevano un esplicito ritorno all'obbedienza "romana": lo attesta ad es. un rapporto indirizzato al papa dal moderato Emery, superiore del seminario di s.Sulpizio (13 ottobre 1795). Ancor meno rassicurante era l'atteggiamento con cui il clero refrattario aveva accolto il decreto del 30 maggio 1795, che autorizzava l'uso degli edifici religiosi, indifferentemente, ai diversi culti: costituzionale, refrattario e decadario, alla sola condizione di rispettare tutte le leggi della repubblica. Come Grégoire aveva previsto, la maggior parte dei preti refrattari, appoggiati dai vescovi emigrati e dal re "in esilio" Luigi XVIII, rifiutò il nuovo giuramento, giungendo persino a diffondere false lettere di Pio VI per giustificare tale decisione. Cosa che indusse la Convenzione a proibire agli ecclesiastici di leggere nelle chiese lettere provenienti da persone residenti fuori della Francia. Con la nuova Costituzione, entrata in vigore nel novembre 1795, il potere esecutivo passò nelle mani del Direttorio, permettendo alla borghesia piena libertà economica. "L'orgia borghese del Direttorio" -come la chiamava Marx-, con la sua sfrenata speculazione e l'aggiotaggio, garantì enormi profitti ai ceti più agiati. Le contraddizioni antagonistiche divennero così profonde che questa volta la ribellione delle masse assunse caratteri para-socialisti. Infatti, la Congiura degli eguali, capeggiata da Babeuf, si pose come obiettivo fondamentale, per la prima volta nella storia della Francia, l'abolizione della proprietà privata. Il pericolo fu talmente grande che il Direttorio cercò sostegni politici a destra e a sinistra. Inevitabilmente mutò anche il suo rapporto nei confronti dei cattolici: in primo luogo con i refrattari, ai quali volle garantire l'abrogazione della legge sulla deportazione e promettere il ritorno ad un regime di piena libertà religiosa. L'uso strumentale della religione per fini controrivoluzionari era evidente. Lo stesso papato si piegava facilmente a tale necessità: lo testimonia il breve Sollicitudo (8 giugno 1796), con cui si esortano i cattolici francesi a una docile sottomissione al governo. Ma altrettanto evidente era la debolezza del Direttorio, che alla fine del '96 si vide costretto ad abrogare tutta la legislazione contro i preti refrattari (ad es. la legge del 24 agosto 1797 accordò ai preti giurati e refrattari la piena libertà di esercitare il proprio ministero, abolendo tutti i giuramenti e consentendo anche qualche manifestazione esteriore di culto). La situazione sarebbe precipitata nel caos più totale, a vantaggio delle forze restauratrici e filomonarchiche sempre presenti, se il Direttorio non si fosse deciso per un colpo di stato militare nel fruttidoro 1797. Tra i cattolici, i refrattari incitavano alla diserzione i figli dei loro seguaci, a non pagare le tasse, a cacciare i preti costituzionali, a disobbedire al giuramento del 29 settembre 1795 di sottomissione alle leggi della repubblica. Il generale repubblicano Clarke, mandato dal Direttorio in missione in Italia, scrisse in un rapporto del 1796: "siamo arrivati al punto di aver bisogno dello stesso papa per ottenere che da noi la rivoluzione sia assecondata dai preti e dalle campagne che essi sono riusciti a governare di nuovo". La tendenza integralista di destra, che ancora oggi sussiste nei gruppi che fanno capo al vescovo Lefebvre, prese il nome di "Piccole chiese". In materia di religione, i provvedimenti del nuovo Direttorio furono molto severi: ripristinata la legge sulla deportazione, si pretese da tutto il clero un giuramento di "odio alla monarchia". In pratica non si chiedeva più di 'credere' nell'ideologia della classe borghese, ma solo di rifiutare politicamente il vecchio regime borbonico. Singolare è il fatto che ai preti che ostentavano un finto imbarazzo di fronte all'idea di provare sentimenti di "odio" per i parassiti e sfruttatori della casa reale, persino i vescovi d'ancien régime rimasti in Francia assicuravano che il giuramento aveva il semplice significato di dichiarare la volontà di vivere conformemente alle leggi repubblicane. Viceversa, i vescovi dell'emigrazione si affrettarono a proibirlo con molta risolutezza, offrendo ai refrattari più intransigenti -definiti ormai dal governo col termine di "ribelli"- ulteriori pretesti per svolgere attività eversiva (nell'aprile 1799, ad es., diffusero la falsa notizia che Pio VI aveva dichiarato illecito il giuramento. Oltre a ciò risposavano e ribattezzavano i parrocchiani dei costituzionali, lanciando anatemi contro gli acquirenti dei beni nazionali). Più diplomatica invece, la Santa sede mirava ad appoggiare i refrattari concilianti, detti "sottomessi", avendo compreso che col regime del Direttorio era più facile dialogare che col governo giacobino. La politica di tolleranza, in effetti, avrà la meglio: la maggioranza degli ecclesiastici prestò il giuramento di sottomissione. Bisognerà tuttavia -osserva Dansette- che "Bonaparte tolga ai ribelli i loro argomenti domando i fanatici dell'irreligione e imponendo la pace religiosa, perché i cattolici moderati trionfino di nuovo e questa volta per lungo tempo". Nei riguardi della chiesa costituzionale, ormai moribonda (ha già perduto i 3/4 del suo episcopato e la grande maggioranza dei preti), il regime, nel complesso, tenne un atteggiamento poco costruttivo: il culto non era perseguitato, ma restava spogliato di ogni carattere di ufficialità e non disponeva di sovvenzioni statali. L'arcivescovo Grégoire riunì a Parigi un concilio per giungere a un accordo con i refrattari e con Roma (da notare che nel decreto di pacificazione, mal visto dal governo, si rinunciava definitivamente alla Costituzione civile del clero). Ma la controparte esigeva un "pentitismo" senza condizioni: in particolare essa chiedeva il riconoscimento del primato giurisdizionale del papato, su cui invece i costituzionali non transigevano, limitandosi a quello morale o di onore(2). In tale quadro, ove gli interessi strumentali della borghesia, che vorrebbe servirsi della religione per controllare le masse, si scontravano con le rivendicazioni ecclesiastiche di autonomia politica, facilmente si finiva col creare situazioni incerte e contraddittorie. Indubbiamente l'ostilità verso la religione continuava ad essere molto sentita, specie fra i ceti borghesi e intellettuali delle città. Ciononostante da più parti si voleva un ritorno alla 'normalità' e alla pacificazione. I tradizionali principi del cattolicesimo-gallicano, ora depurati dalle molte scorie del passato regime, sembravano ritrovare, seppur senza particolari entusiasmi, un certo consenso. Sintomatico, in questo senso, che degli 11.000 ordini di arresto e deportazione, emessi verso l'inizio del 1798 contro i preti 'realisti' (9.000 in Belgio, 2.000 in Francia), la maggior parte di essi rimase senza effetto, in quanto la coerenza fra i principi professati e le azioni concrete da tempo era venuta meno. Le autorità locali, ben consapevoli delle ambiguità del governo in materia di tolleranza religiosa, sentivano di non avere valide motivazioni per applicare alla lettere le sue direttive. Nonostante i culti decadario e teofilantropico(3) continuassero a fruire di vasti appoggi da parte del Direttorio, di fatto erano i tradizionali culti religiosi ad essere maggiormente seguiti dai cattolici. Di qui la lotta fra costituzionali e governo per l'osservanza della domenica in luogo del decadì, per l'uso delle chiese e l'introduzione dell'insegnamento religioso confessionale nelle scuole statali Per queste ed altre ragioni il Direttorio aveva urgenza di giungere ad un accordo con la Santa sede. Approfittando delle vittorie di Napoleone in Italia, esso aveva chiesto a Pio VI di annullare tutti gli atti di condanna della politica ecclesiastica dei governi succedutisi dall'inizio della rivoluzione in poi. Ma il papa non ne volle sapere. L'unico risultato raggiunto fu la pace di Tolentino nel febbraio 1797, in cui si regolarono solo gli aspetti territoriali e finanziari pendenti fra i due Stati. A ciò seguì la deportazione di Pio VI in Francia, dopo l'occupazione francese di Roma, e la morte di quest'ultimo il 29 agosto 1799. Una vera svolta invece si verificò allorquando la borghesia volle por fine alla politica incerta e altalenante del Direttorio con il colpo di stato del 9 novembre (18 brumaio) 1799, che instaurò la dittatura militare di Napoleone Bonaparte, ovvero il passaggio dalla Repubblica all'Impero. La politica ecclesiastica di questo nuovo regime, prima della vittoria di Marengo (1800), fu caratterizzata da molti tatticismi: si restituirono le chiese alle confessioni che vi esercitavano il culto prima della loro chiusura, si abrogarono i provvedimenti delle autorità locali con cui si decretava la chiusura delle chiese all'infuori dei decadì, si esclusero dalla deportazione i preti giurati e quelli che avevano contratto matrimonio, si decretarono pubblici onori alla salma di Pio VI, s'impose al clero un giuramento di fedeltà alla Costituzione, ovvero un puro e semplice riconoscimento del governo di fatto, senza un impegno di fedeltà per i suoi atti futuri, come invece intendeva la Costituzione del clero (il che però non impedì nuove accese discussioni). Dopo Marengo, Napoleone cercò a tutti i costi d'intavolare delle trattative con Roma per avere in Francia una chiesa fedele alle sue direttive. Sono note le sue considerazioni opportunistiche circa la religione: "Nessuna società può reggersi in piedi se non è fondata sulla religione, e non c'è buona morale se non c'è religione: soltanto la religione offre allo Stato un appoggio stabile e sicuro". E ancora: "Quando un uomo muore di fame vicino a un altro che si abbuffa, è impossibile fargli ammettere questa differenza se non c'è un'autorità che gli dica: Dio vuole che ci siano dei ricchi e dei poveri, ma poi per l'eternità ci si dividerà in ben altro modo". Concetto, questo, che sintetizzò magnificamente allorquando disse che "la società non può esistere senza l'ineguaglianza dei beni né questa senza la religione". La storiografia cattolica più conservatrice giustifica questo atteggiamento col dire che Napoleone, volendo "salvare" la rivoluzione, capì che l'influenza dei preti era meglio utilizzarla che ostacolarla. Ovverosia la differenza fra Napoleone e Robespierre starebbe nel fatto che il primo -come vuole ad es. Mezzadri- "rispettò le convinzioni del popolo, mentre l'altro gliene voleva imporre di nuove". In realtà questo modo di vedere le cose è alquanto apologetico ed è soprattutto espressione di chi, desiderando una chiesa forte, capace di dominare la scena politica, considera appunto la politica come un ambito riservato ai cosiddetti "potenti", ove le masse hanno possibilità di accesso solo per qual tanto o per quel poco che, con fare strumentale, viene loro permesso. E' evidente, in questo senso, che, non potendo più scegliere il privilegio esclusivo di cui fruiva sotto l'ancien régime, una chiesa del genere non può che preferire il regime di compromesso (cioè di relativo privilegio e asservimento) a quello di separazione. La storia ha in realtà dimostrato sia che gli ideali della rivoluzione erano stati traditi prima ancora che Napoleone cercasse l'intesa con la chiesa romana, sia che con tale iniziativa si voleva garantire proprio alla controrivoluzione un'esistenza il più possibile tranquilla e duratura. Di questo lo stesso Napoleone era perfettamente consapevole: "Si pretende -egli disse- che io sia un papista, ma non lo sono affatto; in Egitto ero maomettano, qui sarò cattolico per il bene del popolo. Nella religione io non vedo il mistero dell'Incarnazione, ma quello dell'ordine sociale". Convocato dunque il clero a Milano, Napoleone pronunciò alla sua presenza un discorso in cui condannò l'atteggiamento tenuto verso la religione dai philosophes e dai giacobini e dichiarò di essere pronto a negoziare con Roma. Poco dopo fece cantare un Te Deum di ringraziamento in duomo per la vittoria di Marengo: era la prima volta, dopo la proclamazione della repubblica, che un capo di Stato francese partecipava a una cerimonia del genere. Con ciò naturalmente non si deve pensare che Napoleone fosse un "credente". "E' chiaro -egli disse- che le religioni vanno bene per uomini che si trovano ancora ad uno stadio infantile. I preti hanno insinuato, sempre e dappertutto, la frode e la menzogna". Intanto al soglio pontificio era salito il card. Chiaramonti, disponibile verso i regimi democratici (è noto il suo aforisma: "Siate buoni cristiani e sarete buoni democratici"). Le opposizioni all'intesa però non erano poche: da Luigi XVIII, che si era proclamato re in esilio a quella parte dell'entourage di Napoleone ancora legata alla politica ecclesiastica della rivoluzione (si pensi a Talleyrand e Fouché), dalla chiesa costituzionale (con Grégoire in testa), che temeva di perdere la sua indipendenza da Roma, agli ambienti legittimisti (soprattutto la chiesa "ribelle") che speravano in un ritorno della monarchia e temevano che l'accordo avrebbe loro tolto il consenso delle masse cattoliche. Ma, nonostante tutto ciò, il Concordato si fece (1801), seppur dopo otto mesi di difficili trattative. La chiesa, che non voleva assolutamente cedere sul riconoscimento della libertà di culto per le altre confessioni e sulla necessità, imposta dal governo francese, di dimettere i vescovi emigrati, fu messa con le spalle al muro dalla minaccia di Napoleone di creare una chiesa scismatica e di farsi "protestante". I punti salienti, in breve, possono essere considerati i seguenti: 1) il papa riconosce la repubblica come governo legittimo della Francia; 2) Napoleone riconosce il cattolicesimo come "religione maggioritaria" della sua nazione (il che in pratica vuol dire: libertà di culto per tutte le confessioni ma soprattutto per quella cattolica. In particolare i consoli della repubblica sono tenuti a professare la fede cattolica); 3) il papa ottiene le dimissioni di tutti i vescovi e la possibilità di istituire canonicamente i loro successori dopo che questi siano stati nominati dal capo dello Stato (in pratica si poneva fine alla chiesa costituzionale e ai culti rivoluzionari: quello decadario era già stato abolito nel 1800, quello teofilantropico lo sarà nel 1801. Talleyrand suggerì il riconoscimento dei vincoli coniugali contratti da quei preti e vescovi che avrebbero potuto essere riammessi alla comunione con la chiesa di Roma, ma la proposta fu respinta. Venne altresì abolita l'elettività popolare del clero). 4) In cambio Napoleone ottiene, in virtù del giuramento, la fedeltà al governo di tutti i nuovi vescovi e inoltre che i vescovi nominino solo i parroci graditi al governo; 5) i beni espropriati alla chiesa non vengono restituiti e la chiesa s'impegna a non richiederli (in cambio il governo assicura a vescovi e parroci uno stipendio); 6) la chiesa ottiene di poter rivedere le circoscrizioni diocesane, di poter istituire seminari o capitoli metropolitani senza oneri per lo Stato, di poter conservare la proprietà delle chiese non alienate e il diritto di ricevere lasciti e donazioni da parte dei fedeli; 7) si dispensava il clero dal servizio militare, si consentiva ai parroci di non amministrare il sacramento del matrimonio a chi fosse vincolato da impedimenti canonici e si tutelava l'autonomia giurisdizionale dell'ordinario sugli ecclesiastici che avessero commesso reati canonici o politici. Con questo Concordato si torna praticamente alla situazione prerivoluzionaria, cioè al Concordato del 1516, con la differenza che ora la chiesa cattolica ha un potere economico e quindi politico notevolmente ridimensionati. Tuttavia, nei confronti della chiesa gallicana e di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, volevano una religione più 'civile' o più conforme all'ideale evangelico, la vittoria della Santa sede era stata grande, sul terreno sia politico che ideologico, benché si sia trattata di una vittoria ottenuta grazie all'appoggio di una nuova classe sociale ad essa tendenzialmente ostile: la borghesia. In seguito, taluni punti non previsti dal Concordato vennero inclusi unilateralmente l'8 aprile 1802, nello strumento approvato dal governo francese (i cd. "Articoli organici"), come ad es. l'insegnamento dei Quattro articoli gallicani, la pretesa d'imporre in Francia un solo catechismo e una sola liturgia, ecc. Il che, in sostanza, stava ad indicare che Napoleone rifiutava al cattolicesimo-romano il rango di religione di stato. In ogni caso il papato era riuscito a ripristinare in Francia la sua autorità giurisdizionale, facendo chiaramente capire che le idee di democrazia e uguaglianza non avrebbero potuto portare, sic et simpliciter, alla distruzione della compagine gerarchica e burocratizzata che da secoli e secoli la chiesa s'era data.

 
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