BAILLY Jean Sylvain BARBAROUX Charles Henri Marie BARÈRE DE VIEUZAC Bertrand BARNAVE Antoine BERTIER DE SAUVIGNY Louis Bénigne BESENVAL Pierre Victor (de) BEURNONVILLE Pierre Riel (comte puis marquis) BILLAUD-VARENNES Jacques Jean BONNEVILLE Nicolas (de) BOUILLE François Claude Amour (marqui de.) BOURBOTTE Pierre BRISSOT Chartres BROGLIE Victore François BUZOT François Nicolas Léonard CAMBACERES Jean-Jacques-Régis de ( 1753 - 1824 ). CAMBON Joseph CAMUS Armand Gaston CARNOT Lazare Nicolas Marguerite CARRA Jean-Louis CASTHELINEAU CHAPPE Claude (l'abbé) CHARLES X Charles de France, comte d'Artois CHAUMETTE Pierre Gaspard dit ANAXAGORAS (1763-1794) CLAVIERE Etienne COLLOT D'HERBOIS Jean Marie CONDÉ Louis Joseph de Bourbon ( prince de) CORDAY D'ARMONT Charlotte CUSTINE Adam Philippe DANTON Georges Jacques DE BRY Jean Antoine Joseph D'EGLANTINE Nazaire François Philippe FABRE DELACROIX Jean-François Lacroix, ou DELMAS Jean François Bertrand DESÈZE ou DE SÈZE Raymond Romain (comte) DESMOULLINS Camille DILLON Arthure (comte) DILLON Théobald ( chevalier de ) son frère DUBOIS-CRANCE Edmond Louis (dit Dubois de Crané) DUMOURIEZ Charles François DUPORT ou DU PORT Adrien Jean François FLESSELLES Jacques (de) FOULLON Joseph François FRAVRAS Thomas de MAHY (marquis de) GARAT Dominique Joseph GENSONNÉ Armand GILLET François GIRONDIN GONCHON Clément GRÉGOIRE Henry (l'abbé) GUADET Marguerite Elie GUYTON DE MORVEAU Louis Bernard (baron) HEBERT Jacques René HÉRAULT de SECHELLES Marie Jean ISNARD Honoré Maximin JOURDAN Mathieu Jouve (dit JOURDAN COUPE-TETE) LAFAYETTE Marie Joseph Paul Yves Roch Gilbert (marqui de.) LAMBESC Charles Eugène de LORRAINE duc d'ELBEUF et prince (de) LASOURCE Marie David Albin LAUNAY Bernard JORDAN (de) LAVOISIER Antoine Laurent LE CHAPELIER Isaac René Guy LE PELETIER de SAINT-FARGEAU LOUIS MICHEL LEFRANC Jean Georges de POMPIGNAN LINDET Jean Baptiste Robert LOUIS XVI LUCKNER Nicolas MAILHE Jean Baptiste MALESHERBES Chrétien Guillaume MANUEL Pierre louis MARAT Jean Paul MARIE-ANTOINETTE MERLIN Philippe Antoine (comte) MIRABEAU Honoré Gabriel RIQUETI (comte de) MOMORO Antoine François MOUNIER Jean Joseph NECKER Jacques (1732-1804) ORLÉANS Louis Philippe Joseph (duc d') PASCAL ou Pasquale Paoli PETION de VILLENEUVE Jérôme PHILIPPE EGALITE' Louis, Philippe, Joseph Duc d'Orléans PRIEUR DE LA MARNE Pierre Louis QUINETTE Nicolas Marie (baron de Rochemont) ROBESPIERRE Maximilien (de) ROCHAMBEAU Jean Baptiste Donatien de Vimeur (comte de) ROLAND de la Platière Jean Marie ROUGET DE L'ISLE Claude Joseph ROUX Jacques SAINT-JUST Louis Antoine SALICETTI Antoine Christophe SERVAN DE GERBEY Joseph SIEYÈS Emmanuel Joseph (dit l'abbé Sieyès) STOFFLET Jean Nicolas THÉROIGNE DE MÉRICOURT Anne-Josèphe Therwagne THOURET Jacques Guillaume TREILHARD Jean BaptisteVARLET Jean François VERGNIAUD Pierre Victurnien Dato che La Fayette è incaricato di rispondere del re davanti alla nazione, la fuga di Luigi XVI, il 21 giugno 1791, è per lui un vero e proprio colpo basso. Sembra che in quell'occasione sia stato abilmente raggirato, ignorando del tutto i preparativi della partenza. In effetti, è poco probabile che la cerchia intorno al re l'avesse scelto come confidente; d'altra parte, era una bella occasione per rovinare in modo definitivo un credito politico traballante; infine, il progetto iniziale, cui La Fayette avrebbe magari potuto aderire, era stato profondamente rimaneggiato: i mezzi militari messi a disposizione di Bouillé erano stati ridotti, di modo che il ricorso all'esercito austriaco diventava inevitabile per intraprendere la riconquista del territorio nazionale. A questo, La Fayette non poteva consentire. Dopo il 21 giugno, La Fayette avanza l'ipotesi, subito ripresa dall'Assemblea, che il re non sia fuggito, ma sia stato rapito. Lo salva soprattutto il fatto di accettare l'alleanza proposta dal triumvirato, grazie alla quale l'offensiva scatenata contro di lui al club dei giacobini da Danton fa cilecca, nonostante le sue spiegazioni incoerenti e il brusco rifiuto di venire a giustificarsi. Malgrado l'ostilità e lo scetticismo di parte dei membri della società, Lameth chiude a catenaccio il club, provocando il furore di Marat (28 giugno). La Fayette utilizza questo rinvio per tentare un'altra volta il proprio "sistema". Fedele alla propria duplice politica, umilia il re, dopo il suo ritorno alle Tuileries, organizzando con zelo la sorveglianza di colui che al tempo stesso contribuisce a "risollevare", partecipando all'elaborazione del famoso decreto del 15 luglio, con cui si cercava di far dimenticare l'accaduto. La sparatoria del Campo di Marte, il 17 luglio 1791, è la risposta alla scissione dei giacobini e dei foglianti, che la vigilia aveva fatto andare in frantumi la preziosa impalcatura innalzata dai costituenti per salvare l'opera loro. Per il suo risultato, il 17 luglio è la ripetizione dell'affare di Nancy, anche se la responsabilità di La Fayette resta problematica: egli è presente al Campo di Marte, caracollando alla testa delle sue truppe, ma non si può accusarlo con certezza di aver dato l'ordine di aprire il fuoco sui dimostranti. L'importante, del resto, non è di sapere se egli fu responsabile del massacro oppure no, ma che lo si sia considerato tale. Desmoulins lo denuncia come un nuovo Carlo IX, i giacobini lanciano una campagna contro di lui. Questa volta, il divorzio fra la capitale e il generale che essa ha ricoperto di adulazioni è consumato. Come per sanzionare la sua rovina, i mandati di La Fayette giungono al termine: la Costituente si scioglie alla fine del settembre 1791; il mese seguente egli deve lasciare il comando della guardia nazionale, poiché lo stato maggiore è stato riformato. In novembre riceve la prova irrefutabile della sua sconfitta: alle elezioni municipali raccoglie contro Pétion soltanto 3000 suffragi, su circa 11000 votanti. Respinto dalla capitale, ci vorrà ancora un anno prima che egli scompaia del tutto dalla scena politica. Ma ormai non è più padrone del suo destino. Fino a ora, maldestramente, La Fayette ha mostrato un saldo attaccamento alla costituzione. La sua ambizione personale lo portava senza dubbio aricercare le più alte responsabilità, forse il ministero, ma era pronto, e di ciò diede abbondanti prove, ad attendere che il re comprendesse che solo attraverso di lui era possibile riconciliare il trono e la rivoluzione. Ora, di questo legalista convinto la propaganda avversaria farà un uomo fazioso e pericoloso. Dopo la nomina di La Fayette al comando dell'armata del Centro, Danton, il 14 dicembre 1791, pretende di smascherarlo davanti ai giacobini: "Il desiderio di farsi nominare sindaco di Parigi era una finta, il suo vero ruolo lo sta svolgendo adesso." Le accuse si moltiplicano nell'imminenza dell'entrata in guerra, poi in occasione dei preparativi per la festa in onore delle sue vittime del 1790, i soldati di Chàteauvieux. Il suo passato, le funzioni che ha rivestito, le prove di forza del 1790 e del 1791, il plebiscito in seguito all'incidente di Saint-Cloud, alimentano a sufficienza il sospetto di cesarismo. Nella primavera del 1792 si diffonde l'idea che La Fayette attenda l'occasione propizia per scatenare la guerra civile. Accusato dal club dei giacobini di essere complice di La Fayette, Brissot, in un discorso pronunciato ai giacobini il 25 aprile 1792, solleva il problema di fondo. Comincia con lo sbarazzarsi dell'accusa di collusione, negando ogni credibilità al supposto traditore. Poi, interrogandosi sui continui appelli alla vigilanza contro un prossimo colpo di stato, prosegue: "Voi che credete di vedere in La Fayette un nuovo Cromwell, non conoscete né La Fayette, né il vostro secolo, né il popolo francese." Additando alla vendetta popolare un generale di nessun valore, non si vogliono piuttosto dissimulare i veri istigatori del colpo di stato che si sta preparando? Infatti la minaccia non sta nella spada, ma nella parola: "Perché i tribuni, signori," azzarda Brissot, "sono un'altra classe di nemici, ben più pericolosi per il popolo." Ma La Fayette reciterà coscienziosamente la parte che ci si attende da lui. Per quasi sette settimane le sue iniziative di generale fazioso serviranno da combustibile ai più radicali per accrescere la pressione, per portare la crisi politica al parossismo. La Fayette ha perduto ogni consistenza reale, è diventato per così dire una figura del discorso giacobino, la prova vivente che il complotto esiste. Ultimo atto: il 16 giugno 1792 La Fayette invia due lettere, una all'Assemblea legislativa, l'altra al re. Nella prima, ribadisce il suo attaccamento alla libertà e alla costituzione, raccomanda al corpo legislativo di colpire i suoi nemici con armi legali, anche se in filigrana si può leggere una minaccia, quando afferma di rispettare i rappresentanti, ma "più ancora il popolo di cui la costituzione è la suprema volontà". La lettera al re è meno prudente. Gli offre ancora una volta il suo aiuto, e questa volta, chiaramente, gli propone la sua spada "per difenderlo contro i complotti dei ribelli e le imprese dei faziosi". Il 28 giugno 1792, dopo la sommossa del 20 giugno, passa alle vie di fatto e varca il Rubicone, ma da solo. Presentatosi alla sbarra della Legislativa, senza autorizzazione, "supplica" l'Assemblea di perseguire gli istigatori del 20 giugno, di prendere misure contro la "setta giacobita" - come i nemici dei giacobini li chiamavano a quel tempo - e di far rispettare l'autorità dell'Assemblea e quella del re. Come nella lettera del 16, il tono umile è al tempo stesso pieno di minaccia: "Oso infine supplicarvi... di dare all'esercito l'assicurazione che la costituzione non riceverà alcuna offesa all'interno." L'intervento di Ramond fece sì che l'Assemblea, in maggioranza, accogliesse la richiesta in modo favorevole, ma fu così lirico che Saladin lo interruppe: In effetti, un corpo legislativo ormai moribondo, dopo essersi piegato davanti a una sommossa, sembrava applaudire per paura l'ombra di un generale già defunto. La sera stessa, La Fayette tenta senza successo di far aderire la guardia nazionale ai suoi progetti: poco dopo, vede il re, che lo mette alla porta. Quando, l'indomani, ritorna al proprio esercito, i parigini bruciano la sua effigie. "Chiedo al signor Ramond se sta facendo l'elogio funebre del signor La Favette!" Dopo la "giornata" del 10 agosto e la caduta della monarchia, fece un ultimo tentativo per far insorgere le sue truppe. Sconfessato, messo sotto accusa il 18 agosto, toccò a lui, nella notte dal 19 al 20, darsi alla fuga. Cinque anni di prigione lo attendevano oltre frontiera; ma anche, appannatisi i ricordi nel tempo, una seconda giovinezza: "Gli austriaci gli resero il favore capitale di arrestarlo, e in tal modo lo riabilitarono" (Michelet). PATRICE GUENIFFEY http://www.cronologia.it/storia/biografie/lafayett.htm http://fr.encyclopedia.yahoo.com/articles/ni/ni_3120_p0.html http://www.encyclopedia.com/html/L/LafayettM1J1.asp http://revolution.1789.free.fr/Les_personnages.htm http://membres.lycos.fr/histoire1789/Lafayette.htm LAMBESC Charles Eugène de LORRAINE duc d'ELBEUF et prince (de) Maréchal de France né à Versailles en 1751, décédé à Vienne en 1825. Membre d'une branche de la maison de Guise, liée à la famille de Marie-Antoinette, colonel propriétaire du régiment Royal-Allemand, il fit tirer sur la foule aux Tuileries le 12 juillet 1789. Accusé, mais acquitté, il émigra, entra au service de l'armée autrichienne contre la France révolutionnaire en 1792 et fut nommé maréchal de France en 1814 LASOURCE Marie David Albin Homme politique français, né à Angles, (Tarn) le 22 javier 1763, décédé à Paris le 31 octobre 1793. député du Tarn et vota la mort du roi Louis XVI. Rallié à la Révolution, il fut élu à l'Assemblée législative en 1791, où il prit position contre La Fayette . Réélu à la Convention, membre du comité de sûreté générale* et su 1er Comité de salut public *, il fut décrété d'accusation et condamné à mort avec les Girondins * auxquels il s'était rallié.Avant de donner sa tête au bourreau, il s'eclala : "Je meurs le jour où le peuple a perdu la raison; vous mourrez le jour où il l'aura retrouvée" LAUNAY Bernard JORDAN (de) Gentilhomme français né et décédé à Paris en 1740 - 1789. Fils du gouverneur de la Bastille, il succéda à son père en 1776. Ayant refusé de livrer des armes pour la milice bourgeoise et le peuple, et ayant même, croit-on, ordonné de tirer sur la délégation de parlementaires qui venaient le trouver, il fut massacré après la prise de la Bastille, le 14 juillet 1789. LAVOISIER Antoine Laurent Chimiste français né à Paris le 26 août 1743, guillotiné à Paris le 8 mai 1794. L'un des créateurs de la chimie moderne. On lui doit la nomenclature chimique, la connaissance de la composition de l'eau et de l'air, la découverte du rôle de l'oxygène dans les combustions et dans la respiration animale, l'énoncé de la loi de conservation de la premières mesures calorimétriques, Député suppléant, il fit partie de la commission chargée d'établir le système métrique. Lavoisier fut exécuté avec les fermiers généraux, en 1794, dont il faisait partie © Petit Larousse 1969 et 1989 Opere, testi, documenti disponibili in: Gallica.BNF Rapport sur les prisons / Lavoisier http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N056713 Mémoires présentés à l'Assemblée provinciale de l'Orléanais / Lavoisier http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N056713 Réflexions sur les assignats & sur la liquidation de la dette exigible ou arriérée, lue à la Société de 1789, le 29 août 1790 / par M. Lavoisier,... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N056868 Réflexions sur les assignats et sur la liquidation de la dette exigible ou arriérée lue à la Société de 1789, le 29 août 1790 / par M. [Antoine-Laurent de] Lavoisier,... Rapport sur les prisons / Lavoisier http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N084214 LE CHAPELIER Isaac René Guy BAILLY Jean Sylvain BARBAROUX Charles Henri Marie BARÈRE DE VIEUZAC Bertrand BARNAVE Antoine BERTIER DE SAUVIGNY Louis Bénigne BESENVAL Pierre Victor (de) BEURNONVILLE Pierre Riel (comte puis marquis) BILLAUD-VARENNES Jacques Jean BONNEVILLE Nicolas (de) BOUILLE François Claude Amour (marqui de.) BOURBOTTE Pierre BRISSOT Chartres BROGLIE Victore François BUZOT François Nicolas Léonard CAMBACERES Jean-Jacques-Régis de ( 1753 - 1824 ). CAMBON Joseph CAMUS Armand Gaston CARNOT Lazare Nicolas Marguerite CARRA Jean-Louis CASTHELINEAU CHAPPE Claude (l'abbé) CHARLES X Charles de France, comte d'Artois CHAUMETTE Pierre Gaspard dit ANAXAGORAS (1763-1794) CLAVIERE Etienne COLLOT D'HERBOIS Jean Marie CONDÉ Louis Joseph de Bourbon ( prince de) CORDAY D'ARMONT Charlotte CUSTINE Adam Philippe DANTON Georges Jacques DE BRY Jean Antoine Joseph D'EGLANTINE Nazaire François Philippe FABRE DELACROIX Jean-François Lacroix, ou DELMAS Jean François Bertrand DESÈZE ou DE SÈZE Raymond Romain (comte) DESMOULLINS Camille DILLON Arthure (comte) DILLON Théobald ( chevalier de ) son frère DUBOIS-CRANCE Edmond Louis (dit Dubois de Crané) DUMOURIEZ Charles François DUPORT ou DU PORT Adrien Jean François FLESSELLES Jacques (de) FOULLON Joseph François FRAVRAS Thomas de MAHY (marquis de) GARAT Dominique Joseph GENSONNÉ Armand GILLET François GIRONDIN GONCHON Clément GRÉGOIRE Henry (l'abbé) GUADET Marguerite Elie GUYTON DE MORVEAU Louis Bernard (baron) HEBERT Jacques René HÉRAULT de SECHELLES Marie Jean ISNARD Honoré Maximin JOURDAN Mathieu Jouve (dit JOURDAN COUPE-TETE) LAFAYETTE Marie Joseph Paul Yves Roch Gilbert (marqui de.) LAMBESC Charles Eugène de LORRAINE duc d'ELBEUF et prince (de) LASOURCE Marie David Albin LAUNAY Bernard JORDAN (de) LAVOISIER Antoine Laurent LE CHAPELIER Isaac René Guy LE PELETIER de SAINT-FARGEAU LOUIS MICHEL LEFRANC Jean Georges de POMPIGNAN LINDET Jean Baptiste Robert LOUIS XVI LUCKNER Nicolas MAILHE Jean Baptiste MALESHERBES Chrétien Guillaume MANUEL Pierre louis MARAT Jean Paul MARIE-ANTOINETTE MERLIN Philippe Antoine (comte) MIRABEAU Honoré Gabriel RIQUETI (comte de) MOMORO Antoine François MOUNIER Jean Joseph NECKER Jacques (1732-1804) ORLÉANS Louis Philippe Joseph (duc d') PASCAL ou Pasquale Paoli PETION de VILLENEUVE Jérôme PHILIPPE EGALITE' Louis, Philippe, Joseph Duc d'Orléans PRIEUR DE LA MARNE Pierre Louis QUINETTE Nicolas Marie (baron de Rochemont) ROBESPIERRE Maximilien (de) ROCHAMBEAU Jean Baptiste Donatien de Vimeur (comte de) ROLAND de la Platière Jean Marie ROUGET DE L'ISLE Claude Joseph ROUX Jacques SAINT-JUST Louis Antoine SALICETTI Antoine Christophe SERVAN DE GERBEY Joseph SIEYÈS Emmanuel Joseph (dit l'abbé Sieyès) STOFFLET Jean Nicolas THÉROIGNE DE MÉRICOURT Anne-Josèphe Therwagne THOURET Jacques Guillaume TREILHARD Jean BaptisteVARLET Jean François VERGNIAUD Pierre Victurnien Nasce a Reíms nel 1754. E' tra i più noti e stimati avvocati della sua città. Prende posizione contro l'ancien régIme e contro i privilegi sociali e politici che impediscono alla Francia di uscire dalle secche di un ordine ancora dominato da inique e anacronistiche sopravvivenze feudali. Eletto agli Stati generali è, insieme a Mouníer, uno dei promotori del giuramento del Jeu de Paume. Presidente dell'Assemblea nazionale, è tra i principali protagonisti delle decisioni antifeudali culminate nei decreti del 4 agosto. Non ha esitazioni nel porsi alla testa delle più accese rivendicazioni di avanzamento politico sociale, ma dopo la fuga di Varennes, si riavvicina alla Corte. Anche per lui ha inizio una sorprendente fase regressiva, sorta su quella base di. inquietudine e di incertezza per il futuro che accomuna uomini come Lally Tollendal e come Mounier, come Clermont Tonnerre e come Bergasse, eletti così dalla nobiltà come dal Terzo stato. Emigra, quindi, in Inghilterra, ma rientra clandestinamente in Francia e cerca di salvaguardare dalla confisca i propri beni. Viene arrestato, condotto davanti al tribunale rivoluzionarío e condannato a morte. Muore per decapitazione il 22 aprile 1794. Era stato un qualificato collaboratore della « Bíbliothèque de l'homme public » di Condorcet. La proposta di.trasformare gli Stati generali in Assemblea nazionale e di non abbandonare, di non recedere dal proprio mandato fino all'approvazione di una nuova carta costituzionale, giurando solennemente di non arrendersi di fronte a qualunque pressione o minaccia, è stata avanzata per la prima volta da Isaac René Guy Le Chapelier, un deputato del Terzo stato fieramente avverso ai privilegi dei nobili e ostile, in modo quanto mai rigoroso e indomabile, ai criteri con cui la monarchia aveva governato, da circa 2 secoli, la Francia. Le Chapelier non era, a sua volta, un irriducibile nemico della monarchia; riteneva, al contrario, che la monarchia fosse insostituibile nella situazione francese, che la repubblica non dovesse costituire un obiettivo auspicabile. Tuttavia, la riforma costituzionale avrebbe dovuto, a suo avviso, relegare la monarchia al puro esercizio del potere esecutivo, lasciando il potere legislativo in mano di assemblee elettive. Il re, inoltre, avrebbe dovuto essere privato dei poteri di annullare le deliberazioni dell'Assemblea. Non vi era dubbio che, tra opposte interpretazioni intorno al problema dell'opportunità delle varie decisioni, fosse, in definitiva, l'assemblea elettiva a prevalere. Le Chapelíer si schiera, dunque, al fianco di Barnave per la proposta di un voto sospensivo, ma non spinge più in là le proprie indicazioni per non compromettere un ordine di cose già sufficientemente delicato e instabile, già sufficientemente precario per non sopportare altre forzature. Le Chapelier ha occupato, grazie alla propria indiscussa autorevolezza, una posizione di primo piano e di effettiva direzione nei lavori dell'Assemblea nazionale. Si può dire che i decreti del 4 luglio, relativi alla soppressione dei privilegi dei nobili, siano stati per intero redatti da lui e che, dunque, la sua influenza sia stata decisiva al fine del rinnovamento costituzionale successivo. Ma anche a lui capita di dover sgombrare la scena. La sua appartenenza ai feuillanis, il suo intransigente prospettare la conservazione del regime monarchico, gli costeranno lo stesso destino di Alexandre Lameth, quello, cioè, di cercare nell'emigrazione la salvaguardia della propria esistenza. Nel 1791, falliti i tentativi fayettisti, conclusi i lavori dell'Assemblea costituente, alla vigilia dell'inaugurazione della Assemblea legislativa, si verificava la fine anche delle speranze lamettiste. Le Chapelier ne resterà travolto. Emigrato in Inghilterra, rientrerà inopportunamente in Francia nel disperato tentativo di evitare la confisca dei suoi beni. Arrestato, finirà i suoi giorni sotto la ghigliottina. Opere, testi, documenti disponibili in: Gallica.BNF Rapport fait par M. Le Chapelier, au nom du comité de constitution, sur la pétition des auteurs dramatiques, dans la séance du jeudi 13 janvier 1791, avec le décret rendu dans cette séance http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048171 [33 pamphlets sur les droits féodaux et l'abolition de la féodalité] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N056647 Lettre du citoyen Félix Lepelletier, aux membres de la Convention Plan d'éducation nationale de Michel Lepletier [sic] / présenté aux Jacobins par Félix Lepeletier ; impr. par arrêté de la Société des Jacobins http://fr.encyclopedia.yahoo.com/articles/l/l0001219_p0.html http://membres.lycos.fr/stromhg2/cours/seconde/hist/revolution/personn_eleves/lechapelier.htm LE PELETIER de SAINT-FARGEAU LOUIS MICHEL Le Peletier de Saint-Fargeau Louis Michel (comte de), né à Paris le 29 mai 1760, assassiné à Paris le 20 janvier 1793 Depuis 1779, année où il est entré au parlement de Paris avec dispence d'âge, il a parcouru brillamment, en compagnie de son ami d'enfance Hérault de Séchelles, la route qui s'ouvrait tout naturellement au descendant d'une grande famille de magistrats. Président à mortier, une charge qu'il tient de son père, il s'est affirmé comme spécialiste de droit criminel et, à ce titre, s'est prononcé contre la peine de mort. D'extérieur, il est froid, assez hautin comme tous les Le Peletier; il intervient rarement aux réunions de chambren mais il lui arrive de s'emporter, après quoi il retrouve son flegme ordinaire. Il s'intéresse aux problèmes d'éducation populaire et, comme il ne manque pas d'imagination, il a des projets de réforme. On le voit souvent dans les sociétés du Palais-Royal, il joue au billard et perd beaucoup d'argent, mais il est riche d'au moins six cent mille livres de rente. © Chronique de la Révolution édition Larousse. Discours prononces a la derniere seance de l'Assemblee des notables tenue a Versailles le 25 mai 1787, dans lesquels on verra le precis & le resultat de toutes les questions qui y sont discutees, & les intentions de Sa Majeste http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N046944 Plan d'education nationale de Michel Lepletier [sic] / presente aux Jacobins par Felix Lepeletier ; impr. par arrete de la Societe des Jacobins http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N048958 Observations relatives a l'instruction de Vendome : adressees au haut-jury et faisant suite a la "Defense de Felix Lepeletier" / par Amedee Lepeletier... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N084787 LEFRANC Jean Georges de POMPIGNAN Ecclésiastique et écrivain français né à Montauban en 1715, décédé à Paris en 1790. Evêque du Puy en 1743, archevêque de Vienne (Dauphiné) en 1774, il prit vioalemment position contre les idées des philosophes, en particulier Voltaire, dans ses Questions sur l'incrédulité (1753-1757). Député du clergé aux Etats généraux en 1789, il fut cependant un des premiers de son ordre à se réunir au Tiers Etat. Ministre de la Feuille des bénéfices après la nuit du 4 août 1789, il prit position contre la Constitution civile du clergé. LINDET Jean Baptiste Robert Homme politique français né à Bernay le 2 mai 1746, décédé à Paris le (4 ou 16) février 1825. Acquis aux idées révolutionnaire, il fut nommé procureur syndic de son district en 1790. Élu à l'Assemblé législative*, puis à la Convention*, il siégea d'abord avec les députés de la Plaine*, puis se rallia à la Montagne*. Rédacteur du " rapport sur les crimes imputés à Louis Capet* " (procès de Louis XVI), il entra au comité de salut public* en avril 1793, y fut réélu en juillet 1793, et fut chargé des subsistances. Il ne prit pas directement part aux luttes qui amenèrent la chute de Robespierre*. Sous la Convention thermidorienne, il tenta de prendre la défense du Comité de salut public* et de ses membres, et fut ensuite impliqué dans l'insurrection Montagnarde du 1er prairial an III. Il bénéficia de l'amnistie de l'an IV, et en 1799, fut nommé ministre des finances. Tableau des différentes espèces d'assignats faux imprimés, soit en lettres, soit en taille douce, qui ont paru dans la circulation jusqu'au 21 septembre de l'an deuxième de la République française, une & indivisible / [Ministère des finances] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N040002 Robert-Thomas Lindet, représentant du peuple, à la Haute-cour de justice, sur l'accusation contre Robert Lindet http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N045765 LouisXVI ; un politicien hésitant Une noblesse réinstallée Louis XVI se trouvait fort démuni face à cette situation complexe. Sur les conseils de ses tantes, il prit un "mentor" en la personne du vieux comte de Maurepas (1701-1781), nommé "ministre d'État". Le roi avait un guide, mais sa politique fut d'emblée tissée de contradictions. Il renvoya le triumvirat (le duc d'Aiguillon, l'abbé Terray et le chancelier Maupeou), trop impopulaire, et néanmoins se voulut garant de l'esprit de réforme. Turgot (1727-1781), libéral, ami des philosophes, fut nommé contrôleur général des Finances, mais dans le même temps le roi rappela les parlements exilés. Alors que Louis XVI prétendait se donner les moyens de réformer son royaume, il restituait à la noblesse de robe conservatrice son prestige et son arme politique, le droit de remontrance. Maupeou, disgracié, le comprit bien en écrivant: "J'avais fait gagner au roi un procès qui durait depuis trois siècles, s'il veut le perdre encore, il est bien le maître." L'échec de Turgot Entre Lumières et tradition, cette politique contradictoire était dictée par le souci de popularité du jeune monarque et par ses idées d'aristocrate conformiste. Au total, le règne de Louis XVI allait être une succession de reculades face aux indispensables réformes. Turgot, le premier, souffrit des inconstances royales. Dans le domaine économique, il instaura la liberté du commerce et la libre circulation des grains (1774) dans des circonstances difficiles (guerre des Farines, 1775); il supprima les corporations au profit de la liberté d'entreprise (1776). Ayant imposé un train d'économies immédiates, il posa les bases d'une réforme fiscale en supprimant la corvée royale, qui pesait sur les seuls roturiers, et envisagea la création d'une contribution territoriale payable par tous les propriétaires (1776). Mais, face à la cabale des privilégiés offusqués à l'idée de devoir payer eux aussi des impôts, il fut renvoyé par Louis XVI (mai 1776), au désespoir d'une large fraction des partisans des Lumières. Necker aux Finances Le successeur de Turgot, Clugny, détruisit son ouvre pour tenter de réconcilier la monarchie et les privilégiés, sans résoudre la grave question budgétaire. Maurepas imposa alors à la direction des Finances le Genevois Necker (1732-1804). Celui-ci se rendit populaire en finançant la guerre d'Amérique (1778-1783) sans recourir à l'impôt. Mais les emprunts, à terme, alourdissaient le déficit budgétaire. Très vite, il fallut revenir aux idées de Turgot, assorties d'un projet de réforme de l'administration locale (création d'assemblées provinciales chargées de répartir l'impôt) débouchant sur une participation politique accrue de la bourgeoisie. Une nouvelle fois, les privilégiés firent bloc. Pour s'en protéger, Necker publia un Compte rendu au roi (1781) sur les finances publiques, apologie de sa gestion qui restait silencieuse sur le déficit et le financement de la guerre. L'opinion en retint surtout le montant des pensions royales aux courtisans. Indisposé et poussé par son entourage, le roi renvoya Necker (mai 1783). Réformes avortées La succession de ministères réduits à l'impuissance ou peu téméraires (Joly de Fleury, 1781-1783; Lefèvre d'Ormesson, 1783) ainsi que le coût de la guerre d'Amérique avaient mis l'État au bord de la banqueroute (80 millions de déficit en 1783). Louis XVI, sur les conseils de Vergennes, secrétaire d'État aux Affaires étrangères, appela Calonne (1734-1802) au contrôle général des Finances. L'euphorie née de la victoire française en Amérique (1783) lui permit de rétablir la confiance et d'emprunter de nouveau. Mais en 1786, faute de capitaux, la politique d'expédients dut cesser, et on songea une fois de plus à l'indispensable réforme. Pour contourner l'opposition des parlementaires, Calonne fit convoquer par le roi une assemblée de notables devant laquelle il présenta, en février 1787, un projet de réforme fiscale et administrative, fortement inspiré par les idées de ses prédécesseurs. Trop timide, le projet d'assemblées provinciales, simplement consultatives, n'emporta pas l'adhésion des non-privilégiés. Trop hardie, la réforme fiscale fut désavouée par la coalition des privilégiés. Louis XVI recula pour la troisième fois en remerciant son ministre (23 avril 1787). Une politique extérieure prestigieuse Autant la politique intérieure de Louis XVI manqua de fermeté, autant le rayonnement extérieur de la France fut une réussite. Initié par Vergennes aux subtilités des relations internationales, Louis XVI y porta un réel intérêt. Il veilla ainsi à la restauration de la marine royale, après la lourde défaite maritime et coloniale face à l'Angleterre, lors de la guerre de Sept Ans. Le roi ne cachait pas son anglophobie et partageait les vues de son ministre, désireux de redonner à la France une position d'arbitre en Europe. Pour cela, Louis XVI et Vergennes tentèrent d'éviter tout nouveau conflit continental. Il fallut maîtriser les ambitions de l'empereur d'Autriche Joseph II, qui voulait s'emparer de la Bavière (1778-1779) et, avec l'aide de la Russie, démanteler l'Empire ottoman (1782-1784). Les colonies américaines Mais la gloire de Louis XVI brilla surtout à l'occasion de la guerre d'Indépendance menée par les treize colonies américaines contre leur métropole anglaise. Après avoir financé en sous-main un trafic d'armes et laissé partir des volontaires (dont le marquis de La Fayette) au secours des "insurgents", Louis XVI signa un traité d'alliance avec les Américains (1778). La France mit alors sur pied une coalition réunissant l'Espagne et la Hollande pour jeter bas la suprématie maritime anglaise. De 1778 à 1781, la guerre s'étendit à tous les océans du globe. La victoire franco-américaine de Yorktown (octobre 1781) fut le point ultime des combats en Amérique. Le traité de Versailles (3 septembre 1783) donna l'indépendance aux Américains et marqua un coup d'arrêt à l'expansion anglaise. La France obtenait quelques satisfactions, bien médiocres toutefois au regard de l'énorme effort financier accompli. Vingt ans après la honte du traité de Paris (1763), cette "politique de Don Quichotte" avait cependant permis la renaissance du prestige français. Une économie fragilisée Afin de consolider la paix, la France conclut alors plusieurs traités de commerce avec les grandes puissances, y compris avec l'Angleterre (1786). Cette politique de libre-échange stimula le commerce maritime, mais elle aggrava sensiblement, du fait de la concurrence anglaise, les difficultés de certaines industries déjà affectées par un ralentissement économique général. En fait, cette gloire, si coûteusement ressuscitée, fut éphémère et sans réel profit à long terme pour le roi. La disparition de Vergennes, en février 1787, laissait Louis XVI seul, au seuil de la tourmente. Dans la tourmente Sur fond de crise économique, la crise politique prérévolutionnaire se développa rapidement. Les frasques d'une reine impopulaire, surnommée "Madame Déficit" en raison de ses dépenses et compromise dans l'affaire du Collier (1785), contribuèrent au discrédit de la monarchie. Les dernières velléités de réformes éclairées, comme l'adoption d'un édit de tolérance en faveur des protestants en 1787, n'y changèrent rien. Les actes d'autorité du roi vinrent à contretemps. Lorsque Louis XVI revint à la politique de Maupeou au printemps 1788 (réforme du garde des Sceaux Lamoignon), en raison des oppositions rencontrées par le successeur de Calonne, Loménie de Brienne, il était trop tard. Il ne fit que conforter l'image "despotique" de la monarchie. Rapidement contraint de convoquer les états généraux, le roi mettait le doigt dans un engrenage qu'il ne contrôlerait plus jamais. Avec la mise à bas de l'Ancien Régime (le roi fut ramené de force de Versailles à Paris le 6 octobre 1789), il ne trouva plus de volonté politique suffisante pour affronter les événements. Louis XVI se replia sur la défense des principes de la monarchie de droit divin, ceux de son éducation, ceux que lui avaient légués ses pères. Ses résistances et ses revirements ruinèrent le compromis institutionnel élaboré par la Constituante. Incapable de jouer le rôle d'un roi constitutionnel, heurté dans ses principes religieux par la Constitution civile du clergé, il choisit la fuite et échoua (à Varennes, le 21 juin 1791). Condamnation Formant un ministère girondin, en mars 1792, le roi vit dans la guerre, pour des raisons inverses de celles des révolutionnaires, le moyen de sortir de la situation où il s'était enfermé. Mais le veto qu'il mit aux décrets de salut public, après les premières défaites françaises, souleva contre lui le peuple de Paris: l'insurrection du 10 août 1792 renversa le roi, qui, le 13, fut emprisonné au Temple. Considéré comme "traître" à la nation, "Louis Capet" sera condamné par une Convention désireuse de rompre tout lien avec le passé. Louis XVI marcha à son supplice, courageusement, le 21 janvier 1793. La portée symbolique de cette mort dépassait de beaucoup la personnalité d'un roi qui avait découragé maints fidèles serviteurs et dont la bonne volonté ne pouvait suffire face au séisme politique et social qui ébranlait son siècle. © 2001 Hachette Multimédia / Hachette Livre LUCKNER Nicolas Maréchal de France né à Cham-Bavière en 1722, décédé à Paris en 1794. Lieutenant général des armées françaises en 1763, maréchal de France en 1791, il commanda l'armée du Rhin, puis l'armée du Nord, en remplacement de Rochambeau en 1792. Suspecté de trahison et suspendu, il fut arrêté à Metz en 1793 et condamné à mort par le tribunal révolutionnaire. MAILHE Jean Baptiste Homme politique français né à Guizerix (Haute-Pyrénées) le 2 juin 1750, décédé à Paris le 1er juin 1834. Avocat à Toulouse, député de la Haute-Garonne à l'Assemblée législative, puis à la Convention, il vota la mort du roi mais avec sursis et, après la chute de Robespierre*, fut l'un des instigateurs de la réaction contre les jacobins* (en particulier à Dijon). Il fut éliminé après le coup d'état du 18 fructidor an V. Exilé en 1816 pour réhicide il, s'exila à Bruxelles, il y ouvrit un cabinet d'avocat très prospère, et il jouit d'une réputation de grand juriste. Après la Révolution de 1830, Mailhe rentra en France et ouvrit à Paris un cabinet d'avocat MALESHERBES Chrétien Guillaume Malesherbes Chrétien Guillaume de Lamoingnon de ( Paris le 15 décembre 1721 - Paris le 22 avril 1794), Président de la Cour des aides, secrétaire de la maison du roi (1775), il publia un Mémoire sur le pariage des protestants (1785) qui contribua à leur faire restituer un état civil (1787). Ancien ministre à deux reprises de Louis XVI, il défendit celui-ci devant la Convention (décembre 1792), publiant ensuite son Mémoire pour Louis XVI. Arrêté à son tour comme suspect. Il fut guillotiné. © L'histoire de la France édition Larousse Mémoire sur les moyens d'accélérer les progrès de l'économie rurale en France : lu à la Société royale d'agriculture / par M. de Lamoignon de Malesherbes,... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N043640 Discours prononcés à la dernière séance de l'Assemblée des notables tenue à Versailles le 25 mai 1787, dans lesquels on verra le précis & le résultat de toutes les questions qui y sont discutées, & les intentions de Sa Majesté http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N046944 Mémoire sur le mariage des protestans, en 1785 / [Guillaume de Lamoignon de Malesherbes] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N047036 Lettre de M. de Lamoignon à M ***,... http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N047114 Lettre de M. de Lamoignon à M***, conseiller d'Etat [Olivier de Sénozan] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N075671 Mémoires sur la librairie et sur la liberté de la presse / par M. de Lamoignon de Malesherbes,... ; [publ. par Antoine-Alexandre Barbier] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N083094 MANUEL Pierre Louis Homme politique français, né à Montargie en 1751, décédé à Paris en 1793. Quelques libelles antireligieux, écrits alors qu'il était précepteur, lui valurent la prison en 1783. Au début de la révolution, après la prise de la Bastille, le maire de la commune de Paris, Bally*, l'appela à la police ; c'est alor qu'il rédigea la police de Paris dévoilée, ouvrage qui connut un vif succès. Procureur de la commune de Paris en 1791, destitué après la tête de la Commune insurrectionnelle (nuit du 9 au 10 août 1792) qui prit une part active à l'insurrection du 10 août 1792. Conventionnel et républicain, il vota cependant contre la mort du roi et fut guillotiné Marat Jean Paul (Boudry, Neuchâtel, 1743 - Paris, 1793). cronologia, saggi critici, testi La storiografia della rivoluzione francese ha avuto dei dantonisti. Ha tuttora dei robespierristi. Ma non ha nessun maratista. Nella galleria dei ritratti rivoluzionari, Marat occupa il posto dell'energumeno. Ne possiede il fisico ("agli occhi di un pittore di massacri, la testa di Marat sarebbe di un interesse inestimabile," disse John Moore in occasione di un viaggio in Francia, nel settembre 1792), il comportamento (la teatralità e l'esibizionismo), la parola (gli appelli alla sommossa e al massacro). La sua funzione nella rivoluzione, affermava Camille Desmoulins, è quella di fornire un limite all'immaginazione popolare: "Al di là di quel che propone Marat, non può esservi che delirio e stravaganza." Questo particolare destino Marat lo deve anche a una morte che ha riunito tutti i caratteri di un'iscrizione duratura nella coscienza collettiva: un uomo celebre, brutto e malato, pugnalato da una sconosciuta giovane e bella; un uomo che chiedeva condanne a morte, ma che veniva chiamato "l'amico del popolo", e che l'assassina poté avvicinare col pretesto di presentargli una supplica, circostanza quanto mai adatta, come notò Augustin Robespierre, a "demaratizzare Marat"; un uomo sanguinano morto nel sangue, straordinaria figura di carnefice-martire. Un uomo, inoltre, il cui processo si era svolto molto prima della sua morte, grazie ai girondini, che lo aprirono nell'aprile 1793. Infatti Marat è, insieme con Luigi XVI, l'unico personaggio della rivoluzione che sia sembrato degno di un appello nominale, e l'unico quindi per cui ci siano pervenuti i voti di tutta la Convenzione con gli adeguati commenti. Nelle nove ore in cui i deputati sfilarono, si spiegò tutto il ventaglio delle "opinioni" su Marat, dalla virtù patriottica alla pazzia furiosa: il repertorio che i posteri continueranno a citare si è formato molto presto. Un repertorio che colpisce, a sua volta, per i suoi eccessi: "Caligola da trivio" (per Chateaubriand), "funzionario della rovina" (per Hugo), "re degli unni" (per Louis Blanc), Marat ha avuto il dono di ispirare il ritratto accusatorio. Per Nodier era "l'unica creatura che mi abbia fatto comprendere l'odio". Tutte le interpretazioni di Marat hanno creduto di dover rendere conto di questa eccezionalità: eccezionalità della rivoluzione stessa, per la storiografia contro-rivoluzionaria; e per la storiografia favorevole alla rivoluzione, eccezionalità nella rivoluzione. Sicché, a proposito di Marat, si torna sempre alle stesse due questioni: se era un personaggio singolare, a che cosa lo doveva? e questa singolarità può essere ritenuta emblematica di tutta quanta la rivoluzione? Vi sono almeno tre modi per razionalizzare l'eccezionalità di Marat: come grande malato, grande perseguitato, grande visionario. Tre ritratti, dunque, ciascuno dei quali fornisce un tipo di intelligibilità: biopsicologica il primo, sociopsicologica il secondo, e infine politicoculturale. L'interpretazione di Marat attraverso la malattia, quella dermatosi infiammatoria che ha alimentato un'immensa letteratura medica e che spiega la vasca da bagno e il turbante, è stata un tema provvidenziale per la storiografia controrivoluzionaria; del resto essa lo aveva trovato in Michelet, il quale, colpito nel vedere quali "strane malattie corrispondono alle situazioni estreme", sembrava quasi invocare una patologia del Terrore. Il suo desiderio è stato esaudito, perché, a cominciare da Taine, il misterioso morbo di Marat è stato identificato col morbo giacobino, il suo delirio con la nevrosi rivoluzionaria, quando la febbre delle masse corrispondeva alla febbre dell'uomo. Questo discorso sbrigativo, destinato a finirla una volta per tutte con Marat e la rivoluzione riducendo lo sconvolgimento politico alla disfunzione individuale, è stato del tutto screditato per il suo oltranzismo. Ma non è certo che Marat possa essere compreso senza far riferimento al tema della malattia. Sia che la si prenda come causa: l'irritazione del corpo avrebbe predisposto Marat, come confessa egli stesso, alla violenza. Sia che la si prenda come effetto: contratta durante una vita di forzata clandestinità, in "quei sotterranei che avevano esulcerato la sua anima" (come suggerisce, caritatevole, Danton), prezzo del surmenage politico (come afferma Marat, che è abile nel drammatizzare il proprio male), la malattia di Marat sarebbe allora l'allegoria di tutta la sua biografia. La frequenza con cui appaiono nella sua prosa le metafore patologiche, il pessimismo antropologico che gli fa scorgere dappertutto dei francesi troppo corrotti e troppo malati per la libertà che hanno ottenuto, possono alimentare questa interpretazione. Ma in tal caso Marat soffre per la sua vita, non per il suo corpo, e si esce allora dalla razionalità biologica per entrare in quella sociopsicologica. Questa fa di Marat il tipo dell'intellettuale frustrato per eccellenza, divenuto rivoluzionario fanatico "nelle profondità dei bassifondi intellettuali", dove è nata "la determinazione giacobina a liquidare l'aristocrazia dello spirito" (Darnton). In tal caso la violenza di Marat esprimerebbe la situazione del paria, bambino strappato precocemente alla famiglia, cittadino senza patria, medico senza diploma, scienziato privato di ogni riconoscimento intellettuale, i cui lavori sono accolti dalle accademie con indifferenza o scetticismo, nonostante lo zelo cortigiano con cui egli cerca di forzare la loro stima e le loro porte. Tuttavia, la frustrazione oggettiva descritta da Robert Darnton può essere contestata. Gottschalk ha stabilito che in Inghilterra, lungi dall'essere un paria, Marat è stato un "gentleman dalla considerevole posizione". Daniel Roche, persuaso che le ambizioni scientifiche di Marat fossero tutt'altro che mediocri e limitate, bilancia i sarcasmi che egli ricevette da Voltaire con la stima che gli dimostrò Diderot, e osserva che vi fu almeno un'accademia, quella di Rouen, disposta a incoronarlo. Gérard Walter fa notare che gli accenti sovversivi rimangono immutati in Marat, qualunque siano gli episodi, di miseria o di agiatezza, della sua vita. Ma tutto ciò, in fondo, importa poco. Nulla è più estraneo al senso di frustrazione della misura "oggettiva" delle sue motivazioni: la passione del risentimento non è mai a corto di ragioni. In compenso, a tutti quelli che la sperimentano, la rivoluzione fa una promessa inaudita: poter vendicare il disprezzo subito o immaginato e, attraverso loro, l'Umanità. È proprio così che Marat l'accoglie: qui si trova dunque una chiave per capire Marat, ma non l'eccezionalità di Marat. Essa consiste allora in una capacità notevole di discernere l'avvenire della rivoluzione? Su questo punto occorre soffermarsi un po' di più: infatti vi sono molti modi di anticipare e, a piacimento degli interpreti, sono stati tutti attribuiti a Marat. Così, prima del grande avvenimento, egli avrebbe annunciato la rivoluzione stessa, anticipazione che un montaggio di citazioni ben scelte nelle opere prerivoluzionarie di Marat potrebbe anche sostenere, ma che un altro montaggio potrebbe invece distruggere completamente (un solo esempio: nelle Chaines de l'esclavage, dove Marat sembra anticipare il regicidio, la frase "l'uccisione di un principe non è che un semplice assassinio" è stata spesso messa in rilievo isolatamente, senza menzionare quel che segue subito dopo: "Dio non voglia che io cerchi di attenuare l'orrore che simile delitto deve ispirare"). Oppure egli avrebbe intravisto, nella rivoluzione, le rivoluzioni future o i loro sviluppi. Questa seconda interpretazione comporta parecchie varianti, marxisteggiante, "gauchiste", reazionaria. Marat precursore del socialismo? Così l'hanno visto Jaurès, Mathiez, Vovelle. Il fondamento di questa interpretazione è la riflessione di Marat sui diritti dell'uomo, "bei diritti alterati, mutilati, troncati e perfino annientati dai decreti successivi"; la prescienza della distinzione fra diritti formali e diritti reali, evidentissima nella veemente arringa in favore dei cittadini passivi, iniquamente considerati come esseri di nessun valore, in spregio alla dichiarazione dei diritti; la coscienza dell' "influsso delle ricchezze sulle leggi" e il presentimento che il popolo "dopo aver infranto il giogo della nobiltà può bene infrangere il giogo dell'opulenza". Tutte anticipazioni che spiegano il costante appoggio dato a Marat, dopo la sua incriminazione del gennaio 1790, dal distretto radicale dei cordiglieri, e che sostengono la tesi di Jaurès secondo cui "grazie a Marat il proletariato prende coscienza, fino a un certo punto, di formare una classe". Fino a un certo punto: questa prudenza è stata spazzata via da Mathiez. Là dove Jaurès vedeva, nell'appello ai proletari, un episodico gesto di disperazione, Mathiez legge una volontà consapevole di se stessa: "Tutto lo sforzo di Marat è consistito nell'insuffiare ai proletari una coscienza di classe." Ma i testi di Marat non permettono affatto questa sistematizzazione. Quelli anteriori alla rivoluzione esprimono i luoghi comuni del suo ambiente intellettuale (fra cui l'elogio della religione come garante della morale e della monarchia limitata); i testi rivoluzionari continuano a diffonderli, almeno fino alla metà del 1791. Ancora nel marzo 1793, Marat dichiara di considerare la legge agraria una "dottrina funesta" e ricorda di aver "lamentato cento volte che principi ugualitari troppo spinti ci avrebbero portato a questa fatale conclusione". Marat, senza dubbio, mette in musica il lamento di "quelli che non hanno nulla contro quelli che hanno tutto"; ma non riesce a immaginare nessun sistema capace di salvare questi dannati della terra. Il secondo modo di raffigurarsi un Marat anticipatore è di erigerlo a precursore del "gauchismo". Nelle sue dichiarazioni si rileva allora l'ostilità a ogni tipo di rappresentanza (che aveva attinta da Rousseau e dall'esperienza, per lui repulsiva, della vita politica inglese); la scelta costante del voto per alzata di mano (e perfino, nel processo del re, la richiesta di un suffragio scritto di pugno del votante su un "registro speciale"); il senso di una rivoluzione interminabile, mai veramente compiuta; la pratica del rivoluzionario che si fonde nel popolo come il pesce nell'acqua; la preferenza accordata alle masse rispetto agli "apparati". Infine, specie per Massin, la cui biografia illustra questa interpretazione, la valutazione "corretta" del problema della violenza. Massin vede anzi in questa "correttezza" il segno della superiorità di Marat su Robespierre, tutto impastoiato nel rispetto della legge. Marat fonda perciò, per lui, una delle tradizioni del movimento operaio francese. Ancora una volta, questa coerenza è ottenuta a prezzo di una volontaria unificazione dei discorsi e dei ruoli di Marat, che in realtà sono dovuti in gran parte alle circostanze; 1' "appello al popolo", che dovrebbe sedurre un simile avversario della rappresentanza, incontra invece l'ostilità di Marat, a causa dell'inopportunità di trasformare i contadini in politici, strappandoli ai loro campi: argomento inatteso in un "basista". Talvolta, del resto, gli capita di trovarsi a rimorchio e non a capo di un movimento popolare che cresce indipendentemente da lui: tutto occupato, nell'inverno del 1793, dal processo del re e dalla lotta contro i girondini, Marat è lento a comprendere la portata dell'attacco di Jacques Roux contro gli accaparratori. Insomma, a quest'uomo d'avanguardia succede di restare molto indietro rispetto agli avvenimenti. Il terzo ritratto di un Marat anticipatore appartiene alla letteratura contro-rivoluzionaria, che dà il massimo rilievo alla candidatura di Marat alla dittatura, già percettibile nell'Appel à la nation, scritto in Inghilterra nel 1790, che acquista tutta la sua forza dopo Varennes. Un tema che riprende anche Mathiez, cercando di dimostrare che Marat voleva la dittatura non tanto come un prolungamento della rivoluzione, quanto come una parentesi, giusto il tempo di schiacciare definitivamente la classe sconfitta. Ma l'appello di Marat alla dittatura è ben lontano dall'essere un'anticipazione: esso è insieme una fantasticheria personale e una visione del tutto arcaica del tribunato, che mescola la guerra alla giustizia. Come gli uomini del suo secolo giocano a "se fossi legislatore", Marat gioca a "se fossi tribuno del popolo": nella sua immaginazione si attribuisce "il concorso della forza pubblica" e il privilegio di punire i colpevoli. Questo sogno, per giunta, in lui è circostanziale e convulsi-vo. Qui come altrove, Marat mescola senza criterio conservatorismo e radicalismo, e nessuna teoria fa di lui un uomo eccezionale. Lo è stato, almeno, per il suo ruolo effettivo nella rivoluzione? Pur abbandonando la tesi di un destino particolarmente sfortunato o di un pensiero singolarmente avanzato, la straordinaria violenza di Marat potrebbe essere ancora riferita agli avvenimenti da lui vissuti. Si è costretti tuttavia a constatare che questa violenza non è quella dell'azione: la partecipazione effettiva di Marat alle giornate rivoluzionarie resta dubbia. Il ruolo che svolse il 14 luglio 1789 è un arrangiamento letterario retrospettivo. La sua partecipazione al 10 agosto è testimoniata solo da uno scritto del 9 agosto, in cui egli suggeriva di tenere in ostaggio la famiglia reale: una proposta il cui impatto è difficile da valutare, e che aveva già avanzato cento volte in precedenza. I massacri di settembre, cui lo si associa automaticamente, gli sono attribuiti in genere a causa della sua ingiunzione del 19 agosto - "Passate a flì di spada tutti i prigionieri dell'Abbaye, in particolare gli svizzeri..." - e per la sua firma sulla circolare del 3 settembre che invita la provincia a far pressione su Parigi. Come ha dimostrato Caron in modo definitivo, sono sempre i discorsi di Marat, prima o dopo l'avvenimento, a determinare le sue responsabilità. In compenso, la sua partecipazione alla proscrizione dei girondini è meglio accertata; Michelet ed Esquiros, ripresi da Aulard, fanno di Marat l'organizzatore del 2 giugno:"Vi amministrerò grazia e giustizia" scrive Michelet. "I re non fanno niente di diverso." È' lui, infatti, che ottiene la prima abolizione del "Comitato dei dodici"~ impedisce che il compromesso proposto da Barère abbia successo, fa rimaneggiare la lista di proscrizione. Tuttavia, il giorno decisivo non è dai giacobini, ma alla Convenzione, per qualche intervento insignificante. Marat è sempre fisicamente assente dalle giornate rivoluzionarie. Interpretarle come il frutto dei suoi scritti significa precisamente adottare la sua logica megalomane: Marat ha voluto essere colui la cui penna valeva quanto un esercito di centomila uomini, e a cui bastava scrivere una parola. La sua convinzione fondamentale è quella dell'identità dell'azione e della parola: rifiutargliela, per lui, equivale a operare la controrivoluzione. Qui si arriva a quel che costituisce, molto più del suo pensiero o delle sue azioni, il carattere eccezionale di Marat. Egli si è inventato una parte destinata a un bell'avvenire - quella del giornalista che orienta e forma l'opinione pubblica - e si è identificato con il suo giornale, al punto che la sua vita durante la rivoluzione si confonde con il suo foglio: è pubblica quando esso esce, clandestina quando è proibito. E per l'Ami du Peuple, che è la sua vita, si è inventato un linguaggio: qui sta la sua originalità. L'originalità è innanzi tutto quella dell'analista della rivoluzione: nessun giorno passato della rivoluzione trova grazia ai suoi occhi, nessun giorno futuro gli sembra promettere nulla di buono. Il pessimismo circa il passato è il frutto di un procedimento retorico, l'uso meccanico di un "non ... che" tale da sgonfiare tutti gli entusiasmi. La notte del 4 agosto? Non è stata ottenuta che con l'incendio dei castelli. La federazione? La sua euforia non si spiega che con la frivolezza francese. Il 20 giugno? Non si è fatto altro che "calcare un berretto rosso sulle orecchie di Luigi XVI". 1110 agosto: non è che l'illusorio voltafaccia dei deputati arcicorrotti. In quanto ai giorni avvenire, sono tutti gremiti di immagini di sventura. L'Ami du Peuple è pieno di "atroci misteri svelati", di "trame infernali scongiurate", di pronostici (Jaurès, sempre penetrante, ha avvertito che, in tal modo, Marat comunicava con l'immaginazione popolare). Marat non si stanca di preannunciare la partenza delle zie del re, la diserzione di La Fayette, la corruzione di Mirabeau, la fuga a Varennes, il tradimento di Dumouriez. E siccome tutto ciò avviene realmente, i lettori del giornale hanno buon gioco a sottolineare la straordinaria prescienza di Marat, e Marat stesso a vantarsi: "Più di trecento predizioni avverate provano che so giudicare gli uomini e le cose." Dopo di che le predizioni non avverate, evidentemente, non contano nulla. Il profeta di sventura, nel quale Mathiez vedeva "un meraviglioso psicologo", attinge la sua costanza da un'interpretazione assai monotona dei mali della rivoluzione e dei loro rimedi: quella del complotto universale ordito contro la rivoluzione dalle classi privilegiate, dai ministri favoriti, il divino Motié, l'infame Riquetti, tutti e nessuno. http:// www.histoire-en-ligne.com/article.php3?id_article=237 http://www.cronologia.it/storia/biografie/marat.htm http://fr.encyclopedia.yahoo.com/articles/m/m0001416_p0.html http://membres.lycos.fr/histoire1789/marat.htm http://felix2.2y.net/francais/bougeart/index.html http://www.encyclopedia.com/html/m/marat-j1e.asp http://www.bartleby.com/65/ma/Marat-Je.html http://www.infoplease.com/ce6/people/A0831701.html MARIE-ANTOINETTE Reine de France, née à Vienne le 2 novembre 1755, fille de François 1er empereur germanique, et de Marie Thérèse, elle épousa en 1770 le Dauphin Louis qui devint Louis XVI en 1774. Imprudente, prodigue au point qu'on put lui attribuer tous les scandales (affaire du collier), et ennemie des réformes, elle se rendit impopulaire. Elle poussa Louis XVI à résister à la Révolution. On lui reprocha ses rapports avec l'étranger et de pratiquer la politique du pire Incarcérée au Temple après le 10 août 1792, puis à la Conciergerie après la mort du roi, elle fut guillotinée le 16 Octobre 1793. MERLIN Philippe Antoine (comte) Dit Merlin de Douai. Homme politique français, né à Arleux en 1754, décédé à Paris en 1838. Avocat au parlement des Flandres, député du Tiers état aux état généraux en 1789, il fut réélu à la Convention* en 1792, où, avec les Montagnards*, il vota la mort du roi, et fut le rapporteur de la loi des suspects en septembre 1793. Après la chute de Robespierre*, il fut au Comité de salut public* l'un des instigateurs de la réaction thermidorienne et mena une politique annexionniste. Membre du Conseil des Anciens, ministre de la justice en 1795, il fut nommé directeur en remplacement de Barthélemy* après le coup d'état du 18 fructidor an V (4 septembre 1797) contre les royalistes. Il fut contraint de démissionner après la journée du 22 floréal. Procureur général de la cour de cassation de 1806 à 1814, comte d'Empire, il fut destitué après la 1er Restauration; proscrit comme régicide en 1815, il revint en France qu'en 1830. Capet et Robespierre / [Merlin de Thionville] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N041111 Merlin de Thionville, représentant du peuple, à ses collègues, Portrait de Robespierre http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N041155 Discours prononcé à la fête du 10 Août, célébrée à Alençon, le 23 thermidor de l'an 3 de la République française : en présence des autorités constituées, du général en chef et de l'Etat-major général de l'armée des côtes de Cherbourg, des troupes de la garnison, de la Garde nationale et des citoyens / par le citoyen Mars. Extrait du registre des délibérations de l'administration du département de l'Orne, du 19 thermidor, quatrième année républicaine / [le Ministre de la justice, Merlin]. Discours prononcé célébrée à Alençon, le 9 thermidor de l'an 3 : en présence des autorités constituées, du général en chef et de l'Etat-major général de l'armée des côtes de Cherbourg, des troupes de la garnison, de la Garde nationale et des citoyens / par le citoyen Mars. Discours prononcés par le citoyen Bourdon, président de l'Administration centrale du département de l'Orne à l'occasion des fêtes des 9 & 10 thermidor, an quatre de la République / [signé Bodin]. Extrait du registre des délibérations de l'administration du département de l'Orne du 27 messidor, quatrième année républicaine [Fête anniversaire du 21 janvier dans le canton de Sées, nivôse an V-an VI] Fête du 10 août dans le canton de Sées, an IV. Discours prononcé par le citoyen Bourdon, président de l'Administration centrale du département de l'Orne à l'occasion de la fête du 10 août, célébrée le 23 thermidor quatrième de la République. Extrait du registre des délibérations de l'administration du département de l'Orne du 19 thermidor, quatrième année républicaine / [signé le ministre de la justice Merlin] Rapport fait au nom des Comités de salut public, et de la guerre : séance du 27 pluviôse / par Merlin (de Thionville) http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N044005 Arrêté du Directoire exécutif concernant les mariages que font les prêtres du culte catholique / [Merlin] http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N045179 Discours prononcé par Merlin (de Thionville), sur la police des cultes : séance du 27 messidor, an V / Conseil des Cinq-cents http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?E=0&O=N045280 [32 pamphlets sur la chasse et la pêche] [33 pamphlets sur les droits féodaux et l'abolition de la féodalité] [26 pamphlets sur les droits féodaux] [17 pamphlets sur les droits féodaux] [35 pamphlets sur l'abolition des droits féodaux] Mirabeau ha avuto due vite, una sotto l'ancien régime, l'altra con la rivoluzione francese. La prima è fallita, anche se presenta già qualche lampo di genio. La seconda gli ha dato la gloria, anche se contiene alcuni episodi inconfessabili. Del rampollo più disprezzato della vecchia nobiltà, la rivoluzione fa il personaggio più brillante della Costituente, ma il talento o il carattere di Mirabeau, più che cambiar natura, hanno trovato impiego: sicché non c'è miglior illustrazione dello sconvolgimento del 1789 di questa esistenza, alla quale la grande annata conferisce, seppur tardivamente, il suo significato. A quest'epoca egli ha già 40 anni, e la sua vita è trascorsa fra tempeste familiari e amorose, il carcere e l'esilio, grandi scandali e piccola letteratura. È nato in una famosa famiglia della nobiltà provenzale, figlio del celebre marchese appassionato di agronomia e di economia politica, amico dei fisiocratici, autore di grossi libri didattici. Ma questo "amico degli uomini" non e precisamente un padre amorevole! E siccome non ha un figlio di tutto riposo, la cronaca familiare è una vera cronaca d'ancien régime, fatta di lettres de cachet più che di sentimenti. Il marchese filantropo e il futuro leader della rivoluzione hanno riservato la filosofia del secolo all'uso pubblico. Il figlio, in verità, è un vulcano. Giovanissimo, abbandona il reggimento, accumula i debiti, compromette le donne (fra cui sua moglie), va a letto con sua sorella, bastona i rivali. Il marchese moltiplica le procedure e le interdizioni giudiziarie, lo fa rinchiudere al castello d'If di fronte a Marsiglia, poi lo fa esiliare a Joux, fra le nevi del Giura - donde Mirabeau evade, l'anno seguente (1776), con peripezie da film western, portando in sella la giovane moglie del vecchio presidente della Corte dei conti di Dòle, Sophie de Mounier. Si rifugia in Olanda, dove la collera paterna e la polizia del re di Francia lo acciuffano per rinchiuderlo nella torre di Vincennes (1777), da cui esce solo nel 1780. Cominciano allora lunghi anni di contenzioso familiare, contro suo padre, contro sua moglie. Dell'ancien régime, il conte di Mirabeau avrà un'esperienza incomparabile. I suoi futuri colleghi all'Assemblea costituente sono uomini di legge, giudici, avvocati. Lui invece è un criminale, un carcerato, un querelante. A parte le donne, i debiti, i processi, una sola costante occupazione: scrivere. Figlio di un grande grafomane, Mirabeau ha ereditato la passione del padre persecutore. Anche lui, il figlio, vuol conquistarsi la gloria non più con la spada, ma con la penna, come scrittore, come filosofo, come benefattore dell'umanità. Già nel 1772, a ventitré anni, ha scritto un Essai sui- le despotisme, poi, nei vari soggiorni in prigione e in esilio, dal castello d'If alla torre di Vincennes, e nel frattempo a Joux e ad Amsterdam, una serie di memoriali sui soggetti più svariati, ma dedicati sempre, a parte le giustificazioni personali, all'edificazione o all'utilità pubbliche: sulla sua famiglia, sulle saline della Franca Contea, sulle lettres de cachet e le prigioni di stato, più un Avis aux Hessois per dissuadere gli abitanti dell'Assia dal combattere contro gli insorti americani sotto la bandiera inglese; per non parlare di tutto quanto scrive per guadagnarsi (mai abbastanza) da vivere, dalle traduzioni di poeti latini, alle opere pornografiche, ai romanzetti storici. Se in Mirabeau il disordine della vita privata è straordinario, quello della produzione letteraria è invece tipico di questa fine secolo, piena di idee spicciole che annunciano la distruzione di un mondo a opera della filosofia. Le grandi opere, le grandi idee sono arrivate fino al vasto pubblico, e gli vengono servite da poligrafi che "fiutano" il mercato. Mirabeau continua a stendere progetti editoriali. A lungo sogna di dar vita a un'enciclopedia delle conoscenze, poi a una collana di opere dedicate ai principali stati europei. Si possono misurare i progressi del secolo constatando che ciò che era una mania un po' stravagante nel padre è divenuto conformismo nel figlio. Come letterato, il padre era un eccentrico; il figlio è come tutti gli altri. Pur essendo conte di Mirabeau, condivide le ambizioni dei giovani, focosi plebei della sua generazione: farsi un nome coi libri! La società balzachiana è già presente, negli spiriti, sulle rovine del mondo nobiliare, prima che scoppi la grande tempesta. Che altro desiderano Barnave, e Brissot, e Desmoulins, e Saint-Just? Tutti immaginano una sola via per giungere alla notorietà: scrivere. Tutti sono ossessionati da "re" Voltaire. Poiché la letteratura ha assunto una funzione politica, non sorprende che essa appaia alle generazioni degli anni settanta e ottanta come la strada maestra della gloria. E quando si apre loro la carriera politica, esse vi investono con la massima naturalezza la letteratura. Nel frattempo, Mirabeau vende la sua penna, e quella degli altri, senza troppi scrupoli. Negli ultimi anni dell'ancien régime, quest'aristocratico allo stremo è manipolato dai potenti e pubblica a favore di Calonne contro Necker, e per l'aggiogatore Panchaud contro i suoi rivali, una serie di memoriali scritti spesso da altri, soprattutto dal suo amico ginevrino Clavière e dal giovane Brissot. Riversa le sue ambizioni letterarie nella Monarchie prussienne, vasta compilazione storico-statistica in quattro volumi in onore del grande Federico, in armonia con lo spirito del tempo e del resto dignitosa, se non originale. L'autore principale è un ufficiale del genio, professore a Brunswick, il maggiore Mauvillon, del cui lavoro Mirabeau si appropria senza vergogna. Ma quando il libro appare, nel 1787, dopo il fallimento dell'Assemblea dei notabili, la storia apre infine a questo ingegno miseramente sprecato un nuovo repertorio in cui potrà pienamente realizzarsi. Mirabeau ha fallito in tutto, e tutto sta per sorridergli. Quest'uomo dispersivo, incostante, infedele, venale, afferra al volo l'occasione della sua vita: diventare la voce della nuova nazione. Nel 1788, i ministri del re gli chiedono aiuto contro i parlamenti che hanno dato il segnale della rivolta. Sanno, come tutti, che la sua penna è in vendita, e poi come potrebbe questo querelante inveterato, che i giudici hanno fatto tanto soffrire, che si è battuto tutta la vita contro l' "aristocrazia parlamentare", respingere l'insperata fortuna di questa rivincita. Invece egli rifiuta nettamente un tale regolamento di conti personale, spiegando al ministro Montmorin, in una lettera del 18 aprile 1788, che la posta in gioco è ormai più grande: "In effetti, e senza contare i pericoli personali che correrei attirandomi l'odio implacabile dei corpi che non sono stati sgominati, che divoreranno un gran numero di nemici prima di esserlo, o piuttosto, per parlar chiaro, che non lo saranno mai finché li si attaccherà senza aver l'aiuto della nazione, è questo il momento adatto per far denunciare alla Francia un'aristocrazia di magistrati, quando il re non ha sdegnato di denunciarla egli stesso? Si può oggi servire utilmente il governo portando la sua livrea? E' forse il momento di combattere per l'autorità, quando non si è temuto di mettere in bocca al re un discorso che risuonerà in tutta la Francia, e da cui risulta, a fil di logica, che solo la volontà del monarca fa la legge? E possibile credere che quanti affermano simili principi desiderino in buona fede e preparino gli Stati generali? Ho avuto l'onore di dirvelo, signor Conte, e l'ho ripetuto al signor Guardasigilli: non mi batterò mai contro i parlamenti se non in presenza della nazione." E la fine del pubblicista prezzolato. Il grande Mirabeau ha appena trovato se stesso, comprendendo fra i primi - un anno prima della riunione degli Stati generali a Versailles - l'immenso avvenimento che sta per sorgere, e le nuove regole del gioco. Ciò che chiama "nazione" è la democrazia: il trasferimento radicale della sovranità. Egli sarà l'uomo di questa nuova epoca. E se viene di nuovo in urto con i suoi, i nobili di Provenza, al momento della campagna elettorale, almeno ha trovato finalmente la sua bandiera. Così, il 6 aprile è eletto deputato del Terzo Stato di Aix-en-Provence. Respinto dal suo ordine, ancor più egli è deputato della nazione. E un ruolo che assume subito per eccellenza, e più di qualunque altro suo collega. E il più in vista, il più potente, il più geniale. Possiede forza, inventiva, senso della decisione e della battuta. "Mirabeau," scriverà Michelet nella sua storia a proposito della prima seduta degli Stati generali, "attirava tutti gli sguardi. La sua immensa capigliatura, la sua testa leonina, segnata da una possente bruttezza, suscitavano stupore, quasi spavento; non si riusciva a staccarne gli occhi... Tutti presentivano in lui la grande voce della Francia." E Victor Hugo: "A quarant'anni, gli si manifesta intorno in Francia una di quelle formidabili anarchie di idee su cui si fondano le società che hanno fatto il loro tempo. Mirabeau ne è il despota... Il 23 giugno 1789 è lui che, silenzioso fino a quel momento, grida a Brézé: 'Andate a dire al vostro padrone...' Il vostro padrone! il re di Francia viene così dichiarato un estraneo. Viene a tracciarsi un confine fra trono e popolo. La rivoluzione si lascia sfuggire il suo grido. Nessuno l'aveva osato prima di Mirabeau. Spetta ai grandi uomini pronunciare le parole che decidono di un'epoca" (Sur Mirabeau). Da dove gli derivano questi accenti? Che cosa fa di lui, così presto, la personalità più simbolica della rivoluzione? E il mistero del suo talento oratorio e della sua prontezza di spirito; ma in parte lo si deve anche al suo passato, reinvestito nei tempi nuovi. Nonostante i tumulti e le miserie della sua vita, è uno degli uomini intellettualmente più preparati agli eventi che sono sorti. Saint-Just compone poesie per le dame, e Robespierre fa i salamelecchi nei salotti di Arras all'epoca in cui Mirabeau, dopo essersi duramente scontrato con l'ancien régime, è uno dei pochi uomini del suo tempo a prevederne la caduta e a immaginarne la successione. Non possiede la competenza giuridica dei legisti che popolano l'Assemblea, ma ha su di loro la superiorità che gli deriva dall'aver vissuto l'interdizione giudiziaria e l'arbitrio dell'autorità. Le tempeste della sua vita lo hanno armato per la tempesta nazionale. Tuttavia, non avrebbe potuto trarre solo dai suoi lavori, o dalla sua avventura, o dal suo talento, o anche dalle persecuzioni di cui è stato vittima, il potere d'incarnazione di cui gli avvenimenti del 1789 lo investono. Egli si giova di un prestigio supplementare, probabilmente decisivo: il conte di Mirabeau è un nobile. Declassato finché si vuole, marginale quanto si può, ma nobile: la sua esistenza non ha potuto cancellare ciò che era stato definito prima per nascita. Si cercherebbe invano, nei grandi personaggi della rivoluzione, una simile mescolanza di nobiltà e di bohème. Molti dei leader del 1789 sono nobili - La Fayette, i Lameth, Talleyrand - ma un nobile liberale non è un nobile declassato, anzi: il liberalismo è un bene comune alla borghesia e all'aristocrazia. In quanto alla bohème, Dio sa che essa è ben rappresentata nella rivoluzione francese, ma nel 1789 la sua ora non è ancora arrivata. Quando verrà, un po' più tardi, nel 1792, la nobiltà del sangue sarà diventata una maledizione. Ma il 1789 cerca ancora a tastoni, nel caos degli eventi, di costituire un'élite "all'inglese", che mescoli la nobiltà liberale alla borghesia illuminata del Terzo Stato. Questa fusione, che nella storia inglese si compie in diversi secoli, il vecchio regno deve farla d'un colpo solo, e in mezzo al tumulto popolare. Chi può farsene garante di fronte alla "nazione" appena nata? Chi è insieme abbastanza democratico e abbastanza aristocratico da inchinare la bandiera della tradizione davanti a quella della rivoluzione? Mirabeau è il solo nobile abbastanza declassato, e il solo declassato abbastanza nobile da unire il passato al nuovo evento. Da questa provvidenziale ibridazione egli trae, da grande musicista, accenti indimenticabili: è "la voce stessa della rivoluzione" (Michelet). Poco importa che non scriva da sé i suoi discorsi, redatti quasi sempre dalla sua "bottega" (Clavière, Etienne Dumont soprattutto); e poco importa che, delle materie tecniche di cui tratta talvolta, abbia solo una conoscenza superficiale: da sempre ha saccheggiato le opere altrui, e la rivoluzione non cambia le sue abitudini. Quel che essa rivela è il suo genio: l'aggressività, l'inventiva, l'intuizione, il senso del teatro. Sieyès è il pensatore della rivoluzione, lui ne è l'artista. S'impadronisce dei discorsi degli altri, delle idee degli altri per apporvi, come dice, il "tratto". Della Costituente, popolata di uomini intelligenti e capaci, egli è l'immaginazione. Questo poligrafo, questo dilettante, questo esagitato ha scoperto la strana potenza dell 'incarnazione, e vi investe la sua formidabile energia: la popolarità è la nuova regola della democrazia. Ora, si tratta dello stesso uomo che nel 1790 firma un accordo segreto con la corte, tramite il suo amico conte de La Marck, amico a sua volta di Merck Argenteau, ex ambasciatore di Maria Teresa a Parigi: la trafila austriaca della regina. Mirabeau sarà il consigliere della famiglia reale. In cambio i suoi debiti vengono pagati (più di 200 000 lire), riceve 6000 lire al mese, più altre 300 per un copista: gli è stato poi promesso un milione allo scioglimento dell'Assemblea. In Mirabeau, l'avventuriero è sopravvissuto alla straordinaria mutazione della sua esistenza. Le sue abitudini di agiatezza, le sue storie di donne, le sue necessità di denaro hanno travolto mille nuove occasioni di successo. Vive con larghezza, tiene tavola imbandita, circondato da una corte che è la rivincita della sua vita: il fatto è che vive a credito, trasformando il suo credito politico in credito finanziario. L'intesa con la corte cancella il passivo e lo rassicura sull'avvenire. Il denaro del re paga ormai le sue abitudini e le sue sregolatezze. Donde l'accusa di corruzione, che è già nell'aria, e che sarà precisata dalla propaganda giacobina due anni dopo, al momento della scoperta della corrispondenza segreta della corte nell'armadio di ferro delle Tuileries. Gli universitari giacobini, che di Mirabeau non amano né le donne, né i debiti, né le idee, né il genio, nel XX secolo hanno fatto a gara per condannare, in nome della virtù, il suo doppio gioco. BAILLY Jean Sylvain
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LA RIVOLUZIONE FRANCESE - ILLUMINISMO

ILLUMINISMO E SOCIETA' DURANTE LA RIVOLUZIONE FRANCESE
 
Personaggi della Rivoluzione Francese
 

ILLUMINISMO E SOCIETÀ 1.1. PREMESSA «La storia della sociologia comincia con la separazione di società e Stato. La società si presenta come un oggetto che sottostà a leggi proprie e a cui può essere quindi associata anche una scienza sua propria» [Jonas, 1968, p. 9]. Dal punto di vista cronologico è a cavallo di due secoli (XVII. XVIII) che sorge l.esigenza di sviluppare una scienza della società. La riflessione avviene in un ambiente storico e sociale ben definito, caratterizzato dall.affermarsi di due fenomeni particolari: a) in primo luogo la nascita e lo sviluppo della cosiddetta Rivoluzione Scientifica nel XVII secolo; b) in secondo luogo l.affermarsi in campo economico di un nuovo modo di produzione, quello capitalistico. Alla fine del XVIII secolo un altro avvenimento segnerà la storia delle origini del pensiero sociologico e chiuderà in maniera rilevante quest.epoca di grandi sconvolgimenti sociali: la Rivoluzione Francese (1789). L.uomo, in quest.epoca di grandi mutamenti, si trasforma da oggetto a soggetto che pensa alla propria condizione; si acquista la consapevolezza che l.agire può essere spiegato solo se le persone, come singoli individui oppure riunite in gruppi, classi, ceti e associazioni, hanno consapevolezza di ciò che stanno facendo e dei riflessi che questa cognizione ha sulla convivenza sociale. La coscienza umana allarga quindi la propria visuale: ciò implica Parte Prima . Le scienze sociali nel periodo dell.Illuminismo 10 che la realtà è analizzabile e spiegabile in modi differenti. I fenomeni umani e sociali sono sottratti all.autorità della tradizione e delle organizzazioni che la legittimano. Nuovi termini sono usati per capire le situazioni che si stanno vivendo. Emancipazione è uno di essi: significa che la realtà e gli attori che vivono in essa sono dotati di una propria autonomia, spiegabile mediante leggi naturali. Ma siccome non esiste una vera e propria disciplina scientifica che fino allora si fosse occupata dei fenomeni sociali ed umani in modo particolare, l.unico riferimento di natura scientifica a cui riferirsi non può essere altro che il modello di analisi introdotto dalle scienze fisiche e biologiche. «Natura e libertà, soggetto e oggetto, categorie sulla cui separazione si fonda non da ultimo la chiarezza della tradizione, sono unificate nella rappresentazione della società emancipata» [Ivi, p. 10]. Tutto ciò significa, in primo luogo, rottura di uno specifico stato di cose e, in secondo luogo, rottura di quella volontà autoritaria che imponeva dogmi alla spiegazione scientifica. In sintesi, si può affermare che nella storia del pensiero sociologico delle origini vi sono due elementi decisivi: a) la scoperta della relazione esistente fra uomo, natura e società; b) l.idea di potere formulare leggi proprie che la governano, applicando gli stessi precetti metodologici delle scienze naturali 1. In base al modello delle scienze naturali, i principi su cui intraprendere l.analisi dei fenomeni sono: a) l.osservazione metodica e l.esperienza sistematica; b) l.esperimento. Essi sono le premesse necessarie della conoscenza scientifica 2. È all.interno di questo contesto che va considerata l.innovazione culturale introdotta da quel vasto e complesso movimento rappresentato con il termine di .Illuminismo.. A fianco delle modificazioni concettuali intervenute a seguito della Rivoluzione scientifica, si ha contemporaneamente un altrettanto rilevante ....... 1 Ricordiamo che proprio con la rivoluzione scientifica del 1600, nasce il concetto di «scienza moderna». La scienza è vista come un insieme di strategie conoscitive in cui hanno un ruolo fondamentale l.osservazione metodica, l.applicazione di procedimenti logici di tipo razionale, al fine di scoprire regolarità universali che riguardano i fenomeni studiati [cfr. Jedlowski, 1999]. 2 La Rivoluzione Scientifica troverà il suo massimo sviluppo tra il XVI e il XVII secolo, ponendo le basi per la nascita della scienza moderna. I suoi effetti si faranno sentire in maniera preponderante nei maggiori orientamenti culturali del secolo XVIII (Illuminismo francese ed Empirismo scozzese). 1. Illuminismo e società 11 cambiamento nel contesto delle tecnologie. Con la Rivoluzione industriale, che modificherà profondamente i modi di organizzazione, di produzione e di circolazione delle merci 3, si assiste alla nascita e alla formazione di una nuova epoca, completamente diversa rispetto a tutte le altre che l.hanno preceduta. Le sue caratteristiche principali possono così essere schematicamente riassunte: a) il mutamento, suo elemento costitutivo, investe ogni settore della vita associata e tutte le società umane nella loro globalità, le quali si trovano ad essere legate tra loro in uno stretto rapporto d.interdipendenza; b) questa trasformazione influenza i rapporti esistenti tra i vari gruppi sociali e i processi d.organizzazione dell.intero assetto societario, con tutti i loro necessari riflessi sulle forme della convivenza sociale. Questi processi hanno la loro origine nel campo economico e, in seguito, faranno sentire i loro effetti in tutti gli altri settori della vita associata. Contemporaneamente nasce e si afferma l.idea di Sviluppo; essa è alla base della nascita dell.idea di Progresso. Ad una visione statica dello sviluppo economico, sociale, morale, culturale e politico (concezione generale alla base della struttura della società feudale) subentra una concezione dinamica del cambiamento. La novità essenziale di questa nuova visione del mondo sta nel fatto che essa concepisce l.esistente come fondato non già su un ordine naturale ed immutabile, ma su un ordine trasformabile dall.uomo stesso. Proprio a seguito di questi mutamenti avverrà quello socio-politico che investirà la Francia a partire dal 1789: la Rivoluzione francese. Essa rappresenta, infatti, un insieme di avvenimenti che «conducono alla delegittimazione del potere feudale e allo stabilirsi di un nuovo tipo di legittimità del potere, fondato sul consenso della società civile a leggi razionalmente stabilite e sull.obbedienza a governi liberamente eletti» [Jedlowski, 1999, p. 20]. Lo sviluppo di queste trasformazioni è compiuto principalmente dalle persone appartenenti a quello specifico gruppo sociale denominato come Terzo Stato, vale a dire la classe borghese e mercantile emergente nel nuovo quadro economico politico francese, cioè coloro che avevano acquisito ....... 3 Ricordiamo, al riguardo, che la cosiddetta Rivoluzione industriale si manifesta per la prima volta nelle manifatture, dove il lavoro artigianale è trasformato mediante una nuova organizzazione del lavoro. Il primo Paese che, utilizza le nuove tecnologie nate dalle scoperte scientifiche è l.Inghilterra a partire dalla metà del XVII secolo (Cfr. Wallerstein, 1978). Parte Prima . Le scienze sociali nel periodo dell.Illuminismo 12 benemerenze e titoli non per nascita ma per meriti nei confronti della monarchia (noblesse de robe) ed intellettuali. S.impongono nuovi valori che saranno la base dei movimenti storici che si svilupperanno nel XIX secolo. Si afferma, per esempio, l.Uguaglianza giuridica di tutti gli individui, che determina una separazione netta rispetto alla società feudale, dove era assunto il concetto di disuguaglianza come suo tratto essenziale e fondante. La rivoluzione francese proclamò il «mutamento come un fenomeno normale; se le leggi non sono più fondate sull.autorità della tradizione, e così dicasi anche per il potere, allora gli uomini hanno la facoltà di definire e ridefinire continuamente le proprie leggi in conformità ad un confronto razionale. Per definizione le leggi sono ora perfettibili: sono stabilite dagli uomini dunque non sono immutabili» [Ivi, p. 21]. 1.2. IL PENSIERO SOCIALE NEL PERIODO DELL.ILLUMINISMO L.Illuminismo è un moto intellettuale che contraddistingue profondamente il secolo XVIII. I suoi antecedenti si possono far risalire ad alcuni fatti sociali ed a idee nuove, sviluppatesi nella cultura scientifica: l.avvento del movimento costituzionale liberale inglese, l.empirismo lockiano, la scienza newtoniana, il razionalismo e il giusnaturalismo, fatte proprie dalla cultura francese nella prima metà del Settecento, che si concretizzano nell.innovazione culturale ed in riforme dello stato di cose esistente. L.orizzonte culturale dei lumi è caratterizzato dall.emergere e dall .affermazione di un significato diverso del concetto di Ragione, che diventer à patrimonio universale di una élite intellettuale, consapevole della propria specificità culturale, tanto da sentirsi investita di una missione destinata a promuovere e favorire il cambiamento sociale. Il movimento illuminista sostiene un nuovo tipo di conoscenza fondato sull.osservazione e l.esperimento, elementi derivati dal razionalismo francese e dall.empirismo inglese. Esso invoca una separazione dei poteri costitutivi dello Stato, una limitazione dei poteri della Chiesa, una nuova organizzazione pedagogica, l.eliminazione delle credenze irrazionali e delle superstizioni. Il suo obiettivo è quello di trasformare completamente l.assetto istituzionale, dalle forme di rappresentazione 1. Illuminismo e società 13 politica alla scuola, dalla cultura all.individuo. La razionalità illuministica si esprime compiutamente affermando la legittimità di un ordine fondato razionalmente, propugnando la storicità dell.agire guidato dall.idea di progresso. La ragione dei Lumi si propone di rendere intelligibile all.uomo stesso lo svolgimento del suo percorso storico, nel generale processo di civilizzazione della società. L.Illuminismo rappresenta la proiezione, sul piano della scienza sociale, della consapevolezza critica della società, dei gruppi umani, dell.individualità sociale. Si afferma «l.idea che il mondo naturale sia osservabile e descrivibile razionalmente, concetto che è alla base dell.idea di scienza» [Ivi, p. 22]. Si rifiuta ogni pensiero metafisico e qualsiasi visione totalizzante, legati alle vecchie filosofie 4. «Al senso del sacro e del mistero subentravano la rinuncia alle cause occulte, la dimostrazione razionale, il fenomenismo, l.interesse per le arti e le tecnologie dell.homo faber. Così il vecchio spirito di .sistema . fu sostituito dalle procedure ipotetiche e probabilistiche proprie del metodo sperimentale in cui consiste il vero .spirito sistematico.» [Casini, 1994b, p. 518]. Il metodo sperimentale influenzò in maniera decisiva le tradizionali scienze dell.uomo (gnoseologia, psicologia, etica, politica ed economia). L.impostazione lockiana formulata nel Saggio sull.intelletto umano (1668) «contribuì a riformulare su nuove basi i tradizionali problemi della sensibilità, delle facoltà dell.anima e dei suoi rapporti con il corpo » [Ibidem]. Locke rigetta infatti le idee innate, limitando l.orizzonte conoscitivo alla sfera dei sensi, svuotando di significato le vecchie categorie di sostanza e di causa. Allo stesso tipo di programma s.ispirò David Hume, che nel suo Trattato sulla natura umana (1739), effettuò il primo tentativo di analisi ....... 4 Casini afferma che «i successi del metodo galileiano, la riforma baconiana della logica induttiva, lo sperimentalismo dei naturalisti avevano segnato l.avvento di un nuovo stile di ricerca collegiale e verificabile che trovò un comune terreno di cultura nelle Accademie dell.Europa continentale, ma dette i suoi frutti più avanzati in Inghilterra nell.ambiente della Royal Society, con l.epistemologia di Locke e con la sintesi di Newton. All.inizio del XVIII secolo la fisica matematica raggiunse uno stadio di maturità tale da segnare una netta discriminazione tra scienza positiva e pseudoscienze. La via matematica interpreta i fenomeni della natura per tentativi ed errori, mostrando la fallacia dei criteri aprioristici» [Casini, 1994b, p. 518]. Parte Prima . Le scienze sociali nel periodo dell.Illuminismo 14 sperimentale delle idee e delle passioni. L.indagine humiana influenzò in maniera rilevante le produzioni scientifiche dei maggiori esponenti della filosofia morale scozzese (F. Hutcheson, A. Smith, T. Reid) e dell .Illuminismo francese, come Voltaire, Condillac, La Mettrie [cfr. Casini, 1994b]. Nello stesso periodo un importante esponente del materialismo illuminista francese, Claude-Adrien Helvétius, si occupa dei problemi esistenti nel rapporto fra «.natura. e .cultura., .individuo. e .ambiente.. Nelle sue opere la scienza dell.uomo è collocata sul terreno sociale e educativo, abbozzando una spiegazione comportamentistica dei fatti psichici» [Ivi, p. 519]. Egli sostiene l.origine sociale delle categorie intellettuali e morali degli individui, ipotizzando una riforma complessiva della società e delle sue istituzioni educative, formulando progetti orientati al miglioramento e alla trasformazione della natura umana 5. Il complesso d.idee che anima la cultura filosofica del XVIII secolo è alla base dei diversi orientamenti assunti dal pensiero illuminista: il riformismo sociale, le Code de la Nature, la metafora dello stato di natura, i modelli egualitari e collettivistici, fino a giungere alle enunciazioni dei diritti dell.uomo. In tal modo le leggi della vita collettiva sono concepite non più come un portato naturale della Divinità, come un lascito della Provvidenza, bensì come una manifestazione storicamente determinata della ragione umana e, perciò, conoscibile e verificabile empiricamente. In quest.ottica le relazioni tra gruppi, individui, classi e ceti sono viste nella loro cornice naturale e umana. La società si afferma come natura dotata di proprie leggi storicamente e socialmente determinate, quindi perfettibili e trasformabili secondo i precetti di una ra- ....... 5 Per poter comprendere appieno questa nuova realtà è opportuno spiegare i modelli culturali prevalenti nella cultura illuminista: a) il modello contrattualista; b) il modello del diritto naturale. Le teorie giusnaturalistiche «erano modellate, nei principi e nei metodi, sui criteri deduttivi della geometria euclidea. L.antico concetto di natura proprio del pensiero giuridico subì l.influenza del metodo sperimentale: l.assioma dell.analogia naturae, sul quale si fondava la possibilità stessa di una descrizione rigorosa del mondo fisico secondo .leggi matematiche., finì per coincidere con l.immutabilità della lex naturae, che la tradizione giuridica poneva a fondamento di ogni altra legge. Gli antichi postulati dello jus naturale e i precetti del diritto romano, neminem, laedere, unicuique suum tribuere; pacta servare, furono ripresi nella formulazione di dottrine quali la sociabilitas naturale, i diritti inalienabili della persona, le idee di giustizia e di eguaglianza, la sovranità popolare, il patto sociale» [Casini, 1994b, p. 519]. 1. Illuminismo e società 15 gione valida universalmente. La ragione illuministica non rappresenta un concetto di natura metafisica; essa si costituisce sul piano delle determinazioni storicamente e socialmente concrete. Con riferimento all .organizzazione del sistema di stratificazione sociale essa caratterizza i rappresentanti della cosiddetta opinione pubblica borghese. In questi settori «matura l.idea che il governo della nazione non sia cosa propria del sovrano o dei suoi nobili, (critica all.assolutismo, come concezione politica), ma sia propriamente cosa pubblica, cioè di tutti e di nessuno in particolare, e che in linea di principio ciascuno abbia il diritto di portare critiche e proporre le proprie idee. La ragione è insomma il principio di un dialogo, e insieme di una critica: affermazione del diritto di discutere liberamente della cosa pubblica e della possibilità di proporre argomenti che non siano censurati dal richiamo della volontà del sovrano, a supposti principi divini o a decreti immutabili della tradizione» [Jedlowski, 1999, p. 22]. La centralità assunta dal concetto di ragione nella dottrina sociale illuminista non impedirà, tuttavia, a molti suoi esponenti di considerare nelle loro riflessioni scientifiche l.importanza di alcuni importanti aspetti pre-razionali della natura umana quali le passioni, i sentimenti, la felicit à, il dolore, il disordine, l.interesse generale. Il loro ottimismo scientifico non precluderà, quindi, la possibilità di prendere coscienza dei fatti più dolorosi e tragici delle società umane. «Al progresso si guarda per lo più come ad una possibilità» [Guerci, 1989, p. 729]. La ragione produce la crescita ma, nei philosophes, esiste anche la consapevolezza che quest .ultima può essere contrastata dalle istituzioni presenti, portando un ritorno della barbarie. Essi affermano un concetto di ragione di natura ipotetico-probabilistica e una visione del progresso di natura conflittuale. Questi due aspetti della dottrina dei lumi costituiscono i suoi pilastri culturali fondamentali, necessari per comprenderne l.evoluzione. Le idee di Ragione e Progresso costituiscono le linee guida della moderna società borghese razional-utilitaristica, la cui affermazione sul piano sociale e politico è contrastata da tutte quelle forze che sono espressione dei vecchi ordini sociali feudali, che erano alla base dell .Ancien régime. La loro affermazione permette di comprendere lo svolgimento dei processi di mutamento e di sviluppo delle società borghesi europee del XVIII secolo. Lo scontro che si produce genera un forte stato di conflitto sociale, che diviene stabile e permanente all.interno delle società borghesi liberali. Esso rappresenta il prezzo necessario Parte Prima . Le scienze sociali nel periodo dell.Illuminismo 16 che l.uomo moderno deve pagare se vuole incamminarsi sulla strada del cambiamento sociale. In questo modo si affermano delle esigenze di libertà e d.individualità in precedenza sconosciute, si assiste alla perdita definitiva di certezze e verità stabilite, che prima davano significato alla vita umana. Un aspetto generalmente trascurato nelle analisi del pensiero sociale Illuminista è sicuramente raffigurato dalla presenza di una visione elitaria della cultura, che suona come una sfiducia nelle capacità della grande maggioranza degli uomini di pensare e di imparare a pensare. Si assiste così al mostrarsi di una vera e propria contraddizione. Infatti, se da un lato prevale questa svalutazione, si moltiplicano . dall.altro . gli appelli all.educazione e i progetti di riforma delle istituzioni educative che mirano a rendere possibile la formazione di nuovi individui umani, capaci di sfruttare tutte le opportunità possibili e di meglio adattarsi ai mutamenti strutturali, economici e culturali della società. Nell.Illuminismo, convivono modelli diversi di lettura della realtà storico. sociale, legati alla presenza di intellettuali, espressione di gruppi sociali eterogenei. Per tutta questa serie di motivi si deve necessariamente parlare non di una concezione generale dell.Illuminismo, ma di più orientamenti, coesistenti contemporaneamente. Probabilmente, questi gruppi si rendono conto dell.impossibilità di diffondere direttamente i loro messaggi culturali in tutti gli strati sociali ed è in questo senso che vanno visti i numerosi tentativi di formulare progetti educativi orientati al miglioramento delle condizioni sociali degli individui e dei gruppi. I loro interlocutori principali sono i sovrani illuminati e non le masse sterminate delle società moderne. In questa maniera essi cercano di svolgere, nel modo più consono alle loro effettive possibilità, la funzione d.agenti di trasmissione della cultura cosiddetta colta, attraverso la mediazione delle istituzioni politiche e educative. Con l.Illuminismo si afferma anche un.idea di ragione che riflettendo su se stessa ha come proprio momento decisivo la ricerca della verità scientifica, svolgendo, soprattutto, una funzione di critica della realtà sociale esistente. Nel valorizzare i fatti e le osservazioni, e la conseguente svalutazione della metafisica, considerata astratta rispetto alla vera realtà naturale, gli illuministi contrappongono un nuovo tipo di analisi che s.identifica nello studio e nella verifica dei poteri dello spirito umano. In questo campo si pone la riflessione circa i principi generali d.ogni singola scienza, come per esempio in D.Alembert. Questa po1. Illuminismo e società 17 lemica antimetafisica s.intreccia con quella contro i sistemi costruiti in modo speculativo e destituiti di un supporto sperimentale, in quanto poggianti su postulati aprioristici, come evidenzia Condillac, mentre i veri e utili sistemi sono quelli derivanti dall.organica connessione di fatti debitamente accertati. Tutto ciò rende evidente la connessione diretta del pensiero illuministico con la sintesi newtoniana, nella quale si può identificare il paradigma posto alla base della rivoluzione scientifica, in cui nessun valore è dato alle ipotesi, nel richiamarsi all.esperienza sensibile, alla ricerca di poche leggi fondamentali naturali cui ridurre la dispersa molteplicità dei fenomeni, e nell.importanza della traduzione di tali leggi in linguaggio matematico 6. Un.altra caratteristica specifica del pensiero illuministico consiste nell.aver posto in evidenza il rapporto che lega la scienza alla tecnica, potendosi utilizzare gli effetti positivi che da tale rapporto scaturiscono per riscattare la società umana dalla sua arretratezza e dalla sua miseria. Il materialismo dei Lumi si manifesta soprattutto nella condanna dei presupposti fondamentali della dottrina della Rivelazione. Tale dottrina filosofica considerava l.essere umano parte integrante del mondo della Natura, prefigurando un elemento diverso rispetto agli altri soltanto per la sua organizzazione più complessa. Di conseguenza, sul piano della riflessione scientifica prevale un.anticipazione di una visione monistica della realtà sociale. Un esempio di questa tendenza si ritrova nelle opere del barone D.Holbach, dove l.uomo è considerato nella sua totalità, sia come essere naturale, sia come essere sociale. Sul piano della morale l.Illuminismo pone in primo piano la supremazia della società, la quale acquista così quel carattere di sacralità in precedenza riservato esclusivamente alla Rivelazione. «La morale assume tratti della morale sociale che scindono l.uomo dal cittadino e giudica il secondo occupandosi dei risultati e non delle motivazioni. Si diffonde l.idea che il bene della società si possa legare con l.interesse individuale e viceversa. Il fine principale della socialità umana è l.affermazione di se stessa e della sua felicità» [Ivi, pp. 740-741]. Nel pensiero illuminista è possibile verificare una coincidenza ....... 6 «Tale paradigma fu applicato anche in campi in cui Newton non s.era avventurato (la morale, la vita sociale) e spesso si cadde nella genericità e nel dilettantismo » [Guerci, 1989, p. 733]. Parte Prima . Le scienze sociali nel periodo dell.Illuminismo 18 singolarmente ambigua tra i concetti di utilità e di virtù. Le azioni virtuose si definiscono in quanto tali perché utili allo sviluppo della societ à. Ai problemi posti dalla crisi morale, presente nella società del XVIII secolo, si risponde promuovendo l.utilità sociale nel senso di riforma e di rinnovamento. Si afferma la coincidenza tra interesse individuale ed interesse collettivo; l.integrazione di Natura e Cultura. Sul piano concreto dello sviluppo del sapere scientifico, gli effetti di questo spirito nuovo si manifestano nel tentativo di riorganizzazione delle discipline scientifiche, costituito dall.Encyclopédie, espressione dell .intento dei philosophes di proporsi come gruppo egemone sul piano culturale e come agente principale della modernizzazione. I riferimenti culturali dei philosophes sono Bacone, Newton, e Locke. «Ma non si trattava soltanto di esporre i principi e i procedimenti della nuova filosofia e della nuova scienza: altrettanto importanti in quanto utili alla società erano, secondo l.insegnamento baconiano, le tecniche e i mestieri, ai quali soprattutto grazie a Diderot, fu riservato ampio spazio» [Ivi, p. 745]. La dottrina sociale illuministica termina la sua parabola discendente con l.affermazione, dopo la Rivoluzione francese e nel periodo immediatamente precedente l.ascesa al potere da parte di Napoleone Bonaparte, del gruppo degli Idéologues (Cabanis, Destutt de Tracy, Volney, Condorcet). Essi, come i loro predecessori, si propongono come organizzatori della cultura, promuovendo lo sviluppo delle scienze umano-sociali sotto l.epoca del Direttorio e in seguito dell.Impero. «Meritoria fu la loro difesa dello spirito scientifico e positivo contro la marea montante dello spiritualismo cattolico e romantico. La stagione degli Idéologues fu quella del tramonto dell.Illuminismo: un tramonto splendido, tuttavia, e tale da lasciare un segno duraturo nella cultura francese ed europea» [Ivi, p. 752]. In definitiva, si può ragionevolmente affermare che un fine comune lega tutte le varie anime del pensiero illuminista: quello di liberare l.uomo moderno dalle condizioni di sofferenza e solitudine cui si era auto-condannato nella fase di passaggio, dalla condizione dello Stato di Natura a quella della Società civile. Ma, di fatto, una serie di difficoltà si porranno di fronte alla realizzazione di questa utopia. Infatti, non sarebbe stato possibile al movimento illuminista e ai suoi adepti costruire un nuovo soggetto sociale in una società civile che nello stesso tempo in cui proclamava l.uguaglianza e la fraternità, avrebbe celebrato i fasti 1. Illuminismo e società 19 e i trionfi della dottrina liberista, fondata essenzialmente sulla negazione di quei valori sociali che erano alla base dell.utopia illuministica. È questa la contraddizione che fa emergere tutte le tragiche ambiguità presenti nel pensiero illuminista.

 
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