IX) - Congresso di Vienna, il congresso, viennaVi sarà in Genova un gran corpo giudiziario o tribunale supremo, avente le medesime attribuzioni e privilegi di quelli di Torino, di Savoia e di Nizza, che come essi porterà il nome di Senato. X) - Le monete correnti d'oro e d'argento dell'antico stato di Genova, attualmente esistenti, saranno ammesse nelle casse pubbliche in concorrenza delle monete piemontesi. XI) - Le leve di uomini, dette provinciali, nel paese di Genova, non eccederanno in proporzione delle leve che accadranno negli altri stati di Sua Maestà. XII) - Sua maestà creerà una compagnia genovese di guardie del corpo, la quale formerà una quarta compagnia delle sue guardie. XIII) - Sua Maestà stabilirà in Genova un corpo di città composto di quaranta nobili: venti cittadini, viventi d'entrata o esercenti arti liberali e venti dei principali negozianti. Le nomine saranno fatte per la prima volta dal Re e il loro rimpiazzo si farà per nomina dello stesso corpo di città, con riserva dell'approvazione di Sua Maestà. Questo corpo avrà i suoi regolamenti particolari dati dal Re per la residenza e per la divisione del lavoro. I presidenti prenderanno il titolo di Sindaci e saranno scelti fra i membri. Il Re si riserva, ogni qualvolta lo crederà opportuno, di far presiedere il corpo della città da un personaggio altamente distinto. Le attribuzioni del corpo della città saranno l'amministrazione delle rendite della città e la sorveglianza dei pubblici stabilimenti di carità della città. I membri di questo corpo avranno una foggia di vestiario ed i sindaci il privilegio di portare la zimarra o toga come i presidenti dei tribunali. XIV) - L'università di Genova sarà mantenuta e godrà degli stessi privilegi e quella di Torino. Sua Maestà penserà ai mezzi di provvedere ai bisogni. Prenderà questo stabilimento sotto la sua protezione speciale, come pure gli altri istituti d' istruzione, di educazione, di belle lettere e di carità che saranno parimenti mantenuti. Sua Maestà conserverà in favore dei sudditi di Genova le borse che hanno nel collegio del liceo, a carico del governo, riservandosi di adottare in proposito dei regolamenti che crederà opportuni. XV) - Il Re conserverà a Genova un Tribunale ed una camera di commercio con le attribuzioni attuali di quelle dei due stabilimenti. XVI) - Sua Maestà prenderà particolarmente in considerazione la situazione degli attuali impiegati degli Stati di Genova. XVII. Sua Maestà accoglierà i progetti e le proposizioni che gli saranno presentati sui mezzi di ristabilire il Banco di San Giorgio. Il 20 dicembre del 1814, lord DALRYMPLE, che comandava il presidio di Genova, assunse il governo provvisorio per rimetterlo nelle mani del cav. IGNAZIO DI REVEL, nominato dal Re governatore. Vittorio Emanuele si recò a visitare Genova, insieme con i ministri VIDUA e VALLESA, il 17 febbraio del 1815. La Liguria era la prima delle regioni d'Italia che unendosi per volontà altrui al Piemonte, segnava il principio della costruzione di quell'edificio nazionale che doveva esser compiuto molti anni dopo. CONGIURA DI PATRIOTI PER INNALZARE NAPOLEONE SUL TRONO DIRIZZO DI MELCHIORRE DELFICO IL PROGRAMMA DI NAPOLEONE - COSPIRAZIO LOMBARDA DEL 1814 Nel Congresso di Parigi, con trattato sottoscritto il 30 maggio del 1814, i sovrani alleati deliberavano che si restituissero al re di Sardegna, i suoi stati accresciuti del territorio dell'antica repubblica di Genova, che fosse dato a MARIA LUIGIA D'AUSTRIA, moglie di Napoleone, il ducato di Parma e Piacenza, e a MARIA LUISA di Borbone il territorio di Lucca, che FRANCESCO IV d'Austria-Este riavesse il ducato di Modena e Reggio, FEDINANDO III d'Austria-Lorena il Granducato di Toscana aggiungendovi il principato di Piombino, e a BEATRICE d' ESTE fosse accordato il ducato d i Massa Carrara. Al Pontefice erano restituiti i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno ma non si faceva parola delle Romagne occupate dagli Austriaci e delle Marche ancora in mano dei Napoletani. Neppure del re GIOACCHINO MURAT si faceva menzione e a FERDINANDO IV si riconosceva solo il dominio dell' isola di Sicilia. La decisione delle cose lasciate insolute a Parigi si rinviava al CONGRESSO DI VIANNA: " ....entro due mesi, tutte le potenze che, dall'una e dall'altra parte, furono interessate nella guerra, manderanno a Vienna dei plenipotenziari per prendere, in un congresso generale, le disposizioni che sono necessarie per completare le norme di questo trattato." Il Congresso di Vienna, indetto per il 1° di agosto, non si apri che il 1° di ottobre. Nella capitale austriaca erano convenuti i sovrani di Russia, Prussia, Baviera, Sassonia. Danimarca, Wurtemberg e i plenipotenziari di tutti gli Stati d'Europa ad eccezione della Turchia. Vi erano il METTERNICH per l'Austria, il CASTLEREAGH per l'Inghilterra, il NESSELRODE per la Russia, l' HARDENBERG per la Prussia, il TALLEYRAND per la Francia, il LABRADOR per la Spagna, il conte di PALMELLA per il Portogallo, il conte AXEL di LOEWENHIELM per la Svezia. Quanto agli stati d'Italia, il Pontefice era rappresentato dal cardinal CONSALVI, il re di Sardegna dal marchese di SAN MARZANO e dal conte ROSSI, il re di Sicilia dal RUFFO, dal SERRA CAPRIOLA e dal MEDICI, il re di Napoli dal duca di CAMPOCHIARO e dal principe di CARIATI, il granduca di Toscana dal principe NERI CORSINI, il duca di Modena dal principe ALBANI, la duchessa di Lucca dal plenipotenziario spagnolo LABRADOR. Dal Congresso di Vienna doveva nascere la nuova carta politica d'Europa; per l' Italia si trattava in sostanza di ratificare le restaurazioni già avvenute, definire alcune particolari questioni, fra cui le più importanti erano quelle territoriali riguardanti il Piemonte e lo Stato della Chiesa, e infine decidere della sorte di GIOACCHINO MURAT la cui corona solamente l'Austria si era impegnata a mantenere. Il Congresso, tutto rivolto a stabilire un "durevole equilibrio europeo" per mezzo di compensi e ad instaurare la pace, tornando il più possibile all'antico, non doveva tener conto del profondo rivolgimento che un ventennio di guerre e di rivoluzioni aveva prodotto nei popoli e, nei riguardi dell'Italia, intento com'era a restaurare i vecchi regimi, non doveva curarsi del sentimento di nazionalità e d'indipendenza che ormai sempre di più pulsava nel cuore di molti italiani. Ma già prima ancora che i sovrani alleati avessero sottoscritto il trattato di Parigi i patrioti italiani pensavano di salvare l' Italia dalla schiavitù imminente e concepirvi quell' l'arduo disegno -risvegliato e già concepito da Napoleone, da non confondere con "i francesi"- di dare unità e indipendenza alla penisola sotto lo scettro di Napoleone Bonaparte stesso. Nel maggio del 1814, quattordici deputati (possiamo considerare questo il primo in assoluto atto del Risorgimento italiano - e il primo disegno), della "Carboneria italiana" (da notare che inizialmente era nata in funzione antibonapartista) si radunavano a Torino per studiare un disegno teorico e pensare ai mezzi per metterlo in pratica. Erano due Córsi, due Genovesi, quattro Piemontesi, due Lombardi, due Romani e due Napoletani; ma non di tutti si conoscono i nomi. Forse tra loro c'era UGO FOSCOLO; certo vi erano l'abruzzese MELCHIORRE DELFICO, storico ed economista di gran valore, il conte genovese LUIGI CORVETTO, economista e giureconsulto, e il carrarese PELLEGRINO ROSSI, professore di diritto nell' Università di Bologna. I quattordici formarono uno statuto di sessantatre articoli, sotto il titolo di "Basi fondamentali della futura costituzione del rinascente Impero Romano". Napoleone sarebbe stato, "per la grazia di Dio e la volontà nazionale", imperatore dei Romani e re d'Italia, una e indivisibile con Roma capitale; due sarebbero state le camere: quella dei senatori di nomina regia, e quella dei deputati, elettiva; ogni legislatura avrebbe avuto la durata di un triennio, risiedendo alternativamente a Roma, a Napoli e a Milano; nelle quattro più grandi città. Esclusa la capitale, vi sarebbero stati quattro viceré; la nazione avrebbe adottato per bandiera il "tricolore, bianco, rosso e verde"; avrebbe con una legge dato compensi al Papa, non si sarebbe intromessa negli affari d'Europa, avrebbe avuto libertà di culto e di stampa - e per citare soltanto i punti principali - sarebbe stata contraria ad ogni ingrandimento territoriale. Quanto ai mezzi per tradurre in realtà il loro sogno, i patrioti potevano disporre in un primo tempo di dodici milioni assicurati da un gruppo di banchieri genovesi, che erano contrari al dominio sabaudo. Nei primi dell'ottobre del 1814 fu presentato a Napoleone, a Portoferraio da uno dei congiurati, il disegno di costituzione e con questo un nobile scritto in quanto a espressioni, dettato da MELCHIORRE DELFICO, che vogliamo qui riportare integralmente e letteralmente in lingua originale: ".Sire, un piccolo numero di Italiani, i primi che salutarono in Voi il liberatore della loro Patria, i primi costanti ammiratori della gloria Vostra, non mai adulatori del Vostro potere, né disertori della Vostra causa, è deciso e risoluto a tentare un ultimo sforzo per far risorgere dalla lunga ignominia l'abbattuta fronte della Penisola italiana. Essi vengono, o Sire, in nome della Patria a chiedere il Vostro nome, la Vostra spada e ad offrirvi invece la corona del rinascente Impero Romano. Le condizioni dunque , devono essere così degne del gran popolo che le propone, come dell' Eroe che deve accettarle e che da un tal popolo è chiamato all'onore di reggerlo. Che Cesare sia grande, ma che Roma sia libera ! L' Italia, Sire, ha bisogno di Voi e, per quanto dicano il contrario i Trattati, la natura Vi fece Italiano: Voi risponderete alla sua voce. Una gran forza è necessaria. Solo il Vostro braccio è potente per dispiegarla. Nuovo Archimede, appoggiato sulla rocca del Vostro esilio, istruito dalla esperienza dei Vostri disastri, Voi rialzerete il Campidoglio; ma là, Sire, bisognerà fermarsi: stanco della creazione l' Onnipotente stesso non sdegnò riposarsi. L' impresa non è gigantesca soltanto, bensì ardua e perigliosa. Essa non sarà che più degna di farVi proseguire quella carriera di prodigi che già percorreste dal Tevere al Nilo, dall' Ebro al Volga. "Sire, che almeno le grandi lezioni del passato servano all'avvenire; allora l'avvenire sarà scevro ed esente da quelli stessi errori che sì spesse volte hanno rimesso in questione ciò che peraltro tanto stabilmente consolidato sembrava. È necessario, Sire, rinunciare per sempre e sinceramente a quel sistema di strage universale che seco loro recano le conquiste. La Vostra esistenza sarà bastantemente compiuta, la Vostra gloria bastantemente risplendente, se dal canto Vostro adempite l' impresa cui la Patria Vi invita ad accingervi. Voi mostraste all'attonita terra ciò che poteva la Vostra spada. Terminate di provarle ciò che può il Vostro genio, come legislatore e come re cittadino. Sire, un sol grido Vostro, un sol passo basteranno a far sorgere la Nazione intera. Dite, come Dio alla luce: Si faccia l'Italia, e l' Italia si farà. Se mai nella tomba scender poteste prima di averne spezzati i ferri, la terra dei Vostri primi trionfi sarebbe schiava in eterno. Voi avete offerto all'ammirazione dell'universo la gloria delle pugne: non sdegnaste d'adottare oramai la gloria di Washington. Finalmente, giudicar dovete, Sire, quale immenso partito trar potevate da due popoli generosi, l'uno e l'altro smembrati, che da voi aspettavano la loro rinascenza nazionale, e che accorsi sarebbero dalle due estremità dell' Europa per rendervi sulle rive della Senna ciò che Voi fatto aveste per essi su quelle della Vistola e del Tebro Non della sola Italia, Sire, forse oggi si tratta: già l'aurora delle restaurazioni si annuncia in modo ostile, minaccevole almeno, per la libertà dei popoli; e non impossibile sarebbe che i destini del mondo intero trovarsi ai Vostri alti destini subordinati nuovamente dovessero. Voi vinceste l' Europa finche foste l'alleato delle nazioni. Voleste divenire l'alleato dei Re, di cui eravate già l'arbitro: e fu allora che cadeste. congresso di vienna, il congresso di vienna. Egli è per anco in Vostro potere di porVi alla testa della civilizzazione europea. Se mai il moto retrogrado giungesse ad esserVi impresso, forse ci ritroveremmo al secolo delle Crociate. Giammai, Sire, per quanto Vi sorpassaste Voi stesso, potreste andare né al di là né al di sopra dei prodigi di Marengo e di Austerlitz. Non può dunque essere nelle guerre che la Maestà Vostra debba ricercare nuovi allori. Noi non verghiamo, o Sire, ad offrirvi il sangue dei popoli come l'appannaggio dei troni. Noi porgiamo ai Vostri sguardi una nazione sottomessa che chiede di nuovo un Liberatore, che acconsente a farne il suo Re, se questo Re consente lui stesso di non veder nello scettro che le insegne della Magistratura Suprema. Prima di tutto è indispensabile che Vostra Maestà conosca le basi fondamentali che sono di una necessità sine qua non alla vostra piena cooperazione. Se essa le accetta, Vostra Maestà potrà disporre del nostro braccio, della nostra vita e delle nostre sostanze. Siamo, è vero, in piccolo numero; ma, Voi lo sapete, o Sire, la nostra anima è intrepida: ciascuno di noi, nella maggior parte nei campi di battaglia, spesse volte fissò gli sguardi della morte, e non noi, bensì la morte li abbassò. Quei fra noi, la cui carriera fu estranea alle armi, fecero ugualmente peraltro le loro prove. Né i pugnali, né i supplizi ci faranno impallidire. Nessun ostacolo potrà arrestarci: nessun pericolo ci farà vacillare. Mossi da uno stesso spirito, uniti da un medesimo giuramento, animati da un ugual pensiero, una parola di Vostra Maestà sarà bastante a decidere delle azioni nostre. Confidiamo al più giovane di noi il periglioso onore di recare a Vostra Maestà queste sommarie proposizioni. Voi conoscete, Sire, nella di lui persona uno dei bravi di Marengo e di Jena: esso potrà mostrarvi le sue cicatrici di Eylau e di Friedland e non avrete certo dimenticata la nobile condotta che tenne a Brienne-Montmirail. Allorchè Vostra Maestà avrà dato le sue istruzioni a questo ufficiale per i mezzi ulteriori di corrispondere, noi supplichiamo di rimandarlo sul Continente più presto possibile: e come sarebbe utile che esso andasse nel Mezzogiorno, Vostra Maestà potrebbe confidargli una missione per il Re di Napoli, all'oggetto di accreditarlo presso di quel governo e per farglielo personalmente conoscere come investito in questa occasione della Vostra piena confidenza e della nostra pure: poiché, per il resto, il Re ben lo conosce d'antica data come un vecchio soldato su cui si può contare."" A Napoleone, questa lettera e questo disegno piacque, perché grande ed arduo e concepito dai patrioti italiani, la maggior parte dei quali, come il DELFICO stesso dichiarava, erano suoi vecchi soldati; il Bonaparte qua e là lo corresse, quindi inviò a Torino una sua persona di fiducia per accordarsi con i capi del movimento. Altre persone furono mandate in varie parti d' Italia per vedere di prendere accordi, spronare, e Napoleone si teneva quasi quotidianamente in contatto con i promotori e a due di essi, andati a trovarlo a Portoferraio nell'ottobre del 1814, esponeva chiaro e conciso il suo programma in cui mostrava di aver fatto tesoro dei consigli del Delfico e più ancora della sua stessa esperienza: ". Sono stato grande sul trono di Francia principalmente per la forza delle armi e per l'estensione della mia influenza sull' intera Europa. Ho dato alla Francia codici e leggi che vivranno quanto il mondo; ma carattere distintivo del mio regno era sempre la gloria delle conquiste. A Roma io volgerò ad altro e miglior fine questa medesima gloria, splendida come la prima, ma non guidata dagli stessi principi; meno rumorosa, ma certo più durevole e proficua, perché nessuna si potrà ad essa paragonare. Farò degli sparsi popoli d'Italia una sola nazione: darò loro l' unità di costumi che ad essi manca, e sarà questa l' impresa più difficile che io m'abbia tentato fin qui. Aprirò strade e canali, moltiplicherò le comunicazioni: nuovi e copiosi spacci si apriranno alle rinate industrie italiane, mentre l'agricoltura mostrerà la prodigiosa fecondità dell' italo suolo e gli immensi vantaggi che se ne possono ritrarre. Darò all' Italia leggi adatte agli Italiani. Finora io non sono riuscito a dar loro che provvedimenti temporanei: tutto sarà da ora innanzi compiuto: e ciò che io farò sarà eterno quanto l'Impero. Napoli, Venezia, La Spezia saranno immensi cantieri di costruzioni navali, e in pochi anni avrà l' Italia una marina imponente. Farò di Roma un porto di mare. Fra venti anni avrà l' Italia una popolazione di trenta milioni di abitanti e sarà allora la più potente nazione d' Europa. Non più guerre di conquista. Nondimeno avrò un esercito prode e numeroso sui cui vessilli farò scrivere il motto: "Guai a chi lo tocca" e nessuno l'oserà. Dopo essere stato Scipione e Cesare in Francia, sarò Camillo a Roma: cesserà lo straniero di calpestare con il suo piede il Campidoglio, né più vi ritornerà. Sotto il mio regno, la maestà antica del popolo-re si unirà alla civiltà del mio primo impero, e Roma uguaglierà Parigi, serbando tuttavia intatta la grandezza delle sue memorie passate. Sono stato di Francia il colosso della guerra: sarò in Italia il colosso della pace.". Andavano e venivano da Genova a Portoferraio i messi; ma frequenti giungevano all' Elba anche inviati dalla Francia, dove amici e commilitoni lo invitavano a ritentare la fortuna. Napoleone, ora, più che a quelle d' Italia porgeva ascolto alle voci di Francia e, considerando che la restaurazione dell'impero francese avrebbe presentato minori difficoltà che l' impresa italiana, già cominciava a vagheggiare l'idea di uno sbarco in Provenza e a rallentare i rapporti con i cospiratori della penisola. Questi però non erano uomini da rassegnarsi alla servitù e, anche senza Napoleone, erano decisi ad agire, specie gli ufficiali dell'esercito italico, fra cui i liberali più ardenti erano i generali LECHI, FONTANELLI, ZUCCHI, DEMESTER, BELLOTTI, i colonnelli MORETTI, OLLINI, VARESE. PAVONI e il caposquadrone RAGANI. L'idea di una rivolti militare risorse; si mandarono (sbagliando personaggio) messi al MURAT perché lo inducessero ad unire le sue forze con quelle dell'esercito italiano, le quali, così riunite, avrebbero facilmente, cacciato gli Austriaci; ma il re Gioacchino era dubbioso e d'altro canto non si riusciva a trovare un uomo che volesse mettersi alla testa della rivolta, essendosi rifiutati il FONTANELLI, TEODORO LECHI e lo ZUCCHI. Allora si accantonò l'idea d'una ribellione prettamente militare sostenuta dai Napoletani e si riprese il disegno dell' insurrezione. Fra i congiurati lombardi, in gran parte appartenenti alla massoneria, vi erano dei piemontesi, fra cui il generale FELLONI, i quali, si crede, informarono della congiura il conte piemontese ALESSANDRO GIFFLENGA, generale dell'ex regno italico, per averlo dalla loro parte e lo incaricarono di recarsi in Piemonte per farvi proseliti. Il Gifflenga si recò, il 6 novembre del 1814, a Vercelli e invitò il conte AVOGADRO della MOTTA, sindaco di quella città, a recarsi a Milano per accordarsi con i congiurati. Il della Motta invece, quello stesso giorno, diede comunicazione del fatto al conte di VALLESA, ministro degli esteri di VITTORIO EMANUELE I, con una lettera che riportiamo: "..Stamane si è presentata da me una persona, proveniente da Milano, che mi ha invitato a portarmi colà, onde essere presente ad una conferenza avente per scopo un movimento generale in Italia contro i Tedeschi. Questa persona doveva andare a Torino, per vedere se vi erano malcontenti e far causa comune. Ammonito da me il suo viaggio a Torino essere inutile, perché i malcontenti erano pochi e di natura ad avere un malcontento personale e non generale, esso, in queste ed altre riflessioni, ritornò a Milano. Si sono fatte deputazioni al Re di Napoli, ma segrete; si sono invitati parecchi personaggi a riunirsi: il progetto è di disarmare a un certo punto i Tedeschi in Lombardia, di impadronirsi del parco dell'artiglieria di Pavia e di offrire la corona al Re di Napoli o a chi venisse da fuori (Napoleone), tagliare la strada e portarsi sull' Isonzo. Il piano è mal concertato, ma può riuscire in un primo momento, ma poi certamente fallire. L'affare deve scoppiare in cinque o sei giorni. Si precipitano le operazioni, onde avvalersi dei reggimenti italiani prima che questi partano dalla Lombardia ." Il conte di VALLESA, allarmato da quelle notizie, informò della congiura il re di Sardegna e il maresciallo BELLEGARDE e, tramite il Conte DELLA MOTTA, indusse il GIFFLENGA a raccoglier maggior notizie sulla congiura. Credendo di salvare la patria, un ministro sabaudo cooperava così a ribadire i ceppi della restaurazione. Messo sull'avviso, il Belleguarde fece il 18 novembre partire i reggimenti italiani per l' Ungheria, rafforzò il presidio di Milano e, per conoscere i congiurati, di cui ignorava i nomi, si rivolse a un suo parente savoiardo, abilissimo nel tender tranelli. Questi, assunto il nome e il titolo di visconte di SAINT-AGNAN e fingendosi segretamente inviato da LUIGI XVIII, dal reggente d' Inghilterra e dal duca di Angouléme per sollevare l' Italia dal giogo austriaco, entrò in relazione con il lorenese GIAMBATTISTA MARCHAL, massone e congiurato, e da lui fu presentato ad altri membri della cospirazione: il celebre medico parmigiano GIOVANNI RASORI, l'avvocato LATTUADA e il colonnello GASPARINETTI. Considerato che per procedere contro i congiurati occorrevano delle prove, il finto visconte se le procurò con un abile stratagemma. La sera del 26 novembre il Marchal, il Lattuada, il Gasparinetti e il Rasori erano riuniti in casa di quest'ultimo per prendere gli ultimi accordi, quando giunse il falso Saint-Agnan, il quale, asserendo che la casa era circondata dalla polizia, si fece consegnare i documenti compromettenti per metterli al sicuro. I documenti invece passarono nelle mani del Bellegarde, il quale, la notte dal 3 al 4 dicembre, fece arrestare i generali TEODORO LECHI, bresciano, GASPARE BELLOTTI, torinese, e FILIPPO DEMESTER, di Milano, i colonnelli ANTONIO GASPARINETTI, di Ponte a Pieve, SILVIO MORETTI e CARLO OLINI, bresciani, e PIETRO VARESE, milanese, il tenente-colonnello PIETRO PAVONI, di Orzinuovi, il caposquadrone CESARE RAGANI, di Bologna, l'ufficiale di Stato Maggiore BARTOLOMEO CAVEDONI, modenese, il commissario straordinario dell'esercito UGO BRUNETTI, lodigiano, il RASORI, il LATTUADA, il MARCHAL, GEROSIO SANTINI di Lecce e ANTONMARIA CAPROTTI, milanese. Indizi di complicità si raccolsero intorno ai generali FONTANELLI, ZUCCHI, PALOMBILLI, PAOLUCCI, al conte PORRO, ai professori REZIA e ROMAGNOSI e altri; mancando però le prove su quest'ultimi della loro partecipazione alla congiura, non furono arrestati né processati. Sotto processo furono messi invece quelli ch'erano stati arrestati, i quali, solo dopo circa due anni (17 settembre 1816) di prigione, seppero di essere stati condannati a cinque anni di carcere duro e che l'imperatore aveva commutato la pena in diciotto mesi. Il fallimento dell'impresa, con l'opera degli infiltrati in cerca di facili prebende nelle nuove corti, e con i cospiratori poi finiti tutti in galera, anche perché erano pochi oltre che i primi, non favorì certamente l'opera di proselitismo. Ma non è che terminò il "nuovo" "patriottismo". (* - sul termine vedi sotto). Nei moti del 1820 a Salerno e Napoli (PEPE, MORELLI, SILVATI ecc), e poi in quelli del 1821 in Piemonte, nelle file dei "ribelli" (detti "patrioti", ma sarebbe meglio dire "costituzionalisti") ritroveremo molti ufficiali che erano in questi anni nelle file dell'esercito bonapartista (e fra questi, c'era anche un giovane cadetto e ammiratore di Napoleone: Carlo Alberto. Era cresciuto in due mondi incompatibili fra di loro, ma non riusciva ad appartenere né all'uno né all'altro; i due poli di questi due mondi lo attiravano, ma nello stesso tempo, nel momento di sprigionare l'energia necessaria per appartenervi, i due poli lo respingevano e lui annaspava; zoppicava da una parte o dall'altra, tradendo prima di tutto se stesso, poi tradiva le aspettative degli altri. Sia quelle dello zio come quelle dei liberali. Prima bonapartista, poi timido liberale, poi duro conservatore e filo-clericale, poi nuovamente liberale; infine non credendo alla sua forza e alla sua anima democratica, indeciso, attanagliato dai dubbi e dalle contraddizioni, in una poco chiara battaglia, come re e come uomo dopo venti anni si dichiarò sconfitto; abdicò, partì per l'esilio, per morire pochi giorni dopo di crepacuore a soli 50 anni. Non riuscì nel suo grande progetto; non divenne un grande sovrano di un grande regno, ma morì da uomo, e nonostante le ricchezze, come un uomo comune: di dolore. Una fine che ci appare come il riscatto di una vita enigmatica; una signora morte che si portava via un re intelligente ma molto orgoglioso, ma che ci restituiva un uomo umile, soffocato dal dolore di un'esistenza vuota. Quindi più umano. Fino al punto che, vissuto e uscito dalla scena storica con intorno tanto odio, iniziò a guadagnarsi tanta stima, affetto, simpatia, anche da chi lo aveva odiato. Fu l'ultima onorevole, intelligente, ammirevole e anche commovente uscita di scena di un Savoia in Italia. A dire il vero la leggenda del "martire di Oporto" fu poi costruita retrospettivamente da quegli stessi individui che avevano contribuito a portarlo alla rovina; oltre che (questo é comprensibile) dagli eredi della sua dinastia che poi "governarono" (?! Dicendo si quando dovevano dire no, e si quando dovevano dire no) ininterrottamente (?) fino al 1945 l'Italia (con il suo Statuto (l'"Albertino"), che se applicato prima, come poi fu applicato dopo, avrebbe evitato all'Italia una serie di tragedie, oltre che a restituire altissimo prestigio agli stessi Savoia. Che due secoli prima furono i soli in Italia a "osare" (Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I) a dire quasi trecento anni prima, di "aver cuore e forze per opporsi contro tutti", o ""Sebbene questi re sono grandi...io non voglio esser schiavo di nessuno", o quell'altro detto davanti a Filippo III nel 1621: "il nome di umiliazione non si intende nel linguaggio piemontese". Erano altri tempi! Forse con meno cultura, ma il coraggio non mancava proprio. (*) I moti "patriottici" popolari, erano forse ancora esigui, ma stavano per nascere e c'erano. Ma bisogna fare un distinguo con questo termine. Fu usato (e lo si usa ancora oggi in certi ambienti) e mistificato anche nel senso di giacobino, quindi sostenitore dei francesi (che poi era una élite)e parliamo di quelli che non esitarono (e lo abbiamo visto, nel sud come nel nord) a combattere e a tartassare le stesse popolazioni che volevano "liberare", per favorire, in ultima analisi, gli interessi delle truppe di occupazione francesi (e spesso per interessi personali). E così pure nel sud i sostenitori dei Borboni quando questo il termine patriota fu usato e abusato quando i Borboni erano in Sicilia, per indicare i componenti delle "bande" di Ruffo o di Fra Diavolo, mercenari e avanzi di galera, sostenuti dai Borboni stessi, dalla Chiesa e appoggiati o meglio dire utilizzati da una grande potenza come l'Inghilterra per i propri interessi). Ben diverso fu poi il "patriottismo" successivo. Nel nord i patrioti veri erano i "costituzionalisti" o se vogliamo chiamarli in un modo più acconcio "indipendentisti" (pur essendoci dentro anche ufficiali dell'esercito bonapartista), ma non filo-francesi e nemmeno "giacobini". Come erano costituzionalisti e indipendentisti quelli del sud (pur essendoci dentro anche ufficiali dell'esercito filo-borbonico) chiamati poi tutti "briganti". In comune -quelli del nord come quelli del sud- avevano la rinascita di una coscienza "nazionale", che allora -non nel termine di oggi- aveva confini ben precisi. L'Italia non era UNA da più di 16 secoli, quindi lingua, tradizioni, costumi, e soprattutto carattere erano diversi, legati al proprio territorio. E se ancora oggi abbiamo "localismi" estremi (la cui componente principale non è quasi più la "coscienza locale", ma l'egoistica "economia locale") figuriamoci allora quando il potere dominava le masse ignoranti, analfabete, contadine, senza alcuna altra risorsa, se non quella della "pagnotta" in cambio del proprio cieco e inconscio servilismo, e sempre pronte a gridare o "Viva Maria", o viva questo o quell'altro in determinate e improvvise mutevoli circostanze, dove il motto era nei poveri: "Poca lagna se no, non se magna", e nei ricchi "Dire sì a questo a quello e a tutto, purchè si possa tenere tutto". Del resto come abbiamo già letto, e leggeremo ancora, anche i peggiori assolutisti si appellavano all'indipendenza, alla libertà, al benessere della nazione, che avevano conquistata con le armi, che dominavano e terrorizzavano con le armi, e poi trattavano come una colonia. Come vedremo d'ora in avanti dentro le file dei "ribelli", inizia ad esserci di tutto, dal bottegaio, al contadino, dall'imprenditore al professionista, rischiando spesso l'attività economica e la propria vita per un ideale che nulla ha più a che vedere con i mercenari che abbiamo visto fino ad ora. Questi nuovi martiri della libertà non hanno una targa di appartenenza, ma ne hanno una che è quella della dignità della persona umana. Anche se non possiamo tacere che pure dopo il 1849, oltre che questa componente idealistica seguitò a prosperare quella della strumentalizzazione delle masse; in quella meridionale, come in quella ligure, piemontese, lombarda, toscana e pontificia, e che in certi casi (alcuni di questi, "patrioti", "avventurieri", "mercenari" ) vendettero la propria regione con tutta la sua popolazione a vantaggio di pochi. L'etichetta di "cospiratori" nel nord, come quella di "briganti" nel sud, seguitò ad essere comoda da applicare, per non vedere una realtà molto più complessa, e che i sovrani e i loro governanti non erano in grado né di capire e tanto meno di risolvere. La chiamarono "questione" quella meridionale, invece era un "problema" che bisognava risolvere, e non certo né con le chiacchiere e tanto meno con le armi in mano. Ricordiamoci che nel 1860 l'esercito piemontese entrò nelle Due Sicilie (uno Stato formalmente alleato, "amico" e riconosciuto internazionalmente) senza neppure una dichiarazione di guerra come se fosse già un suo territorio da domare. Cioè una invasione illegittima di uno stato sovrano, prima fatta con un migliaio di avventurieri, poi sostenuta (come avrebbero potuto altrimenti) da un regolare esercito, e infine aiutata e poi sdoganata questa invasione da una potenza straniera (il cui ricordo di questi anni 1806-1814 non poteva essere stato dimenticato sull'isola - cioè Beatnick). Dimenticò invece il "patriota" Garibaldi, ciò che avevano fatto i francesi in Italia, dimenticò Mentana, l'indignazione della rapina della "sua" Nizza, la "svendita" del Veneto, gli accesi comizi per liberare Roma dai francesi, i morti ancora caldi, e nel 1870 andò aiutare come mercenario e non come "patriota italiano" proprio Napoleone III, e che (fortuna per l'Unità d'Italia)- fu poi sconfitto. IL RE GIOACCHINO MUOVE VERSO IL PO - IL PROCLAMA DI RIMINI -- BATTAGLIA DEL PANARO - RITIRATA DEI NAPOLETANI - BATTAGLIA DI TOLENTINO - IL COMMODORO CAMPBELL. - TRATTATO DI CASA LANZA - PARTENZA DI GIOACCHINO MURAT -- L'ATTO FINALE DEL CONGRESSO DI VIENNA - ARTICOLI RIGUARDANTI L' ITALIA - FERDINANDO DI BORBONE E IL REGNO DELLE DUE SICILIE - LA SANTA ALLEANZA - FINE DI GIOACCHINO MURAT RESTAURAZIONI IN ITALIA - CONGRESSO DI VIENNA GIOACCHINO MURAT - LA SANTA ALLEANZA LA SECONDA PARTE IL RE GIOACCHINO MUOVE VERSO IL PO - IL PROCLAMA DI RIMINI -- BATTAGLIA DEL PANARO - RITIRATA DEI NAPOLETANI - BATTAGLIA DI TOLENTINO - IL COMMODORO CAMPBELL. - TRATTATO DI CASA LANZA - PARTENZA DI GIOACCHINO MURAT -- L'ATTO FINALE DEL CONGRESSO DI VIENNA - ARTICOLI RIGUARDANTI L' ITALIA - FERDINANDO DI BORBONE E IL REGNO DELLE DUE SICILIE - LA SANTA ALLEANZA - FINE DI GIOACCHINO MURAT Il proclama di Bellegarde (12 giugno 1914) Il ritorno della Lombardia all'Austria IL RE GIOACCHINO MUOVE GUERRA ALL'AUSTRIA IL PROCLAMA DI RIMINI - LA BATTAGLIA DEL PANARO RITIRATA DEI NAPOLETANI - BATTAGLIA DI TOLENTINO TRATTATO DI CASA LANZA - PARTENZA DI GIOACCHINO MURAT Mentre a Milano i patrioti cospiravano contro l'Austria e Napoleone dall' isola d' Elba prendeva accordi con i suoi partigiani di Francia, GIOACCHINO MURAT viveva incerto della sua sorte. Sapendo che non sarebbe stato mai abbastanza forte se non avesse avuto tutta con sé la popolazione del suo regno, aveva cominciato a liberaleggiare, perdonando ai carbonari, alleviando i dazi e promettendo la costituzione; ma ben presto si era accorto che non dalla situazione interna era minacciato il suo trono, ma dalla politica degli stati d' Europa, i cui rappresentanti erano riuniti in Congresso a Vienna. FERDINANDO IV di Borbone brigava attivamente per riottenere dal Congresso il regno di Napoli ed era riuscito ad accaparrarsi, forse con il denaro, l'appoggio del TAL1EYRAND, molto più potente certo di quello dello zar il quale diceva che non avrebbe mai tollerato sul trono napoletano un re carnefice. Anche il Murat aveva cercato di tirar dalla sua il Talleyrand, ma non vi era riuscito, e al Congresso non aveva proprio nessuno che lo sostenesse, ad eccezione dell'Austria, la quale del resto solo perché alleata ambiguamente con lui mostrava di appoggiarlo, anche se era sospettosa. Il congresso aveva stabilito di decidere per ultima la questione napoletana. Ciò teneva sulle spine il Murat, che, osteggiato dai sovrani europei, sollecitato dai patrioti italiani (che non sapevano il suo doppio gioco), minacciato da Ferdinando IV che faceva preparativi per riconquistare il regno perduto, indispettito dalla debole difesa che di lui faceva l'Austria, andava rivolgendo disegni di guerra e intanto rafforzava il suo esercito nelle Marche, non ancora restituite alla Chiesa, e fortificava Ancona. Volendo sperimentare l'amicizia dell'Austria, il Murat, con il pretesto di doversi difendersi alle minacce borboniche dalla parte di Terracina, chiese facoltà di occupare temporaneamente lo Stato romano, ma l'Austria (più sospettosa di prima) gli fece sapere in modo chiaro e incombente (28 febbraio 1815) che avrebbe considerato come atto d'ostilità qualsiasi mossa dell'esercito napoletano oltre i confini del suo regno, contro il quale in questo caso (e siamo alla minaccia) avrebbe mandato un esercito di centomila uomini. Oramai il re di Napoli sapeva fino a che punto poteva contare sull'alleanza austriaca ed aveva in cuor suo deciso di prevenire i suoi nemici e muover guerra all'Austria non appena Napoleone, con cui si era rappacificato (relativamente, il cognato restava sempre sospettoso, più ancora degli austriaci), fosse sbarcato in Francia. Ma quando gli giunse la notizia che il cognato era sbarcato a Cannes (10 marzo 1815), non volle subito dichiarar guerra alla sua alleata e, per guadagnar tempo, fece sapere ai gabinetti di Vienna e di Londra che, di fronte al ritorno di Napoleone, egli non avrebbe mutato politica, ma contemporaneamente scriveva al cognato che si preparava a muovere contro gli Austriaci e che, se fosse stato aiutato dalla fortuna, presto sarebbe corso in suo aiuto con un formidabile esercito. Napoleone ricevette il messaggio del cognato ad Auxerre il 17 marzo e gli rispose consigliandolo di non assalir l'Austria e di aspettare che lui gliene indicasse il momento opportuno; ma il consiglio prudente giunse troppo tardi: il Murat, non badando alle parole dei ministri e degli amici, fra cui il generale COLLETTA, aveva ordinato all'esercito di mettersi in marcia verso il Po. L'esercito napoletano era forte di cinquemila uomini di cavalleria, trentacinquemila fanti e sessanta cannoni; comandavano le legioni della Guardia il principe PIGNATELLI-STRONGOLI e il LIVRON, la fanteria di linea i generali CARASCOSA, D'AMBROSIO, GIUEPPE LECHI, ROSSETTI, il genio il COLLETTA, l'artiglieria il PEDRINELLI; capo di Stato Maggiore era il MILLET. L'esercito si mosse il 22 marzo, diviso in due colonne: una diretta verso le Marche, l'altra verso Roma. Pio VII che aveva rifiutato al re il permesso di passare attraverso lo Stato della Chiesa, all'avvicinarsi dei Napoletani riparo Viterbo, poi a Firenze e infine a Genova; ma il Murat non entrò in Roma e proseguì verso le Romagne. Giunto ad Ancona, il re fece dichiarare a Vienna che, marciando verso il Po, egli intendeva soltanto premunirsi da un eventuale attacco di Napoleone ! Ma l' imperatore FRANCESCO comprese che cercava di guadagnar tempo e non gli credette, anzi gli dichiarò guerra e firmò una convenzione con FERDINANDO, che, pagandogli venticinque milioni, riceveva la promessa di essere riposto sul trono di Napoli. Contenporaneamente anche l'Inghilterra si muoveva, rompeva l'armistizio e ordinava alla sua flotta di assecondare i movimenti del Borbone, il quale già si preparava a sbarcare nella terraferma dove si faceva precedere da bandi e proclami. Allora il Murat inalberò la bandiera dell' indipendenza, quella bandiera, che, innalzata cinque mesi prima, avrebbe fruttato alla sua impresa il prezioso concorso dell'esercito dell'ex-regno italico, e di tutti i patrioti, il 30 marzo, da Rimini, lanciò il famoso proclama: IL PROCLAMA DI RIMINI DI MURAT il congresso di vienna ". Italiani ! E' giunta l'ora in cui si debbono compiere gli alti destini d' Italía. Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Sicilia si ode un grido solo: "l'indipendenza dell' Italia !" E a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto e primo bene d'ogni popolo ? A qual titolo signoreggiano nelle vostre più belle contrade? A qual titolo si appropriano delle vostre ricchezze per trasportarle in regioni ove non nacquero? A qual titolo finalmente vi strappano i figli, destinandoli e servire, a languire, a morire lungi dalle tombe degli avi ? Invano dunque levò per voi la natura le barriere delle Alpi? Vi circe invano di barriere più insormontabili ancora, la differenza di linguaggi e de' costumi, l' invincibile antipatia dei caratteri ? No, no. Sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero. Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli di oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non aver più padroni. Ogni nazione deve contenersi nei limiti che le diede la natura. Mari e monti inaccessibiili, ecco i limiti vostri. Non aspirate mai ad oltrepassarli, ma respingetene lo straniero che li ha violati, se non si affretta di tornare ne' suoi. Ottantamila Italiani degli Stati di Napoli marciano comandati dal loro re, e giurano di non più domandare riposo, se non dopo la liberazione dell' Italia. E' già provato che sanno essi mantenere quanto giurarono. Italiani delle altre contrade, assecondate il magnanimo disegno. Torni alle armi deposte chi le usò tra voi, e si addestri ad usarle la gioventù inesperta. " Sorga in sì nobile sforzo chiunque ha cuore ed ingegno, e snodando voce, parli in nome della patria ad ogni petto veramente italiano. Tutta insomma spieghi, ed in tutte le forme, l'energia nazionale. Trattasi di decidere se l' Italia dove esser libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio. " La lotta sia decisiva, e vedremo assicurata lungamente la prosperità di una patri sì bella, che lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere. Gli uomini illuminati di ogni contrada, le Nazioni intere degne d'un governo liberale, i Sovrani che si distinguono per la grandezza di carattere, godranno della vostra intraprendenza, ed applaudiranno al vostro trionfo. Potrebbe non applaudirvi l' Inghilterra, quel modello costituzionale, quel popolo libero, che vanta e si gloria di combattere e di profondere i suoi tesori per l' indipendenza delle nazioni? " Italiani, voi foste lunga stagione sorpresi di chiamarci invano; voi ci tacciaste di inazione, allorché i vostri voti ci suonavano intorno da ogni parte. Ma il tempo opportuno non era ancora venuto; non per questo aveva io fatto prova della perfidia de' vostri nemici; e fu utile che l'esperienza smentisse le bugiarde promesse, di cui vi erano sì prodighi i vostri antichi dominatori, nel riapparire tra voi. Esperienza pronta e fatale ! Me ne appello a voi, bravi ed infelici italiani di Milano, di Bologna, di Torino, di Venezia, di Brescia, di Modena, di Reggio e d'altrettanti illustri ed oppresse regioni. Quanti prodi guerrieri e patrioti virtuosi svelti dal paese natio ! Quanti gementi tra i feriti! Quante vittime d'estorsioni ed umiliazioni inaudite! Italiani! riparo a tanti mali. Stringetevi in salda unione, ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una Costituzione degna del secolo che a voi garantisca la vostra libertà e prosperità interna, appena che il vostro coraggio, avrà garantita la vostra indipendenza. " Io chiamo d'intorno a me tutti i bravi per combattere; io chiamo quelli a me pari che hanno profondamente meditato sugli interessi della loro patria, alfine di preparare e disporre la costituzione e le leggi che possono reggere la "felice Italia", "l' indipendente Italia.". Il proclama era bello e i veri patrioti fremettero nel leggerlo e s'illusero i poeti che finalmente fosse suonata per l' Italia l'ora fatidica della liberazione; ma le moltitudini, sfiduciate da tante promesse non mantenute, scettiche intorno alle sorti della penisola, diffidenti, e non a torto, verso quanti per il proprio interesse si appellavano all' indipendenza, stanche da molti anni di guerre, rimasero indifferenti all'appello del re di Napoli, il quale non vide venire sotto le sue bandiere che poche centinaia di volontari, gente, i più (credendolo sincero) che avevano militato sotto le insegne napoleoniche. Le prime operazioni del Murat nelle Romagne furono felici. A Cesena il generale CARASCOSA, che comandava l'avanguardia dell'esercito napoletano, venne a battaglia con gli Austriaci e li sconfisse, quindi si spinse fino a Bologna, ne scacciò il generale austriaco BIANCHI, lo costrinse a ripiegare su Modena e lo inseguì fin sulle rive del Panaro. Il 2 aprile il re Gioacchino entrava a Bologna e il giorno dopo emanava un decreto con il quale istituiva nel distretto di Ravenna e nei tre dipartimenti del Reno, del Basso Po e del Rubicone un commissario civile incaricato di presiedere all'amministrazione. A reggere il commissariato il Murat chiamò il prof. PELLEGRINO ROSSI, che subito anche lui lanciò un altro patriottico proclama: ".Il tempo dell'inazione e del sommesso lamentarsi e quasi disperarsi è cessato. L'Eroe, a cui tutti eran volti gli sguardi degli Italiani, ne esaudì i caldi voti. Circondato da prodi, volò fra noi, levò altissimo il grido della nazionale indipendenza; Egli di schiavi vuol farne italiani. Potremmo noi non accorrere alla voce del Grande che ci vuol salvi? Di Lui, che con l' invitta sua destra vuol toglierne quella macchia che da tanti secoli ne disonorava? Chi non fremeva di noi, se scintille pur gli restava di santo fuoco italiano, al vedere l'orgoglio straniero passeggiare minaccioso e sprezzante per le nostre belle contrade, e noi calpestare, noi d'ogni maniera opprimere e vilipendere, e a noi insultare come a schiavi nati per esserlo e incapaci di non. esserlo ?... " E il proclama si chiudeva con il grido: "Viva il Re Gioacchino ! Viva l'Italia !" Quello di PELLEGRINO ROSSI non fu il solo proclama; altri se ne fecero e tutti avevano lo stesso scopo, quello di scuotere gli Italiani e farli accorrere alle armi. Il 5 aprile i colonnelli CASPI e PAIELLA, i maggiori RICCARDI, BARBIERI, FERRI e sei capi-battaglioni. veterani delle guerre napoleoniche, rivolgevano un appello ai loro compagni di armi. ". vostri capi, i compagni, gli amici vostri, sono quelli che ora vi chiamano. Udite la loro voce, o valorosi soldati! Quella voce che altamente vi risuonava un giorno nelle campagne di Germania, Spagna, Polonia, Moscovia, quando a un grido animatore correvate con noi alle vittorie, allo sterminio dei nemici, la stessa voce vi chiama e vi grida: accorrete! Non marceremo in lontane regioni, non affronteremo climi perversi, a difendere l' interesse di uno straniero; resteremo in Italia, e dall'Italia cacceremo ogni straniero .... Se a tanto vi sprona l'amore di libertà, se l'onorata impresa per voi avvenga, vi ridonerete dopo ai vostri focolari, vi rivedrete in seno alle vostre famiglie.. pacificamente vivrete. Allora, quasi obliando i primi da voi riportati trionfi, ambirete di ricordare questo solo, il massimo, l'ammirevole, l'immortale: noi fummo i liberatori della patria." . A rendere più efficace l'appello dei veterani il re Gioacchino con decreto del 9 aprile richiamava in servizio i soldati dell'ex-regno italico con il grado da loro ricoperto e con promessa di rapidi avanzamenti, ed esentava le famiglie dei militari tornati in servizio dall'intera contribuzione personale per il periodo almeno di tre anni e per tutto il tempo in più in cui sarebbero rimasti sotto le armi. Contemporaneamente si decretava l' istituzione della coccarda italiana dai colori amaranto e verde, e il presidente della Commissione di Guerra, ARCOVITO, pubblicava a Bologna un manifesto: " Italiani, all'armi ! Questo grido che mosse dai confini più meridionali d'Italia si ripeta e rimbombi fino alle Alpi, ed infiammi di santo entusiasmo ognuno che nemico non sia della gloria e dell'onore nazionale ." Le operazioni di guerra intanto continuavano. Gli Austriaci si erano ritirati dietro il Panaro ed avevano munito di poderose artiglierie la testa di ponte di Sant'Ambrogio. Il 4 aprile, mentre un battaglione di Napoletani cercava di passare il fiume a Spilamberto per prendere di fianco il nemico, il re Gioacchino giunto al campo, ordinò che il suo esercito assalisse frontalmente le posizioni avversarie. Il ponte di Sant'Atnbrogio fu allora teatro di una lotta epica: i Napoletani si lanciarono all'assalto del ponte con furia straordinaria, ma furono respinti, tornarono all'attacco ma furono ancora ributtati indietro e così parecchie altre volte. Alla fine si slanciò alla carica, alla testa di un reggimento di cavalleria, il generale FILANGERI, e riuscì a passare il ponte con ventiquattro dei suoi, ma circondati da una folla di Austriaci, si difesero eroicamente poi caddero tutti accanto al loro generale, mentre il Murat, partito in soccorso, assaliva, con tanta furia i Tedeschi da costringerli alla ritirata. In quella battaglia ottomila Napoletani, perdendo settecento uomini, avevano sconfitto e sloggiato da una posizione fortissima dodicimila Austriaci, causando loro la perdita di mille e duecento soldati. Nei giorni seguenti gli Austriaci continuarono a ritirarsi e i Napoletani si impadronirono di Modena, di Reggio, di Cento, di Ferrara e altre cittadine e paesi, presentandosi davanti ad Occhiobello e a Borgoforte dove il nemico aveva costituito due fortissime teste di ponte sul Po. Intanto il BELLEGARDE ammassava truppe alla sinistra del fiume e il 5 aprile lanciava un proclama, in cui accusava il re di Napoli di volere accendere dappertutto, mediante il vano simulacro dell' indipendenza italiana, l' incendio devastatore della rivoluzione, che gli spianava le vie della potenza per salire dalla condizione di privato a quella di sovrano . "Non meno straniero dell' Italia - continuava il proclama - che nuovo nell'ordine dei sovrani, egli volge con ostentazione agli Italiani parole che appena si addirebbero ad un Alessandro Farnese, ad un Andrea Doria, ad un Trivulzio il Grande; e si dà per capo della nazione italiana; la quale pure possiede proprie dinastie, regnanti da secoli, ed ha veduto nascere nelle più liete sue contrade tutta l'augusta famiglia, che regge con il paterno suo freno un sì gran numero di nazioni. E questo re dell'estremità dell' Italia vorrebbe traviare gli Italiani con la speciosa idea dei naturali confini e farli correr dietro al fantasma di un unico regno, cui sarebbe appena possibile assegnare una capitale: tanto è vero che la natura stessa vuol che l' Italia sia partita in più stati; ammaestrandoci con ciò, non dall'ampiezza del territorio, non dal massimo numero della popolazione, non dalla forza dell'armi assicurata essere la felicità dei popoli; ma piuttosto dalle buone leggi, dalla reverenza degli antichi costumi e dallo stabilimento di una parca amministrazione. Ond' è che la Lombardia ricorda tutt'ora con sensi di ammirazione e di gratitudine i nomi immortali di Maria Teresa, di Giuseppe II e di Leopoldo ." Il giorno 7 aprile il re Gioacchino fece assalire la testa di ponte di Occhiobello, ma la resistenza nemica fu salda; il giorno dopo per sei volte i Napoletani tornarono all'assalto, ma non sostenuti dalle grosse artiglierie che non gli erano ancora giunte, furono sempre respinti. La sera dell' 8 il Murat si recò a Bologna e lì gli giunsero notizie dalla Toscana dove da Perugia aveva mandato seimila uomini della Guardia Reale con i generali PIGNATELLI-STRONGOLI e LIVRON per conquistare il paese e riunirsi poi al grosso dell'esercito per l'Appennino modenese. Questo corpo aveva occupato Firenze ma poco dopo n'era stato cacciato dalle truppe austriache del NUGENT, cui s'erano unite quelle granducali, e quindi si trovava a mal partito. Il re ordinò alle truppe distaccate in Toscana di ritirarsi a Pesaro attraverso Perugia e Foligno. Intanto non meglio andavano le operazioni sulla linea del Po, dove gli Austriaci ricevuti grandi rinforzi, passavano all'offensiva. Uno dei loro primi obiettivi fu Carpi, presidiata dal generale GUGLIELMO PEPE con tremila uomini. Accanito fu il combattimento e in un primo tempo positivamente per i Napoletani tali da respingere il nemico con gravi perdite, ma, ritornati gli Austriaci con forze fresche e soverchianti, il Pepe fu costretto a ritirarsi e, dietro di lui, tutte le truppe napoletane, ch'erano sotto gli ordini del CARASCOSA, abbandonate Reggio e Modena, ripiegarono dietro la linea del Panaro. Il 15 aprile questa linea fu forzata dagli Austriaci, cogliendo i Napoletani alla sprovvista; questi dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni di Spilamberto. Allora il re Gioacchino ordinò la ritirata di tutto l'esercito su Lugo, Forlì e Ravenna, e la sera del 15 partì da Bologna, dove la mattina del giorno dopo, entrò l'avanguardia austriaca condotta dal conte di STAHREMBERG e, più tardi, il luogotenente generale d'armata STEFANINI e il tenente generale, comandante il secondo corpo austriaco, BIANCHI, il quale ristabiliva con pubblico bando ". i metodi di amministrazione pubblica, di finanza e di ogni altro qualunque articolo esistente al tempo del governo austriaco, rimanendo escluso qualunque funzionario eletto nel periodo murattiano.". Mentre veniva eseguito il movimento di ritirata, gli Austriaci, imbaldanziti, assalirono i Napoletani sulle sponde del Reno. Le truppe del re che erano fuggite da Spilamberto, volendo riabilitarsi, chiesero di combattere e dopo tre ore di scontri accaniti respinsero il nemico. Dopo questo combattimento la ritirata proseguì per un buon tratto senza che gli Austriaci, i quali in due colonne comandate dal Bianchi e dal Neipperg seguivano i Napoletani, osassero disturbarla; ma tra Cesena e Forlimpopoli, sulle rive del Ronco, i regi furono improvvisamente assaliti di notte; anche se sostennero con tanta bravura l'attacco tale da respingerlo nettamente dopo avere inflitto alle truppe del Neipperg grosse perdite . Un altro combattimento con esito favorevole agli Italiani avvenne a Cesenatico tra gli Austriaci e un reparto regio di circa duemila uomini comandato dal generale NAPOLETANI. Il 3o aprile l'esercito del Re Gioacchino, ridotto a ventiquattromila uomini, si trovava accampato tra Ancona e Macerata; il Neipperg occupava con tredicimila austriaci Fano e Pergola e aveva per obiettivo Jesi; il Bianchi invece, che mirava a Macerata, aveva i1 quartier generale a Tolentino e occupava con ventimila uomini Camerino, Materica,, Fabriano e Monte Milone. Il re di Napoli, persuaso che un'ulteriore ritirata avrebbe abbassato maggiormente il morale delle sue truppe e ne avrebbe assottigliato il numero, decise di affrontare separatamente le due colonne nemiche e di sbaragliarle prima che si inoltrassero nel regno. Il suo piano era: assalire con sedicimila uomini il corpo del Bianchi e, sconfittolo, farlo inseguire da ottomila dei suoi, quindi con gli altri ottomila unirsi al resto dei Napoletani rimasti sotto il comando del Carascosa e dare addosso al corpo del Neipperg. Il 12 maggio, il re Gioacchino, lasciato il generale Carascosa a fronteggiare con ottomila soldati il Neipperg sulle rive del Cesano, assalì col resto dell'esercito le posizioni del Bianchi e ad una ad una le prese d'assalto spingendo il nemico verso Tolentino. La sera interruppe la battaglia, che fu ripresa il giorno dopo. Si distinsero per il loro valore i reggimenti della Guardia Reale napoletana, che, assalito con impeto il nemico, lo scacciarono da alcune colline, e, quando gl'imperiali tornarono al contrattacco, seppero con grande bravura mantenere le posizioni occupate. La giornata sarebbe senza dubbio finita con la vittoria dei regi se fossero giunti a tempo quattromila uomini che si trovavano di riserva in Macerata; ma nonostante questo sul fare della sera, quando la battaglia fu interrotta neppure gli Austriaci potevano dire di aver vinto. Durante la notte gravi notizie giunsero al Murat dal regno: il generale francese MONTIGNY, lasciato negli Abruzzi; scriveva che il NUGENT con dodicimila Austriaci aveva espugnato Antrodoco ed Aquila ed era ormai padrone di tutta la regione; il ministro della guerra, poi annunciava che il nemico era comparso sul Liri e che tumulti erano scoppiati in Calabria. La verità era invece diversa: i dodicimila uomini del Nugent non erano che cinquemila e Antrodoco ed Aquila erano state occupate solo perché il Montigny, malgrado fosse più forte, era fuggito senza battersi; sul Liri poi i Tedeschi non erano ancor giunti, anzi il generale Manhes, che guardava da quel lato il confine, aveva invaso lo stato romano, occupando Ceprano, Veroli e Frosinone. Ma il re Gioacchino, impressionato da quelle notizie, ordinò quella stessa notte la ritirata. Questa dapprima, sebbene molestata dagli imperiali , fu eseguita con ordine: si mutò poi in rotta a causa delle piogge, della fatica, della mancanza dei viveri, della indisciplina e dello sconforto di capi e gregari. Molti soldati, dopo che essere entrati nei confini del regno, disertarono e se ne tornarono alle loro case. E intanto l'Abruzzo, il Molise, la Capitanata e la Terra di Lavoro gli si ribellavano e tornavano all'obbedienza di Ferdinando; gli Austriaci, penetrati nel regno, cingevano d'assedio Capua e accoglievano il principe Leopoldo, secondogenito della Casa di Bordone, che assumeva la carica di Reggente; e infine il commodoro inglese CAMPBELL con due vascelli e due fregate spadroneggiava nel golfo di Napoli e con la minaccia di bombardare la capitale faceva sì che la regina Carolina, spaventata dal rumoreggiar della plebe, stipulasse una convenzione con la quale consegnava agli Inglesi il navigli napoletano, teneva sequestrati negli arsenali gli attrezzi e le armi e veniva assicurata di esser trasportata con i figli in Francia. Questa convenzione, che per la parte riguardante il trasporto della regina non fu poi riconosciuta dall'ammiraglio Exmouth, fu segnata l' 11 maggio. Contemporaneamente il Murat, sperando d'ingraziarsi i sudditi, spediva da Pescara a Napoli perché Ari fosse promulgato con la data del 30 marzo, uno statuto costituzionale. Questo però non potè esser pubblicato e diffuso che il giorno 18 maggio, quando gli avanzi dell'esercito, battuti a Mignano il 17, non erano più capaci di contenere il nemico. Il 18 maggio Gioacchino conferì incarico ai generali CARASCOSA e COLLETTA di trattare con il nemico. Le trattative avvennero alla Casa Lanza, presso Capua, e si chiusero il 20 con una convenzione sottoscritta dai due generali napoletani, dai generali austriaci BIANCHI e NEIPPERG e da lord BURGHERSH, rappresentante britannico. Il 21 doveva esser consegnata agli Austriaci la fortezza di Capua, il 23 Napoli, quindi tutto il resto dei regno ad eccezione di Gaeta, Pescara ed Ancona; alle truppe che uscivano dalle fortezze dovevano essere resi gli onori militari; garantito doveva essere il debito pubblico, mantenuta la vendita dei beni dello Stato, conservata la nuova e l'antica nobiltà, confermati nei gradi, onori e pensioni i militari che passassero al servizio di Ferdinando giurandogli fedeltà. A questi patti i generali austriaci aggiunsero che il Borbone accordava perdono ai sudditi che avevano agito contro di lui e che, dimenticate le trascorse vicende, ogni napoletano potesse aspirare agli uffici civili e militari. L' imperatore Francesco consolidava il trattato con la sua formale garanzia. Due giorni dopo la conclusione del trattato, Gioacchino si recò ad Ischia e di là fece vela verso la Francia. La plebaglia della capitale, sperando nel saccheggio forse, si diede a tumultuare, e la regina Carolina, che era rimasta come reggente, chiese ed ottenne che il CAMPBELL mandasse trecento marinai a tutelare l'ordine insieme con le truppe del presidio. Quel giorno stesso (22), essendosi rinnovati i tumulti, furono chiamati da: Capua alcuni squadroni di usseri austriaci. La sera del 22, Carolina, insieme con i ministri Agar, Magdonald e Zurlo, monto a bordo di una nave inglese; il giorno dopo il principe Leopoldo, alla testa delle truppe austriache entrava a Napoli: ". E poiché - scrive il Colletta - per corrieri, per telegrafi per fama gli avvenimenti di Casa Lanza e di Napoli furono in quei giorni medesimi, divulgati ed il mutato governo in ogni luogo riconosciuto e festeggiato, tutte le apparenze scomparvero del regno di Gioacchino, nomi, immagini, insegne: solamente la regina prigioniera sul vascello stava ancora nel porto, spettacolo e spettatrice della sua miseria." CAROLINA infatti dovette, il 23 stipulare una nuova convenzione, e obbligarsi con l'Austria e l' Inghilterra a deporre il titolo di regina e trasferirsi a Trieste, da dove non si sarebbe mossa senza il consenso di Vienna e Londra. Sotto il nome di contessa di Lipona, Carolina partì dalla capitale del regno ai primi di giugno, proprio quando FERDINANDO IV salpava da Messina alla volta di Napoli, in cui doveva fare il suo ingresso il 9 giugno del 1815 CONGRESSO DI VIENNA - ARTICOLI RIGUARDANTI L'ITALIA FERDINANDO DI BORBONE E IL REGNO DELLE DUE SICILIE LA SANTA ALLEANZA - FINE Di GIOACCIIINO MURAT Il giorno stesso che FERDINANDO IV di Borbone rientrava nella sua capitale, i plenipotenziari delle potenze europee, eccettuati quelli del Pontefice e della Spagna, firmavano l'atto finale del Congresso di Vienna, composto di centoventun articoli, di cui riportiamo solamente quelli che si riferiscono all'Italia. Articolo 80 -- Sua Maestà il re di Sardegna cede la parte della Savoia che si trova tra le riviere d'Arve, il Rodano, i limiti della Savoia ceduta alla Francia e la montagna di Salève fino a Veiry inclusivamente, più quella che si trova compresa tra la strada, grande detta del Sempione, il lago di Ginevra, l'attuale territorio del cantone di Ginevra, da Venezas fino al punto in cui il fiume Hermance traversa la strada suddetta, e di là continuando il corso di quella riviera fino al lago di Ginevra, a levante del villaggio d'Ermance (l' intera strada del Sempione continuerà ad esser posseduta da S. M. il re di Sardegna), perché quei paesi siano riuniti al cantone di Ginevra, salvo a determinarsi più precisamente i limiti dai rispettivi commissari, soprattutto per ciò che riguarda Veiry e la montagna di Salève, rinunziando la suddetta Maestà, in perpetuo, senza eccezioni né riserve, per sé e i suoi successori, a tutti i diritti di sovranità ed altri che possono appartenerle nei luoghi e territori compresi in quella designazione. Sua Maestà il re di Sardegna consente inoltre a che la comunicazione tra il cantone di Ginevra e il Vallese per la strada del Sempione sia stabilita nel modo stesso che la Francia l' ha accordata tra Ginevra e il cantone di Vaud per la strada di Versoy. Vi sarà ancora in tutti i tempi una comunicazione libera per le truppe ginevrine tra il territorio di Ginevra e il mandamento di Jussy, e saranno accordate le facilitazioni che potrebbero essere necessarie per giungere dal lago alla strada del Sempione. D'altra parte sarà concessa esenzione di qualunque diritto di transito a tutte le mercanzie e derrate che, venendo dagli stati sardi e dal porto franco di Genova, traverserebbero la strada del Sempione in tutta la sua estensione per il Vallese ed il Ginevrino. Questa esenzione si limiterà al transito e non si estenderà né ai diritti stabiliti per la manutenzione della strada, né alle mercanzie e derrate destinate ad essere vendute o consumate all' interno. Articolo 85 -- I confini degli .stati di S. M. il re di Sardegna saranno: dal lato della Francia quali esistevano il 1o gennaio 1792; ad eccezione dei mutamenti recati dal trattato di Parigi del 30 maggio 1814. Dal lato della confederazione Elvetica quali esistevano il 10 gennaio 1792, ad accezione del cambiamento avvenuto con la cessione in favore del cantone di Ginevra, contemplata nell'articolo 80. Dal lato degli stati di S. M. l' Imperatore d'Austria quali esistevano il 1° gennaio del 1792. La convenzione conchiusa tra Maria Teresa e il re di Sardegna il 4 ottobre 1751 sarà mantenuta in tutti i suoi stati. Dal lato degli Stati di Parma e Piacenza il confine, per ciò che riguarda gli antichi stati di S. M. il re di Sardegna, continuerà ad essere come si trovava al 1° gennaio 1792. I confini dei cessati Stati di Genova e dei paesi detti feudi imperiali, riuniti agli statî del re di Sardegna, secondo i seguenti articoli saranno quelli stessi che al 1° gennaio 1792 separavano questi paesi degli stati di Parma e Piacenza e quelli di Toscana e di Massa. L'isola di Capraia, quale possesso dell'antica repubblica di Genova, passa al re di Sardegna.
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STORIA D'ITALIA - IL CONGRESSO DI VIENNA - LA SANTA ALLEANZA

LA RIVOLUZIONE DEL QUARANTOTTO - CONGRESSO DI VIENNA
 
Il Congresso di Vienna
 

STORIA D'ITALIA IL QUARANTOTTO IN ITALIA ED IN EUROPA

L'ondata rivoluzionaria della seconda metà del diaciannovesimo secolo ebbe tutte le caratteristiche di una vera e propria rivoluzione europea. Nella primavera del 1848 la sollevazione diffusa dei popoli oppressi manifestò una carica collettiva di lotta e una volontà di emancipazione politica dallo straniero e dai regimi autoritari tanto matura e consapevole che i primi incerti e timidi tentativi insurrezionali degli anni Venti sembrano, rispetto ad essa, appartenere ad un'altra età della storia. Nelle rivoluzioni del 1848 si intrecciarono elementi vecchi e nuovi. Nei Paesi più progrediti economicamente ebbero certamente un peso di rilievo le nuove contraddizioni sociali legate all'affermazione della società industriale borghese; è il caso della Francia dove un prematuro scontro tra borghesia e proletariato sarà l'epilogo degli avvenimenti del '48. Nel resto d'Europa, a determinare quella che fu chiamata la primavera dei popoli, fu la lotta per abbattere le sopravvivenza delle strutture del vecchio mondo dominante, aristocratico e oppressivo (come nell'Impero austriaco) il cui prestigio venne irrimediabilmente leso.

IL CONGRESSO DI VIENNA

IL CONGRESSO DI VIENNA E LA SANTA ALLEANZA (1814-15) I) Dopo la caduta dell'Impero napoleonico, le potenze vincitrici (Austria, Russia, Inghilterra e Prussia) convocano un Congresso a Vienna per tre scopi: 1) reprimere le spinte di rinnovamento politico-sociale e le esigenze delle nazionalità che il rivolgimento napoleonico aveva sollevato in tanta parte d'Europa; 2) restaurare le legittime dinastie e le autorità tradizionali; 3) delimitare le nuove frontiere fra gli Stati, assicurando il contenimento della Francia e l'equilibrio europeo. La Francia inviò come osservatore il ministro Talleyrand, il quale però seppe impedire che il Congresso si trasformasse in una coalizione antifrancese. II) Talleyrand, infatti, approfittando del contrasto che divideva Russia e Prussia da Austria e Inghilterra (la Russia voleva la Polonia, mentre l'Inghilterra voleva impedirglielo; la Prussia voleva la Sassonia, ma l'Austria era contraria), affermò il principio di legittimità, secondo cui i territori europei dovevano ritornare a quei sovrani che per eredità vi avevano regnato prima del 1789. Questo principio ignorava volutamente quello della sovranità popolare, affermato dalla Rivoluzione francese. III) I risultati del Congresso furono i seguenti: 1) la Francia perse tutte le conquiste della Rivoluzione e di Napoleone e dovette accontentarsi dei confini anteriori al 1790. Ritorna al trono la dinastia dei Borbone con Luigi XVIII (1814-1824). 2) L'Impero d'Austria, sotto Francesco I d'Asburgo (1806-1835), già imperatore del Sacro Romano Impero col nome di Francesco II (1792-1806), rinuncia ai Paesi Bassi in favore dell'Olanda, ma riottiene tutti i territori perduti nel conflitto con la Francia. L'Impero è molto vasto: oltre all'Austria vi è il Trentino e l'Istria, il Lombardo-Veneto e la Dalmazia, regioni polacche della Galizia e Bucovina, poi la Boemia, l'Ungheria e la Croazia. L'Austria era anche a capo della Confederazione germanica costituitasi sulle rovine dei 360 organismi politici che fino al 1806 avevano formato il Sacro Romano Impero. La nuova Confederazione comprende ora 39 Stati, tutti indipendenti e sovrani, rappresentati da una Dieta centrale a Francoforte (vi erano i regni di Hannover, Sassonia, Baviera, Württemberg, città come Amburgo, Francoforte, Lubecca, Brema, e altri principati). 3) La Prussia, sotto la sovranità di Federico Guglielmo III di Hohenzollern (1797-1840), cede alla Russia quasi tutte le terre polacche acquistate dopo il 1793, ma acquista vari territori a ovest (Pomerania, Brandeburgo, Slesia, che fanno parte della Confederazione germanica). 4) La Russia, sotto lo zar Alessandro I Romanov (1801-1825), acquista dalla Slesia la Finlandia e dalla Turchia la Bessarabia, ottiene buona parte della Polonia. 5) L'Inghilterra non ebbe in Europa vantaggi rilevanti, ma entrò in possesso di molte colonie francesi e olandesi (Guiana, Ceylon...). 6) In Italia scompaiono le repubbliche di Venezia, Genova e Lucca. Il regno di Sardegna è restituito a Vittorio Emanuele I di Savoia (1802-21) che si annette la Liguria. Il regno Lombardo-Veneto passa all'Austria. Molti altri ducati vengono assegnati a dinastie imparentate con la Casa d'Asburgo (Parma, Piacenza, Modena, Reggio, Toscana, Lucca...). I regni di Napoli-Sicilia passano a Ferdinando I di Borbone, che diventa re delle Due Sicilie (1815-25), legato all'Austria da un trattato di alleanza militare. Lo Stato Pontificio venne restituito a Pio VII (1800-23). IV) Nel settembre 1815, lo zar di Russia, deluso dai modesti risultati ottenuti dal Congresso, riprende l'iniziativa politico-diplomatica stilando un documento che auspicava forme di collaborazione internazionale (a livello dei sovrani) sulla base della comune matrice cristiana della civiltà europea. Nasce così la Santa Alleanza, cui aderiscono la maggior parte delle potenze europee. Rifiutarono di firmare il documento sia l'Inghilterra, perché era contraria a un'eccessiva influenza della Russia nella politica europea, sia lo Stato Pontificio, che non poteva vedere con simpatia il legame tra un sovrano ortodosso (lo zar), un imperatore cattolico (austriaco) e un sovrano protestante (prussiano). L'Austria invece si servì dell'Alleanza per far accettare ai paesi che l'avevano sottoscritta la politica dell'intervento, secondo cui ogni Stato doveva sentirsi autorizzato a intervenire ovunque scoppiassero moti rivoluzionari e spinte all'indipendenza delle nazionalità oppresse. V) Il periodo che va dal Congresso di Vienna alla Rivoluzione parigina del 1830 (che rilancia l'esperienza liberale su scala europea), venne chiamato col termine di "restaurazione" (di autorità presunte legittime ma, più in generale, di aspetti conservatori della vita pubblica). Si afferma così l'Europa legittimista. In Italia la restaurazione è portata avanti non solo dall'Austria, ma anche dai Savoia, Borbone e Stato pontificio. Quest'ultimo ristabilì l'ordine dei gesuiti, chiese ai governi che l'istruzione pubblica fosse restituita al monopolio delle scuole confessionali, ottenne che ogni attività culturale fosse sottoposta a preventiva censura ecclesiastica, che la stampa e la diffusione di opere proibite dalla Congregazione dell'Indice venissero perseguite dal potere giudiziario come reati civili, soppresse il codice napoleonico e ricostituì il tribunale dell'Inquisizione. L'ETA' DELLA RESTAURAZIONE I) Nonostante questi tentativi di capovolgere il movimento della storia, nessuna forza reazionaria, monarchica e aristocratica, era in grado di distruggere il nuovo sistema capitalistico più progredito, affermatosi prima in Inghilterra, in Francia, in diversi paesi europei e anche negli USA. Il capitalismo si sviluppava con successo sostituendo il lavoro manuale con quello delle macchine, l'artigianato e la manifattura con le fabbriche: nelle campagne liquidava i rapporti feudali e la servitù della gleba. Tutto ciò, entrando in palese contraddizione col dominio della nobiltà, dei principi, degli imperatori e del clero, determinò la nuova ripresa del movimento rivoluzionario borghese negli anni '20 del sec. XIX. II) In Italia la borghesia, frantumata nei vari piccoli Stati, non aveva campo d'azione. La vita interna degli Stati italiani era caratterizzata da strutture proprie di una società preindustriale. L'intensificazione dei traffici coi mercati d'oltralpe (era aumentata la richiesta di seta e cotone nonché di generi alimentari pregiati) rendeva ancor più evidenti le nostre condizioni di arretratezza. L'Italia rischiava d'essere tagliata fuori dagli sviluppi del capitalismo industriale dell'occidente europeo. Produttori e commercianti chiedevano: unificazione doganale e creazione di un organico e moderno sistema di comunicazioni interne. (Nei primi anni della Restaurazione furono soprattutto gli scrittori romantici a intraprendere un'opera di sprovincializzazione della cultura italiana, inserendola nel più vasto moto del Romanticismo europeo). LA RIVOLUZIONE DI FEBBRAIO IN FRANCIA Nel corso degli anni la monarchia di Filippo d'Orleans, che aveva conquistato il potere nel 1830, aveva sempre più acuito il suo carattere antioperaio e antidemocratico; ciò era avvenuto malgrado la politica di compromesso (detta del "giusto mezzo") attuata dal ministro Guizot, che finì per scontentare sia l'alta borghesia finanziaria, corrotta e sfrenatamente affarista, sia la media e piccola borghesia e, principalmente, i ceti operai. Questi ultimi vennero di fatto esclusi politicamente e costretti alla disoccupazione e alla fame; infatti la politica inflazionistica e corrotta dei gruppi al potere aveva provocato una profonda crisi economica che investiva la produzione industriale. L'opposizione delle masse piccolo - borghesi e operaie si muoveva rivendicando una riforma elettorale a suffragio universale e non più ristretta ai possidenti e ai ricchi borghesi. La rivoluzione scoppiò il 22 febbraio 1848 proprio a seguito di un divieto, da parte delle forze dell'ordine, di una manifestazione per la riforma elettorale. Come nelle tradizioni della storia francese dalla grande rivoluzione in poi, in pochi giorni Parigi fu in mano al popolo; in testa all'insurrezione questa volta erano le forze repubblicano - radicali e socialiste. Il vero protagonista della rivoluzione che combatté nelle piazze fu il proletariato cittadino, che aveva già una sua espressione politica nel partito socialista. Si formò un governo provvisorio con socialisti, radicali, repubblicani moderati che proclamò la "Repubblica Sociale". Al centro dei problemi si pose quello del lavoro; i primi decreti ufficiali riguardarono infatti la riduzione della giornata lavorativa a 10 ore, l'allargamento del diritto di voto a tutta la popolazione maschile, l'abolizione della pena di morte per i reati politici. Il governo provvisorio fece il primo esperimento di collaborazione governativa tra borghesia e proletariato, il quale era rappresentato al governo dal deputato socialista Louis Blanc e dall'operaio Alexandre Martin detto Albert. Ben presto però questa possibilità di programma e di azione comune si rivelò impraticabile. Per i problemi del lavoro si formò una commissione specifica, la Commissione del Lussemburgo, presieduta da Blanc e Albert, che così vennero allontanati dal governo di cui facevano parte; gli "ateliers nationaux" (fabbriche nazionali), speciali organismi che avrebbero dovuto occuparsi del problema dell'occupazione, si ridussero a degli uffici di collocamento in grado soltanto di dare assistenza o lavori precari ai disoccupati. In realtà l'apparato dello Stato e le leve del potere economico restavano interamente nelle mani dei borghesi moderati, ed in questa situazione le rivendicazioni operaie e la Commissione del Lussemburgo apparvero presto come elementi di turbamento rispetto ai compiti, non certo facili, della creazione di una repubblica borghese. La paura del comunismo si fece viva anche tra le forze democratiche creando un clima politico che portò all'Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, una maggioranza di repubblicani di destra. Questi ultimi furono eletti soprattutto con i voti dei contadini piccolo - proprietari, cui un'abile propaganda borghese e clericale aveva prospettato il pericolo della perdita della loro proprietà sulla terra. Per questi motivi la Repubblica Sociale venne liquidata dalla Seconda Repubblica, costituita nel novembre 1848. I socialisti furono, in seguito ad una legge speciale, esclusi dal governo e gli "ateliers nationaux" chiusi. Le condizioni politiche resero inoltre possibile quella sanguinosissima repressione militare che, diretta dal generale Eugène Cavaignac, soffocò nel sangue l'insurrezione operaia del giugno 1848, lasciando sulle piazze migliaia di morti. Tremila operai furono fucilati senza processo, i centri organizzativi del movimento furono dispersi. La Repubblica francese imboccava così la strada della involuzione autoritaria che avrebbe portato per la seconda volta in Francia all'affermazione del potere personale di un capo. DALLA REPUBBLICA ALL'IMPERO Luigi Napoleone, nipote del grande Bonaparte, fu eletto presidente della Repubblica nel dicembre del 1848. Portato a rappresentare la Repubblica dalla borghesia moderata e conservatrice, dai contadini e dagli ambienti militari, che vedevano in lui l'uomo capace di riportare l'ordine e la tranquillità sociale, in pochissimi anni egli trasformò la repubblica borghese in un regime dittatoriale basato fino all'ultimo su un largo consenso sociale. Le tappe di questa ascesa al potere di Bonaparte furono: - l'intervento militare del 1848 contro la Repubblica Romana sorta, come vedremo, durante la prima guerra per l'indipendenza italiana, intervento deciso autonomamente da lui contro la volontà del Parlamento. - la promulgazione di una nuova Costituzione, in seguito ad un plebiscito del dicembre 1851, secondo la quale i poteri del presidente diventavano decennali e tali da controllare tutti gli altri organi statali; si trattava di un colpo di stato, simile a quello compiuto il 18 brumaio da Napoleone i con il quale questi aveva distrutto la Repubblica del 1793; - l'istituzione dell'Impero ereditario, con una deliberazione del Senato e un nuovo plebiscito del 2 dicembre del 1852 con cui assumeva il titolo di Napoleone III, "imperatore dei Francesi per grazia di Dio e volontà della nazione". LE RIVOLUZIONI IN EUROPA I moti insurrezionali del 1848 non ebbero le stesse motivazioni e gli stessi obiettivi nei vari stati europei. In Francia, dove l'ordinamento dello Stato era monarchico - costituzionale, prevalsero idee repubblicane e socialiste; dove invece le condizioni politiche ed economiche erano più arretrate, come in Germania, Austria, Italia, Ungheria, si mirò a strappare ai governi assoluti la costituzione o a realizzare l'unificazione e l'indipendenza nazionale. In Germania, allo scoppio dei moti in diverse città, i principi si affrettarono a concedere la costituzione e la libertà di stampa. I liberali tedeschi convocarono un'assemblea di rappresentanti eletti da tutti gli Stati della Confederazione che si riunirono nel Parlamento di Francoforte. Nel regno di Prussia intanto, da dove era già partito con la costituzione della lega doganale nel 1834 un processo di unificazione economica degli Stati tedeschi, i liberali esercitarono pressioni sul sovrano Federico Guglielmo IV affinché abbandonasse il suo regime autoritario tradizionale e facesse assumere allo Stato prussiano il ruolo di Stato guida per l'unificazione nazionale delle popolazioni tedesche. Il sovrano, che era stato costretto a concedere alcune riforme costituzionali, rifiutò energicamente l'offerta del trono della Germania unita che gli fece il Parlamento di Francoforte, nel momento in cui trionfava la rivoluzione a Berlino e gli Austriaci erano in ritirata. La concezione del potere autoritaria e illiberale del re prussiano fece fallire questa possibilità di unificazione della Germania. Federico Guglielmo non avrebbe infatti mai potuto accettare una corona offertagli da un parlamento eletto dal popolo come quello di Francoforte ed era inoltre troppo nazional -prussiano per potere concepire uno Stato germanico. Al rifiutò del sovrano il Parlamento di Francoforte non riuscì a continuare la sua attività mancando al proprio interno di una unanimità di programma; venne così sciolto un anno dopo mentre l'egemonia austriaca riprendeva il sopravvento. Anche l'Impero austriaco venne profondamente scosso dai moti rivoluzionari del 1848. L'opera del Metternich crollò sotto i colpi delle insurrezioni scoppiate nelle più importanti città dell'Impero. Vienna, Praga, Budapest, Milano insorsero coinvolgendo le popolazioni limitrofe delle campagne. All'imperatore Ferdinando I, costretto a licenziare il suo braccio destro Metternich, venne imposta la costituzione liberale. Ma i colpi più duri all'Impero asburgico vennero dai popoli che rivendicavano l'autonomia nazionale, come gli Stati tedeschi e il Lombardo - Veneto. LA PRIMA GUERRA PER L'INDIPENDENZA ITALIANA Tra le città europee insorte nella primavera del 1848, un posto di rilievo spetta a Milano e Venezia, le due grandi città del Lombardo - Veneto, dominio diretto degli Austriaci in Italia. Durante le gloriose Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo) la popolazione aveva cacciato le forze militari austriache. Lo stesso era avvenuto a Venezia il 17 marzo, e l'esercito imperiale, comandato dal maresciallo Radetzky, era stato costretto a ritirarsi nella zona tra Peschiera, Mantova, Verona e Legnago, il cosiddetto "Quadrilatero". L'insurrezione antiaustriaca nel Lombardo - Veneto mise in moto un vasto movimento liberale in tutto il territorio italiano che puntò concretamente, per la prima volta, all'unificazione e all'indipendenza. Al '48 l'Italia era arrivata dopo un biennio caratterizzato dalla rivendicazione nei vari Stati, da parte dei liberali, della riforma costituzionale. A dare l'avvio al processo riformista era stata l'elezione a pontefice del cardinale Giovanni Mastai Ferretti, che assunse il nome di Pio IX, nel 1846; egli infatti, appena eletto, sotto la pressione dei liberali romani aveva concesso una serie di riforme ad indirizzo liberale. L'esempio del pontefice ed il risveglio delle forze democratiche, che erano intanto cresciute grazie alla propaganda di Giuseppe Mazzini e dei suoi seguaci, indussero il re Carlo Alberto di Savoia (in Piemonte) e il granduca Leopoldo Il (in Toscana) a cedere sul problema costituzionale. Del tutto alieno dal concedere riforme restò Ferdinando II re delle Due Sicilie. E fu proprio a Palermo, nel suo regno, che scoppiò il primo moto rivoluzionario del '48 europeo. Il 9 gennaio la città insorse sotto la direzione di Giuseppe La Masa e Rosolino Pilo. L'insurrezione aveva carattere liberale, antiborbonico e separatista (nei confronti del rimanente territorio del Regno). Il 2 febbraio si formò infatti un governo provvisorio siciliano che dichiarava l'autonomia della Sicilia. Il fermento rivoluzionario si propagò fino a Napoli costringendo anche Ferdinando Il a concedere la Costituzione. Era questa la situazione in Italia quando giunsero le notizie delle insurrezioni nelle città dell'Impero austriaco. Nei ducati di Modena e di Parma i rispettivi sovrani furono costretti alla fuga. L'Italia settentrionale era così di fatto già in guerra contro l'Austria, una guerra popolare promossa dall'azione dei democratici. A questo punto, la necessità di condurre a fondo l'azione militare antiaustriaca, la preoccupazione dei liberali aristocratici e moderati nei confronti di questo moto popolare, l'esigenza sentita da tutti (anche dal repubblicano Mazzini) di un esercito regolare capace di fronteggiare quello austriaco e infine l'esigenza di dare un volto unitario alle lotte, fecero convergere l'attenzione di tutti i patrioti italiani verso il re di Sardegna Carlo Alberto. Appelli e pressioni furono rivolti da tutte le parti al sovrano sabaudo affinché si ponesse alla testa del moto d'indipendenza nazionale e dichiarasse guerra all'Austria. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarava la guerra e faceva muovere il suo esercito su Milano, quando la città era già stata liberata dai suoi cittadini. Eserciti regolari mandati dai sovrani giunsero da altri Stati italiani. Il moto popolare diventò cosi guerra regolare degli Stati federati italiani decisi a non lasciare il Piemonte solo contro l'Austria. Inoltre giunsero da ogni parte d'Italia combattenti volontari, studenti e intellettuali che accorsero numerosissimi fuori dalle file degli eserciti regolari. Le vittorie piemontesi a Goito e Pastrengo (9 e 30 aprile) coronarono questa prima fase della guerra caratterizzata da un grande entusiasmo e da una partecipazione unitaria dei sovrani e del popolo italiano. Ma le difficoltà non tardarono a venire. Interessi ancora troppo contrastanti si celavano dietro questo consenso unitario alla guerra. I principi italiani, che in fondo erano stati costretti dalle pressioni liberali a partecipare alla guerra, oltre che dalla loro volontà di non lasciare al Piemonte il possibile esito vittorioso della guerra, preoccupati dal carattere popolare che l'iniziativa continuava ad assumere e dal timore di fare in fondo il gioco degli interessi sabaudi, ritirarono le loro truppe regolari. Il primo fu il papa Pio IX che con l'allocuzione del 29 aprile dichiarava che al "padre di tutti i fedeli" non era lecito far guerra a uno Stato cattolico, qual era l'Austria. Leopoldo Il e Ferdinando Il seguirono il suo esempio e ritirarono le loro truppe. Il re delle Due Sicilie addirittura sciolse il Parlamento provocando sanguinose repressioni. Rimasto solo a fronteggiare la situazione, Carlo Alberto ritenne giunto il momento di rendere più decisa la sua linea politica dando il via alle annessioni al Regno di Sardegna dei territori sottratti all'Austria. La politica annessionistica piemontese creò profondi contrasti interni al fronte impegnato nella guerra. Le forze democratiche non potevano infatti più insistere sulla linea (adottata all'inizio delle operazioni militari) di rimandare a dopo la fine della guerra il problema dell'assetto politico da dare all'Italia. Il Piemonte spinse agli estremi la sua linea (volta all'ingrandimento territoriale del proprio Stato) rifiutando l'intervento dei volontari di Garibaldi e proseguendo le operazioni di guerra con grande incertezza e prudenza, preoccupato oltre misura di non dare spazio all'iniziativa popolare. Malgrado questa difficile situazione, a Curtatone e Montanara i volontari toscani bloccarono gli Austriaci, che venivano ancora battuti dall'esercito piemontese a Goito e dovevano abbandonare Peschiera. Fu però la sconfitta di Custoza (26 luglio) a segnare la fine della prima fase della guerra. Non volendo tentare un'immediata riscossa che solo l'intervento dei volontari ed una politica più aperta avrebbero potuto assicurare, Carlo Alberto si affrettò a chiedere l'armistizio all'Austria. Questo fu firmato il 9 agosto a Milano dal generale Salasco, per la parte piemontese, e dal maresciallo Radetzky, per la parte austriaca. RIPRESA, FINE E CONSEGUENZE DELLA GUERRA La ripresa della guerra nell'anno successivo avvenne in un momento sfavorevole alle forze democratiche di tutta Europa che cadevano sotto i colpi della reazione. La Repubblica francese abbandonava in quel momento le sue originarie istanze sociali dandosi un rigido volto autoritario con l'elezione di Luigi Napoleone. In Germania, a Vienna e a Praga gli eserciti austriaci avevano la meglio sulle ultime resistenze popolari, mentre l'Ungheria veniva piegata soltanto un anno dopo, con l'appoggio delle truppe russe venute in aiuto degli Austriaci. A Napoli Ferdinando aveva già imboccato la via della repressione. Nell'Italia settentrionale i democratici, fatti più sicuri dal fallimento della linea liberale moderata seguita dal Piemonte, riproposero con forza il problema della guerra, obbligando Carlo Alberto a riprendere le ostilità contro l'Austria. Ma in questa situazione internazionale, l'esito negativo era già segnato in partenza. Infatti alla sconfitta piemontese di Novara (21-23 marzo 1849) fecero seguito l'abdicazione del sovrano a favore del figlio Vittorio Emanuele Il e l'armistizio del 26 marzo. La Pace di Milano fu firmata, dopo difficili trattative, il 6 agosto. Tranne che in Toscana, dove gli Austriaci riportarono l'ordine e il granduca al potere, le roccaforti del movimento democratico, a Roma e a Venezia, continuarono a resistere. Saranno le truppe del generale Oudinot a piegare la Repubblica Romana definitivamente il 3 luglio 1849, dopo un mese d'assedio: in questo periodo la propaganda mazziniana e la presenza attiva di Mazzini e di Garibaldi avevano rafforzato il consenso del popolo, che diede splendidi esempi di eroismo nella difesa della città. I bombardamenti austriaci, la mancanza di generi alimentari e soprattutto un'epidemia di colera costrinsero poi anche Venezia alla resa, il 26 agosto. E così in tutta Italia si ritornò alla situazione politica precedente. Le libertà costituzionali vennero soppresse, tranne che nel Piemonte dove lo Statuto Albertino restò in vigore. Il dominio straniero tornò a gravare su buona parte della popolazione italiana. Il Quarantotto tuttavia portò ad una definitiva affermazione della causa unitaria e indipendentista, formò una coscienza nazionale e creò tutte le premesse per la continuazione in Italia della lotta risorgimentale. DAL 1848 AL 1859: PANORAMA EUROPEO I dieci anni che separano la prima dalla seconda guerra per l'indipendenza italiana furono anni d'intensa attività per tutte le forze politiche impegnate nella causa dell'unificazione nazionale. L'azione dei mazziniani che si continuavano a muovere secondo un'ipotesi democratico - insurrezionale, l'attività politico - diplomatica dello statista piemontese Camillo Benso di Cavour, i fermenti e le battaglie culturali, offrono un quadro della vita intellettuale e politica degli Italiani caratterizzata principalmente dalla crescita di uno spirito collettivo unitario. La situazione europea in cui si inserivano le vicende italiane era anch'essa in una fase di mutamento e progresso economico. Il sistema produttivo capitalistico, in piena fase espansiva, compì un ulteriore salto in avanti con la costruzione delle ferrovie e con lo sviluppo delle industrie metallurgiche. Le ferrovie, nel periodo che va dal 1850 al 1870, passarono da 38.568 chilometri a 190.000 chilometri, la produzione di carbone e ferro risultò triplicata. Nel clima politico di generale restaurazione seguito alle rivoluzioni del 1848, lo sviluppo degli avvenimenti francesi mutò gli equilibri tra gli Stati provocando nuovi conflitti. All'interno di questa fase di instabilità del quadro politico europeo, si inserivano le esigenze di indipendenza di Tedeschi e Italiani. Questi popoli riuscirono a portare a compimento il processo di unificazione nazionale grazie anche ad un'accorta politica di alleanze con altri Stati interessati a mettere fine all'egemonia austriaca. Come l'Italia, la Germania si trovava ancora frazionata in una serie di piccoli Stati indipendenti sotto la soggezione politica dell'Impero austriaco. Il regno di Prussia, il più forte militarmente ed economicamente tra gli Stati tedeschi, aveva assunto una posizione di rilievo già nel 1848. I liberali tedeschi videro nel sovrano di Prussia il possibile artefice dell'unità nazionale, così come i liberali italiani avevano fatto con il re di Sardegna. Ma, più autoritario e legato alla carica di sovrano che portava, Federico Guglielmo non accettò le pressioni liberali e non volle correre i rischi di una rivoluzione popolare che invece Carlo Alberto aveva corso. Il fallimento dell'ondata rivoluzionaria democratica del 1848 ridiede spazio sia in Germania che in Italia ad una possibilità di rivoluzione dall'alto che doveva riuscire, come vedremo, vincente. L'Italia e la Germania finirono per costituirsi in nazione rispettivamente intorno al Piemonte ed alla Prussia: l'impronta antidemocratica di questo processo di unificazione non fu priva di conseguenze e contraddizioni sia durante la fase politica di attuazione sia, soprattutto, nella fase successiva di sviluppo dei due nuovi Stati. Cavour e Bismarck, due statisti di notevole capacità politica, furono gli artefici dell'unificazione italiana e tedesca. MOVIMENTI INSURREZIONALI IN ITALIA In Italia, durante il decennio che stiamo esaminando, il trionfo della linea politica moderata di Cavour non avvenne senza contraddizioni e senza scontri interni al movimento per l'indipendenza. Fu questo il periodo in cui si fece più intensa l'attività dei democratici mazziniani. Mazzini aveva costituito nel 1850 un Comitato Nazionale Italiano che programmò e diresse una serie di iniziative insurrezionali. Caddero sotto la repressione austriaca numerosi patrioti mazziniani, impiccati a Belfiore tra il 1852 e il 1853. Gli insuccessi di questi anni non scoraggiarono i mazziniani i quali, al contrario, resero la loro azione più intensa. Sciolto il Comitato, nacque il Partito d'Azione (1853) col proposito di rendere più efficace l'azione insurrezionale. Ancora legate ad una visione della lotta politica tipicamente romantica (fatta di azioni esemplari e sacrifici individuali attraverso cui svegliare le coscienze popolari), queste iniziative continuarono a restare fatti isolati e quindi facilmente stroncate dalle forze al potere. In questo quadro si colloca la spedizione di Sapri. Il napoletano Carlo Pisacane, ex ufficiale dell'esercito borbonico, mazziniano fervente fino al 1849 si era staccato da Mazzini e si era via via convinto che non di ideali avesse bisogno il popolo, ma di lavoro, di pane, e che specialmente le masse contadine avessero bisogno di possedere quella terra che lavoravano per altri: "Il popolo - scriveva - sente i suoi mali e mormora nello scorgere il proprietario e il capitalista, oziando, godersi i frutti del lavoro del contadino e dell'operaio, mentre questi guadagnano frusto a frusto la vita. Il popolo più non accetta il suo stato. Il primo sentimento di disgusto per lo stato presente, che già comincia a palesarsi nel popolo, è il germe della futura rivoluzione italiana". Convinto che le masse contadine non avrebbero potuto non battersi per l'indipendenza e l'unità d'Italia in vista di una trasformazione sociale fondata su queste idee, nel 57 organizzò con pochi compagni una insurrezione a Sapri che fallì tragicamente per l'impreparazione di quelle popolazioni a comprendere le sue idee; i contadini, addirittura convinti che fossero sbarcati dei briganti, si unirono alla polizia per dare la caccia a Pisacane che, ferito e preso, si uccise, ed ai suoi compagni che finirono nelle carceri borboniche.

 
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