I MOTI CARBONARI DEL '20-'21
Il movimento rivoluzionario in Italia era guidato dai Carbonari, che si era
diffusi nel Sud del paese sin dall'epoca della dominazione francese. La
società dei Carbonari era un'organizzazione segreta e rigorosamente
cospirativa. Negli anni della restaurazione essa aveva costituito delle
sezioni non soltanto nel Regno Napoletano, ma anche nello Stato pontificio,
in Piemonte e in Toscana, a Parma, Modena e nel Lombardo-Veneto. Gli
appartenenti a questa organizzazione provenivano per lo più dalla borghesia,
dalla nobiltà liberale e dagli intellettuali progressisti. Il lato debole
dei Carbonari era la chiusura delle loro organizzazioni, l'assenza di legami
solidi con le grandi masse popolari, l'ignoranza del problema della terra.
Il profondo malcontento popolare scoppiò nel 1820, quando giunsero in Italia
le notizie sulla vittoria di alcuni moti rivoluzionari borghesi in Spagna,
che saranno poi repressi dalla Francia nel '23. Nel luglio 1820 un
reggimento al comando del generale Guglielmo Pepe diede il segnale della
rivolta, che trionfò rapidamente in tutto il Napoletano. Re Ferdinando fu
costretto a proclamare una Costituzione democratico-borghese simile a quella
spagnola.
Sennonché i dirigenti della rivoluzione napoletana, essendo borghesi, non
capivano le necessità e le aspirazioni del popolo, soprattutto quelle dei
contadini, che costituivano l'assoluta maggioranza della classe lavoratrice.
Gli insorti non seppero risolvere la questione agraria, cioè non ebbero il
coraggio di distruggere il latifondo, sottraendo così i contadini alle
influenze del clero. Così Ferdinando I, accortosi della debolezza interna
della rivoluzione, si appella alla Santa Alleanza, e nel febbraio 1821
l'esercito austriaco del Metternich ristabilisce l'ordine.
Mentre il regno Napoletano era occupato dalle truppe d'invasione, scoppia
nel marzo 1821 la rivoluzione in Piemonte, anch'essa guidata da esponenti
della nobiltà liberale, dalla borghesia e da ufficiali membri della
Carboneria. I liberali piemontesi speravano non nell'appoggio del popolo, ma
in quello di uno dei rappresentanti di Casa Savoia, Carlo Alberto. Il quale
infatti dichiarò di unirsi alla rivoluzione e annunciò la Costituzione. In
realtà egli cercava di conciliare gli interessi della sua dinastia con le
speranze dei progressisti. Di qui il suo atteggiamento ambiguo e la
decisione di abbandonare la rivoluzione nel momento decisivo. Nell'aprile
1821 i soldati austriaci restaurano il regime assolutistico in Piemonte.
I MOTI DEL 1831. MAZZINI E GIOBERTI
I moti rivoluzionari del 1831 furono stimolati dall'ascesa in Francia della
Monarchia liberale di Luigi Filippo d'Orleàns, che giurò fedeltà alla
Costituzione e che proclamò il principio del non-intervento. Ma, pur
essendoci una partecipazione più attiva della borghesia, anche i moti del
'31 non riuscirono a modificare le condizioni politiche italiane. Il motivo
era lo stesso dei moti del '20-'21: l'incapacità di attirare nella lotta
rivoluzionaria le masse contadine, affrontando la questione agraria. Tali
moti si svilupparono soprattutto nei Ducati padani (Modena, Parma, Bologna,
Reggio) e nelle Romagne (stato della chiesa). Furono tutte duramente
represse. I carbonari vennero traditi dal duca di Modena, Francesco IV
d'Este. Vittima più illustre: Ciro Menotti.
Il pensiero di Giuseppe Mazzini (1805-72). Col fallimento dei moti del '31
falliva anche la lotta rivoluzionaria di tipo settario, cospirativo, ch'era
rimasta estranea ai movimenti di opinione pubblica non solo per
l'inevitabile clandestinità dell'organizzazione, ma anche per la voluta
segretezza dei programmi politici. Rifiutato questo metodo, Mazzini
sottopose il proprio programma di rinnovamento nazionale, democratico e
repubblicano, al pubblico dibattito e ne fece uno strumento di educazione
popolare.
Mazzini era stato espulso dall'Italia nel 1830, dopo aver fatto parte della
Carboneria. Insieme ad altri emigrati politici fondò a Marsiglia
l'associazione della "Giovine Italia", che si poneva come compito
l'unificazione nazionale in una repubblica indipendente e
democratico-borghese, da realizzarsi con un'insurrezione rivoluzionaria
contro il dominio austriaco e il potere dispotico dei principi dei vari
Stati della penisola, in forza del quale nessuna esperienza di libertà era
possibile. Il programma, appoggiato dalle forze progressiste della piccola e
media borghesia e dagli intellettuali democratici, rappresentava un passo
avanti rispetto a quello dei carbonari, la maggior parte dei quali non
andava oltre la richiesta della monarchia costituzionale.
Tuttavia Mazzini non avanzò un programma di profonde riforme sociali, la cui
attuazione avrebbe potuto migliorare le condizioni dei contadini,
attirandoli nel movimento di liberazione nazionale. Mazzini, in particolare,
era contrario alla confisca dei latifondi e alla loro assegnazione ai
contadini. Non vedeva il popolo diviso in classi sociali contrapposte e
subordinava l'emancipazione socioeconomica al riscatto politico e
all'indipendenza nazionale. Il metodo dell'insurrezione (che constava
peraltro in una serie di complotti, ovvero in una guerra ristretta per
bande, diretta dall'estero e senza un vero coinvolgimento popolare) doveva
servire a liberare il popolo dalla servitù politica, mentre per il riscatto
dalla servitù sociale, Mazzini proponeva soluzioni conciliatorie (fra le
classi), moralistiche (prima di lottare per la giustizia l'operaio
dev'essere giusto), pedagogiche (con l'educazione, la persuasione ragionata
ognuno si convince dei propri torti).
Fra i sostenitori iniziali del Mazzini si distinse Giuseppe Garibaldi
(1807-82), il quale però, dopo essere stato condannato a morte per aver
partecipato a un complotto rivoluzionario (1834), fu costretto a emigrare in
America, dove fino al '48 combatté per l'indipendenza delle repubbliche
sudamericane. Invece gli intellettuali che si opposero al Mazzini,
elaborando una prospettiva sociale della rivoluzione, furono Carlo Cattaneo
(1801-69), Carlo Pisacane (1818-57), Giuseppe Ferrari e Giuseppe Montanelli.
Pisacane indicava nel possesso contadino della terra lo sbocco sociale della
rivoluzione nazionale. Cattaneo e Ferrari proponevano un ordinamento statale
repubblicano di tipo federale, che conciliasse l'unità nazionale con
l'autogoverno locale, unica alternativa veramente democratica allo Stato
unitario e accentrato.
Il fallimento delle prime insurrezioni, indusse Mazzini a rivedere in parte
la propria ideologia. Tra il '37 e il '49, soggiornando in Inghilterra,
maturò la condanna del sistema economico capitalistico, che escludeva i
lavoratori salariati dalla proprietà e dalla gestione degli strumenti di
produzione, ma si limitò ad elaborare un progetto di "riordinamento del
lavoro" fondato su basi cooperativistiche, con esclusione di qualunque forma
di lotta di classe (per le libere associazioni dei ceti umili). L'idea
dominante del Mazzini restava quella dell'unità (mistica) di Popolo e
Nazione.
Sul versante cattolico l'esponente più significativo di questo periodo è
Vincenzo Gioberti, il quale scopre nella forza progressiva che muove la
storia una più esplicita volontà divina, di cui interprete è la chiesa. La
storia d'Italia coincide, per lui, con la storia della chiesa. Solo la
chiesa avrebbe potuto, nel Risorgimento, saldare gli italiani in un
organismo nazionale unitario (federazione di stati, non ancora uno stato
unico). Il primato morale-civile degli italiani dipende, in ultima istanza,
dalla chiesa. Perché si realizzi tale progetto occorre -secondo Gioberti:
che gli intellettuali (della borghesia medio-alta) rinuncino a separare la
politica dalla religione;
che la chiesa accetti il processo democratico-borghese in atto
(anti-gesuitismo di Gioberti).
Nel Primato morale e civile degli italiani, Gioberti esalta il Medioevo e
l'Impero romano, il diritto e la religione, con le quali -a suo giudizio-
abbiamo "civilizzato" tutti i popoli barbari. Agli italiani, Gioberti
riconosce un grande genio inventore. Il destino politico dell'Italia sarebbe
quello cosmopolitico di governare il mondo: quando questo non le è stato
permesso, il genio inventore si è tutto dedicato alle arti, scienze e
letteratura.
Altri aspetti da sottolineare:
Gioberti fu all'inizio di idee mazziniane;
dopo la sconfitta dei moti mazziniani il suo Primato ebbe larga fortuna fra
i ceti moderati che aspiravano non alla rivoluzione ma alle riforme graduali
(il Primato da origine al Neoguelfismo);
nel Primato Gioberti voleva che gli Stati italiani si unissero in una
confederazione che avesse nel papa il suo capo civile e nel Piemonte la sua
forza politica e militare, escludendo totalmente l'Austria da ogni dominio
sull'Italia. Il Neoguelfismo trovò degli appoggi nella scuola moderata (o
riformismo liberale) di Cesare Balbo e Massimo D'Azeglio, che erano
favorevoli a una graduale trasformazione, da attuarsi con l'accordo dei
sovrani, dei regimi assoluti in regimi costituzionali. Inoltre si sarebbe
dovuta costituire una federazione italiana, che rispettasse i maggiori Stati
della penisola senza pretendere di unificarli in uno Stato unitario. Gli
oppositori del Neoguelfismo furono i neo-ghibellini (Cattaneo, Guerrazzi,
Niccolini), i quali sostenevano che proprio il papato costituiva l'ostacolo
principale alla realizzazione dell'unità.
NAPOLEONE III
La Francia di Napoleone III, se politicamente era tornata ad un regime
dittatoriale e antidemocratico, peraltro godeva di un periodo di sviluppo
industriale ed economico frutto della stessa politica imperiale che favoriva
l'alta borghesia industriale. Lo Stato infatti aveva iniziato una serie di
interventi nei settori chiave della vita economica (interventi che vedremo
saranno sempre più essenziali allo sviluppo capitalistico), sì che il volto
della Francia mutò profondamente dal 1850 al 1870. La rete ferroviaria
percorreva le vie di transito più importanti del territorio francese, mentre
Parigi diventava una città sempre più moderna, arricchita di nuovissime
ampie strade e di imponenti piazze. Napoleone voleva fare della Francia la
concorrente numero uno dell'avanzata Inghilterra Nacquero così grandi
organismi bancari che, grazie ad una apposita legislazione statale sui
prestiti, favorirono l'investimento industriale.
Il regime si guadagnò l'appoggio, oltre che del clero e dell'esercito, anche
della borghesia capitalistica. Al fine di guadagnare sempre più il consenso
nazionale, Napoleone, dopo aver adottato misure di carattere sociale verso
il proletariato, si lanciò nell'avventura coloniale, riuscendo a creare una
vasta zona di dominio in Africa, nel Sud - Est asiatico e in Oriente.
Questo vasto e ambizioso programma di trasformare la Francia nella prima
potenza europea, portava Napoleone ad una politica di appoggio delle
nazionalità oppresse, le quali, ovviamente, costituivano un importante
elemento di disgregazione interna della potenza austriaca, egemone sul piano
politico nell'Europa centrale.
Tale egemonia, è bene ricordarlo, si era affermata, dal congresso di Vienna
in poi, sulle rovine dell'impero di Bonaparte. Il sogno napoleonico
risorgeva con il nuovo imperatore.
La grande Francia, dominatrice d'Europa, doveva distruggere l'impero
austriaco: il nuovo impero contro quello del passato.
CAVOUR E IL PIEMONTE LIBERALE E PARLAMENTARE
In questo quadro si inserì l'attività diplomatica di Cavour che riuscì a
saldare gli interessi napoleonici con quelli piemontesi in una guerra contro
l'Austria.
Il conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861), leader liberale dello Stato
piemontese, divenne ministro dell'agricoltura nel 1850.
L'iniziativa che lo portò alla ribalta della vita politica del Paese fu
l'accordo che strinse con la sinistra moderata guidata da Urbano Rattazzi.
Diede così vita ad uno schieramento politico di centro - sinistra entro il
quale riuscì a convogliare un largo consenso politico che andava dai
liberali conservatori ai democratici moderati. I punti del programma
politico del "connubio" (così si chiamò questa operazione di alleanza
governativa) furono "monarchia, statuto, indipendenza, progresso civile e
politico".
Divenuto capo del governo nel 1852, Cavour poté dare concretezza al suo
programma. Convinto liberale, assertore del progresso economico e politico,
riteneva impossibile che il Piemonte potesse condurre una politica estera
nazionalista se le strutture interne dello Stato fossero rimaste arretrate.
Perciò incanalò l'attività statale verso la creazione di quelle
infrastrutture (strade, linee telegrafiche, ferrovie, reti di irrigazione
ecc.) necessarie allo sviluppo economico del Paese che incoraggiò, tra
l'altro, con l'istituzione di nuove banche.
La sua concezione liberale lo indusse, in campo ecclesiastico, ad una
politica volta a separare la società religiosa dalla società civile. La
formula che sintetizzò la sua linea politica in questo campo fu "libera
Chiesa in libero Stato". Seguendo la linea già inaugurata dal precedente
ministero (presieduto da Massimo D'Azeglio) con le leggi Siccardi che
avevano abolito il foro ecclesiastico e il diritto di asilo (1850), Cavour
continuò ad eliminare i privilegi del clero arrivando, non senza opposizione
interna da parte dei cattolici, alla soppressione ed all'incameramento dei
beni di tutti gli ordini religiosi contemplativi, considerati dai liberali
privi di utilità per la società; ciò comportò la chiusura di ben 334
conventi.
Il Regno di Sardegna, grazie all'opera di riforma intrapresa da Cavour,
riuscì ad assumere quell'assetto di Paese avanzato che lo differenziava e
gli dava una posizione di privilegio rispetto agli altri Paesi italiani,
dove invece dopo il 1848 i governi si erano dati ad una politica di violenta
repressione interna e chiusura verso qualsiasi possibilità di rinnovamento.
Il Piemonte costituzionale, il Piemonte liberale offrì alla borghesia
italiana un modello politico e insieme una garanzia di sicurezza rispetto ai
pericoli di una rivoluzione popolare.
Il fallimento che intanto consumava la democrazia nell'insuccesso dei suoi
moti insurrezionali sembrò la migliore verifica del fatto che solo lo Stato
piemontese poteva continuare con successo l'azione per l'unità d'Italia. La
formazione della Società Nazionale (1857) con un programma unitario e
monarchico - sabaudo, segretamente appoggiata da Cavour, fu un momento
importante di coinvolgimento nella linea cavouriana anche di frange
democratiche: il mazziniano Garibaldi aderì alla Società Nazionale insieme a
Daniele Manin e Giuseppe La Farina. Da non trascurare infine è la presenza
in Piemonte di molti esuli politici che da ogni parte d'Italia trovavano
asilo nel territorio dei Savoia, rafforzando così il ruolo egemone del
Piemonte per la causa italiana.
CAVOUR E LA POLITICA ESTERA: L'INTERVENTO IN CRIMEA
Cavour realizzò il suo programma di portare il Piemonte al rango di Stato -
guida nel processo di unificazione nazionale con una politica estera abile e
diplomatica. L'occasione per fare assumere al Piemonte un ruolo nei giochi
d'equilibrio che le grandi potenze compivano in Europa fu data dalla guerra
di Crimea (1853-1856). Si trattò di un episodio che rimise in moto la
competizione e la conflittualità tra gli Stati che ambivano al predominio
nell'Europa. La guerra rappresentò un momento della cosiddetta "questione
d'oriente": la disgregazione, ormai in atto, dell'Impero ottomano poneva
agli Stati europei il problema di una spartizione dei territori ad esso
soggetti, primo fra tutti il territorio balcanico.
Ad iniziare le ostilità fu lo zar di Russia Nicola 1 che occupò i principati
danubiani di Moldavia e Valacchia (l'odierna Romania) appartenenti
all'Impero ottomano. Scoppiata così la guerra, Francia e Inghilterra scesero
subito in campo contro la Russia assolutista e semifeudale, pronte ad
impedire un suo allargamento territoriale nell'area balcanica. Direttamente
interessata alle sorti dei Balcani, ma timorosa di mettersi a fianco delle
tradizionali nemiche (Francia e Inghilterra), l'Austria ostentò una
neutralità che tuttavia le consentì di occupare, col consenso del sultano
turco, i due principati danubiani abbandonati dalle truppe d'occupazione
russe.
Fu a questo punto che si inserì la diplomazia piemontese: Cavour, che non
aveva previsto la neutralità austriaca, si era adoperato per stringere
accordi con Francia e Inghilterra in vista di una comune azione contro
Austria e Russia; e si trovò costretto a prendere parte al conflitto
sollecitato dagli alleati che avevano anche l'interesse di garantire
all'Austria che, se fosse intervenuta al loro fianco, nulla sarebbe accaduto
alle sue spalle, cioè in Italia. Tuttavia Cavour ritenne che l'intervento
piemontese, pur nella mutata situazione, fosse opportuno, ed i fatti
successivi gli diedero ragione.
Cosi un corpo di spedizione di 15.000 uomini al comando del generale Alfonso
La Marmora partì per la Crimea (1855 dove appunto si svolgeva il conflitto e
prese parte alla battaglia della Cernaia ed all'assedio di Sebastopoli, la
potente piazzaforte russa che resistette circa un anno all'assedio delle
truppe anglo - franco - piemontesi.
L'obiettivo che Cavour si prefiggeva di raggiungere era la partecipazione
del Piemonte alle trattative di pace e la conseguente possibilità di porre
le condizioni dell'Italia sul tappeto degli interessi generali delle potenze
europee. Ciò avvenne al Congresso di Parigi dove, caduta Sebastopoli, i
rappresentanti delle potenze europee si riunirono per le trattative di pace
(1856).
Il gioco di Cavour era perfettamente riuscito: come rappresentante del
piccolo Stato piemontese sedeva, a parità di rango, accanto a quelli di,
Francia, Inghilterra, Austria, Russia, e poteva illustrare, in una seduta
suppletiva chiesta ed ottenuta nonostante le proteste austriache, le penose
condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le popolazioni del Lombardo
Veneto e dell'Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni.
La questione italiana era posta come qualcosa di cui l'Europa progressista
doveva in qualche modo occuparsi. Oltre a ciò, con la partecipazione al
Congresso di Parigi, il Piemonte si guadagnò definitivamente, agli occhi del
movimento liberale italiano, il ruolo di protagonista della lotta contro
l'Austria.
La guerra di Crimea aveva peraltro reso Napoleone III arbitro della politica
europea. L'isolamento dell'Austria, la sconfitta dell'iniziativa russa,
l'alleanza con l'Inghilterra, davano all'imperatore dei Francesi la
possibilità di portare a compimento l'influenza francese sull'Europa
appoggiandosi ai movimenti nazionali.
In questo quadro Francia e Piemonte firmarono a Plombières, nel luglio 1858,
un trattato segreto di alleanza antiaustriaca. L'alleanza fu resa possibile
dal fatto che la politica di Cavour aveva dato ampie garanzie alla Francia
di muoversi su un piano antidemocratico (dure polemiche contro Mazzini e i
suoi metodi accompagnarono infatti questi momenti della politica di Cavour).
Gli accordi segreti di Plombières riguardavano l'assetto da dare al
territorio italiano dopo una eventuale vittoria sull'Austria, contro la
quale l'imperatore si impegnava a scendere in campo accanto al Piemonte
soltanto se quella avesse dichiarato per prima la guerra. Si prevedeva una
confederazione di Stati italiani comprendente il regno dell'Italia
settentrionale (Piemonte, Lombardo - Veneto, Romagna, Emilia) su cui avrebbe
regnato la dinastia sabauda, un regno dell'Italia centrale, da assegnare ad
un principe francese ma che al proprio interno avrebbe consentito il
mantenimento dell'autorità pontificia sulla città di Roma, ed il regno
dell'Italia meridionale dove, ai Borboni spodestati, sarebbe succeduto un
discendente di Gioacchino Murat.
Nizza e la Savoia, due province del Regno di Sardegna confinanti con la
Francia, costituirono il compenso chiesto al Piemonte dall'imperatore in
cambio del suo intervento.
Queste condizioni, dettate da Napoleone III, vennero accettate da Cavour,
convinto che il processo di unificazione nazionale avrebbe avuto tempi più
lunghi di quanto pensassero i democratici e tutto il movimento unitario, e
che al Piemonte fosse possibile assumere un ruolo dominante nella
confederazione italiana. Da parte francese vi era tutta l'intenzione di
porre sotto la propria egemonia gli Stati italiani confederati.
LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA
Subito dopo la firma degli accordi di Plombières, Cavour si adoperò per
costringere l'Austria, con qualche pretesto, a dichiarare guerra al
Piemonte. Il governo attuò una serie di misure volte al rafforzamento
dell'esercito, concedendo, d'altra parte, con sempre maggiore generosità,
aiuto ed asilo ai patrioti che fuggivano in Piemonte dagli altri Stati
italiani, e specie a quelli provenienti dai territori controllati
dall'Austria. Queste iniziative, ampiamente e sapientemente pubblicizzare,
spinsero l'Austria a richiedere, con un ultimatum, l'immediato disarmo del
Piemonte. Al rifiuto del governo piemontese, l'Austria rispose, come voleva
Cavour, con la dichiarazione di guerra.
Il 26 aprile 1859 scoppiava così la guerra. Gli eserciti regolari piemontese
e francese, dei quali prese il comando lo stesso Napoleone III, furono
subito affiancati dai volontari di Garibaldi, i "Cacciatori delle Alpi". A
Magenta, a Solferino e San Martino l'Austria fu battuta dagli eserciti
franco - piemontesi.
Mentre l'Italia settentrionale era impegnata nelle vittoriose operazioni di
guerra, nell'Italia centrale si riaccendeva la miccia delle rivoluzioni
democratiche. In Toscana, a Parma, a Modena, nelle Legazioni pontificie si
formarono governi provvisori che offrivano a Vittorio Emanuele la reggenza
degli Stati liberati. Ma i legami con la Francia (gli accordi di Plombières)
impedivano al re sabaudo di procedere nella politica delle annessioni.
Malgrado la prudenza piemontese, la situazione italiana preoccupò a tal
punto Napoleone III da spingerlo ad una precoce, e, sul piano militare
immotivata, chiusura della guerra contro l'Austria, con la quale si affrettò
a firmare l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859). L'armistizio e i
preliminari di pace, discussi all'insaputa dei Piemontesi, prevedevano che
l'Austria cedesse la Lombardia (con l'esclusione di Mantova e Peschiera) a
Napoleone che a sua volta la consegnava al Piemonte; il Veneto restava
all'Austria e la Francia garantiva il ritorno dell'ordine e delle antiche
dinastie regnanti in Italia centrale; la Francia, infine, rinunciava a
pretendere Nizza e la Savoia, non essendo stati rispettati gli accordi di
Plombières.
Con questo gesto l'imperatore dei Francesi rispondeva alle proteste che
l'opinione pubblica cattolica aveva levato in Francia contro di lui, temendo
per l'incolumità dello Stato Pontificio; d'altro lato egli tentava di
bloccare il processo unitario italiano che, come sappiamo e come era stato
sancito a Plombières, era ben lontano dagli interessi francesi.
Ma la rivoluzione nazionale italiana non si fermò per questo. I governi
provvisori dell'Italia centrale resistettero, forti dell'iniziativa popolare
che li sorreggeva. Ancora una volta la presenza e lo stimolo di Mazzini,
l'abilità militare di Garibaldi, si rivelarono essenziali. Moderati e
democratici costituirono un fronte comune di difesa dei territori liberati,
questa volta risoluti a portare fino in fondo l'unità d'Italia. Le decisioni
di Villafranca furono inattuabili nella situazione italiana. Anche in questo
caso l'abilità politica di Cavour gestì e portò a compimento un processo di
iniziativa popolare e democratica. Egli infatti riuscì ad ottenere da
Napoleone il consenso alle annessioni al Piemonte dei Ducati di Modena e di
Parma, del Granducato di Toscana, e delle Legazioni pontificie (i plebisciti
si svolsero l'11 e il 12 marzo 1860) in cambio di Nizza e della Savoia
cedute ai Francesi (con plebiscito del 15'aprile 1860).
L'Italia centrale e l'Italia settentrionale erano così unificate.Il Veneto
ancora sotto il dominio austriaco, lo Stato Pontificio con la città di Roma,
sede del papato, e l'Italia meridionale sotto i Borboni costituivano i
problemi che il movimento risorgimentale doveva ancora risolvere.
La linea politica di Cavour si mostrò inadeguata a risolvere, negli anni
successivi alla seconda guerra per l'indipendenza, la questione del
Mezzogiorno d'Italia. Qui soltanto l'appoggio a quella iniziativa popolare
che già teneva la Sicilia in uno stato pressoché continuo di guerriglia
avrebbe potuto, come sostenevano i democratici mazziniani, dare i colpi
finali al potere dei Borboni. Ma sappiamo come i metodi della politica
liberale moderata del Piemonte fossero estremamente cauti rispetto ai
momenti di insurrezione popolare, essendo per il Piemonte interesse
prioritario una estensione del proprio dominio sui territori italiani,
dominio che la rivoluzione democratica non garantiva. Per questi motivi
l'iniziativa nel Regno delle Due Sicilie passò ai democratici. Cominciarono
così i preparativi per una spedizione in Sicilia concepita dai democratici
isolani, tra cui Francesco Crispi e Rosolino Pilo, e dallo stesso Mazzini.
Si riuscì a persuadere Garibaldi ad organizzarla pur con i gravissimi rischi
che essa presentava. La spedizione si preparò in Piemonte, malgrado
l'atteggiamento di decisa ostilità da parte di Cavour ma con una certa
apertura da parte del re Vittorio Emanuele II. Il governo piemontese in
sostanza né ostacolava né favoriva i preparativi: non poteva decisamente
opporvici con misure di polizia per motivi di politica interna, essendo
l'equilibrio con le forze democratiche troppo instabile per tentare le
maniere forti; peraltro una partecipazione all'iniziativa era del tutto
impossibile, considerati i legami che il Piemonte aveva sul piano
internazionale, in special modo con l'imperatore dei Francesi. Tutto sommato
l'atteggiamento del lasciar fare del Piemonte era dettato dall'ipotesi di
potere intervenire dopo, a cose fatte, come del resto avvenne, a riportare
entro i confini dell'egemonia piemontese l'iniziativa democratica.
In queste condizioni Garibaldi partì da Quarto (nella notte tra il 5 e il 6
maggio 1860) con un migliaio di volontari provenienti da diverse regioni ma
in maggioranza dalla Lombardia e dalla Liguria, su due piroscafi sequestrati
a Genova. Dopo una sosta a Talamone per rifornirsi di armi, sbarcò a Marsala
(l'11 maggio), accolto come liberatore dalla popolazione, ed a Salemi
assunse la dittatura dell'isola in nome di Vittorio Emanuele
I garibaldini sostennero la prima battaglia vittoriosa contro i borbonici a
Calatafimi a Palermo fu anche il moto popolare a mettere in fuga gli
eserciti regi (30 maggio). Il governo provvisorio di Garibaldi varò subito
provvedimenti popolari, alleggerendo gli oneri fiscali del passato governo
borbonico, ma non poté far fronte alle richieste contadine della terra che,
soddisfatte, avrebbero cambiato radicalmente la struttura socio - economica
dell'isola dove la borghesia agraria, classe egemone, andava ancora
conquistata all'ipotesi dell'Italia unita. Larghi strati di borghesia
meridionale infatti stavano abbandonando la propria tradizione separatista e
indipendentista e si andavano convincendo dell'utilità di un governo
centrale dei Savoia che garantisse la stabilità del proprio ruolo egemonico
sull'isola che il malgoverno borbonico non garantiva più. L'alleanza tra la
borghesia industriale del nord e la borghesia agraria meridionale fu infatti
l'asse portante della costruzione del nuovo Stato unitario. La dura
repressione dei moti contadini in Sicilia (drammatico fu l'episodio di
Bronte, passato più clamorosamente di altri alla storia), operata dallo
stesso esercito liberatore garibaldino, rientra perciò amaramente nella
logica delle forze politiche risorgimentali, anche di quelle democratiche.
Dopo un vittorioso scontro con i borbonico a Milazzo, Garibaldi passò lo
Stretto (20 agosto) e si diresse, con un'avanzata fulminea, a Napoli, dove
entrò trionfalmente il 7 settembre. Il re delle Due Sicilie si rifugiò a
Gaeta e fece attestare il suo esercito sulla linea del Volturno, dove più
tardi (1-2 ottobre) fu definitivamente sconfitto dall'esercito garibaldino.
A Napoli, dove era accorso anche Mazzini, Garibaldi tentò di dare uno sbocco
democratico alla rivoluzione, ed a questo punto si fece acuto il conflitto
con Cavour. I termini di questo conflitto restano quelli di fondo della
diversa concezione che i due uomini avevano sul volto da dare all'Italia
unita. Non che Garibaldi desse preoccupazioni per la sua fedeltà ai Savoia,
ma restavano parecchi punti di disaccordo.
I mazziniani proponevano la costituzione di un nuovo Stato democratico che
nascesse dalla convocazione di una Assemblea Costituente nazionale, eletta a
suffragio universale. Alla loro proposta si contrapponeva la linea moderata
piemontese, che voleva invece realizzare subito l'annessione al Piemonte dei
territori liberati. Le leggi e gli ordinamenti del Regno di Sardegna
avrebbero dovuto essere estesi a tutte le nuove province. I liberali
piemontesi intendevano costituire un governo rappresentativo degli interessi
dei ceti privilegiati dell'Italia settentrionale che trovavano punti
d'incontro con gli interessi della classe dirigente agraria del Meridione:
tale governo sarebbe stato caratterizzato da un notevole accentramento di
tutti i poteri, lasciando quindi pochissimo spazio per le autonomie locali.
Garibaldi d'altra parte pensava che fosse necessario indirizzare la spinta
rivoluzionaria, rinvigorita dal successo della spedizione nel Regno delle
Due Sicilie, verso lo Stato Pontificio, che con un'energica azione poteva, a
suo parere, essere subito consegnato all'Italia unita.
Facendo presente questa minaccia, Cavour riuscì a convincere Napoleone III
che solo un immediato ed energico intervento dell'esercito piemontese
avrebbe permesso al Pontefice di conservare almeno il controllo del Lazio.
Invaso così lo Stato Pontificio, i Piemontesi sconfissero le truppe del papa
a Castelfidardo, procedendo quindi ad una rapida occupazione delle Marche e
dell'Umbria: queste province furono quindi immediatamente annesse al Regno
di Sardegna, con il solito sistema dei plebisciti.
A Napoli, frattanto, il governo dittatoriale garibaldino si trovò ben presto
a dover affrontare non solo le ostilità delle classi dirigenti legate ai
Borboni, ma anche a quelle delle masse contadine. Questa crisi facilitò
l'intervento del governo piemontese nel Napoletano: a Teano, il 26 ottobre,
in un incontro fatidico del re con Garibaldi, quest'ultimo consegnò il Regno
delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele Il, senza chiedere alcuna
contropartita. Seguì lo scioglimento del corpo dei volontari garibaldini che
dovevano passare sotto il comando regio al seguito dell'esercito regolare.
La linea democratico - garibaldina era così sconfitta. Garibaldi si ritirava
nella sua isoletta di Caprera, Mazzini tornava in Inghilterra, non avendo
ottenuto dal re l'amnistia delle sue condanne a morte.
Di lì a pochi mesi, il 18 febbraio 1861, rappresentanti eletti con ristretti
criteri censitari o professionali da tutte le province d'Italia, convennero
a Torino dove si tenne la prima seduta del nuovo Parlamento italiano. Il 17
marzo 1861 il Parlamento ratificava l'unificazione e proclamava Vittorio
Emanuele Il re d'Italia.
La morte di Cavour, il più grande artefice dell'unità d'Italia, sopravveniva
pochi mesi dopo, il 6 giugno. Egli lasciava un nuovo Stato, ma il lavoro di
costruzione di questa nuova realtà storica era ancora tutto da affrontare
insieme alle irrisolte questioni del Veneto e di Roma.
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