LA TERZA GUERRA D'INDIPENDENZA
:IL VENETO ALL'ITALIA
Ai difficili problemi che si presentavano al nuovo Parlamento italiano
l'indomani della proclamazione del regno, si aggiungevano due questioni
ancora irrisolte riguardanti l'unificazione nazionale: il Veneto, ancora
sotto il dominio austriaco, e Roma e il Lazio sotto il potere temporale
della Chiesa.
Sia l'una che l'altra questione si risolveranno nel quadro delle profonde
mutazioni avvenute nel panorama politico europeo a cui dobbiamo quindi
riportare la nostra attenzione.
Si tratta, per quanto riguarda l'acquisizione del Veneto all'Italia, della
formazione della nazione tedesca e della sua affermazione in Europa ai danni
dell'Austria. Per quanto riguarda il Lazio e Roma, che diventerà capitale
d'Italia, si trattò invece della fine dell'edificio imperiale di Napoleone
III e del ritorno della Francia ad un regime repubblicano, con la
conseguente perdita dell'influenza in Italia.
Il processo di unificazione nazionale delle popolazioni tedesche venne
portato a compimento durante il decennio 1860-70 grazie alla politica
unitaria e nazionalista inaugurata dal nuovo re di Prussia Guglielmo I e
soprattutto da Ottone di Bismarck, suo Cancelliere dal 1862.
Lo statista prussiano, a differenza di Cavour, era un uomo di destra,
avverso al liberalismo, ma convinto fautore dell'unificazione nazionale da
raggiungere attraverso una guerra contro l'Austria, in vista della quale la
Prussia doveva attrezzarsi esercitando una egemonia militare sugli altri
Stati tedeschi.
Questo progetto, che significò una forte spinta alla militarizzazione dello
Stato ed un regime politico interno accentratore e forte, fu appoggiato
dalla ricca borghesia tedesca che chiedeva garanzie di incremento
industriale e stabilità sociale. In questo periodo infatti la Germania era
la prima nazione europea nella produzione del carbone (nei bacini della
Ruhr), nell'industria metallurgica e nelle costruzioni ferroviarie, cioè in
tutti i settori chiave dello sviluppo industriale.
Il pretesto per la guerra fu dato dalla questione dei ducati danesi
(Schleswig, Holstein e Lauenburg) di popolazione prevalentemente tedesca,
che erano stati attribuiti dal Congresso di Vienna alla Danimarca e che dopo
varie vicissitudini si trovavano ora sotto l'amministrazione austriaca e
prussiana. I contrasti che ne seguirono acuirono la tensione tra Prussia e
Austria, fino a quando si passò alla guerra aperta (1866).
La Prussia si era prima assicurata l'alleanza italiana, stipulata allo scopo
d'impegnare l'Austria su due fronti; l'Italia, in caso di vittoria, avrebbe
ottenuto l'annessione del Veneto.
Per l'Italia la partecipazione alla guerra austro - prussiana fu la terza
guerra per l'indipendenza. Ma, ancora impreparato e non adeguatamente
armata, andò incontro a due clamorose sconfitte, a Custoza il 24 giugno 1866
e, subito dopo, nello scontro navale di Lissa, il 20 luglio.
Sul fronte germanico invece, grazie alla estrema decisione da parte del
generale prussiano von Moltke, la decisiva battaglia di Sadowa (3 luglio)
costrinse gli Austriaci alla resa.
In base alle trattative di pace che si svolsero subito dopo, la nuova
situazione che si creò nel centro dell'Europa fu la seguente: l'Italia
otteneva, tramite la mediazione di Napoleone III, il Veneto; la Prussia
annetteva l'Hannover, l'Assia-Cassel, il Nassau e la città libera di
Francoforte; nasceva la Confederazione della Germania del Nord sotto la
presidenza del re di Prussia, comprendente 22 Stati tedeschi a nord del
fiume Meno, che venivano amministrati, per problemi di interessi comuni, dal
governo federale presieduto da Bismarck.
Restavano fuori quattro Stati a sud del Meno che si costituivano in
Confederazione della Germania meridionale, indipendente, con la quale
peraltro Bismarck strinse subito dopo, segretamente, accordi militari a suo
favore.
L'Impero austriaco si era dunque ridotto ai soli territori dell'Austria ed
Ungheria. Dopo gli avvenimenti del 1866 anche la struttura politica
austriaca cambiò: l'Impero si divise in due Stati con parlamenti e
costituzioni separati, appunto l'Austria e l'Ungheria, uniti solo dalla
persona del sovrano, imperatore d'Austria e re d'Ungheria.
LA QUESTIONE ROMANA
A favorire in Europa la nascita di una nuova nazione, la Germania, che
presentava fin dall'inizio tutte le caratteristiche, soprattutto economiche,
per diventare in breve una grande potenza, si ebbe in questo decennio il
declino del potere napoleonico. Sarà proprio la sconfitta sul piano militare
infertagli dalla Germania a segnarne la fine. Il potere di Napoleone
cominciava infatti a vacillare dall'interno; egli si trovò attaccato sia da
destra, da frange clericali e dall'alta borghesia finanziaria, sia da
sinistra, dalla piccola borghesia intellettuale e dalla classe operaia.
Non gli restava che affidare le sorti del proprio prestigio alla guerra,
come sempre avviene nella logica delle grandi potenze.
Da parte prussiana, niente era più coerente alla linea militarista e forte
di Bismarck che piegare lo Stato francese, ancora egemone in Europa.
L'occasione si presentò presto, per una questione di successione al trono di
Spagna. Napoleone III, tramite il proprio ambasciatore, chiese al re di
Prussia Guglielmo I, che si trovava ai Bagni di Ems, ulteriori garanzie
sulla rinuncia (peraltro decisa e nota) di Leopoldo di Hohenzollern alla
candidatura a quel trono; un dispaccio del re a Bismarck fu da questo
abilmente alterato in modo tale da suonare offesa e minaccia per la Francia;
questa il 19 luglio 1870 dichiarò guerra alla Prussia. Ma in poche settimane
le truppe imperiali furono battute dagli eserciti prussiani in Alsazia e Lo
rena; l'imperatore in persona a Sedan (2 settembre) fu sconfitto
indecorosamente e preso prigioniero.
Due giorni dopo Parigi proclamava la Terza Repubblica. In una difficilissima
situazione interna che, come vedremo, porterà alla Comune, la Francia
repubblicana sottoscriveva la pace di Francoforte (maggio 1871) con la
Germania alla quale dovette cedere i territori dell'Alsazia e della Lorena,
mentre nel gennaio 1871 era stata solennemente proclamata la nascita
dell'Impero germanico (Secondo Reich).
Per l'Italia la fine del potere personale di Napoleone significò la caduta
di quei legami diplomatici con la Francia che impedivano l'annessione del
Lazio e di Roma: essi consistevano nella cosiddetta "Convenzione di
Settembre" firmata nel 1864, con cui il governo italiano si era impegnato a
garantire l'autonomia dello Stato Pontificio ed a trasferire la capitale da
Torino a Firenze (che di fatto fu la capitale del regno dal 1865 al 1871).
Dopo Sedan il governo italiano si considerò libero di procedere alla
liberazione di Roma,
un corpo di spedizione, al comando del generale Raffaele Cadorna, aprì una
breccia nelle mura della città, a Porta Pia, e vi entrò il 20 settembre
1870.
Un anno dopo si apriva la prima seduta del Parlamento nazionale a Roma, dove
si erano già trasferiti il governo e la corte.
Era già stata approvata una legge (la legge delle guarentigie, cioè delle
garanzie) a carattere unilaterale, perché non accettata dall'altra parte,
che regolava i rapporti tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano.
Secondo questa legge veniva garantita alla Chiesa di Roma la sovranità sui
palazzi del Vaticano, del Laterano e su Castelgandolfo: tale sovranità
territoriale venne a costituire, così come è ancora, uno Stato indipendente;
al nuovo Stato veniva assegnata una dotazione annua di 3 milioni.
Era l'attuazione dei princìpi liberali della "libera Chiesa in libero Stato"
di matrice cavouriana.
Il papa Pio IX mantenne un atteggiamento di dignitosa ostilità rispetto alla
legge, che non riconobbe, ed invitò inoltre tutti i cattolici italiani a non
partecipare alla vita politica (con il cosiddetto "non éxpedit", "non
conviene").
LA "DESTRA STORICA" AL GOVERNO
La classe dirigente che governò il Paese dall'unità fino al 1876 si era
formata alla scuola di Cavour, era liberale moderata e fu chiamata "Destra
storica".
Dare vita ad un nuovo Stato non era certo compito facile, considerando i
grandi squilibri esistenti tra le varie regioni italiane ed i problemi
economici derivanti anche dai costi delle guerre risorgimentali che
gravavano sul bilancio del giovane Stato.
Il disavanzo delle finanze statali superava nel 1866 il 60% dello stesso
bilancio. Prima di potere programmare una politica di sviluppo economico del
Paese bisognava inoltre fornirlo di una rete di infrastrutture (prima fra
tutte l'ampliamento della rete ferroviaria), condizione ormai essenziale
dello sviluppo, il che significava una politica di lavori pubblici per la
quale necessitava molto denaro.
Obiettivo prioritario dei governi della Destra fu quello di risolvere questi
due problemi: non fu trovata altra soluzione che quella di adottare un
sistema di prelievo fiscale estremamente rigido, in un momento molto duro
per tutta la popolazione italiana, specie per quella meridionale meno agiata
e che più di altri aveva pagato il prezzo dell'unificazione.
La rivolta di Palermo del 1866 fu l'episodio più clamoroso di protesta di
un'intera città contro la politica governativa.
Prescindendo da un giudizio sui sacrifici imposti ad una popolazione cui le
lotte risorgimentali avevano dato ben altre prospettive, è merito della
Destra il raggiungimento del pareggio del bilancio dello Stato (1876) ed il
notevole incremento della rete ferroviaria (quadruplicata in termini di
chilometri dal 1870 al 1880).
La produzione industriale non aveva tuttavia possibilità di estendersi,
anche perché la politica fiscale rendeva minime le capacità d'acquisto delle
masse, cioè la domanda di prodotti industriali.
Assai più critico è il giudizio che gli storici danno circa l'assetto
politico - amministrativo che gli uomini della Destra diedero all'Italia.
Considerando le profonde differenze delle condizioni sociali ed economiche
delle popolazioni delle varie regioni italiane, lo stesso Cavour prevedeva
un decentramento amministrativo su basi regionali, la possibilità cioè per
le varie regioni di amministrare la vita pubblica con margini di autonomia
tali da rispondere ai problemi specifici che presentavano le regioni. Ben
diverso fu l'orientamento di Bettino Ricasoli, nuovo capo di governo dopo la
morte di Cavour avvenuta il 6 giugno 1861.
Egli infatti estese gli ordinamenti piemontesi a tutti i territori del
regno, seguendo cioè la via opposta, quella dell'accentramento
amministrativo. Furono create cinquantanove province italiane, in ognuna
delle quali fu mandato un prefetto governativo.
Questa linea continuò di fatto a favorire la borghesia industriale del Nord,
avvantaggiata soprattutto dall'abolizione delle dogane interne preesistenti
all'unificazione, il che fece del Sud d'Italia un nuovo mercato per le
industrie settentrionali e scoraggiò le pur minime iniziative industriali
meridionali che, essendo ad un più basso livello produttivo, senza alcuna
protezione, dovettero soccombere alla concorrenza delle industrie del Nord.
In una tale situazione di diversità iniziale tra Nord e Sud anche una misura
unitaria come quella della confisca e della vendita dei beni terrieri
ecclesiastici dette risultati disuguali. Al Nord significò infatti la fine
di estesi latifondi e l'incremento della piccola proprietà agricola, al Sud
al contrario determinò l'estensione del latifondo semifeudale perché furono
i proprietari terrieri gli unici in grado di acquistare le nuove terre
disponibili.
LA QUESTIONE MERIDIONALE
La speranza che l'unificazione avrebbe creato le premesse necessarie per un
superamento degli squilibri tra il Nord ed il Sud d'Italia, condivisa dalla
maggior parte dei protagonisti delle lotte risorgimentali, non si avverò.
Anzi il divario esistente tra le reali condizioni di vita degli uomini del
Meridione e le popolazioni del Nord fu accresciuto dai provvedimenti
dell'amministrazione di Destra.
Il Meridione fu pesantemente colpito dalla politica fiscale e lo stato di
protesta si sviluppò in vera e propria guerriglia che impegnò truppe
governative nelle campagne del Meridione dal 1861 al 1865.
Il fenomeno del brigantaggio si estese a macchia d'olio con un significato
di protesta sociale che lo rendeva difficile da sgominare, perché protetto
dalla popolazione.
Oltre alle misure fiscali (la più odiosa fu la tassa sul macinato) fu
soprattutto la leva militare obbligatoria imposta dal governo italiano ad
alimentare lo stato di protesta: per le famiglie contadine meridionali
infatti significava la perdita delle braccia più valide, senza le quali si
andava incontro alla più nera miseria.
Le condizioni di vita dei contadini meridionali erano spaventose; se ne
accorsero per primi alcuni deputati liberali che pubblicarono i risultati di
una inchiesta condotta in Sicilia, dando il via ad una letteratura
meridionalistica che avrà interessanti sviluppi in Giustino Fortunato e,
poi, in Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini ecc.
LA SINISTRA AL POTERE
Sappiamo che il processo di unificazione nazionale era avvenuto grazie
all'apporto ideale e pratico di forze eterogenee: da un lato i moderati
liberali che con l'opera di Cavour avevano dato una direzione politica al
movimento risorgimentale, e che avevano mantenuto questa condizione di
privilegio governando l'Italia dal 1861 al 1876; dall'altro l'attività dei
democratici, più incisiva sul piano dell'azione concreta (la liberazione del
Mezzogiorno valga come unico esempio), ma carente sul piano della proposta
politica.
I mazziniani, durante i primi decenni dell'unificazione, diedero uno stimolo
profondo al compimento dell'unità, agitando le questioni del Veneto e di
Roma, ma non ebbero poi una proposta politica di reale alternativa a quella
della Destra che solo poteva venire, nelle condizioni esistenti, dal
tentativo di affrontare radicalmente la questione contadina. Si tenga
presente che l'agricoltura partecipava alla formazione del prodotto
nazionale lordo per il 57,8%; l'industria per il 20,3%; il terziario per il
21,9%. E le condizioni di semiservitù feudale delle masse contadine
meridionali erano ben conosciute dagli uomini politici del tempo.
I democratici non fecero un'opposizione politica a sostegno dei contadini,
che furono così lasciati sotto l'influenza reazionaria e che reagirono con
rivolte violente. La maggior parte dei democratici si convertì ad una forma
di opposizione parlamentare legale che rivendicava in Parlamento
l'allargamento del diritto di voto e l'istruzione primaria obbligatoria.
Questo gruppo di democratici detti della "Sinistra giovane" (da contrapporre
alla "Sinistra storica" mazziniana ormai dissoltasi) si rafforzò dal 1865 al
1875, anno in cui, con un discorso di Agostino Depretis a Stradella, questa
corrente propose al Paese un proprio indirizzo di governo.
Le condizioni erano mature per un cambiamento di rotta nella gestione della
politica nazionale.
Il pareggio dei bilancio raggiunto nel 1876 rendeva ormai insopportabile
l'onere fiscale imposto dalla Destra. La necessità di un allargamento del
voto e di uno sviluppo più accelerato del progresso civile degli Italiani
era da tutti sentito.
Nel 1876 l'ultimo governo della Destra, presieduto da Marco Minghetti,
cadde; Agostino Depretis, l'uomo più rappresentativo della Sinistra, ebbe
dal re l'incarico di formare il nuovo governo.
DEPRETIS
Depretis fu presidente del consiglio dal 1876 al 1887 con due brevi
interruzioni. Il cambiamento che l'avvento della Sinistra al potere faceva
prevedere all'interno della politica dello Stato italiano in realtà non
avvenne. Depretis introdusse una nuova pratica parlamentare detta del
"trasformismo" con la quale al governo partecipavano di volta in volta anche
esponenti di altri partiti politici. In tal modo caddero le rigide barriere
che fino ad allora avevano contrapposto la Destra storica e la Sinistra, e
si venne a creare un sistema politico aperto alla partecipazione di tutte le
componenti della classe dirigente italiana, anche della piccola e media
borghesia.
A ciò va aggiunto il fatto che Depretis introdusse le pratiche del
favoritismo e della concessione di poteri locali a vari singoli destinatari
che così vennero convinti (a volte con la corruzione) ad entrare nella
maggioranza. Attraverso questa pratica si portò a compimento la coalizione
tra la borghesia dell'Italia settentrionale e la borghesia agraria del
Meridione.
Le riforme che il governo introdusse nel Paese furono ben lontane dal
costituire quei mutamenti sostanziali da molti auspicati: nel 1882 una nuova
legge elettorale portava a due milioni gli elettori. Restando esclusi i
nullatenenti e gli analfabeti, questa riforma mantenne l'emarginazione delle
masse meridionali che continuarono ad essere escluse dai diritti politici.
La seconda legge di rilievo fu la legge Coppino del 1877 che rendeva
obbligatoria e gratuita l'istruzione per altri due anni rispetto alla
precedente legge Casati che ne prevedeva solo due. Tale legge restò però
inoperante, specie nelle regioni più povere.
Nel 1879 il governo abolì l'odiata tassa sul macinato che era stata, come
sappiamo, motivo di malumore e di rivolta per le popolazioni meridionali;
ma, non essendo mutato il sistema di prelievo fiscale dello Stato,
l'abolizione di questa tassa non alleggerì le condizioni di vita dei poveri.
Durante la gestione politica di Depretis la politica economica dello Stato
subì una svolta; cominciò infatti l'intervento a difesa delle industrie
nazionali con l'applicazione di tariffe e dogane sulle merci straniere e con
le sovvenzioni statali ad alcune industrie nazionali.
Per quanto riguarda la politica estera, occorre ricordare che il 20 maggio
1882 veniva stipulata a Vienna la Triplice Alleanza tra Austria, Germania e
Italia. Era, da parte italiana, una decisione imposta dalla necessità di
uscire dall'isolamento internazionale determinato dalla crisi dei rapporti
con la Francia conseguenti alla "delusione" di Villafranca, alla difesa
francese dello Stato Pontificio dalle legittime rivendicazioni italiane e,
poi, alla conquista della Tunisia (1881) compiuta contro le mire coloniali e
gli interessi italiani. Invece l'aiuto fornito dalla Prussia bismarckiana
nel 1866, che portò all'annessione del Veneto (Terza guerra d'indipendenza)
aveva avvicinato l'Italia agli Stati Centrali, che riscuotevano anche la
simpatia della monarchia sabauda e dei circoli ad essa vicini per il modello
conservatore dell'ordine sociale e politico da essi rappresentato.
Per questi e per altri motivi finì per affermarsi l'abilità politica di
Bismarck che portò alla Triplice Alleanza, rinnovata nel 1887 e nel 1891,
malgrado il dominio austriaco su Trento e Trieste
Sarà proprio la questione relativa a questi territori a rendere inoperante
l'alleanza nel 1915, quando, durante la prima guerra mondiale, l'Italia
prenderà le armi contro l'Austria, la nemica tradizionale in tutte le lotte
risorgimentali.
LO SVILUPPO INDUSTRIALE
Negli ultimi venti anni del secolo XIX l'Italia compì nel campo produttivo
delle trasformazioni strutturali e diventò, sia pure con profonde
difficoltà, un Paese industriale.
DATI:
Aumento demografico: 1871 28 milioni - 1901 33 milioni - Operai
dell'industria: 1876 = 500.000 - 1900 = 3.000.000 - Produzione del ferro nel
1871 = 38.000 tonnellate - Produzione del ferro nel 1900 = 190.000
tonnellate - Produzione di energia elettrica nel 1883 = 1 milione KWH -
Produzione di energia elettrica nel 1900 = 160 milioni di KWH.
Per rendere possibile il decollo della giovane industria italiana si rese
necessaria l'attuazione di una politica economica di intervento e di
protezione dell'industria da parte del governo.
Lo Stato, che fino ad allora si era direttamente impegnato solo nel campo
delle ferrovie, fu chiamato dai gruppi industriali più avanzati a varare
misure di protezionismo doganale ed a sovvenzionare i più importanti
complessi industriali.
Il passaggio dalla politica liberoscambista ad una politica protezionistica
avvenne gradualmente dal 1881 fino all'adozione di una tariffa sulle
importazioni che, eliminando di fatto la concorrenza delle merci straniere,
determinò il decollo dell'industria italiana degli anni 1896-1908.
In questa fase il capitalismo italiano si consolidò soprattutto nel
cosiddetto triangolo industriale (Piemonte - Lombardia - Liguria) dove già
esistevano tutte le condizioni dello sviluppo.
Il modo in cui avvenne lo sviluppo industriale italiano fu tale da non
risolvere il divario tra il Nord ed il Sud, anzi esso fu ulteriormente
aggravato.
La concentrazione dei grandi complessi industriali in alcune zone
privilegiate del territorio nazionale, l'utilizzazione del Centro - Sud come
mercato dei prodotti industriali e come fonte di manodopera a basso costo,
furono fenomeni che si stabilizzarono proprio in questo periodo.
Oltre alle antiche contraddizioni, lo sviluppo ne portò di nuove e non meno
gravi. Il nuovo proletariato industriale mancava di una legislazione sul
lavoro. Gli orari di lavoro erano tra i più lunghi d'Europa ed i salari tra
i più bassi. Leggi illiberali continuavano ad ostacolare l'esigenza ormai
matura di una organizzazione operaia autonoma. Inoltre, le lotte contadine
nel Meridione acquistavano una nuova dimensione politica ponendosi su un
terreno rivendicativo ben più preoccupante per la classe dirigente di quanto
non lo fosse stato fino ad allora il fenomeno della rivolta isolata e del
brigantaggio.
IL PRIMO GOVERNO CRISPI (1887-1891)
Durante il governo della Sinistra l'Italia aveva inaugurato una politica
estera antifrancese, e si era avvicinata agli Imperi dell'Europa centrale.
L'orientamento autoritario della Corona aveva molto influito su questa
scelta. Nel 1882, come si è detto, venne firmata la Triplice Alleanza tra
l'Italia, l'Austria e la Germania. Questa scelta di politica estera suscitò
la protesta dei movimenti irredentisti e dell'opinione pubblica che ancora
vedeva nell'Austria la naturale nemica dell'Italia. Né con maggiore
entusiasmo fu salutato l'inizio della politica coloniale di cui fu artefice
il nuovo capo del governo, Francesco Crispi, succeduto nel 1887 al Depretis.
Ex mazziniano, protagonista democratico del movimento risorgimentale, Crispi
aveva mantenuto negli anni successivi all'unità più lo spirito unitario -
nazionalista del pensiero mazziniano che quello democratico. Repubblicano,
si era convertito come gli altri ex mazziniani all'ideale monarchico,
convinto che solo sotto il regime dei Savoia per l'Italia fosse possibile
consolidare quell'unità nazionale e quel prestigio sul piano europeo di cui
era acceso fautore. Il suo ideale fu quello della Germania di Bismarck, ed a
questo modello si ispirò in tutta la sua azione governativa, sacrificando
molto spesso ad esso lo sviluppo democratico italiano. L'avventura coloniale
in cui si imbarcò Crispi era iniziata nel 1882 con l'acquisto della baia di
Assab nel Mar Rosso da parte del governo italiano. Nel 1885 il massacro di
una spedizione italiana in Eritrea aveva offerto al governo italiano
l'occasione di occupare Beilul e Massaua.
Tuttavia nel 1887, poco prima che Depretis morisse, i presidi italiani erano
stati massacrati dagli Abissini a Dogali. Crispi fece della politica
coloniale un punto forte del suo programma, illudendosi di poter fare
acquistare così all'Italia un ruolo di grande potenza. Il suo sogno era
quello della costituzione di un vasto dominio coloniale dal Mar Rosso
all'Etiopia. Nel 1890, in seguito ad un intervento italiano a sostegno di
Ras Menelik che ambiva alla successione del regno d'Etiopia, l'Italia ebbe
la sua prima colonia in Africa, l'Eritrea. Colonialista e filogermanico, in
politica interna Crispi fu profondamente autoritario, malgrado l'apparente
contraddizione del suo regime politico cui si devono alcune riforme a
carattere avanzato, come l'abolizione della pena di morte. In sostanza egli
rafforzò i poteri del governo a scapito di quelli parlamentari e dette alle
forze di polizia maggiori poteri di repressione dell'opposizione interna.
Inoltre, accentrando nelle sue mani le cariche di ministro degli interni, di
ministro degli esteri e quella di presidente del consiglio, accrebbe i
poteri di quest'ultima funzione.
La svolta autoritaria e reazionaria impressa da Crispi alla politica
italiana ebbe i suoi effetti: a livello economico il suo filogermanismo e la
sua ammirazione per il modello prussiano - bismarckiano provocarono un tale
inasprimento dei rapporti economici con la Francia da privare l'Italia del
40% delle sue esportazioni, e ciò fu un colpo molto duro, specie per le
industrie della seta e del vino. Inoltre, frutto anche della maturazione dei
tempi, la svolta autoritaria accelerò la formazione in Italia di una nuova
opposizione popolare a carattere socialista.
L'OPPOSIZIONE POLITICA E SOCIALE
Nell'ultimo ventennio del secolo l'azione teorica e pratica di Andrea Costa,
Antonio Labriola e Filippo Turati portò anche in Italia alla formazione
delle prime organizzazioni operaie socialiste. Nel 1881 nacque in Romagna un
Partito socialista rivoluzionario, nell'82 in Lombardia il Partito operaio
italiano. Circa dieci anni più tardi, nel 1892, il movimento operaio si
dette una organizzazione a carattere nazionale con la costituzione del
Partito dei Lavoratori Italiani (poi Partito Socialista Italiano).
Quasi contemporaneamente, papa Leone XIII imprimeva una spinta determinante
al cattolicesimo sociale con l'enciclica "Rerum novarum" (1891) che, fra
l'altro, si soffermava sulla condizione degli operai. Da essa prendeva
l'avvio un movimento di giovani cattolici, laici ed ecclesiastici, la cui
azione si venne svolgendo secondo un programma formulato dall'economista
Giuseppe Toniolo. Il movimento si chiamò "democrazia cristiana", ma non ebbe
carattere di partito politico, perché conservò quello di movimento sociale,
non agguerrito sul piano delle riforme, ma importante perché portava avanti
una visione dinamica del mondo cattolico.
Ma in questo periodo il movimento di protesta che più preoccupò i ceti
dirigenti fu quello dei Fasci dei lavoratori, affermatosi in Sicilia nel
1893. Il movimento dei Fasci, nato spontaneamente tra le masse contadine del
Meridione, aveva una ispirazione socialista, grazie all'attività di un
gruppo di socialisti meridionali. Per la prima volta la protesta contadina
assunse un indirizzo politico preciso ed ebbe una capacità di coinvolgimento
rispetto a ceti piccolo - borghesi, artigianali ed operai.
Il movimento si sviluppò specialmente dopo le dimissioni di Crispi,
sostituito al governo, prima, per breve tempo, dal conservatore Antonio di
Rudinì, e poi, dal maggio del 1892 al dicembre del 1893, da Giovanni
Giolitti, un uomo di cui avremo modo di parlare successivamente perché
imprimerà un nuovo corso alla politica italiana nel primo ventennio dei
nuovo secolo.
Giolitti aveva una concezione diversa da quella crispina riguardo ai
rapporti tra il governo ed i movimenti sociali di protesta. Riteneva cioè
che bisognasse dare libertà d'espressione politica ai lavoratori, le cui
istanze dovevano ormai entrare nel libero esercizio dell'attività politica
del Paese.
Contrario quindi a misure repressive, non intervenne nel movimento dei Fasci
sperando che i contadini e gli operai riuscissero ad arrivare ad un accordo.
Ma lo scoppio dei moti dei minatori della Lunigiana accrebbe nella classe
dirigente la paura della sovversione sociale. Giolitti venne accusato di
debolezza e dovette dimettersi, anche perché coinvolto nello scandalo della
Banca Romana. Questa, per le pressioni fatte da finanzieri privi di scrupolo
su alcuni uomini politici, aveva concesso crediti eccessivi nel campo
dell'edilizia, provocandone il grave dissesto finanziario.
IL SECONDO GOVERNO CRISPI (1893-1896)
Il ritorno di Crispi al potere tranquillizzò parte della borghesia italiana.
Il movimento dei Fasci venne soffocato nel sangue, furono sciolte le
organizzazioni politiche dei lavoratori (tra cui il Partito Socialista
Italiano), la gestione del Paese tornò ad essere autoritaria ed illiberale.
Ne risentì la stessa vita del parlamento, le cui attività vennero ridotte al
minimo.
La fine definitiva del prestigio di Crispi fu segnata dalla ripresa
dell'iniziativa coloniale italiana, da lui voluta. Dal 1894 al '96, in
Africa orientale, si combatté una guerra condotta politicamente e
militarmente in modo sbagliato. Dopo diversi insuccessi, il l0 marzo 1896 un
contingente di 15 000 soldati italiani venne massacrato ad Adua dagli
Abissini.
L'uomo delle leggi eccezionali che aveva affidato il suo prestigio a questa
impresa, ben sapendo di andare contro corrente (manifestazioni di protesta
al grido di "viva Menelik" avevano accompagnato in molte città italiane
l'impresa di Africa), si dimise il giorno dopo.
La fase politica appena chiusa con la caduta di Crispi aveva per la prima
volta, dopo l'Unità, scavato un solco profondo tra le forze politiche
italiane. Il sistema decisamente autoritario dello statista aveva cementato
il consenso di una parte della classe dirigente, gelosa di custodire i
propri privilegi anche a costo di rinunziare alle libertà democratiche del
Paese; aveva peraltro reso più definitiva una opposizione politica e
sociale.
Questo è un fatto nuovo nella vita del Paese, dove, come abbiamo visto, non
c'era stata finora una distinzione netta tra i governi di destra e di
sinistra (ricordiamo che lo stesso Crispi proveniva da uno schieramento di
sinistra).
Si era così costituito un blocco di potere di stampo prussiano, fautore di
un governo forte (l'esercito, la monarchia, gli agrari del Meridione e parte
degli industriali del Settentrione) a cui si contrapponeva uno schieramento
di forze eterogenee pronte a battersi in difesa della libertà.
Questo schieramento era composto dalla borghesia illuminata, dalla piccola
borghesia, dal proletariato, e si esprimeva politicamente attraverso i
partiti radicale, repubblicano e socialista. Il socialismo italiano di fine
secolo, nel più ampio quadro del socialismo della Il Internazionale europea,
assumeva come prioritario il problema della salvaguardia delle libertà
democratiche rispetto all'originale radicalismo marxista della lotta di
classe, e si impegnava in un fronte comune con i partiti democratici
borghesi (revisionismo).
GLI ULTIMI QUATTRO ANNI
Gli ultimi quattro anni del secolo furono anni tumultuosi e difficili.
Furono anni di eccidi di piazza, come quello perpetrato dal generale Bava
Beccaris che sciolse una manifestazione a Milano con la forza, uccidendo
cinquanta manifestanti, e ricevette per questo una medaglia al valore dal
re; anni in cui si tentò una distensione del clima politico con una amnistia
che aprì le porte delle carceri ai capi dei Fasci ed a tutti gli esponenti
dei partiti politici d'opposizione; furono, infine, anni in cui si consumò
un regicidio, quello del re Umberto 1, che morì in seguito ad un attentato
anarchico.
Il governo passò dalle mani del Di Rudinì a quelle di Pelloux, poi a Saracco
ed infine a Zanardelli. La classe dirigente oscillò tra misure democratiche
e tentativi autoritari, mentre maturava il comportamento democratico
dell'opposizione operaia che passò dal rivoltiamo di tipo anarchico a forme
di lotta più consapevoli e perciò più politiche.
Il vecchio secolo si chiuse con il primo sciopero generale dei lavoratori,
quello dei portuali di Genova che incrociarono le braccia dopo la chiusura -
decisa dal governo - della Camera del Lavoro (dicembre 1900): un nuovo tipo
di manifestazione politica cui non si poteva più rispondere con l'eccidio.
Sarà Giolitti l'interprete di questa nuova maturità politica del Paese e
sarà lui a dare un nuovo corso alla politica italiana.
PROCESSI CHE PORTARONO ALL'UNITA' D'ITALIA
CONTENUTO GENERALE:
Dopo il congresso di Vienna si assistette nei vari paesi ai tentativi di
restaurare gli assetti politici e sociali precedenti alla rivoluzione
francese. Tale processo passò sotto il nome di Restaurazione e portò a forti
conflitti interni a ciascun paese, non ultimo l'Italia, causati soprattutto
dalle modalità di attuazione della restaurazione, cioè con metodi repressivi
e violenti. Le varie rivolte si susseguirono in tutta Europa in ondate
periodiche (1821-21/1830-31/1848/59-61). In Italia emersero poi vari
personaggi che si distinsero per le loro idee liberali e per il loro operato
che consentì di arrivare all'unificazione d'Italia il 18 Febbraio 1861.
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