Articolo 94 - - S. M. I. e R. riunirà alla sua monarchia, per essere posseduta da loro e dai suoi successori in tutta proprietà e sovranità: 1° Oltre le parti della terraferma degli stati veneti, di cui all'art. precedente, le altre parti degli stessi stati, come qualunque altro territorio situato fra il Ticino, il Po e il mare Adriatico; 2° le valli della Valtellina, di Bormío e di Chiavenna; 3° i territori che formavano la cessata repubblica dj Ragusa. Articolo 95. In conseguenza di quanto è detto nei precedenti articoli, le frontiere austriache in Italia saranno: dal lato degli stati sardi, quali erano il l° gennaio del 1792; dal lato di Parma, Piacenza e Guastalla, il Po, la linea di demarcazione secondo il "thalweg" di questo fiume; dal lato di Modena, quali erano al 1° gennaio 1792; dal lato degli Stati della Chiesa, il corso del Po sino all' imbocco del Goro; dal lato della Svizzera l'antica frontiera della, Lombardia e quella che separa le valli della Valtellina, di Bormio e di Chiavenna dei cantoni dei Grigioni e del Ticino. Là dove il thalweg del Po costituirà il confine è stabilito che i mutamenti futuri del corso di questo fiume non influiranno sulla proprietà delle isole che vi si trovano. Articolo 98. - S. A. R. l'arciduca FRANCESCO d' Este, i suoi eredi e successori poi, siederanno in tutta proprietà e sovranità i ducati di Modena, di Reggio e di Mirandola nell'estensione medesima in cui si trovavano all'epoca del trattato di Campoformio, S. A. R. l'arciduchessa Maria Beatrice d' Este, i suoi eredi e successori possederanno in tutta proprietà e sovranità il ducato di Massa e il principato di Carrara e i feudi imperiali della Lunigiana. Questi ultimi potranno servire a istituire cambi o altre transazioni con S. A. I. il granduca di Toscana, secondo la reciproca convenienza.. I diritti di successione e di reversione stabiliti nei rami degli arciduchi d'Austria, relativamente,al ducato di Massa, Modena, Reggio e Mirandola, come pure dei principati di Massa Carrara, sono riservati. Articolo 99 - - S. M. l' imperatrice MARIA LUISA possiederà in tutta proprietà e sovranità i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, eccettuati i distretti incuneati negli Stati austriaci sulla sinistra del Po. La reversibilità di questi paesi sarà determinata di comune consenso fra le corti d'Austria, di Russia, di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, e Prussia, avuto però riguardo ai diritti di reversione delle case d'Austria e di Sardegna. Articolo 100. S. A. I. l'arciduca FERDINANDO d'Austria è ristabilito, per sé e per i suoi eredi e successori, tutti i diritti di proprietà e sovranità sul granducato di Toscana e sue dipendenze, quali erano prima del trattato di Luneville. Le stipulazioni l'art. 20 del trattato di Vienna del 3 ottobre 1736 tra l' imperatore Carlo VI e il re Francia, cui consentirono le altre potenze, sono pienamente ristabilite in favore di S. A. e suoi discendenti, come pure le guarentigie risultanti da queste stipulazioni. Saranno inoltre riuniti al detto granducato lo Stato dei Presidii, le parte dell' isola dell'Elba, e sue pertinenze che erano sotto la sovranità del Re di Napoli e Sicilia prima del 1801, principato di Piombino e i cessati feudi imperiali di Vernio, Montalto e Monte S. Maria. Il principe LUDOVISI BUONCOMPAGNI conserverà per sé e suoi successori legittimi tutte proprietà che la sua famiglia possedeva nel principato di Piombino, nell'isola d' Elba e sue dipendenze, prima dell'occupazione francese del 1799, comprese le miniere, usine e saline. I principe LUDOVISI conserverà egualmente il diritto di pesca e godrà di esenzione da ogni diritto, sia per l'esportazione dei prodotti dei suoi domini che per importazione del necessario ai lavori delle miniere. Articolo 101 - - Il principato di Lucca sarà posseduto in tutta sovranità dall'Infanta. l' infanta Maria Luisa e i suoi discendenti in linea retta e mascolina. Questo principato viene eretto in ducato e conserverà una forma di governo basata su quella che aveva nel 1805. Alle rendite del principato di Lucca si aggiungerà una rendita di cinquecentomila lire che S. M. l' imperatore d'Austria e S. A. I. il granduca di Toscana si obbligano di pagare regolarmente finché le circostanze non permetteranno di procurare a S. M. l' Infante Maria Luisa e a suo figlio un altro stabilimento. Articolo 102 - - Il ducato di Lucca sarà reversibile al granduca di Toscana, sia nel caso ch'esso divenga vacante per la morte di S. M. l' infanta Maria Luisa o di suo figlio Don Carlos e loro discendenti maschi e diretti, sia nel caso che l' infanta e suoi discendenti ottenessero un altro stabilimento o succedessero ad un altro ramo della loro dinastia. In caso di reversione il granduca si obbliga di cedere al duca di Modena i distretti di Fivizzano, Pietrasanta, Barga, Castiglione, Galligano, Minucciano e Montignoso. Articolo 103 - - Le marche con Camerino e dipendenze, il ducato di Benevento e principato di Pontecorvo sono restituiti alla Santa Sede, che rientrerà in possesso delle Legazioni di Ravenna, di Bologna e di Ferrara, eccettuata quella parte del ferrarese posta sulla sinistra dal Po. L'imperatore d'Austria avrà diritto di guarnigione in Ferrara e Comacchio. Gli abitanti dei paesi tornati alla S. Sede godranno dei benefici dell' articolo 16 del trattato di Parigi del 30 maggio 1814. Tutti gli acquisti fatti dai privati in virtù di un titolo riconosciuto legale dalle leggi attualmente esistenti, sono mantenuti; e le disposizioni proprie a garantire il debito pubblico e il pagamento delle pensioni saranno stabilite da una convenzione particolare fra la Corte di Roma e quella di Vienna. Articolo 104 - - S. M. il re FERDINANDO IV è riconosciuto per sé e per i suoi eredi e successori sul trono di Napoli, e riconosciuto dalle potenze come re del regno delle Due Sicilie. ------------------------------------------------- FERDINANDO DI BORBONE, tornando a Napoli, si fece precedere da proclami pieni di lusinghe e di paterne promesse, di cui ci piace riportarne qualcuna: ".. Docili figli del Sebeto, venite con gli stendardi della concordia, venite innanzi al vostro padre, al vostro liberatore, che sta già sotto le vostre mura. Esso non aspira che al vostro bene ed alla vostra durevole felicità. Esso travaglierà per rendervi oggetto d'invidia al resto d' Europa. Un governo stabile, saggio e religioso vi è assicurato. Il popolo sarà il sovrano, ed il principe depositario delle leggi, che detterà la più energica e la più desiderabile delle costituzioni .... ". Vedremo poi in seguito come il vecchio re di Napoli manterrà tutte queste promesse!!! Il primo atto di politica estera del Borbone dopo la restaurazione fu una convenzione con l'Austria, firmata il 12 giugno. Con questo trattato, che fu detto di "amicizia di unione, e di alleanza difensiva", l'imperatore FRANCESCO e il re FERDINANDO dichiaravano di volere ".assicurare la pace e la tranquillità dei reciproci possessi con il mezzo dei rapporti più stretti e provvedere alla pace e alla tranquillità esterna ed interna d' Italia .", e stabilivano di scendere in armi, l'uno in difesa dell'altro, con un esercito di ottantamila, uomini il primo, di venticinquemila il secondo, non appena uno dei due sovrani fosse aggredito da terzi. Sei giorni dopo la stipulazione di questo trattato, aveva luogo la battaglia di Waterloo e la definitiva caduta di Napoleone, e Ferdinando di Borbone impartiva ordine che si agisse subito e usando ogni mezzo per costringere alla resa la piazza di Gaeta (Pescara ed Ancona si erano arrese) dove il presidio comandato dal generale BEGANI teneva ancora inalberata la bandiera di Gioacchino Murat. Gaeta era stretta dal mare dalla flotta inglese e da terra da una divisione capitanata dall'austriaco LAVER. Questi impiegò gli ultimi giorni di giugno e i primi di luglio nei lavori d'approccio e il 16 luglio, piazzate sei batterie, cominciò a battere la città con un tiro martellante che continuò ininterrotto fino al 19. Il Begani si difese con molta bravura, ma considerando infine che era inutile la sua resistenza e che non poteva sperare soccorsi dal Murat, il quale se ne viveva nascosto in Provenza, decise di capitolare alle seguenti condizioni: "..Avesse egli facoltà di fare un viaggio fuori del regno; il presidio napoletano godesse dei patti accordati nella capitolazione di Casa Lanza; i sudditi dell'imperatore d'Austria (s'erano rifugiati a Gaeta molti profughi di varie nazioni) e del re di Francia restassero a piena disposizione dei loro sovrani; i soldati toscani, romani e piemontesi fossero vivamente raccomandati alle potenze alleate e fossero intanto trasferiti a Livorno; nessun individuo, civile o militare, potesse essere molestato per le passate opinioni politiche ." Intanto da Vienna, finite le feste del Congresso, lo zar di Russia, l'imperatore d'Austria e il re di Prussia andavano a Parigi e qui, il 26 settembre, stipulavano il famoso TRATTATO DELLA SANTA ALLEANZA. Nel preambolo così i tre sovrani scrivevano: "..In nome della Santissima e Indivisibile Trinità, le loro Maestà Francesco, Alessandro e Federico Guglielmo, in conseguenza dei grandi avvenimenti che segnalarono in Europa il corso dei tre ultimi anni e principalmente dei benefici che la Divina Provvidenza si piacque diffondere negli Stati, i cui Governi hanno posto in Essa sola la confidenza e la speranza, avendo acquistata l' intima convinzione che è necessario stabilire l'andamento da adottare dalle Potenze nei reciproci rapporti sopra le verità sublimi che ci insegna l'eterna religione di un Dio Salvatore, dichiarano solennemente che il presente atto ha unicamente per scopo di manifestare alla faccia dell' Universo la loro irremovibile determinazione di non prendere per norma della loro condotta, sia nell'amministrazione dei rispettivi Stati, sia nelle politiche loro relazioni con altro qualsiasi Governo, che i precetti di giustizia, di carità e di pace, i quali non che essere unicamente applicabili alla vita privata, devono al contrario influire direttamente sopra le risoluzioni dei Principi e guidare tutti i passi loro, come unico mezzo di consolidare le istituzioni umane, di rimediare alle loro imperfezioni .". Il trattato era composto di tre soli articoli. Con il PRIMO i tre sovrani stabilivano, conforme alle parole della Sacra Scrittura che ingiungono a tutti gli uomini di considerarsi fratelli, di rimanere uniti con i vincoli di una fraternità vera e indissolubile e di prestarsi reciprocamente in ogni occasione assistenza ed aiuto. Con il SECONDO promettevano ai sudditi di governare paternamente, proteggendo la religione, la pace e la giustizia, e dichiaravano di considerarsi come i delegati della Provvidenza per governare i tre rami della grande famiglia europea, Austria, Russia e Prussia, confessando così che la nazione, cristiana, di cui essi e i loro popoli facevano parte, non aveva realmente altro sovranità che quello cui solo appartiene in proprietà la potenza, perché in lui solo si trovano tutti i tesori dell'amore, della scienza e della saviezza infinita, cioè Iddio Nostro Salvatore Gesù Cristo, Verbo dell'Altissimo, Parola della Vita. Con il TERZO articolo i sovrani dichiaravano che tutte le potenze, le quali volessero solennemente riconoscere i sacri principi del trattato, sarebbero ricevute con prontezza ed affetto nella Santa Alleanza. Mentre i sovrani alleati stringevano a Parigi la Santa Alleanza, un monarca spodestato rivolgeva in mente l'arduo disegno di riacquistare il regno perduto. Era questi GIOACCHINO MURAT, il quale, dopo di essere rimasto per qualche tempo nascosto nella Francia meridionale, era riuscito a trasferirsi in Corsica e, rifiutato l'asilo concessogli dall'imperatore d'Austria a condizione che si stabilisse in una città della Boemia, della Moravia o dell'Austria superiore, aveva deciso di effettuare un audace sbarco a Salerno e così ricacciare, con l'aiuto dei suoi partigiani, il Borbone. Con duecentocinquanta compagni, raccolti in sei navi leggere, di cui aveva il comando il maltese BARBARÁ, da corsaro divenuto, per opera di Gioacchino, barone e capitano di fregata, il Murat salpò, la notte del 28 settembre 1815, da Aiaccio; ma dopo sei giorni di prospera navigazione, investito da una tempesta che imperversò dal 4 al 7 di ottobre e disperse i legni, si trovò con la nave comandata dal Barbarà nel golfo di Sant' Eufemia. Sebbene fosse rimasto con soli vent'otto compagni, decise di tentar l'impresa e l' 8 ottobre sbarcò al Pizzo in una zona appartata. Cercò di sollevare in suo favore la popolazione e la milizia urbana, ma sia l'una che l'altra lo accolsero con ostilità; Gioacchino Murat la sera pensò bene di allontanarsi di quella zona e recarsi a Monteleone dove sperava di trovare accoglienze migliori. Ma intanto al Pizzo, dopo aver commesso la sciocca imprudenza di aver avvicinato la polizia urbana, un capitano pensando indubbiamente a qualche premio, un certo TRENTACAPILLI, la mattina dopo all'alba radunato una gruppetto di militi, si metteva sulle tracce del drappello murattiano, lo raggiungeva, prendevano il gruppetto che si era dato alla fuga, a fucilate, uccidevano il capitano Moltedo e ferivano il tenente Pernice. Gioacchino, vedendo inutile la resistenza, con alcuni di loro riuscì a guadagnare la costa dov'era il veliero per imbarcarsi, ma quando giunse alla riva, il Barbarà che aveva sentito i primi spari aveva levato subito le àncore e da pochi istanti già veleggiava; ladro ed ingrato, fingeva di non udire i richiami dalla riva, non avendo proprio nessuna intenzione di tornare indietro per imbarcare il suo sovrano, che era ormai senza scampo. Raggiunto dalle milizie borboniche, il Murat fu arrestato e con i compagni condotto al castello del Pizzo. La notizia di quell'arresto si sparse rapidamente nella regione e fece accorrere prima il capitano STRATTI con un nerbo di soldati, poi il generale NUNZIANTE, comandante militare delle Calabrie. Giunta come un fulmine alla capitale la notizia che era stato arrestato l'ex-re, fu nominata d'urgenza una Commissione militare di sette membri, davanti ai quale Ferdinando ordinò che fosse tradotto il Murat per esservi giudicato, disponendo ".che accordava al condannato mezz'ora di tempo per ricevere i conforti della religione.". L'ordine equivaleva ad una sentenza di morte, e Gioacchino Murat comprese di esser perduto quando, la mattina del 13, il generale Nunzíante, recatosi nella cella del prigioniero, gli comunicò che doveva essere giudicato da un tribunale militare. Allora egli si ricordò dei "suoi processi" e scrisse l'ultima sua lettera alla moglie: ". Mia cara Carolina, l'ultima mia ora è suonata: tra pochi momenti io non sarò più, e tu non avrai più marito. Non dimenticarmi mai; io muoio innocente; la mia vita non è macchiata da alcuna ingiustizia. Addio, mio Achille; addio, mia Letizia; addio mio Luciano; addio, mia Luisa; mostratevi al mondo degni di me. Io vi lascio senza regno e senza beni, tra numerosi nemici. Siate miti, e maggiori dell'infortunio, pensate a ciò che siete, non a quel che foste, e Iddio benedirà la vostra modestia. Non maledite la mia memoria. Sappiate che il mio maggior tormento in questi estremi momenti è il morire lontano dai figli. Ricevete la paterna benedizione, ricevete i miei abbracci e le mie lacrime. Sempre presente alla vostra memoria sia il vostro infelice padre. Gioacchino ." . Pur sapendo di dover condannare il prigioniero, il tribunale volle salvar le apparenze e nominò difensore d'ufficio il capitano STARACE, il quale si recò dal Murat per annunziargli di essere stato incaricato di quel doloroso ufficio dai giudici, ma Gioacchino - secondo il Colletta - rispose: ".Non sono miei giudici, ma soggetti; i privati non giudicano i re, né altro re può giudicarli perché non vi ha impero sugli eguali; i re non hanno altri giudici che Iddio e i popoli. Se poi sono riguardato qual maresciallo di Francia, un consiglio di marescialli può giudicarmi, e se come generale, da generali. Prima che io scenda alla bassezza degli eletti giudici, molte pagine dovranno strapparsi dalla storia d'uropa. Quel tribunale è incompetente; io ne arrossisco .". E poichè lo Starace, insisteva nel volerlo difendere, aggiunse: ".Voi non potrete salvare la mia vita; fate che io salvi il decoro di un re. Qui non si tratta di giudizio, ma di una condanna; e costoro che chiamano miei giudici sono solo i miei carnefici. Non parlerete in mia difesa, io ve lo vieto.". Parole più franche e non meno altere rivolse ad uno dei giudici anche lui andato a interrogarlo. Chiestogli, secondo il regolamento, nome e cognome, rispose: ".Sono Gioacchino Murat, re di Napoli e vostro; andate .". Con il capitano STRATTI, suo benigno custode, si lamentò dell' ingratitudine dei sudditi: ".Nel Pizzo c'è gioia e la mia sventura. E che ho fatto io ai Napoletani per averli ora nemici ? Ho speso a per loro tutto il frutto di lunghe fatiche e di guerra, e ora lascio povera la mia famiglia. Quanto c'è di libero nei codici è opera mia. Io diedi fama all'esercito, grado alla nazione fra le più potenti d'Europa. Io per amor vostro dimenticai ogni altro affetto; fui ingrato ai Francesi, che mi avevano guidato sul trono, da dove io scendo senza rimorsi. Alla tragedia del duca d' Enghien, che il re Ferdinando oggi vendica come altra tragedia, io non presi parte, e lo giuro a quel Dio, che in breve mi terrà nel suo cospetto.". Al sacerdote Masdea che gli diede i conforti religiosi, lasciò un foglio in cui era scritto: ".Dichiaro di morire da buon cristiano.". Intanto il tribunale dichiarava il Murat reo di aver tentato di provocar tumulti, di avere spinto il popolo alla rivolta, di avere offeso la legittima sovranità, di avere voluto sconvolgere il regno e l' Italia, e lo condannava a morte con fucilazione immediata, come nemico pubblico. Gioacchino Murat presente udì la sentenza con grandissima calma; scese, senza dare alcun segno di agitazione, nel cortile del castello, si collocò di faccia ad una schiera di soldati, che aspettava con le armi in pugno, e ritto sulla persona, esclamò con voce ferma: ".Salvate il viso, mirate al cuore! .". Si udì una scarica e il Murat stramazzò esanime al suolo. ".Questa fine - scrive il Colletta (*) - ebbe Gioacchino nel quarantesim'ottavo anno di vita, settimo di regno. Era nato in Cahors di genitori poveri e modesti; nel primo anno della rivoluzione di Francia, giovanetto appena, fu soldato ed amante di libertà, ed in breve tempo ufficiale e colonnello. Valoroso ed infaticabile in guerra, lo notò Bonaparte e lo pose al suo fianco; fu generale, maresciallo, granduca di Berg e re di Napoli. Mille trofei raccolse (da secondo più che da capo) in Italia, Alemagna, Russia ed Egitto; era pietoso ai vinti, liberale con i prigionieri, e lo chiamavano l'Achille della Francia, perché era prode ed invulnerabile al pari dell'antico; ebbe il diadema quasi in dote della sorella di Bonaparte, lo perdette per ignoranza di governo. Due volte fatale alla Francia, nell'anno 14 per provvido consiglio, nel 15 per insano. Ambizioso, indomabile, trattava con le arti della guerra la politica dello Stato. Grande nell'avversità, tollerandone il peso; non grande nelle fortune, perché intemperante e audace. Desideri da re, mente da soldato, cuore da amico. Decorosa persona, grato aspetto, immondizie troppe, e più nei campi che nella reggia. Perciò vita varia, per virtù e fortuna, morte misera, animosa, compianta ." (*) Paolo Colletta che abbiamo citato molte volte, fiorentino, uomo politico, nel suo lungo esilio si trasformò in grande storico. Nel 1796 era ufficiale nell'esercito borbonico. Fu poi esonerato per la sua adesione alla Repubblica Partenopea. Con Murat ricopri elevate cariche nell'amministrazione, nel 1809-12 intendente in Calabria, poi nel 1815 appoggiò la rivoluzione costituzionale, nel 1820 fu nominato comandante generale in Sicilia, poi ministro della guerra (febbraio 1821). Arrestato ed esiliato nella seconda Restaurazione, fu esponente del gruppo liberale toscano (con Capponi e C.) morì a Firenze nel 1831. Postuma uscì l'opera che citiamo spesso, e che riportiamo in calce. Con quella del PAPI, è il Colletta, uno dei più affidabili storici del periodo napoleonico; vista la sua molteplice partecipazione ai fatti, da una parte e dall'altra dlla barricata. Di Murat, scrisse un altro storico del tempo: L. C. Farini: ".Combattè in cento battaglie, raccolse cento trofei, fu pietoso ai vinti, umano a tutti; fu capitano valoroso, intrepido, talvolta temerario; fu un re buono ma non sagace, fu uomo di gran cuore, largo a meritare, generoso e beneficiare. Era alto e ben fatto della persona, aveva occhi vivacissimi, aspetto maestoso e dolce, leggiadria e nobiltà negli atti, affabilità nel parlare, vestiva sfarzoso, amava le pompe ed il fasto. Dinanzi alla sua tomba, lo storico piange di commiserazíone, non adula, non vitupera, suffraga allo sventurato e si ricorda che combattè per l'indipendenza d'Italia.". Termina così, il 1815. Arrivano in Italia i nuovi "PADRONI". La "dottrina" dell'Austria è una sola, quella che gli italiani devono "servire i padroni". Mi piace riportare qui il libro distribuito nelle scuole dagli austriaci a Milano intitolato "Doveri dei sudditi verso il loro monarca per istruzione ed esempio di lettura nella seconda classe delle scuole elementari". Al capitolo IV si legge: Domanda. Come si debbono comportare i sudditi verso il loro Sovrano? Risposta. I sudditi si debbono comportare verso il loro Sovrano e in tutto ciò che egli comanda nella sua qualità di Sovrano, come si comportano i fedeli servitori in tutto ciò che comanda il loro padrone. Domanda. Perchè debbono i sudditi riguardare il Sovrano come loro padrone? Risposta. I sudditi debbono riguardare il Sovrano come loro padrone, perché in realta egli ha diritto di essere da loro obbedito, e perché ha l'alto dominio sulle sostanze e sulle persone dei sudditi, e può legittimamente disporre nell'esercizio della sovranità. (dalla prima edizione del 1848 dei I martiri, della Libertà italiana dal 1794 al 1848, di Atto Vannucci. (che possiedo). Stampato in Francia con i tipi di Lemonnier. Ma alcune pagine erano già state pubblicate su L'Alba, dell'anno prima, 1847. Suscitando nelle anime il breve incendio del '48). Lasciamo gli eventi di guerra sul campo che sembrano terminati e andiamo ora dentro quell'ambiente dove stanno nascendo associazioni e sette segrete che daranno poi origine ai primi moti del 1820-21 e del 1830-31... che rinuniamo nel periodo che va dal 1815 al 1831 > > > ( VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI ) Fonti, citazioni, e testi Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - P.COLLETTA - Storia (Napoleonica) del Reame di Napoli 1734-1825- 1834 NAPOLEONE - Memoriale di Sant'Elena - (origin. 1a Ed. -1843 R. CIAMPINI - Napoleone - Utet - 1939 E. LUDWIG - Napoleone - Mondadori 1929 A. VANNUCCI - I Martiri della Libertà - Dal 1794 al 1848 - Lemonnier 1848 STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) Garzanti CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi I REGNI D'ITALIA E DI NAPOLI - MURAT ( 1805-1812 ) II REGNO D'ITALIA - IL CONSIGLIO DI STATO - IL SENATO - I MINISTRI - I DIPARTIMENTI -I DISTRETTI E I COMUNI - L'AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA - LE FINANZE, AGRICOLTURA, INDUSTRIA, LAVORI PUBBLICI, IGIENE, ISTRUZIONE PUBBLICA, L'ESERCITO - IL REGNO DI NAPOLI SOTTO GIUSEPPE BONAPARTE - GIOACCHINO MURAT SUL TRONO DI NAPOLI - IMPRESA DI CAPRI - SPEDIZIONE ANGLOSICULA NEL REGNO DI NAPOLI - BATTAGLIE NAVALI NELLE ACQUE NAPOLETANE - REPRESSIONE DEL BRIGANTAGGIO - SPEDIZIONE IN SICILIA - NAPOLEONE E GIOACCHINO MURAT- ------------------------------------------------------------------------------------------ IL REGNO D' ITALIA Il Regno d'Italia aveva una superficie di 75.740 chilometri quadrati con una popolazione di 6.700.000 abitanti, confinava con il Piemonte, con la Svizzera, con la Baviera, con le province illiriche, l'Adriatico, il Regno di Napoli, i dipartimenti francesi dell'Italia centrale e la Toscana ed era diviso in ventiquattro dipartimenti - La costituzione del Regno nelle sue linee generali era stata fissata dal TERZO STATUTO del 5 giugno del 1805, che aveva accresciuto la competenza dei Collegi elettorali, ampliato il raggio d'azione del potere esecutivo e limitate le funzioni di quello legislativo - I collegi elettorali, oltre agli antichi uffici, ebbero quello di formare le liste dei candidati ai Consigli dipartimentali e dei giudici di pace. A capo dell'amministrazione fu posto il Consiglio di Stato, diviso in tre sezioni: Consiglio dei Consultori, Consiglio legislativo e Consiglio degli Uditori; il primo, composto di tredici membri, interpretava gli articoli della costituzione, dava il suo parere alle proposte di mutamenti da apportarsi alla costituzione ed esaminava i trattati di pace e di commercio; il secondo, di dodici membri, interpretava i regolamenti dell'amministrazione e formulava i disegni di legge d'indole amministrativa; il terzo, di quindici membri, aveva funzioni di tribunale contenzioso amministrativo, di tribunale per reati dei funzionari, di corte dei conti ecc. Il Consiglio legislativo e quello degli Uditori, per l'esame delle materie, erano suddivisi in tre sezioni: legislazione e culto, interno e finanze, guerra e marina. Col quinto (19 dicembre 1807) e col sesto (21 marzo 1808) Statuto costituzionale fu accresciuto il numero dei membri del Consiglio legislativo e del Consiglio degli Auditori, fu soppresso quello dei Consultori e fu istituito ed organizzato il Senato con funzioni legislative, consultive, sindacative e finanziarie. Esso fu composto dai principi maggiorenni della famiglia reale, dai grandi ufficiali del regno e di otto benemeriti cittadini per ogni milione di abitanti, scelti dal re su liste compilate dai collegi elettorali. Erano considerati come grandi ufficiali del regno i ministri in carica. Questi, quando Napoleone prese la corona d'Italia, erano lo Spannocchi, il Felici, il Bovara, il Prina, il Veneri, il Pino e il Marescalchi. Il 9 giugno del 1805 lo SPANNOCCHI fu sostituito GIUSEPPE LUOSI; il 16 gennaio del 1806 al FELICI successe il marchese ARBORIO GATTINARA di BRÉME, che il 10 ottobre fu sostituito con LUIGI VACCARI. Successore del PINO al ministero della guerra fu nel marzo del 1806 il generale AUGUSTO CAFFARELLI, che nell'agosto del 1811 fu sostituito con ACHILLE FONTANELLI. Nel ministero del tesoro al VENERI nel luglio del 1810 successe il generale AMBROGIO BIRAGO. Non furono mai sostituiti il PRIMA, il BOVARA, che morì il 12 ottobre del 1812, e il MARESCALCHI, che risiedeva a Parigi con ANTONIO ALDINI, ministro segretario di Stato. Il Regno d'Italia, come si è detto, era diviso in ventiquattro dipartimenti, i quali erano presieduti da un prefetto con l'assistenza di un consiglio. Capi dei distretti erano i viceprefetti. I comuni, che erano in numero di 2155 (duemilacentocinquantacinque), erano distinti in tre classi: quelli della prima avevano un podestà, sei savi e un consiglio quaranta membri; quelli della seconda un podestà, quattro savi e un consiglio di trenta membri; quelli della terza un sindaco, due anziani e un consiglio di quindici membri. I consigli si riunivano due volte l'anno per discutere il preventivo e il consuntivo. L'amministrazione giudiziaria del regno rimase la stessa di quella della repubblica. I giudici di pace in materia civile avevano la competenza sulle azioni di semplice dominio, sulle questioni di prezzo, di alloggio e di locazione, sul pagamento di salari e mercedi; inoltre offrivano la loro mediazione per accomodare le parti, ricevevano le denunce, raccoglievano gli indizi, iniziavano l'istruzione dei processi. Come giudici di polizia giudicavano i reati punibili con dieci giorni di carcere o cinquanta lire di multa. Ogni dipartimento aveva un tribunale civile e penale; tutto il regno aveva cinque corti di appello con sede a Milano, a Venezia, a Bologna, a Brescia e ad Ancona; la corte di Cassazione aveva la sede a Milano. L'amministrazione finanziaria era diretta dal PRINA, ministro abilissimo, attivissimo e scrupolosissimo. Le imposte non erano lievi, "....ma ne era -scrive il DE CASTRO- .saggiamente regolata l'esazione. In ciascun dipartimento un intendente amministrava le dogane, i sali, i tabacchi, le polveri ed i nitri, i dazi di consumo, il bollo della carta, quello dei pesi e delle misure, i pedaggi e i diritti di navigazione. La direzione del Demanio soprintendeva ai beni dello Stato, ai boschi, al riscotimento dei crediti. Vi erano gli uffici del registro e della conservazione delle ipoteche. Il MONTE NAPOLEONE amministrava i fondi per il rafforzamento del debito pubblico, ed aveva altri mandati. "Nuove combinazioni si adottarono per levare le imposte con minore sproporzione nei vari settori e minor danno del paese: utilissima l'opera della direzione del censo e delle imposizioni in dirette. Nel 1811 la fondiaria diede 51 milioni e mezzo, oltre 4 e mezzo di quota dipartimentale e 10 milioni di comunale: il dazio consumo, che con il 1805 fruttava 8 milioni, nel 1811 ne diede 15; nel 1812 le imposte fondiarie assommarono a 70 milioni, di cui 51 vennero all'erario, il resto sovrimposte comunali e dipartimentali ."; il sale che si estraeva dalle saline di Cervia, di Comacchio e dell'Istria, nel 1811 rese 21 milioni, i tabacchi, che si coltivavano nei dipartimenti del Tronto, del Musone, del Bacchiglione e dell'Alto Adige, 8 milioni, il lotto 3 milioni; le poste nel 1812 diedero un milione e mezzo, l'imposta sul bollo 5 milioni, il Registro 8 milioni". "Il 25 aprile del 1810 con decreto imperiale furono soppresse le congregazioni religiose ad eccezione di quelle addette all'educazione femminile, delle Suore di Carità e degli Ospitalieri; cosicché lo Stato venne in possesso di un ingente patrimonio. La confisca dei beni ecclesiastici non fu una sciagura, ma determinò il rifiorire dell'agricoltura. Furono fatte anche sagge leggi agrarie; appezzamenti di estesi fondi non coltivati furono dati in affitto; si prosciugarono o bonificarono paludi; si garantì la custodia la sorveglianza dei boschi, dei raccolti e della raccolta della frutta; furono promessi premi ai coltivatori che avessero introdotto l'avvicendamento delle colture, piantato un certo numero di olivi, aumentato gli alveari; s'introdussero nuove piante e nuove specie di animali; un vivaio nazionale fu istituito a Monza; si aprirono sedici accademie agrarie e si diedero soccorsi ai coltivatori di cotone e di barbabietole". "Come per l'agricoltura così per l'industria si assegnarono premi, assistenze e incoraggiamenti. Si favorì l'acquisto di macchine per la filatura del cotone, della lana e della canapa, s'incoraggiò l'estrazione dello zucchero dalle barbabietole, si sussidiò la manifattura bolognese dei veli crespi. Attivissimo era l'arsenale di Venezia anche per conto della marina francese; si vivacizzava il lavoro nelle fabbriche di panni di Como, Bergamo, Verona, Padova, Schio, Bassano e Vicenza; fioriva l'industria tipografica con il Bodoni a Parma. Il Bettoni a Brescia e il Muzzi a Milano; quella delle armi a Brescia, delle terraglie a Pavia, a Treviso, a Bologna, a Milano; della seta nelle province lombarde e venete: ricercati erano i lavori in pelle, in carta, in ebano, in vetro, in oro, in argento, in mosaico frequentatissima era la "scuola d'ornato di Milano" che era di grande utilità all'istruzione di molti artigiani". "Molti furono i lavori di pubblica utilità eseguiti nel regno. Dal 1805 al 1814 si spesero settantacinque milioni di lire per la costruzione e manutenzione delle strade; fu costruito l'acquedotto Marocco nel Pavese, il parco della villa di Monza, la facciata del Duomo di Milano; fu iniziato la rettifica dei corsi del Brenta e del Bacchiglione, il prosciugamento delle paludi Veronesi, la costruzione del canale e del porto di Malamocco, nelle città furono aperte larghe piazze, costruiti giardini, restaurati monumenti e antichi edifici, innalzati sontuosi palazzi". "Alla pubblica igiene furono rivolte grandissime cure: si eressero ospedali e manicomi, si migliorarono le carceri, si disciplinò la pulizia delle case e delle vie, si prescrisse la vaccinazione contro il vaiolo, fu determinata la distanza delle risaie dalle città, furono allontanate dai luoghi popolati le industrie malsane, fu proibito di accumulare letame vicino agli abitati e le immondizie nei cortili dei palazzi nei grossi centri, fu prescritta la concentrazione dei macelli e la vendita delle carni più lontano dall'abitato e fu decretato di seppellire i morti in cimiteri collocati fuori dalle mura, o in ogni caso distanti dal centro urbano. Cure non minori furono dedicate all'istruzione primaria, media e superiore, più alle ultime due che alla prima. Con decreto del 14 marzo 1807 furono istituiti otto licei nazionali amministrati e diretti dal governo, dei quali quattro con convitto e con parecchi posti gratuiti; con decreto del 15 novembre 1811 si diede un ordinamento definitivo alla pubblica istruzione primaria e media: l'insegnamento elementare era affidato alla scuole normali; veniva poi il cosiddetto "limen", un corso preparatorio che dava accesso al ginnasio, il quale era costituito di tre corsi biennali; nel primo si insegnava calligrafia, latino, italiano, francese e aritmetica, nel secondo lettere italiane e latine e aritmetica, nel terzo rettorica, storia, geografia e disegno. Al ginnasio seguiva il liceo, biennale; materie d'insegnamento, storia, geografia e principi generali di belle arti; istituzioni di logica e morale e istituzioni civili; elementi di algebra e geometria; elementi di scienze naturali; disegno. Nel secondo anno del liceo gli alunni che si dedicavano alle leggi, studiavano istituzioni civili, scienze naturali, storia e belle arti; gli altri studiavano scienze naturali, storia, belle arti e disegno". "I libri di testo erano scelti dal governo, gl'insegnanti erano di nomina regia e vestivano la toga. Tre erano le università in tutto il regno, una a Pavia, una a Bologna, una a Padova. A Venezia, a Milano e a Bologna vi erano Accademie di belle arti; a Milano inoltre vi erano scuole speciali di ostetricia, di chirurgia, di chimica applicata alle arti, di diritto pubblico e commerciale nei rapporti internazionali, di alta legislazione civile criminale, una scuola di eloquenza per la pratica legale, una scuola per i sordomuti, un conservatorio per lo studio della musica vocale e strumentale, e nel 1810 si fondò il "Collegio Reale"delle fanciulle. Altri due collegi per le giovinette furono decretati il 9 febbraio del 1812 a Bologna e a Verona. A Bologna nel 1802 era stato fondato l' "Istituto nazionale", che aveva il compito di assegnare premi, fare esperimenti, dare impulso alle scienze e alle arti, preparar testi scolastici, fare proposte per rendere più impegnativi e progrediti gli studi, ecc. Questo istituto con decreto del 25 ottobre 1810, fu trasferito a Milano dove prese il nome di "Istituto italiano di scienze, lettere ed arti", ed ebbe sezioni a Venezia, a Verona, a Padova e a Bologna; fu presieduto dal matematico reggiano GIOVANNI PARADISI e suoi membri furono gli uomini più illustri del regno fra cui notiamo il poeta VINCENZO MONTI, lo scultore ANTONIO CANOVA, lo scienziato ALESSANDRO VOLTA, l'astronomo BARNABA ORIANI, il chimico LUIGI BRUGNATELLI, i pittori OPPINAI e BOSSI e gli architetti GAGNOLA e ANTOLINI. Le cure maggiori, naturalmente furono rivolte alle cose militari. Le fortezze, specialmente quelle di Palmanova e Osoppo, furono restaurate e migliorate, furono aperte strade, tra cui degna di menzione quella del Sempione, costruiti ponti, fondate fabbriche di armi, istituite scuole militari. L'esercito, addestrato secondo i metodi francesi, raggiunse nel 1809 gli ottantamila uomini, fornì prove luminose di valore nelle battaglie ricordate nelle altre pagine, ed espresse dal suo seno ufficiali di grandissimo merito (più volte citati nelle varie guerre) come PIETRO TEULIÉ, DOMENICO PINO, ANTONIO BERTOLETTI, FILIPPO BONFANTI, CARLO BARLABIO e GIOVANNI VILLATA milanesi, LUIGI MAZZUCCHELLI, PIETRO FORESTI, GIUSEPPE, TEODORO ed ANGELO LECHI bresciani. FILIPPO SEVEROLI faentino, GIUSEPPE PALOMBINI romano, ACHILLE FONTANELLI modenese, LUIGI PEYRI mantovano, PIETRO VIARI veronese, G. B. BUSCA di Briga, MAURIZIO FRESIA dì Saluzzo e PIETRO SERAS di Pinerolo. L'esercito del regno italico era composto della Guardia Reale e dalle truppe di linea. La Guardia Reale era formata: dalla guardia d'onore, scelta nelle più importanti famiglie e divisa in cinque compagnie di cento uomini, dei quali sessanta a cavallo (le compagnie portavano i nomi di Milano, Bologna, Brescia, Venezia e Romagna, e le guardie d'onore dopo un biennio dì servizio passavano nella linea con il grado di sotto tenente); dai Veliti, scelti nella borghesia, divisi in dodici compagnie di cento uomini ciascuna, i quali, dopo tre anni di servizio nella guardia, entravano nella linea con il grado di sergente; infine dalla guardia propriamente detta, di tremila uomini, granatieri, cacciatori a cavallo, dragoni e artiglieri. La truppa di coscrizione comprendeva sette reggimenti di linea e quattro leggeri, il reggimento dragoni Napoleone, il reggimento dragoni Regina, quattro reggimenti di cacciatori a cavallo di cui il primo si chiamava "Reale italiano" e il secondo "Principe Reale", reparti del genio e di artiglieria, un battaglione di Istriani, di Dalmati, tre legioni di gendarmi e un corpo di soldati di marina. II regno d'Italia - "scrive il LEMMI" - ebbe pochi anni di vita, ma fu vita grandiosa. Era la prima volta dopo Lodovico il Moro, nota il "Bonfandini" che si sentivano gli effetti di una vera supremazia politica e civile. Milano era la capitale di un grande stato che, negli ultimi tempi, comprendeva 24 dipartimenti ed una popolazione che allora era intorno a sette milioni di abitanti. Dopo tanti anni di vita umile, isolata, ora compresa, ora fanatica, ma sempre secondaria, il popolo milanese respirava in un ambiente largo, importante; vedeva i grandi personaggi passeggiare per le sue vie; si sentiva legato per autorevole solidarietà ai grandi affari d'Europa. Lo spirito pubblico, vivo, intelligente, intraprendente, laborioso, come in quel lontano glorioso periodo sforzesco, tornava e si metteva al livello dei nuovi destini " Il nome Italia cominciò a varcare le frontiere, nuovamente, come in un lontano passato ad imporsi alle attenzioni dell'Europa, a farsi stimare ovunque; molti italiani mostravano di saper morire combattendo e che possedevano anche loro un orgoglio, che era solo stato soffocato da alcuni secoli, ma non cancellato". "Ed era una fioritura di uomini politici e di uomini di guerra che tenevano con onore il loro posto in quella nuova meravigliosa generazione europea. La conversazione sociale e i discorsi popolari trovavano ambienti educativi in fatti nuovi e memorabili che svezzavano dall'antico pettegolezzo; la gioventù, tolta all'ozio senza dignità, teneva in pugno una bandiera tutta sua e si temprava l'anima nell'aspra contesa delle battaglie e delle vittorie; tutte le manifestazioni dell'attività civile, artistiche, letterarie, industriali e commerciali, trovavano nel governo protezione e conforto. L'amministrazione era ben ordinata ed energica, le leggi chiare e previdenti, la giustizia pronta e sicura, la ricchezza generale in costante incremento". Gli uomini che hanno fatto il Diritto sono quattro: Salomone, Cicerone, Giustiniano e Napoleone. E il Codice Napoleonico, è quello dove tutti gli stati civili del mondo hanno attinto a piene mani. La riforma di Napoleone che si imperniò sull'organizzazione costituzionale dello Stato, ebbe una grande importanza per tutta l'Europa. Napoleone continuerà a essere un personaggio giudicato in modo diverso e contrapposto. Chi vede in lui solo il dittatore e chi lo giudica un eroe. La sua gloria, però, fu grande. Come non ricordare qui, quell'amaro passo che Napoleone dalle sue Memorie di Sant'Elena ci ha lasciato -che in altre pagine abbiamo già riportato- quando parlava del profondo mutamento avvenuto nel costume del popolo italiano: ".Dopo il mio passaggio, l'Italia non era più la stessa nazione: la sottana, che era l'abito di moda per i giovani, fu sostituita dall'uniforme: invece di passare la loro vita ai piedi delle donne, frequentavano i maneggi, le sale d'armi, i campi militari; i bambini stessi iniziarono a giocare sul selciato con interi reggimenti di soldatini di stagno e imitavano i fatti di guerra e le mie battaglie. E quelli che cadevano non erano più gli italiani.... ma gli austriaci. Prima, nelle commedie e negli spettacoli di piazza, era sempre messo in scena qualche italiano vile, anche se spiritoso, e di contro a lui un tipo di grosso soldato straniero, forte, coraggioso e brutale, che finiva sempre con il bastonare l'italiano, fra le risa e gli applausi degli spettatori. Anche se non c'era proprio niente da ridere ma semmai da piangere. Orbene: il popolo italiano non tollerò più allusioni di questo genere; gli autori dovettero cambiare. Iniziarono a mettere italiani valorosi, che mettevano in fuga lo straniero, vi sostenevano il proprio onore e il proprio diritto. Vi sembra poca cosa tutto questo? No! La coscienza nazionale si era formata. E l'Italia ebbe per la prima volta i suoi canti guerrieri e gli inni patriottici". (dal Memoriale di San'Elena). Un vero peccato che di quei valorosi generali che furono accanto a Napoleone, poi la Storia Italiana li ha quasi dimenticati. Nel compilare queste pagine però, ne abbiamo rintracciati molti; che nei precedenti riassunti, in questo, e nei successivi, li riportiamo alla ribalta. E furono questi a mettere il "seme", che germoglierà dopo una generazione. Del resto cosa dettava a Las Cases, Napoleone a Sant'Elena, dopo aver come scrisse il Manzoni "toccato le vette più alte, la gloria degli altari e l'umiliazione della polvere"? ".deve passare una generazione, poi i giovani di domani vendicheranno l'oltraggio che oggi qui io soffro.".("Memoriale di San'Elena"). E prima ancora aveva scritto "I disegni e i piani si tracciano in poche ore, ma occorrono degli anni perché le nazioni imparino a sapersi ben condurre .". "..Napoleone -scrive il Foscolo - aveva fondato in Italia uno stato di sei milioni di abitanti, potenti d'ingegno e di passioni, di ricchezze e di agricoltori, e aveva agguerrito un esercito; e il tutto era amministrato da italiani .". Mancava l'indipendenza, è vero; ma gli avvenimenti del 1814 dimostrarono che i Lombardi non avevano ancora l'educazione necessaria a governarsi da sé; poiché sono maturi per l'indipendenza solo quelli che sanno e vogliono conquistarla e conservarla con le armi. II Regno d'Italia, in conclusione, era l'opera di Napoleone ma abbisognava di una lunga tutela per consolidarsi; nel 1814 era purtroppo ancora debole, ma nelle province lombarde, prive di tradizioni politiche, il periodo napoleonico aveva ormai impresso tracce così profonde che non si cancellarono mai più. E questo è il difetto di origine del nostro Risorgimento politico il quale ebbe origine sotto il doppio dominio delle idee e delle armi francesi.." Dopo il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa questo bel sogno si dileguò: le nozze austriache avvenivano e di lì a poco il Re di Roma nasceva quando già ormai l'Imperatore dei Francesi si era trasformato nel successore di Augusto. In questa nuova concezione politica l'Italia, per le sue memorie e per la sua strategica posizione geografica nel Mediterraneo (che tutti invidiavano e temevano), non poteva diventare un regno indipendente. Gli altri stati non l'avrebbero mai permesso; e sappiamo quanto dovrà ancora lottare l'Italia nei successivi settanta anni, ma come se non bastasse anche nella prima metà del Novecento. II 16 febbraio 1810 un accordo concluso con il Principe primate di Germania stabilì che i principati posseduti dal Principe stesso, salvo Ratisbona che doveva passare alla Francia, formassero dopo la sua morte, assieme a Fulda e Hanau, un Granducato di Francoforte per EUGENIO BEAUHARNAIS e la sua discendenza legittima, con diritto di reversibilità alla Corona imperiale in caso di mancanza di discendenti maschi. Il Viceré accettò senza una parola di rammarico, ma con quale delusione è facile intendere. Nei disegni napoleonici pare che Eugenio dovesse rimanere a Milano ancora 20 anni, cioè fino a quando il nascituro Re di Roma non avesse avuto l'età adatta a regnare; ma la concessione fattagli del Ducato di Francoforte e l'idea che più tardi Napoleone gli mise davanti di procurargli una più importante sovranità nella Svezia, dimostrarono che ormai in Italia non vi era più posto né per Eugenio Beauharnais né per Gioacchino Murat. Il primo, accettò devotamente la sua sorte, il secondo volle conservare ad ogni costo la sua Corona e, appena le circostanze parvero favorirlo, abbandonò l'imperatore e sì unì ai suoi nemici, per poi ritornare su i suoi passi, e finire infine fucilato dai nuovi amici. IL REGNO DI NAPOLI SOTTO GIUSEPPE BONAPARTE POI SOTTO GIOACCHINO MURAT Giuseppe Bonaparte rimase a Napoli fino al maggio del 1808. Due anni appena durò quindi il suo regno, periodo di tempo troppo ristretto perché un sovrano riesca pienamente a mostrare le sue qualità; tuttavia non poco s'impegnò per trasformare il vecchio regime, e a lui si devono molte delle opere che poi completò e perfezionò Gioacchino Murat. Giuseppe personalmente diresse tutti gli affari di stato, coadiuvato da CRISTOFORO SALICETI, energico ministro di polizia, dal ROEDERER, dal MIOT, dal MATHIEU DUMAS, dal Duca di CAMPOCHIARO, dai principi CASSANO-SERRA e PIGNATELLI CERCHIARA, da MICHELANGELO CIANCIULLI e dal marchese di GALLO, ministri rispettivamente delle finanze, dell'interno, della guerra, della Casa Reale, degli affari ecclesiastici, della marina della giustizia e degli esteri, e da un Consiglio di Stato di trentasei membri. Con la legge del 2 agosto 1806 Giuseppe decretò l'abolizione della feudalità; con la legge del 1° settembre dello stesso anno ordinò la divisione di tutte le terre demaniali, confiscò i beni dei cittadini assenti che non avevano prestato giuramento di fedeltà e quelli degli Ordini di Malta e Costantiniano; secolarizzò i beni ecclesiastici sopprimendo ordini, chiudendo conventi e incamerandone i beni, che poi furono messi in vendita; cedette a rendite il Tavoliere delle Puglie che era compreso tra i beni demaniali; abolì tutte le tasse e impose una sola contribuzione sui beni immobili, sui creditori dello Stato e sui capitali impiegati nel commercio; fondò l'ordine cavalleresco delle Due Sicilie; dotò Napoli dell'illuminazìone notturna; aprì la via da Toledo a Capodimonte e quella del Gigante, dalla Darsena a S. Lucia; abbellì la capitale con la Loggetta a Mare e il Bosco della Villa Reale di Chiaia; diede impulso agli scavi di Pompei; fondò l'Accademia di storia e di antichità, e la "Società reale d'incoraggiamento per le scienze naturali ed economiche" e gettò le basi dell'esercito costituendo due reggimenti di fanteria leggera, due di linea, due di cacciatori a cavallo, diciannove compagnie di artiglieri a piedi e una a cavallo, dodici compagnie di artiglieria da costa, cinque di zappatori o minatori, una di treno, una legione di gendarmi, la Guardia Reale e la milizia provinciale. Il 28 maggio del 1808 Giuseppe parti da Napoli per Baiona chiamatovi da Napoleone, il quale induceva Carlo IV e l'Infante Ferdinando a rinunziare ai loro diritto sulla corona spagnola. Da Baiona Giuseppe mandava ai Napoletani un nuovo statuto, garantito dall'Imperatore; era composto di undici articoli: i primi sette confermavano il cattolicesimo religione dello Stato, e regolavano il diritto ereditario, la reggenza in caso di minorità del re, la dote della Corona, i Grandi ufficiali di Corte, il Ministero e il Consiglio di Stato; l'ottavo istituiva un parlamento di cento membri, diviso in cinque settori (del clero, della nobiltà, dei possidenti, dei dotti e dei commercianti); gli ultimi tre articoli fissavano l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione provinciale, stabilivano norme sul diritto di cittadinanza, garantivano il debito pubblico e confermavano l'abolizione della feudalità e la vendita dei beni dello Stato. Giuseppe, come si è detto altrove, fu da Napoleone creato re di Spagna; il trono di Napoli e di Sicilia, con decreto imperiale del 15 luglio del 1808, fu affidato a GIOACCHINO MURAT, che conservava il titolo di Grande Ammiraglio dell'Impero, ma rinunziava al granducato dì Berg e Cleves. Il decreto stabiliva l'ordine di successione secondo la quale, estinta la discendenza mascolina del Murat, che prendeva il nome di GIOACCHINO NAPOLEONE, la corona doveva tornare all'imperatore e dopo passare successivamente a Giuseppe, a Luigi e a Girolamo. Il nuovo re avrebbe governato secondo lo statuto di Baiona. Il 7 luglio partì da Napoli Giulia Clary, moglie di Giuseppe ed ebbe la luogotenenza del regno il maresciallo PÉRIGNON; il 18 luglio Gioacchino lanciò ai suoi nuovi sudditi un proclama, pieno dì grandi promesse, e il 6 settembre, nella sua smagliante divisa militare vi giunse come nuovo re, che per la sua persona imponente, il suo bello spetto, il suo fare dignitoso ed amabile e la fama di valoroso soldato, piacque subito al popolo. Ricevette le chiavi della città e gli omaggi dei magistrati, quindi si recò alla chiesa dello Spirito Santo, dove ebbe la benedizione dal cardinale di Napoli FIRAO. Il 25 dello stesso mese, giunse la regina Carolina. ".Fu - scrive il Colletta - la cerimonia meno magnifica di quella già fatta all'arrivo del re, ma splendida fu l'ammirazione per la sua bellezza e del contegno veramente regale, e per lo spettacolo dei quattro figli in tenera età che l'accompagnavano, ed ebbe il comune pensiero che per Gioacchino questi e quella erano il suo miglior diadema .". Queste iniziali passionali impressioni, tipiche del gran cuore popolare napoletano seguiti dai primi atti del nuovo re, Gioacchino si rese simpatico e caro ai sudditi: visitò le carceri e gli ospedali, amnistiò i disertori, diede soccorsi ai militari in ritiro e alle vedove e agli orfani delle antiche milizie napoletane, aumentò le rendite e gli onori ai cappellani di San Gennaro, ridusse le spese militari, abolì poi ai ministri il cumulo degli stipendi, promise la restituzione dei beni agli esuli che ritornavano e limitò i rigori della polizia, che sotto Giuseppe avevano dato luogo a processi e condanne capitali impopolari, mandando al supplizio il marchese PALMIERI, il figlio del duca di FRAMMARINO, AGOSTINO MOSCA, DOMENICO VISCARDI e parecchi altri. Un mese dopo, l'impresa di Capri, coronata dal successo, rese ancora di più popolare il nome di Gioacchino. Capri, come altrove abbiamo narrato, era stata occupata dagli Inglesi il giorno stesso in cui Giuseppe era tornato a Napoli dopo il suo viaggio in Calabria, e da Capri il colonnello Hudson Lowe impediva il commercio del golfo, minacciava la capitale e manteneva relazioni con tutti coloro che nel Napoletano erano rimasti di fede borbonica. Aveva tentato Giuseppe due volte di riprendere l'isola al nemico, ma né la prima spedizione capitanata da GIOVANNI BAUSAN (marzo 1807) né la seconda guidata da GIUSEPPE CORREALE (maggio 1808) riuscirono. Volle ritentare l'impresa il MURAT, il quale diede il comando della spedizione al generale LAMARQUE, che ebbe sotto di sé truppe francesi agli ordini del D' ESTRÉE e alcuni napoletani guidate dal principe PIGNATELLI STRONGOLI. Queste truppe, la notte dal 3 al 4 ottobre del 1808, partite da Napoli e da Salerno con la scorta della flottiglia del capitano Correale, sbarcarono in tre punti diversi dell'isola. Eudson Lowe, il 4 e il 5, perdette settecento uomini che caddero prigionieri e il 18, nonostante l'arrivo di due fregate inglesi, dovette capitolare. Il Murat comunicò la notizia della sua vittoria a Napoleone per mezzo del suo ministro degli esteri. Parve ciò all'imperatore - che considerava il Murat e tutti gli altri re suoi congiunti altrettanti luogotenenti - un gesto d'indipendenza e si affrettò a rimproverare il cognato: ".Una nota del vostro ministro degli affari esteri mi ha dato la notizia ufficiale della presa di Capri: questo è ridicolo. Essendo Capri stata presa dalle mie truppe, io devo apprendere questo fatto dal mio ministro della guerra al quale voi dovrete renderne conto. Bisogna badare di non far niente che possa, da questo lato, ferire me e l'esercito francese.". Questa lettera del cognato fu una umiliazione per il Murat, che voleva fare il re sul serio e non il viceré di Napoleone, e cominciarono da allora i dissidi tra i due sovrani, che sovente furono di ostacolo all'attività svolta da Gioacchino per completare e migliorare l'opera, iniziata dal suo predecessore. Malgrado questo, il Murat riuscì a fare molto, assistito com'era da buoni ministri, quali il marchese di GALLO (Esteri), il conte ZURLO (Interni), FRANCESCO RICCIARDI (Grazia e Giustizia), il conte di MESBOURG (Finanze) e il conte Daure (Guerra e Marina). Rimosse lo stato d'assedio nella Calabria, introdusse i nuovi codici, aprì il registro delle ipoteche, limitò la giurisdizione alla prefettura di polizia, soppresse altri ordini religiosi ed ordinò la chiusura di altri conventi, diede assetto definitivo all'amministrazione delle province e all'ordinamento giudiziario, aprì strade e costruì ponti, fra cui quello sul Garigliano per i giovani che intendevano dedicarsi alta ingegneria, continuò il rinnovamento edilizio a Napoli iniziato da Giuseppe, e diede stabile assetto alle scuole pubbliche, accrescendo, migliorando e riordinando le primarie e le secondarie, aumentando le cattedre alle università, aprendo collegi e istituti femminili e scuole gratuite d'arti e mestieri, di nautica e di agricoltura. Ma le cure maggiori Gioacchino le dedicò all'esercito, che, al suo arrivo, nei quadri assommava a ventunomila uomini; lui costituì due reggimenti di veliti e al principio del 1805 ordinò la coscrizione obbligatoria, per la quale ogni anno dovevano prestare servizio due ogni mille uomini dai diciassette ai ventisei anni e eliminò i vergognosi privilegi (le esenzioni) di ceti, famiglie e città ed esentò dal servizio militare soltanto gli ammogliati, i figli unici, quelli di madre vedova e coloro che nelle scienze o nelle arti si mettevano in luce con i loro studi. In breve volger di tempo l'esercito napoletano fu portato ad ottantamila uomini, molti dei quali si dovevano distinguere in Spagna, in Germania e in Russia, e a ventimila furono portate le milizie provinciali. Inoltre ingrandì le fabbriche d'armi, fondò collegi, la Scuola d'artiglieria di Capua e la Politecnica dell'Annunziatella, fece eseguire molte opere di fortificazione e dato che le spese richieste dagli armamenti gravavano troppo sullo Stato, mise pure mano alle sue sostanze. Anche la marina da guerra ebbe le cure del Murat. Non mancavano i valenti ufficiali: quali GIOVANNI BAUSAN, GIUSEPPE DE COSA, FRANCESCO DE SIMONE, GIOVANNI CARACCI, GIUSEPPE CORNEALE, ma facevano difetto le navi e l'intera flotta era costituita dalla fregata "Cenere", dalla corvetta "Fama", da due bricks e da una cinquantina di barche cannoniere. Il Murat ingrandì i cantieri di Napoli e di Castellammare, fece costruire le fregate "Carolina" e "Letizia", i vascelli "Capri" e "Gioacchino", aumentò il numero delle cannoniere e anche qui con la coscrizione marittima aumentò gli equipaggi. Tanto l'esercito, quanto la marina, ben presto furono impiegati in operazioni di guerra. Durante quella del 1809 la maggior parte delle truppe dovettero essere inviate nell'Italia settentrionale e gli anglo-siculi n'approfittarono per assalire il Regi di Napoli. L'11 giugno di quell'anno partirono da Messina e da Milazzo, scortati da una flotta britannica agli ordini dell'ammiraglio Martin, quindicimila uomini, nominalmente comandati dal principe LEOPOLDO di BORBONE, ma effettivamente dal generale inglese STUART. Mentre la spedizione muoveva verso la foce del Garigliano, sbarcò a Gioia e nella marina tra Reggio e Palmi un corpo di tremilaquattrocento uomini, in parte soldati, che andarono a cingere d'assedio Scilla, in parte briganti che si dispersero nell'interno per sollevare le province nel nome di Ferdinando e Carolina. Gioacchino corse alle difese; da una parte richiamò da Roma il Saliceti potendo essere utile la sua opera energica a Napoli dove non pochi avevano rapporti con la corte borbonica, dall'altro raccolse le truppe rimaste in tre settori: intorno alla capitale, a Lagonegro e a Monteleone. Intanto la flotta anglosicula si presentava nelle acque napoletane ed occupavano facilmente (23-24 giugno) Procida ed Ischia. Il Murat, il quale sperava che le guarnigioni delle due isole avrebbero resistito a lungo nella attesa di soccorsi, diede ordine a GOVANNI BAUSAN e a GIOVANNI CARACCIOLO, che si trovavano a Pozzuoli e a Gaeta, di riunire le loro navi nel canale di Procida. Il Bausan la mattina del 25 partì con la "Cerere", la "Fama" ed otto barche cannoniere, ma scontratosi con una squadra inglese composta dalla fregata Cyane agli ordini di TOMMASO STEINES, dal brigantino Espoir e da, dodici cannoniere, dopo breve lotta si ritirò a Pozzuoli. La mattina del 26, il Caracciolo con trenta barche cannoniere giunse nel canale di Procida, ma invece di trovarci il Bausan vi trovò lo Steines. Il Caracciolo ripiegò verso la baia di Miniscola, quindi, dopo una lotta con il nemico che gli affondò una ventina di barche, riuscì con il resto delle flottiglia ad aggirare capo Miseno e a rifugiarsi a Baja. Avendo ricevuto l'ordine di portarsi a Napoli, Giovanni Bausan partì da Baja e manovrando abilmente, riuscì a doppiare l'isola di Nisida; ma giunto presso la punta di Posillipo fu assalito dalla "Cyane" seguita poi dall' "Espoir" e una trentina di cannoniere inglesi. Il combattimento che ne seguì fu rabbioso e durò fin quando la flottiglia napoletana fu giunta sotto la protezione delle batterie del porto. La "Cyane" e la "Cenere" riportarono gravi danni: la prima colpita nello scafo da quarantacinque proiettili, ebbe due alberi spezzati e l'attrezzatura rotta; cinquanta uomini dell'equipaggio colpiti a morte e il capitano Steines mutilato di un braccio; la seconda ricevette non meno di cinquanta proiettili in piena coperta, la velatura ridotta a brandelli e una quarantina d'uomini uccisi. Il re con una gran folla di cittadini assistette dal porto. dalla via di Chiaia alla terribile battaglia e, quando questa terminò, si recò sulle navi coperte di cadaveri e di feriti, e distribuì lodi e ricompense ai combattenti. Il Bausan fu promosso capitano di vascello e fu nominato commendatore dell'Ordine delle Due Sicilie. All'annuncio della vittoria napoleonica di Wagram e dell'armistizio di Znaim, gli Inglesi (24 luglio) lasciarono Procida e Ischia, preceduti di alcuni giorni da quelli che si trovavano all'assedio di Scilla. Il 15 agosto, compleanno dell'imperatore, mentre sulla via di Chiaia il re si preparava a passare in rivista l'esercito, all'improvviso comparve la flotta inglese nelle acque napoletane e cominciò a lanciar bombe sulla capitale. ".La nostra armata -scrive il Colletta - poco forte, ma soccorsa dal lido, con gli alberi e le vele ornate e colorate a festa, andò incontro al nemico, guidata da Gioacchino, vestito (e fu la sola volta in sette anni di regno) da grande ammiraglio dell'impero. Si combatteva dalle due parti, e intanto nella bellissima riviera di Chiaia sfilavano in mostra i reggimenti parati a festa, ed al rumor del combattimento e dei cannoni sul mare, echeggiavano a terra le salve dei castelli ed i suoni festivi dell'esercito fino a sera, quando il nemico, senza aver subito danni ma nemmeno arrecati prese il largo ...". Rimasero nel regno i briganti, che spargevano il terrore nelle province. Nella Basilicata una banda di cinquemila uomini ubbidiva ad un certo SCAROLA, ex-galeotto, uomo audace e sanguinario, che più tardi doveva essere sconfitto presso Chiaromonte dal generale Pignatelli; una banda di milletrecento briganti, di cui un terzo a cavallo, spadroneggiava tra la Basilicata e Salerno; nella Puglia un'altra numerosa banda aveva per capo uno che si spacciava per il principe ereditario Francesco di Borbone e si circondava di pompa regale non tralasciando però di taglieggiare e saccheggiare; altre bande infestavano la Calabria, delle quali una, entrata un giorno nel villaggio di Crichi, mise a sacco il paese e trucidò una quarantina di abitanti che non avevano fatta in tempo a fuggire. Per estirpare il brigantaggio, Gioacchino non solo mandò contro le bande reparti di truppe, ma emanò anche leggi eccezionali; ordinò di confiscare i beni dei "fuorgiudicati" e distriburli ai danneggiati dalle bande e ai fidi amici del governo; che i sudditi militanti sotto le bandiere borboniche, che si erano rifiutati di tornare in patria, di ucciderli se cadevano prigionieri; quelli invece che tornavano avrebbero avuto lo stesso grado tenuto nell'esercito siciliano; prescrisse infine che in ogni provincia si compilasse una lista di tutti i nomi dei briganti da esporre poi in tutti i comuni: e i cittadini di questi potevano loro stessi arrestare o uccidere i banditi; commissioni militari dovevano giudicare sollecitamente i briganti ed i loro favoreggiatori; le famiglie dei capi dovevano essere incarcerate e tutti i beni dei condannati alla pena capitale confiscati. Nel novembre del 1809 il re e la regina si recarono a Parigi; quando Gioacchino tornò, seppe che i Borbonici avevano abbandonato le isole di Ponza e Ventotene. Rientrato a Napoli il 14 febbraio del 1810, il re partì ancora il 12 marzo per ritornare il 28 aprile. Quattro giorni dopo, essendosi presentata nelle acque di Napoli una squadra inglese comandata, dal capitano BRENTON e composta da due fregate, lo "Spartau" e il "Succes", del brigantino "Espoir", dietro ordine del re uscì dal porto una flottiglia napoletana per dar battaglia alle navi nemiche. La componevano la fregata "Cenere", la corvetta "Fama", il cutter "Achille", il brick "Sparviero" e sei barche cannoniere; ne aveva il comando il francese RAMATUELLE, che aveva preso posto sulla "Cenere", dove stava un nucleo di soldati del reggimento Latour d'Auvergne, schierati per l'arrembaggio. La mattina del 3 maggio 1810, presso Procida, la "Cenere" avvistò lo "Spartau" e gli corse addosso decisa ad abbordarlo; la fregata nemica che era superiore per velocità e artiglieria, quando la nave napoletana fu ad un tiro di pistola lasciò partire una terribile scarica che ruppe un braccio al Ramatuelle, ed uccise e ferì molti ufficiali, marinai e soldati del reggimento Latour d'Auvergne, schierati sulla coperta per l'arrembaggio. Prese il comando della "Cerere" il tenente Barentin, ma poco dopo, colpito dal fuoco nemico, cadde ucciso; allora la fregata napoletana, che era stata gravemente danneggiata e subito gravi perdite, si allontanò verso Baja per mettersi sotto la protezione di quelle batterie, mentre le altre navi entravano in azione contro lo "Spartar". La lotta fu piuttosto impari, poi il Brenton rimasto gravemente ferito dopo aver ceduto il comando al tenente Wìckens Willes gl'Inglesi ebbero a quel punto la meglio. L' "Achille", malconcio, dovette ritirarsi a Baja; la "Fama", ch'era sotto il comando di GIUSEPPE DE COSA, disalberata fu rimorchiata dalle cannoniere a Baja; lo Sparviero, molto danneggiato fu catturato dagli Inglesi che in quella battaglia ebbero dieci morti e ventidue feriti ma gravi danni allo Spartan. Perdite più gravi ebbero i Napoletani: trenta morti e novanta feriti accusò il Murat nella sua relazione a Napoleone; ma questo numero non è esatto perchè soltanto la "Fama" ebbe ottantanove uomini fuori combattimento e la "Cerere" circa un terzo dell'equipaggio. Tra i feriti, oltre il Ramatuelle, ci fu il Vincent. comandante dell'"Achille"; tra gli ottantasette prigionieri dello Sparviero ci fu il comandante Raffaele de Cosa, che si ebbe gli elogi del Ramatuelle, come tutti ebbero poi quelli del re, che di loro scrisse: ". é impossibile battersi con maggior valore.".
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STORIA D'ITALIA - LA TERZA GUERRA D'INDIPENDENZA

LA STORIA D'ITALIA
 

LA TERZA GUERRA D'INDIPENDENZA

:IL VENETO ALL'ITALIA Ai difficili problemi che si presentavano al nuovo Parlamento italiano l'indomani della proclamazione del regno, si aggiungevano due questioni ancora irrisolte riguardanti l'unificazione nazionale: il Veneto, ancora sotto il dominio austriaco, e Roma e il Lazio sotto il potere temporale della Chiesa. Sia l'una che l'altra questione si risolveranno nel quadro delle profonde mutazioni avvenute nel panorama politico europeo a cui dobbiamo quindi riportare la nostra attenzione. Si tratta, per quanto riguarda l'acquisizione del Veneto all'Italia, della formazione della nazione tedesca e della sua affermazione in Europa ai danni dell'Austria. Per quanto riguarda il Lazio e Roma, che diventerà capitale d'Italia, si trattò invece della fine dell'edificio imperiale di Napoleone III e del ritorno della Francia ad un regime repubblicano, con la conseguente perdita dell'influenza in Italia. Il processo di unificazione nazionale delle popolazioni tedesche venne portato a compimento durante il decennio 1860-70 grazie alla politica unitaria e nazionalista inaugurata dal nuovo re di Prussia Guglielmo I e soprattutto da Ottone di Bismarck, suo Cancelliere dal 1862. Lo statista prussiano, a differenza di Cavour, era un uomo di destra, avverso al liberalismo, ma convinto fautore dell'unificazione nazionale da raggiungere attraverso una guerra contro l'Austria, in vista della quale la Prussia doveva attrezzarsi esercitando una egemonia militare sugli altri Stati tedeschi. Questo progetto, che significò una forte spinta alla militarizzazione dello Stato ed un regime politico interno accentratore e forte, fu appoggiato dalla ricca borghesia tedesca che chiedeva garanzie di incremento industriale e stabilità sociale. In questo periodo infatti la Germania era la prima nazione europea nella produzione del carbone (nei bacini della Ruhr), nell'industria metallurgica e nelle costruzioni ferroviarie, cioè in tutti i settori chiave dello sviluppo industriale. Il pretesto per la guerra fu dato dalla questione dei ducati danesi (Schleswig, Holstein e Lauenburg) di popolazione prevalentemente tedesca, che erano stati attribuiti dal Congresso di Vienna alla Danimarca e che dopo varie vicissitudini si trovavano ora sotto l'amministrazione austriaca e prussiana. I contrasti che ne seguirono acuirono la tensione tra Prussia e Austria, fino a quando si passò alla guerra aperta (1866). La Prussia si era prima assicurata l'alleanza italiana, stipulata allo scopo d'impegnare l'Austria su due fronti; l'Italia, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto l'annessione del Veneto. Per l'Italia la partecipazione alla guerra austro - prussiana fu la terza guerra per l'indipendenza. Ma, ancora impreparato e non adeguatamente armata, andò incontro a due clamorose sconfitte, a Custoza il 24 giugno 1866 e, subito dopo, nello scontro navale di Lissa, il 20 luglio. Sul fronte germanico invece, grazie alla estrema decisione da parte del generale prussiano von Moltke, la decisiva battaglia di Sadowa (3 luglio) costrinse gli Austriaci alla resa. In base alle trattative di pace che si svolsero subito dopo, la nuova situazione che si creò nel centro dell'Europa fu la seguente: l'Italia otteneva, tramite la mediazione di Napoleone III, il Veneto; la Prussia annetteva l'Hannover, l'Assia-Cassel, il Nassau e la città libera di Francoforte; nasceva la Confederazione della Germania del Nord sotto la presidenza del re di Prussia, comprendente 22 Stati tedeschi a nord del fiume Meno, che venivano amministrati, per problemi di interessi comuni, dal governo federale presieduto da Bismarck. Restavano fuori quattro Stati a sud del Meno che si costituivano in Confederazione della Germania meridionale, indipendente, con la quale peraltro Bismarck strinse subito dopo, segretamente, accordi militari a suo favore. L'Impero austriaco si era dunque ridotto ai soli territori dell'Austria ed Ungheria. Dopo gli avvenimenti del 1866 anche la struttura politica austriaca cambiò: l'Impero si divise in due Stati con parlamenti e costituzioni separati, appunto l'Austria e l'Ungheria, uniti solo dalla persona del sovrano, imperatore d'Austria e re d'Ungheria. LA QUESTIONE ROMANA A favorire in Europa la nascita di una nuova nazione, la Germania, che presentava fin dall'inizio tutte le caratteristiche, soprattutto economiche, per diventare in breve una grande potenza, si ebbe in questo decennio il declino del potere napoleonico. Sarà proprio la sconfitta sul piano militare infertagli dalla Germania a segnarne la fine. Il potere di Napoleone cominciava infatti a vacillare dall'interno; egli si trovò attaccato sia da destra, da frange clericali e dall'alta borghesia finanziaria, sia da sinistra, dalla piccola borghesia intellettuale e dalla classe operaia. Non gli restava che affidare le sorti del proprio prestigio alla guerra, come sempre avviene nella logica delle grandi potenze. Da parte prussiana, niente era più coerente alla linea militarista e forte di Bismarck che piegare lo Stato francese, ancora egemone in Europa. L'occasione si presentò presto, per una questione di successione al trono di Spagna. Napoleone III, tramite il proprio ambasciatore, chiese al re di Prussia Guglielmo I, che si trovava ai Bagni di Ems, ulteriori garanzie sulla rinuncia (peraltro decisa e nota) di Leopoldo di Hohenzollern alla candidatura a quel trono; un dispaccio del re a Bismarck fu da questo abilmente alterato in modo tale da suonare offesa e minaccia per la Francia; questa il 19 luglio 1870 dichiarò guerra alla Prussia. Ma in poche settimane le truppe imperiali furono battute dagli eserciti prussiani in Alsazia e Lo rena; l'imperatore in persona a Sedan (2 settembre) fu sconfitto indecorosamente e preso prigioniero. Due giorni dopo Parigi proclamava la Terza Repubblica. In una difficilissima situazione interna che, come vedremo, porterà alla Comune, la Francia repubblicana sottoscriveva la pace di Francoforte (maggio 1871) con la Germania alla quale dovette cedere i territori dell'Alsazia e della Lorena, mentre nel gennaio 1871 era stata solennemente proclamata la nascita dell'Impero germanico (Secondo Reich). Per l'Italia la fine del potere personale di Napoleone significò la caduta di quei legami diplomatici con la Francia che impedivano l'annessione del Lazio e di Roma: essi consistevano nella cosiddetta "Convenzione di Settembre" firmata nel 1864, con cui il governo italiano si era impegnato a garantire l'autonomia dello Stato Pontificio ed a trasferire la capitale da Torino a Firenze (che di fatto fu la capitale del regno dal 1865 al 1871). Dopo Sedan il governo italiano si considerò libero di procedere alla liberazione di Roma, un corpo di spedizione, al comando del generale Raffaele Cadorna, aprì una breccia nelle mura della città, a Porta Pia, e vi entrò il 20 settembre 1870. Un anno dopo si apriva la prima seduta del Parlamento nazionale a Roma, dove si erano già trasferiti il governo e la corte. Era già stata approvata una legge (la legge delle guarentigie, cioè delle garanzie) a carattere unilaterale, perché non accettata dall'altra parte, che regolava i rapporti tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano. Secondo questa legge veniva garantita alla Chiesa di Roma la sovranità sui palazzi del Vaticano, del Laterano e su Castelgandolfo: tale sovranità territoriale venne a costituire, così come è ancora, uno Stato indipendente; al nuovo Stato veniva assegnata una dotazione annua di 3 milioni. Era l'attuazione dei princìpi liberali della "libera Chiesa in libero Stato" di matrice cavouriana. Il papa Pio IX mantenne un atteggiamento di dignitosa ostilità rispetto alla legge, che non riconobbe, ed invitò inoltre tutti i cattolici italiani a non partecipare alla vita politica (con il cosiddetto "non éxpedit", "non conviene"). LA "DESTRA STORICA" AL GOVERNO La classe dirigente che governò il Paese dall'unità fino al 1876 si era formata alla scuola di Cavour, era liberale moderata e fu chiamata "Destra storica". Dare vita ad un nuovo Stato non era certo compito facile, considerando i grandi squilibri esistenti tra le varie regioni italiane ed i problemi economici derivanti anche dai costi delle guerre risorgimentali che gravavano sul bilancio del giovane Stato. Il disavanzo delle finanze statali superava nel 1866 il 60% dello stesso bilancio. Prima di potere programmare una politica di sviluppo economico del Paese bisognava inoltre fornirlo di una rete di infrastrutture (prima fra tutte l'ampliamento della rete ferroviaria), condizione ormai essenziale dello sviluppo, il che significava una politica di lavori pubblici per la quale necessitava molto denaro. Obiettivo prioritario dei governi della Destra fu quello di risolvere questi due problemi: non fu trovata altra soluzione che quella di adottare un sistema di prelievo fiscale estremamente rigido, in un momento molto duro per tutta la popolazione italiana, specie per quella meridionale meno agiata e che più di altri aveva pagato il prezzo dell'unificazione. La rivolta di Palermo del 1866 fu l'episodio più clamoroso di protesta di un'intera città contro la politica governativa. Prescindendo da un giudizio sui sacrifici imposti ad una popolazione cui le lotte risorgimentali avevano dato ben altre prospettive, è merito della Destra il raggiungimento del pareggio del bilancio dello Stato (1876) ed il notevole incremento della rete ferroviaria (quadruplicata in termini di chilometri dal 1870 al 1880). La produzione industriale non aveva tuttavia possibilità di estendersi, anche perché la politica fiscale rendeva minime le capacità d'acquisto delle masse, cioè la domanda di prodotti industriali. Assai più critico è il giudizio che gli storici danno circa l'assetto politico - amministrativo che gli uomini della Destra diedero all'Italia. Considerando le profonde differenze delle condizioni sociali ed economiche delle popolazioni delle varie regioni italiane, lo stesso Cavour prevedeva un decentramento amministrativo su basi regionali, la possibilità cioè per le varie regioni di amministrare la vita pubblica con margini di autonomia tali da rispondere ai problemi specifici che presentavano le regioni. Ben diverso fu l'orientamento di Bettino Ricasoli, nuovo capo di governo dopo la morte di Cavour avvenuta il 6 giugno 1861. Egli infatti estese gli ordinamenti piemontesi a tutti i territori del regno, seguendo cioè la via opposta, quella dell'accentramento amministrativo. Furono create cinquantanove province italiane, in ognuna delle quali fu mandato un prefetto governativo. Questa linea continuò di fatto a favorire la borghesia industriale del Nord, avvantaggiata soprattutto dall'abolizione delle dogane interne preesistenti all'unificazione, il che fece del Sud d'Italia un nuovo mercato per le industrie settentrionali e scoraggiò le pur minime iniziative industriali meridionali che, essendo ad un più basso livello produttivo, senza alcuna protezione, dovettero soccombere alla concorrenza delle industrie del Nord. In una tale situazione di diversità iniziale tra Nord e Sud anche una misura unitaria come quella della confisca e della vendita dei beni terrieri ecclesiastici dette risultati disuguali. Al Nord significò infatti la fine di estesi latifondi e l'incremento della piccola proprietà agricola, al Sud al contrario determinò l'estensione del latifondo semifeudale perché furono i proprietari terrieri gli unici in grado di acquistare le nuove terre disponibili. LA QUESTIONE MERIDIONALE La speranza che l'unificazione avrebbe creato le premesse necessarie per un superamento degli squilibri tra il Nord ed il Sud d'Italia, condivisa dalla maggior parte dei protagonisti delle lotte risorgimentali, non si avverò. Anzi il divario esistente tra le reali condizioni di vita degli uomini del Meridione e le popolazioni del Nord fu accresciuto dai provvedimenti dell'amministrazione di Destra. Il Meridione fu pesantemente colpito dalla politica fiscale e lo stato di protesta si sviluppò in vera e propria guerriglia che impegnò truppe governative nelle campagne del Meridione dal 1861 al 1865. Il fenomeno del brigantaggio si estese a macchia d'olio con un significato di protesta sociale che lo rendeva difficile da sgominare, perché protetto dalla popolazione. Oltre alle misure fiscali (la più odiosa fu la tassa sul macinato) fu soprattutto la leva militare obbligatoria imposta dal governo italiano ad alimentare lo stato di protesta: per le famiglie contadine meridionali infatti significava la perdita delle braccia più valide, senza le quali si andava incontro alla più nera miseria. Le condizioni di vita dei contadini meridionali erano spaventose; se ne accorsero per primi alcuni deputati liberali che pubblicarono i risultati di una inchiesta condotta in Sicilia, dando il via ad una letteratura meridionalistica che avrà interessanti sviluppi in Giustino Fortunato e, poi, in Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini ecc. LA SINISTRA AL POTERE Sappiamo che il processo di unificazione nazionale era avvenuto grazie all'apporto ideale e pratico di forze eterogenee: da un lato i moderati liberali che con l'opera di Cavour avevano dato una direzione politica al movimento risorgimentale, e che avevano mantenuto questa condizione di privilegio governando l'Italia dal 1861 al 1876; dall'altro l'attività dei democratici, più incisiva sul piano dell'azione concreta (la liberazione del Mezzogiorno valga come unico esempio), ma carente sul piano della proposta politica. I mazziniani, durante i primi decenni dell'unificazione, diedero uno stimolo profondo al compimento dell'unità, agitando le questioni del Veneto e di Roma, ma non ebbero poi una proposta politica di reale alternativa a quella della Destra che solo poteva venire, nelle condizioni esistenti, dal tentativo di affrontare radicalmente la questione contadina. Si tenga presente che l'agricoltura partecipava alla formazione del prodotto nazionale lordo per il 57,8%; l'industria per il 20,3%; il terziario per il 21,9%. E le condizioni di semiservitù feudale delle masse contadine meridionali erano ben conosciute dagli uomini politici del tempo. I democratici non fecero un'opposizione politica a sostegno dei contadini, che furono così lasciati sotto l'influenza reazionaria e che reagirono con rivolte violente. La maggior parte dei democratici si convertì ad una forma di opposizione parlamentare legale che rivendicava in Parlamento l'allargamento del diritto di voto e l'istruzione primaria obbligatoria. Questo gruppo di democratici detti della "Sinistra giovane" (da contrapporre alla "Sinistra storica" mazziniana ormai dissoltasi) si rafforzò dal 1865 al 1875, anno in cui, con un discorso di Agostino Depretis a Stradella, questa corrente propose al Paese un proprio indirizzo di governo. Le condizioni erano mature per un cambiamento di rotta nella gestione della politica nazionale. Il pareggio dei bilancio raggiunto nel 1876 rendeva ormai insopportabile l'onere fiscale imposto dalla Destra. La necessità di un allargamento del voto e di uno sviluppo più accelerato del progresso civile degli Italiani era da tutti sentito. Nel 1876 l'ultimo governo della Destra, presieduto da Marco Minghetti, cadde; Agostino Depretis, l'uomo più rappresentativo della Sinistra, ebbe dal re l'incarico di formare il nuovo governo. DEPRETIS Depretis fu presidente del consiglio dal 1876 al 1887 con due brevi interruzioni. Il cambiamento che l'avvento della Sinistra al potere faceva prevedere all'interno della politica dello Stato italiano in realtà non avvenne. Depretis introdusse una nuova pratica parlamentare detta del "trasformismo" con la quale al governo partecipavano di volta in volta anche esponenti di altri partiti politici. In tal modo caddero le rigide barriere che fino ad allora avevano contrapposto la Destra storica e la Sinistra, e si venne a creare un sistema politico aperto alla partecipazione di tutte le componenti della classe dirigente italiana, anche della piccola e media borghesia. A ciò va aggiunto il fatto che Depretis introdusse le pratiche del favoritismo e della concessione di poteri locali a vari singoli destinatari che così vennero convinti (a volte con la corruzione) ad entrare nella maggioranza. Attraverso questa pratica si portò a compimento la coalizione tra la borghesia dell'Italia settentrionale e la borghesia agraria del Meridione. Le riforme che il governo introdusse nel Paese furono ben lontane dal costituire quei mutamenti sostanziali da molti auspicati: nel 1882 una nuova legge elettorale portava a due milioni gli elettori. Restando esclusi i nullatenenti e gli analfabeti, questa riforma mantenne l'emarginazione delle masse meridionali che continuarono ad essere escluse dai diritti politici. La seconda legge di rilievo fu la legge Coppino del 1877 che rendeva obbligatoria e gratuita l'istruzione per altri due anni rispetto alla precedente legge Casati che ne prevedeva solo due. Tale legge restò però inoperante, specie nelle regioni più povere. Nel 1879 il governo abolì l'odiata tassa sul macinato che era stata, come sappiamo, motivo di malumore e di rivolta per le popolazioni meridionali; ma, non essendo mutato il sistema di prelievo fiscale dello Stato, l'abolizione di questa tassa non alleggerì le condizioni di vita dei poveri. Durante la gestione politica di Depretis la politica economica dello Stato subì una svolta; cominciò infatti l'intervento a difesa delle industrie nazionali con l'applicazione di tariffe e dogane sulle merci straniere e con le sovvenzioni statali ad alcune industrie nazionali. Per quanto riguarda la politica estera, occorre ricordare che il 20 maggio 1882 veniva stipulata a Vienna la Triplice Alleanza tra Austria, Germania e Italia. Era, da parte italiana, una decisione imposta dalla necessità di uscire dall'isolamento internazionale determinato dalla crisi dei rapporti con la Francia conseguenti alla "delusione" di Villafranca, alla difesa francese dello Stato Pontificio dalle legittime rivendicazioni italiane e, poi, alla conquista della Tunisia (1881) compiuta contro le mire coloniali e gli interessi italiani. Invece l'aiuto fornito dalla Prussia bismarckiana nel 1866, che portò all'annessione del Veneto (Terza guerra d'indipendenza) aveva avvicinato l'Italia agli Stati Centrali, che riscuotevano anche la simpatia della monarchia sabauda e dei circoli ad essa vicini per il modello conservatore dell'ordine sociale e politico da essi rappresentato. Per questi e per altri motivi finì per affermarsi l'abilità politica di Bismarck che portò alla Triplice Alleanza, rinnovata nel 1887 e nel 1891, malgrado il dominio austriaco su Trento e Trieste Sarà proprio la questione relativa a questi territori a rendere inoperante l'alleanza nel 1915, quando, durante la prima guerra mondiale, l'Italia prenderà le armi contro l'Austria, la nemica tradizionale in tutte le lotte risorgimentali. LO SVILUPPO INDUSTRIALE Negli ultimi venti anni del secolo XIX l'Italia compì nel campo produttivo delle trasformazioni strutturali e diventò, sia pure con profonde difficoltà, un Paese industriale. DATI: Aumento demografico: 1871 28 milioni - 1901 33 milioni - Operai dell'industria: 1876 = 500.000 - 1900 = 3.000.000 - Produzione del ferro nel 1871 = 38.000 tonnellate - Produzione del ferro nel 1900 = 190.000 tonnellate - Produzione di energia elettrica nel 1883 = 1 milione KWH - Produzione di energia elettrica nel 1900 = 160 milioni di KWH. Per rendere possibile il decollo della giovane industria italiana si rese necessaria l'attuazione di una politica economica di intervento e di protezione dell'industria da parte del governo. Lo Stato, che fino ad allora si era direttamente impegnato solo nel campo delle ferrovie, fu chiamato dai gruppi industriali più avanzati a varare misure di protezionismo doganale ed a sovvenzionare i più importanti complessi industriali. Il passaggio dalla politica liberoscambista ad una politica protezionistica avvenne gradualmente dal 1881 fino all'adozione di una tariffa sulle importazioni che, eliminando di fatto la concorrenza delle merci straniere, determinò il decollo dell'industria italiana degli anni 1896-1908. In questa fase il capitalismo italiano si consolidò soprattutto nel cosiddetto triangolo industriale (Piemonte - Lombardia - Liguria) dove già esistevano tutte le condizioni dello sviluppo. Il modo in cui avvenne lo sviluppo industriale italiano fu tale da non risolvere il divario tra il Nord ed il Sud, anzi esso fu ulteriormente aggravato. La concentrazione dei grandi complessi industriali in alcune zone privilegiate del territorio nazionale, l'utilizzazione del Centro - Sud come mercato dei prodotti industriali e come fonte di manodopera a basso costo, furono fenomeni che si stabilizzarono proprio in questo periodo. Oltre alle antiche contraddizioni, lo sviluppo ne portò di nuove e non meno gravi. Il nuovo proletariato industriale mancava di una legislazione sul lavoro. Gli orari di lavoro erano tra i più lunghi d'Europa ed i salari tra i più bassi. Leggi illiberali continuavano ad ostacolare l'esigenza ormai matura di una organizzazione operaia autonoma. Inoltre, le lotte contadine nel Meridione acquistavano una nuova dimensione politica ponendosi su un terreno rivendicativo ben più preoccupante per la classe dirigente di quanto non lo fosse stato fino ad allora il fenomeno della rivolta isolata e del brigantaggio. IL PRIMO GOVERNO CRISPI (1887-1891) Durante il governo della Sinistra l'Italia aveva inaugurato una politica estera antifrancese, e si era avvicinata agli Imperi dell'Europa centrale. L'orientamento autoritario della Corona aveva molto influito su questa scelta. Nel 1882, come si è detto, venne firmata la Triplice Alleanza tra l'Italia, l'Austria e la Germania. Questa scelta di politica estera suscitò la protesta dei movimenti irredentisti e dell'opinione pubblica che ancora vedeva nell'Austria la naturale nemica dell'Italia. Né con maggiore entusiasmo fu salutato l'inizio della politica coloniale di cui fu artefice il nuovo capo del governo, Francesco Crispi, succeduto nel 1887 al Depretis. Ex mazziniano, protagonista democratico del movimento risorgimentale, Crispi aveva mantenuto negli anni successivi all'unità più lo spirito unitario - nazionalista del pensiero mazziniano che quello democratico. Repubblicano, si era convertito come gli altri ex mazziniani all'ideale monarchico, convinto che solo sotto il regime dei Savoia per l'Italia fosse possibile consolidare quell'unità nazionale e quel prestigio sul piano europeo di cui era acceso fautore. Il suo ideale fu quello della Germania di Bismarck, ed a questo modello si ispirò in tutta la sua azione governativa, sacrificando molto spesso ad esso lo sviluppo democratico italiano. L'avventura coloniale in cui si imbarcò Crispi era iniziata nel 1882 con l'acquisto della baia di Assab nel Mar Rosso da parte del governo italiano. Nel 1885 il massacro di una spedizione italiana in Eritrea aveva offerto al governo italiano l'occasione di occupare Beilul e Massaua. Tuttavia nel 1887, poco prima che Depretis morisse, i presidi italiani erano stati massacrati dagli Abissini a Dogali. Crispi fece della politica coloniale un punto forte del suo programma, illudendosi di poter fare acquistare così all'Italia un ruolo di grande potenza. Il suo sogno era quello della costituzione di un vasto dominio coloniale dal Mar Rosso all'Etiopia. Nel 1890, in seguito ad un intervento italiano a sostegno di Ras Menelik che ambiva alla successione del regno d'Etiopia, l'Italia ebbe la sua prima colonia in Africa, l'Eritrea. Colonialista e filogermanico, in politica interna Crispi fu profondamente autoritario, malgrado l'apparente contraddizione del suo regime politico cui si devono alcune riforme a carattere avanzato, come l'abolizione della pena di morte. In sostanza egli rafforzò i poteri del governo a scapito di quelli parlamentari e dette alle forze di polizia maggiori poteri di repressione dell'opposizione interna. Inoltre, accentrando nelle sue mani le cariche di ministro degli interni, di ministro degli esteri e quella di presidente del consiglio, accrebbe i poteri di quest'ultima funzione. La svolta autoritaria e reazionaria impressa da Crispi alla politica italiana ebbe i suoi effetti: a livello economico il suo filogermanismo e la sua ammirazione per il modello prussiano - bismarckiano provocarono un tale inasprimento dei rapporti economici con la Francia da privare l'Italia del 40% delle sue esportazioni, e ciò fu un colpo molto duro, specie per le industrie della seta e del vino. Inoltre, frutto anche della maturazione dei tempi, la svolta autoritaria accelerò la formazione in Italia di una nuova opposizione popolare a carattere socialista. L'OPPOSIZIONE POLITICA E SOCIALE Nell'ultimo ventennio del secolo l'azione teorica e pratica di Andrea Costa, Antonio Labriola e Filippo Turati portò anche in Italia alla formazione delle prime organizzazioni operaie socialiste. Nel 1881 nacque in Romagna un Partito socialista rivoluzionario, nell'82 in Lombardia il Partito operaio italiano. Circa dieci anni più tardi, nel 1892, il movimento operaio si dette una organizzazione a carattere nazionale con la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani (poi Partito Socialista Italiano). Quasi contemporaneamente, papa Leone XIII imprimeva una spinta determinante al cattolicesimo sociale con l'enciclica "Rerum novarum" (1891) che, fra l'altro, si soffermava sulla condizione degli operai. Da essa prendeva l'avvio un movimento di giovani cattolici, laici ed ecclesiastici, la cui azione si venne svolgendo secondo un programma formulato dall'economista Giuseppe Toniolo. Il movimento si chiamò "democrazia cristiana", ma non ebbe carattere di partito politico, perché conservò quello di movimento sociale, non agguerrito sul piano delle riforme, ma importante perché portava avanti una visione dinamica del mondo cattolico. Ma in questo periodo il movimento di protesta che più preoccupò i ceti dirigenti fu quello dei Fasci dei lavoratori, affermatosi in Sicilia nel 1893. Il movimento dei Fasci, nato spontaneamente tra le masse contadine del Meridione, aveva una ispirazione socialista, grazie all'attività di un gruppo di socialisti meridionali. Per la prima volta la protesta contadina assunse un indirizzo politico preciso ed ebbe una capacità di coinvolgimento rispetto a ceti piccolo - borghesi, artigianali ed operai. Il movimento si sviluppò specialmente dopo le dimissioni di Crispi, sostituito al governo, prima, per breve tempo, dal conservatore Antonio di Rudinì, e poi, dal maggio del 1892 al dicembre del 1893, da Giovanni Giolitti, un uomo di cui avremo modo di parlare successivamente perché imprimerà un nuovo corso alla politica italiana nel primo ventennio dei nuovo secolo. Giolitti aveva una concezione diversa da quella crispina riguardo ai rapporti tra il governo ed i movimenti sociali di protesta. Riteneva cioè che bisognasse dare libertà d'espressione politica ai lavoratori, le cui istanze dovevano ormai entrare nel libero esercizio dell'attività politica del Paese. Contrario quindi a misure repressive, non intervenne nel movimento dei Fasci sperando che i contadini e gli operai riuscissero ad arrivare ad un accordo. Ma lo scoppio dei moti dei minatori della Lunigiana accrebbe nella classe dirigente la paura della sovversione sociale. Giolitti venne accusato di debolezza e dovette dimettersi, anche perché coinvolto nello scandalo della Banca Romana. Questa, per le pressioni fatte da finanzieri privi di scrupolo su alcuni uomini politici, aveva concesso crediti eccessivi nel campo dell'edilizia, provocandone il grave dissesto finanziario. IL SECONDO GOVERNO CRISPI (1893-1896) Il ritorno di Crispi al potere tranquillizzò parte della borghesia italiana. Il movimento dei Fasci venne soffocato nel sangue, furono sciolte le organizzazioni politiche dei lavoratori (tra cui il Partito Socialista Italiano), la gestione del Paese tornò ad essere autoritaria ed illiberale. Ne risentì la stessa vita del parlamento, le cui attività vennero ridotte al minimo. La fine definitiva del prestigio di Crispi fu segnata dalla ripresa dell'iniziativa coloniale italiana, da lui voluta. Dal 1894 al '96, in Africa orientale, si combatté una guerra condotta politicamente e militarmente in modo sbagliato. Dopo diversi insuccessi, il l0 marzo 1896 un contingente di 15 000 soldati italiani venne massacrato ad Adua dagli Abissini. L'uomo delle leggi eccezionali che aveva affidato il suo prestigio a questa impresa, ben sapendo di andare contro corrente (manifestazioni di protesta al grido di "viva Menelik" avevano accompagnato in molte città italiane l'impresa di Africa), si dimise il giorno dopo. La fase politica appena chiusa con la caduta di Crispi aveva per la prima volta, dopo l'Unità, scavato un solco profondo tra le forze politiche italiane. Il sistema decisamente autoritario dello statista aveva cementato il consenso di una parte della classe dirigente, gelosa di custodire i propri privilegi anche a costo di rinunziare alle libertà democratiche del Paese; aveva peraltro reso più definitiva una opposizione politica e sociale. Questo è un fatto nuovo nella vita del Paese, dove, come abbiamo visto, non c'era stata finora una distinzione netta tra i governi di destra e di sinistra (ricordiamo che lo stesso Crispi proveniva da uno schieramento di sinistra). Si era così costituito un blocco di potere di stampo prussiano, fautore di un governo forte (l'esercito, la monarchia, gli agrari del Meridione e parte degli industriali del Settentrione) a cui si contrapponeva uno schieramento di forze eterogenee pronte a battersi in difesa della libertà. Questo schieramento era composto dalla borghesia illuminata, dalla piccola borghesia, dal proletariato, e si esprimeva politicamente attraverso i partiti radicale, repubblicano e socialista. Il socialismo italiano di fine secolo, nel più ampio quadro del socialismo della Il Internazionale europea, assumeva come prioritario il problema della salvaguardia delle libertà democratiche rispetto all'originale radicalismo marxista della lotta di classe, e si impegnava in un fronte comune con i partiti democratici borghesi (revisionismo). GLI ULTIMI QUATTRO ANNI Gli ultimi quattro anni del secolo furono anni tumultuosi e difficili. Furono anni di eccidi di piazza, come quello perpetrato dal generale Bava Beccaris che sciolse una manifestazione a Milano con la forza, uccidendo cinquanta manifestanti, e ricevette per questo una medaglia al valore dal re; anni in cui si tentò una distensione del clima politico con una amnistia che aprì le porte delle carceri ai capi dei Fasci ed a tutti gli esponenti dei partiti politici d'opposizione; furono, infine, anni in cui si consumò un regicidio, quello del re Umberto 1, che morì in seguito ad un attentato anarchico. Il governo passò dalle mani del Di Rudinì a quelle di Pelloux, poi a Saracco ed infine a Zanardelli. La classe dirigente oscillò tra misure democratiche e tentativi autoritari, mentre maturava il comportamento democratico dell'opposizione operaia che passò dal rivoltiamo di tipo anarchico a forme di lotta più consapevoli e perciò più politiche. Il vecchio secolo si chiuse con il primo sciopero generale dei lavoratori, quello dei portuali di Genova che incrociarono le braccia dopo la chiusura - decisa dal governo - della Camera del Lavoro (dicembre 1900): un nuovo tipo di manifestazione politica cui non si poteva più rispondere con l'eccidio. Sarà Giolitti l'interprete di questa nuova maturità politica del Paese e sarà lui a dare un nuovo corso alla politica italiana.

PROCESSI CHE PORTARONO ALL'UNITA' D'ITALIA CONTENUTO GENERALE: Dopo il congresso di Vienna si assistette nei vari paesi ai tentativi di restaurare gli assetti politici e sociali precedenti alla rivoluzione francese. Tale processo passò sotto il nome di Restaurazione e portò a forti conflitti interni a ciascun paese, non ultimo l'Italia, causati soprattutto dalle modalità di attuazione della restaurazione, cioè con metodi repressivi e violenti. Le varie rivolte si susseguirono in tutta Europa in ondate periodiche (1821-21/1830-31/1848/59-61). In Italia emersero poi vari personaggi che si distinsero per le loro idee liberali e per il loro operato che consentì di arrivare all'unificazione d'Italia il 18 Febbraio 1861.

 
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