STORIA D'ITALIA FINO ALLA NASCITA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
CONTENUTO PARTICOLARE:
Dopo il congresso di Vienna, apertosi dopo la sconfitta di Napoleone a
Lipsia il 13 ottobre 1813, si assistette nei vari paesi ai tentativi di
restaurare gli assetti politici e sociali precedenti alla rivoluzione
francese. La Restaurazione non avvenne dappertutto secondo le stesse
modalità, a causa della presenza la presenza soprattutto dei nuovi ceti
borghesi che si erano affermati nel campo amministrativo e delle riforme
economiche. La stessa classe dirigente della Restaurazione era composta da
correnti politiche di diverso orientamento c'erano:
- gli aristocratici conservatori che rifiutavano tutte le riforme dei
periodo napoleonico;
- i moderati che ritenevano possibile una conciliazione tra le aspirazioni
al ritorno al passato e le nuove esigenze di riforme soprattutto nel campo
amministrativo ed economico.
Nel campo religioso, si assistette a una valorizzazione della fede, come
elemento stabilizzatore della società. Esaltazione della fede, della
tradizione religiosa e dei sentimenti, popolari furono propri della cultura
romantica, diffusa in tutta Europa.
Gli anni della Restaurazione, oltre a vedere i tentativi dell'aristocrazia
di ripristinare il vecchio assetto prerivoluzionario, videro anche la
diffusione dì un nuovo pensiero politico, di ispirazione liberale, che
permeò tutti i movimenti tendenti ad associare la lotta per la libertà con
quella delle autonomie e indipendenze nazionali.
Il principale sostegno delle forze fautrici della Restaurazione fu
l'Austria, la cui politica era diretta dal principe di Metternich, il quale
se era contrario al programma degli ultramonarchici che volevano tornare al
periodo prerivoluzionario, tuttavia era ostile a tutte le aspirazioni
nazionali dei popoli, sottomessi direttamente o indirettamente alla Corona
austriaca.
Fu ciò che infatti avvenne dove, come negli stati italiani, tele processo
ebbe in carattere oppressivo e illiberale. Tornarono al potere i vecchi
sovrani, circondati da aristocratici e clericali reazionari. L'Austria si
era assicurata un vasto dominio, che comprendeva i territori della Lombardia
e dell'ex repubblica Veneta; inoltre essa esercitava un controllo,
attraverso combinazioni di parentele, sul ducato di Parma, Piacenza e
Guastalla, su quello di Modena e sul granducato di Toscana, dove però la
Restaurazione ebbe un carattere, moderato e tollerante. Nonostante la
sospettosa politica dei Metternich, il Lombardo-Veneto conobbe sotto
l'Austria un'amministrazione ordinata ed efficiente. Nelle province lombarde
si sviluppò un movimento culturale patriottico-liberale, che ebbe tra i suoi
maggiori esponenti Silvio Pellico e Federico Confalonieri. Il periodico il
"Conciliatore", organo di questo gruppo di intellettuali, divenne
sostenitore delle idee dei Romanticismo.
Atmosfera pesante, chiusa, decisamente reazionaria contrassegnò il ritorno
al potere dei re di Sardegna, Vittorio Emanuele I. Nonostante i moniti di
Cesare Balbo, sostenitore di una linea liberalmoderata, il re instaurò una
politica retriva, che privilegiava gli interessi dell'aristocrazia. Era,
pertanto, inevitabile che si formassero correnti di opposizione clandestina,
che riflettevano gli interessi più aperti e nuovi di quei nobili e borghesi
che si erano "compromessi" con il regime napoleonico.
Pesante atmosfera di reazione anche nello stato Pontificio, nonostante i
tentativi dei segretario di stato Consalvi di ammodernare l'amministrazione
e la gestione degli affari pubblici. Gli scontenti erano molti, il che
spiega la diffusione della carboneria nei territori dello stato.
Il regno delle due Sicilie conobbe invece un periodo meno oppressivo e
soffocante di quello presente negli altri stati controllati dall'Austria. Il
ministro Luigi de' Medici è famoso per la sua politica dell'amalgama, che
mirava a fondere in un unico ceto politico il personale politico e
burocratico dei periodo murattiano con il personale borbonico. Sotto il suo
governo fu creato il regno delle due Sicilie; con questa decisione veniva
abolita l'autonomia siciliana, sancita dalla costituzione dei 1812.
Nonostante le aperture politiche dei Medici, fu impossibile colmare il
distacco che si era prodotto fra i Borboni e le classi degli intellettuali
napoletani, che ricordavano la soppressione della repubblica Partenopea dei
1799 e le aspettative per una maggiore libertà e per le riforme degli anni
murattiani.
Durante il 1820 l'insofferenza verso i regimi della Restaurazione,
specialmente di quelli che avevano carattere reazionario e poliziesco, si
manifestò anche nella diffusione delle società segrete, che variamente si
ispiravano al giacobinismo, alle dottrine comunisteggianti di Babeuf e di
Filippo Buonarroti, alle ideologie liberaldemocratiche. Di queste sette le
più importanti in Italia furono la massoneria e la carboneria. Ma ci furono
anche sette segrete costituite da cattolici e da rappresentanti dei clero,
che si caratterizzavano per l'assoluta fedeltà alla Chiesa e al papa e per
la preoccupazione che avevano di combattere, con i "buoni libri" e con
un'azione svolta all'interno delle classi più elevate, le idee
dell'illuminismo.
I moti rivoluzionari che scoppiarono in Italia ebbero come punto d'origine
il Sud.
Nel regno delle due Sicilie il moto rivoluzionario fu avviato da un gruppo
di carbonari. Al moto aderì il generale Guglielmo Pepe. Il re Ferdinando I
dovette promettere la costituzione. La rivolta si estese anche in Sicilia
dove assunse l'aspetto di una rivendicazione a carattere sociale e
indipendentista. Il governo napoletano inviò nell'isola il generale Pietro
Colletta, che impose con la forza ai Siciliani la volontà unitaria dei
governo. Il Metternich, preoccupato dagli effetti che le rivolte nel regno
delle due Sicilie avrebbero potuto avere sugli italiani, convocò una
conferenza delle grandi potenze a Troppau.
Russia, Austria e Prussia proclamarono il diritto della Santa alleanza a
intervenire negli stati che fossero apparsi "vittime" della rivoluzione. Fu
proprio il re di Napoli Ferdinando I a invocare l'intervento austriaco e i
rivoltosi furono sconfitti.
Anche nel Piemonte sabaudo si ebbero moti insurrezionali, guidati dai
carbonari. L'esercito austriaco e quello rimasto fedele al re sconfissero
nell'aprile 1821 i ribelli.
Incominciò da questo momento la storia di una vasta emigrazione politica.
Repressione e reazione vi furono anche negli altri stati italiani,
appoggiate sempre dall'Austria e particolarmente dure si rivelarono quelle
dei Napoletano. Nel Lombardo-Veneto molti rivoltosi furono relegati nella
fortezza dello Spíeiberg a scontare la loro pena.
Il prevalere negli stati italiani di tendenze reazionarie e di metodi
polizieschi non riuscì a impedire nelle classi colte lo sviluppo di un
pensiero politico e di una cultura liberali.
Nel Lombardo-Veneto si affermò la scuola riformista di Giandomenico
Romagnosi, da cui sarebbe uscito il maggiore esponente dei pensiero liberale
federativo, Carlo Cattaneo.
Nel 1830 l'ondata di insurrezioni partita da quella parigina del 30, di
Carlo X che si oppose al re Luigi XVIII, ebbe forti ripercussioni anche in
Italia.
L'epicentro questa volta fu il ducato di Modena, il capo della rivolta lo
sfortunato Ciro Menotti, che aveva confidato nell'appoggio dei duca
Francesco IV, e delle armate francesi, appoggio che venne a mancare con
l'intervento delle truppe austriache l'insurrezione fu stroncata e Menotti
condannato a morte.
Dopo il fallimento dei moti dei 1830-31, incominciò a diffondersi in Italia
negli ambienti patriottici la convinzione che con i metodi della carboneria
non si sarebbe mai riusciti a sbarazzarsi dei regimi assoluti e della cappa
di piombo della Santa alleanza.
Chi si fece interprete di questo nuovo stato d'animo fu Giuseppe Mazzini, il
quale ritenne che solo una fede nutrita di spirito religioso, capace di
coinvolgere la gioventù urbana, avrebbe potuto trasformare l'obiettivo
dell'unità nazionale in qualcosa di più forte delle baionette austriache e
della paura dei principi. La storia, secondo Mazzini, aveva camminato
attraverso un processo dialettico che la divideva in due fasi:
- una fase di antitesi nella quale vi fu un a forte opposizione al sistema
feudale su cui aveva trionfato l'individualismo borghese della rivoluzione
francese.
- Ora, invece, veniva la fase di sintesi ovvero alla proclamazione
dell'Umanità, che avrebbe superato l'individualismo e aperto un'altra epoca
storica.
Egli, politicamente, non era per un governo democratico, infatti era
convinto che l'Italia avesse bisogno di qualcuno che la governasse in un
potere centralizzato, ma non secondo i metodi dell'assolutismo monarchico
austriaco. Disprezzava poi le ideologie socialistiche tendenti a individuare
nel proletariato la forza rivoluzionaria.
Nel 1831 Mazzini fondò a Marsiglia la "Giovine Italia", che avrebbe dovuto
preparare l'insurrezione popolare contro lo straniero e i regimi assoluti,
così come avevano fatto i patrioti spagnoli, che avevano preso le armi
contro Napoleone.
Vanamente Mazzini sperò di associare Carlo Alberto alla lotta per l'unità,
la libertà e l'indipendenza. Tutti i moti organizzati dalla "Giovine Italia"
fallirono; il più drammatico fu quello legato ai nomi dei fratelli Bandiera,
che sbarcarono nel 1844 in Calabria sperando di sollevare il popolo contro i
Borboni.
Tuttavia, questi fallimenti, ben lungi dall'attenuare il sentimento
nazionale, l'incrementavano specialmente negli strati della borghesia più
colta e progredita. Non bisogna perdere di vista che la fortuna delle
correnti nazionali e patriottiche andò di pari passo con il maturare di
nuove esigenze economiche, specialmente nelle zone settentrionali. Oramai si
comprendeva sempre più chiaramente che la frammentazione dell'Italia in
tanti staterelli era di ostacolo ai commerci e allo sviluppo dei paese. Si
spiega così che, insieme con la diffusione delle ideologie patriottiche, ci
fosse anche quella delle idee dei grandi maestri dei liberismo, da Smith a
Bentham a Say.
Ora, per superare la frammentazione politica dell'Italia, occorreva che il
sentimento nazionale si traducesse in un fatto politico non solo
"possibile", ma accettabile da quei ceti borghesi e aristocratici che
avrebbero voluto una unificazione politica ed economica, ma senza
insurrezioni popolari mazziniane. L'ideologia neoguelfa di Vincenzo Gioberti
sembrò rispondere a questa esigenza, con la proposta di un accordo tra i
principi italiani per una confederazione di stati presieduta dal papa.
Secondo Gioberti sarebbe bastata la forza della religione per migliorare i
rapporti con lo stesso nemico.
Questa tesi, ricca di riferimenti storici e di elementi di filosofia
politica, fu sostenuta da Gioberti nell'opera Del Primato civile e morale
degli Italiani (1843), opera che ebbe un'importanza fondamentale nella
formazione della mentalità della classe dirigente moderata dei nostro
Risorgimento.
Carlo Cattaneo invece si pose in netta opposizione con i precedenti. Egli
affermava che il vero problema politico consistesse nel formare una vera
coscienza unitaria nel popolo italiano prospettata ad un autogoverno e che
le riforme dovessero avvenire in modo graduale per dare il tempo a tutti di
adattarvisi.
L'anno 1848 fu per l'Europa tutta un anno molto difficile a causa delle
rivolte che la pervasero e che non ebbero solo carattere politico ma anche
sociale.
Dovunque fu protagonista la borghesia, per la prima volta nei moti fece la
sua comparsa il proletariato.
Naturalmente anche l'Italia fu colpita da tali rivolte.
Il 12 gennaio insorse Palermo. Il moto si estese alla Campania, con
epicentro nel Cilento. Ferdinando il fu costretto a concedere la
costituzione. A Venezia fu cacciato il presidio austriaco e fu costituita
una repubblica autonoma retta da Daniele Manin.
Famose le Cinque giornate di lotta dei Milanesi, che riuscirono a far
ritirare le truppe austriache dei generale Radetzky.
Pio IX concesse una costituzione ai sudditi dello stato Pontificio.
Carlo Alberto dovette concedere al Piemonte lo statuto detto "Albertino"
creato sull'impronta della costituzione francese.
In un clima di grandi entusiasmi Carlo Alberto, chiamato dai Milanesi,
dichiarò guerra all'Austria. Alla guerra concorsero forze regolari, inviate
dai sovrani costituzionali italiani, cosicché si determinò uno schieramento
militare "federalista" contro l'Austria; ma i timori di Carlo Alberto circa
la possibilità di mantenere il trono in caso di sconfitta, le sue
perplessità verso il movimento nazionale, che andava ben oltre gli obiettivi
dinastici, minarono lo sforzo bellico.
L'esercito piemontese, dopo aver vinto a Goito e costretto alla resa la
fortezza di Peschiera, fu sconfitto a Custoza. Carlo Alberto si vide
costretto all'armistizio di Salasco.
In Francia, l'opinione pubblica, atterrita dallo "spettro dei comunismo",
favorì la formazione di un forte concentramento di forze conservatrici, che
di lì a poco preparò la strada all'avvento al potere di Luigi Bonaparte.
Negli stati asburgici, il contrasto tra le minoranze etniche consentì alla
monarchia di reprimere la rivoluzione e di tornare ai vecchi ordinamenti.
Il fallimento politico-militare della guerra federalista in Italia spinse il
movimento nazionale a fare appello alle forze popolari. A Firenze e a Roma i
democratici mazziniani rovesciarono i governi moderati e imposero il
programma della Costituente italiana.
A Roma fu proclamata la fine dello stato Pontificio e l'instaurazione della
repubblica.
Il Piemonte riprese la guerra contro l'Austria, ma il suo esercito fu
sconfitto a Novara. Carlo Alberto abdicò in favore dei figlio Vittorio
Emanuele II. L'Austria ritornò negli stati che le avevano mosso guerra,
restaurando i vecchi governi e i principi.
Incredibile fu la resistenza della repubblica Romana, sorretta da un
triumvirato composto da Mazzini, Armellini e Saffi. Alla difesa della
repubblica partecipò anche Giuseppe Garibaldi, ma alla fine fu la resa, per
l'intervento delle truppe mandate da Luigi Bonaparte, presidente della
repubblica francese.
Anche la repubblica di Venezia, dopo una lunga ed estenuante resistenza,
dovette consegnarsi agli Austriaci.
A capo delle idee rivoluzionario si pose all'ora Camillo Benso conte di
Cavour presidente del consiglio sardo dal 1852. Il suo modello di governo
era la monarchia costituzionale ispirata al principio del giusto mezzo. Egli
era infatti convito che nessuna forza fosse in grado d arrestare il
progresso economico-civile.
Firmò trattiti con le maggiori potenze europee assicurando alla borghesia un
ruolo politico rilevante nella politica accanto alla nobiltà.
Il problema dell'unificazione e della indipendenza nazionale era per lui un
passo obbligato, necessario nel processo di avanzamento economico e morale
dei liberalismo europeo, che aveva oramai i suoi punti di riferimento a
Parigi e a Londra.
Non a caso, come ministro dell'Agricoltura e poi delle Finanze nel governo
d'Azeglio, Cavour si impegnò in una politica liberistica, firmando trattati
di commercio con la Francia l'Inghilterra e il Belgio assicurando alla
borghesia un ruolo politico rilevante nella politica accanto alla nobiltà.
Uno dei suoi capolavori politici fu la formazione dei connubio tra
centro-destra e centro-sinistra, che gli permise di condurre
ininterrottamente dal 1852 al 1859 un indirizzo di ammodernamento, progresso
e democratizzazione dello stato.
Nella politica ecclesiastica, muovendosi sulla linea delle leggi Siccardi
che avevano abolito la manomorta, il foro ecclesiastico e il diritto di
asilo, impostò su princìpi liberali i rapporti tra stato e Chiesa.
In politica estera, la questione italiana fu spogliata da Cavour di ogni
premessa a carattere rivoluzionario e impostata come interesse europeo a
favorire, in chiave moderata, l'estromissione dell'Austria dai territori
italiani.
Ecco che il 18 Gennaio 1859 firmò con Napoleone III accordi per una prossima
guerra contro l'Austria. La 2° guerra d'indipendenza. Nei progetti di
Cavour, che ebbero il consenso dell'imperatore, si sarebbe dovuti arrivare
alla costituzione di un regno d'Italia, i cui confini avrebbero compreso il
Piemonte, la valle dei Po, la Romagna e le legazioni pontificie.
Intanto Mazzini, diffidente verso la politica di Napoleone III, nel quale
vedeva colui che aveva represso la repubblica Romana, e di Cavour, che
accusava di volere "piemontesizzare" la causa italiana, riprese a
incentivare e organizzare moti insurrezionali in Lombardia. Il tentativo più
importante di promuovere una sollevazione popolare fu attuato da Carlo
Pisacane con lo sbarco nel Cilento, tentativo che fallì costando la vita
allo stesso Pisacane. Il piano mazziniano di una contemporanea insurrezione
a Genova, a Livorno e nel sud, si risolse in un insuccesso, provocando la
crisi di tutto il movimento rivoluzionario posto in essere dal grande
antagonista della politica di Cavour.
Scoppiata la guerra tra Austria e Piemonte nel 1859, la Francia si schierò a
favore del suo alleato.
Questa volta le operazioni militari si risolsero con il successo dei
Franco-Piemontesi ma la loro avanzata non si spinse sino all'Adriatico,
com'era nei patti; si fermò al Mincio per la decisione di Napoleone III di
concludere la pace (armistizio di Villafranca e pace di Zurigo) con
l'Austria nel timore che il conflitto si allargasse con l'intervento delle
altre potenze europee.
Secondo i termini della pace non si sarebbe dovuti andare oltre l'annessione
della Lombardia al regno di Sardegna, ma le insurrezioni e la costituzione
di governi provvisori negli ex stati dell'Italia centrale portarono alla
loro annessione al Piemonte, mentre il regno di Sardegna doveva cedere alla
Francia Nizza e la Savoia.
Dopo Villafranca e i plebisciti dell'Italia centrale, Cavour, anche per
evitare il rischio di vedere il movimento di unificazione nazionale
condizionato dalla ripresa di iniziativa dei mazziniani, si mosse in
direzione di un programma unitario, che assegnava alla monarchia un ruolo di
espansione non più limitato territorialmente al centro-nord, ma esteso a
tutta la penisola e sotto l'egemonia della classe moderata subalpina.
Egli doveva fare i conti, da questo momento, con il Partito d'azione, di
ispirazione democratico-mazziniana, contrario a ricorrere all'aiuto dello
straniero per realizzare l'indipendenza nazionale.
Il capo di questo partito era Giuseppe Garibaldi, il quale prese
l'iniziativa della famosa spedizione dei Mille in Sicilia, spedizione che
condusse alla liberazione dei Mezzogiorno e alla liquidazione della
monarchia borbonica.
Cavour, d'intesa con Napoleone III, spedì un esercito che, attraverso le
Marche e l'Umbria, raggiunse l'esercito garibaldino, facendo rientrare
l'impresa dei Mille nelle prospettive di una soluzione moderata
monarchico-sabauda, controllata dal governo di Torino, al di fuori dei
pericolo di uno slittamento rivoluzionario.
Il 18 febbraio 1861 si riuniva a Torino il primo Parlamento dell'Italia
unita, che il 17 marzo proclamava il regno d'Italia sotto la monarchia dei
Savoia.
TESI SOSTENUTA:
Dopo il Congresso di Vienna, tenutosi subito dopo la sconfitta di Napoleone,
i regni di tutta Europa tentarono di cancellare, attraverso la
Restaurazione, tutte le idee nate durante la Rivoluzione Francese. Essi però
non tennero conto del fatto che ormai tali idee erano radicate nella
popolazione e non tennero neppure conto della classe che durante tale
rivoluzione aveva acquisito sempre un maggior potere: la borghesia. In
Italia come in tutti gli altri paesi europei vennero avanti le società
segrete ( massoneria e carboneria, in Italia ) che si opponevano al governo
del luogo sia con le loro idee sia con azioni violente. Emersero poi figure
di grandi statisti come Mazzini, Gioberti ed infine Cavour che pur con
modalità diverse e con posizioni ideologiche non del tutto simili resero
possibile l'unità d'Italia. A questa unità si è tentato di giungere in un
primo momento attraverso la pura forza opponendosi al potere, con azioni di
guerra, nelle singole città contro i governi centrali ma che in un modo o
nell'altro alla fine venivano sedate e spesso con ingenti perdite di vite
umane. Solo in un secondo momento e in particolare grazie a Cavour che si
giunse all'unità italiana. Egli infatti fece in modo che la questione
italiana fosse spogliata di ogni premessa a carattere rivoluzionario e
impostata come interesse europeo a favorire, in chiave moderata,
l'estromissione dell'Austria dai territori italiani. Così ottenne l'appoggio
della Francia grazie al quale poté sconfiggere l'Austria e in un secondo
momento, unite le sue truppe a quelle di Garibaldi ottenne anche la
sconfitta dei Borboni. Così il 18 Febbraio 1861 l'Italia si unì sotto un
unico regnante.
LA CHIESA ITALIANA DAL 1815 AD OGGI
Partiamo dalla Restaurazione del 1815, cioè dalla sconfitta delle idee
napoleoniche di libertà borghese (sconfitta dovuta alla pretesa di veder
affermate queste idee in tutta Europa attraverso l'uso della forza,
esportando la rivoluzione).
In occasione della Restaurazione si trovano a sedere intorno allo stesso
tavolo tre religioni diverse, che si concepivano e ancora oggi si
concepiscono in opposizione l'una all'altra: la cattolica (Austria e
Francia), la protestante (Prussia) e l'ortodossa (Russia). Questa
straordinaria convergenza nasce da un comune interesse: arginare il fenomeno
del liberalismo europeo, difendendo l'assolutismo dell'ancien régime, cioè
tutto il passato del privilegio clerico-nobiliare.
La Santa Alleanza, in tal senso, esprime bene la volontà della politica di
usare il fenomeno religioso per fini di potere e di conservazione dello
status quo. Fra i princìpi della Santa Alleanza vi era quello che
autorizzava ogni Stato-membro a intervenire ovunque fosse violato lo status
quo pre-napoleonico.
La chiesa cattolica, in Italia, era appoggiata dall'Impero austro-ungarico,
dai Borboni spagnoli nel Meridione e dalla Francia di Napoleone III: tutti
interessati a tenere divisa la penisola.
Ormai tuttavia il liberalismo borghese non poteva più essere frenato. La
Rivoluzione francese era stata un avvenimento troppo importante perché la si
potesse facilmente dimenticare. E lo sviluppo industriale pareva
irreversibile.
Il liberalismo borghese poteva essere vinto solo in un modo: ampliando la
democrazia nella società rurale pre-capitalistica. Ma questo non avvenne in
nessuna parte dell'Europa occidentale.
La stessa sinistra (prima socialista, poi comunista) non mise mai in
discussione l'equivalenza tra rivoluzione industriale e sviluppo
capitalistico. All'incapacità delle forze sociali rurali (e dell'ideologia
religiosa in genere) di realizzare la democrazia socio-politica, permettendo
altresì uno sviluppo industriale che non coincidesse tout-court col
capitalismo, la sinistra laico-socialista rispose dando per scontato che
l'industrializzazione avrebbe definitivamente portato l'Europa occidentale
fuori dal Medioevo, verso la nascita di un tipo di civiltà -quella "borghese
industriale"- ritenuta, ingenuamente, molto più democratica di quella
precedente.
I moti liberali in Italia (ma anche all'estero) avvengono a scadenze quasi
decennali: '20-'21, '30-'31, '48, sino all'unificazione del 1860 e alla
caduta del potere temporale dei papi nel 1870.
Dire che i cattolici non hanno partecipato a questi moti, è dire una
sciocchezza. La chiesa istituzionale (appoggiata all'estero dai circoli
ultramontani) non vi ha partecipato, anzi ha fatto di tutto -specie dopo il
fallimento del neoguelfismo di Gioberti- per ostacolarli. (Il neoguelfismo
fallì non solo perché il papato non voleva combattere la cattolica Austria,
ma anche perché non voleva accettare il liberalismo, né i liberali volevano
accettare l'idea di un papato a guida della nazione che stava per nascere).
E' stato invece il cattolicesimo non ufficiale, quello appunto liberale, che
ha partecipato attivamente all'unificazione nazionale (si pensi p.es. al
Manzoni), nonché alla fine dello Stato della Chiesa.
La chiesa (come istituzione) reagirà male all'unificazione nazionale, con
due documenti del 1864, l'enciclica Quanta cura e il Sillabo di Pio IX
(1846-78), che condannano praticamente tutto quanto è "laico" e "moderno"
(p.es. il concetto di separazione tra Stato e Chiesa e tra scuola e chiesa,
espressi dalla formula di Cavour "Libera chiesa in libero Stato", la libertà
di religione e di coscienza...).
La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, sarà preceduta di pochi mesi
dalla convocazione del Concilio Vaticano I, che sancisce il dogma
dell'infallibilità del papa (vedi però l'opposizione dei Vecchi-Cattolici).
Pio IX si autodichiarò "prigioniero" del Vaticano, scomunicherà casa sabauda
e rifiuterà anche la Legge delle Guarentigie del 1871 (rendita annuale
concessa al papato dallo Stato, libertà di coscienza, no ai privilegi
giurisdizionali dello Stato sulla Chiesa, extraterritorialità del Vaticano,
sovranità sacra e inviolabile del papa ecc.).
La cosiddetta "Questione romana" è nata così. Essa si trascinerà sino al
1929, con la stipulazione dei Patti Lateranensi (Pio XI riconoscerà il regno
d'Italia con Roma per capitale e il fascismo riconoscerà la sovranità papale
sul Vaticano) e il successivo Concordato, che il fascismo pretese per la
propria legittimazione nazionale, concedendo in cambio alcuni privilegi
(p.es. l'ora di religione nelle scuole statali, il valore civile dei
matrimoni religiosi ecc.) D'altro canto la chiesa, grazie a questi
privilegi, aveva meno motivi di opporsi allo Stato "borghese". Tra l'altro,
per la chiesa lo Stato "fascista" rappresentava l'antitesi dello Stato
"liberale", così come lo stesso fascismo voleva far credere.
Per quale motivo ad un certo punto si fu costretti a scegliere la strada del
Concordato? Per due ragioni: da un lato la borghesia non riusciva a
realizzare gli ideali in virtù dei quali aveva chiesto di unificare l'Italia
(maggiore libertà, giustizia sociale, uguaglianza); dall'altro la chiesa,
pur continuando a rifiutare lo Stato laico (il papato impedirà per 50 anni
ai cattolici di partecipare alla vita politica: vedi il non expedit di Pio
IX, ovvero il principio né elettori né eletti del 1874), s'impegnava
attivamente, per quanto poteva, alla soluzione delle contraddizioni
socio-economiche che il capitalismo aveva generato in Italia (si pensi al
Movimento cattolico: casse rurali, leghe di mestiere, cooperative, sindacati
bianchi ecc.).
I cattolici intransigenti, i clericali conservatori saranno forti
soprattutto nell'Opera dei Congressi e dei comitati cattolici (l'antecedente
dell'Azione Cattolica) (1). L'Opera cercherà d'imboccare, con la direzione
Grosoli, la via del superamento del clericalismo, ma nel 1904, dopo 30 anni
di attività, verrà sciolta da Pio X: sia per impedire un suo qualunque
rapporto coi modernisti, sia per fare un piacere a Giolitti, col quale si
inaugura la politica clerico-moderata.
Erano dunque i cattolici democratici che sul piano sociale s'impegnavano a
realizzare ciò che la borghesia non riusciva a fare, a causa della sua
posizione di "classe", contrapposta agli interessi delle masse contadine e
operaie. Per ottenere un consenso democratico, in virtù del quale potesse
restare al governo senza ricorrere a misure particolarmente repressive, la
borghesia aveva bisogno che sul piano socio-economico le contraddizioni
fossero attenuate dall'attiva partecipazione dei cattolici.
La scelta a favore della dittatura fascista fu per la borghesia inevitabile
nel momento stesso in cui cominciò a rendersi conto che non poteva più far
leva sulle forze cattolico-contadine per arginare il pericolo della
rivoluzione socialista-operaia (vedi il Biennio rosso del '19-'20). Non
poteva più far leva su queste forze per due ragioni:
1) i cattolici democratici sapevano di poter usare la "questione sociale"
contro lo Stato liberale, per questo miravano a una propria rappresentanza
politica (vedi la nascita del Partito popolare);
2) le contraddizioni sociali emerse dallo sviluppo capitalistico erano state
attenuate ma non risolte dall'impegno dei cattolici. Per i liberali borghesi
un nuovo nemico, ancor più pericoloso dei cattolici democratici, era salito
alla ribalta: il socialismo rivoluzionario.
Il problema che agli inizi del secolo i cattolici democratici si posero fu
il seguente: per quale ragione i cattolici, che pur sono superiori alla
borghesia sul piano sociale, non possono partecipare alla vita politica
(secondo l'imperativo del non expedit)? La risposta a questa domanda
includeva, generalmente, due diverse considerazioni sui governi allora in
carica, a seconda che il cattolico fosse "moderato" o "democratico": per il
primo l'attività politica era necessaria perché molti ideali della borghesia
erano giusti; per il secondo invece tale necessità dipendeva dall'esigenza
che i cattolici costituissero un'alternativa politica al liberalismo.
E' comunque sulla risposta a questa domanda che avviene lo scontro tra
chiesa istituzionale e modernismo (la corrente religiosa più progressista di
quel tempo).
Il modernismo nasce in Francia verso la metà dell'800 e si sviluppa in
Italia verso la fine dell'800, concludendosi con l'ascesa del fascismo. Suo
esponente principale in Italia fu Romolo Murri.
Il modernismo sosteneva la necessità di adeguare la chiesa al progresso dei
tempi. Addirittura affermava la storicità dei dogmi. Sarà condannato nel
1907 dall'enciclica Pascendi di Pio X (1903-14). Paradossalmente lo stesso
papa, pur di combattere politicamente il laicismo, sostituirà il non expedit
con la formula "deputati cattolici no; cattolici deputati sì", con cui si
sanzionò il clerico-moderatismo, arginando il pericolo interno della
"democrazia cristiana".
Intanto, sotto il papato di Leone XIII (1878-1903), la chiesa, pressata dal
modernismo, all'interno, e dal socialismo, all'esterno, si vide costretta a
rinunciare all'intransigenza antiliberale e a promuovere il dialogo con la
borghesia (vedi Rerum novarum del 1891).
Le condizioni che il papato impone al Movimento cattolico sono precise:
democrazia sociale sì (nel senso del corporativismo e del paternalismo
statale), democrazia politica no (nel senso dell'uguaglianza sociale e della
partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica). Ciò significa che
il cattolico non doveva avallare politicamente le idee del liberalismo, né
doveva avere un'alternativa al liberalismo che non fosse quella della
gerarchia vaticana.
Murri non accetterà queste condizioni e sarà scomunicato nel 1909, e con lui
molti altri modernisti (in Italia p.es. Buonaiuti). Da allora in poi
l'attività del Murri si svolgerà fuori del Movimento Cattolico.
I punti fondamentali della Rerum novarum sono i seguenti: 1) l'etica è
superiore all'economia; 2) difesa della proprietà privata, con destinazione
universale dei beni; 3) interclassismo; 4) capitalismo vuol dire
sfruttamento del lavoro salariato; 5) lo Stato deve promuovere il bene
comune (corporativismo); 6) sì alle associazioni operaie.
L'enciclica ha accettato i presupposti del capitalismo, sperando di
correggerli in senso cristiano. L'ideale sociale è il corporativismo
para-feudale o al massimo mercantilistico. Ciò senza rendersi conto che il
corporativismo medievale aveva funzionato proprio perché esisteva
un'ideologia comune tra sfruttato (il servo della gleba) e sfruttatore (il
feudatario).
Il fallimento della Rerum novarum lo si può già costatare con la nascita del
clerico-moderatismo, a partire dalle elezioni politiche del 1904 e dallo
scioglimento dell'Opera (1). Il clerico-moderatismo rappresenta la
necessità, condivisa da Giolitti e da Pio X, di un appoggio reciproco tra
borghesi e cattolici (appoggio ufficializzato col Patto Gentiloni per le
elezioni del 1913): i cattolici votano quei liberali che s'impegnano a
combattere, se eletti, qualsiasi legislazione anticlericale (circa 200
deputati liberali saranno eletti così).
Murri continuerà a lottare per avere una Lega Democratica Nazionale (non
"cristiana", come poi invece vorrà Cacciaguerra): cercava l'appoggio dei
socialisti in funzione anti-liberale, ma non avrà successo, né l'avrà il
Cacciaguerra col suo tentativo di conciliare una posizione di rigida
ortodossia cattolica con una posizione democratica in politica.
Le cose cambiano con la prima guerra mondiale, poiché i cattolici si
schierano dalla parte dello Stato italiano contro l'impero austro-ungarico.
Si risolve così, di fatto (non ancora di diritto), la "questione romana".
Nel 1919 nasce il Partito popolare di Sturzo, d'ispirazione cristiana, ma
slegato (almeno ufficialmente) da una dipendenza gerarchica dal papato (come
invece era l'Azione cattolica, nata nel 1905). Ovviamente sarebbe stato
impossibile per un prete come Sturzo diventare segretario generale senza il
consenso della curia vaticana. Infatti nel '23 abbandonerà la carica su
richiesta del papato.
Il P.P. nasce spontaneamente, è aconfessionale, antiliberale e
antisocialista (l'ateismo dei socialisti e il concetto di proprietà
collettiva impediscono qualunque rapporto coi partiti di sinistra). Lotta
per avere: sistema proporzionale, suffragio femminile, elettività del
Senato, libertà delle scuole e dell'insegnamento, imposta progressiva,
riforma agraria al Sud, autonomie comunali, costituzione della Regione,
tutela della piccola proprietà...
Nel 1919 ha 100 seggi in Parlamento (grazie al grande lavoro pre-politico
condotto dal Movimento Cattolico), ma nel '22, dopo essersi opposto al
ritorno al potere di Giolitti, rifiuta di assumere le redini del governo coi
socialisti, anzi, preferisce entrare nel primo governo fascista di
coalizione, anche se nel '23 si ritira, passando all'opposizione.
Dopo i delitti Matteotti e don Minzoni si schiera con la secessione
parlamentare dell'Aventino. De Gasperi fu l'ultimo segretario generale. Il
P.P. venne sciolto dal fascismo nel '26. La chiesa accettò lo scioglimento
senza reagire, confidando più nell'obbedienza della A.C. Anche la
Confederazione dei lavoratori verrà boicottata dal papato a vantaggio dei
sindacati fascisti. Il P.P. risorgerà durante la Resistenza come Democrazia
Cristiana.
A favore del fascismo si schierano i gesuiti e Pio XI (1922-39), che sono
contrari a un'intesa tra popolari e socialisti (il papa definirà Mussolini
con l'espressione "l'uomo della provvidenza"). La curia vaticana appoggiò il
fascismo perché credette di vedere in questo movimento una maggiore garanzia
contro il socialismo. Lo stesso Mussolini, diversamente da tutti gli altri
statisti liberali, affermava chiaramente (anche se per tattica) di voler
difendere gli interessi della chiesa contro il socialismo.
Il rapporto tra chiesa e fascismo non è però così lineare. La chiesa
condanna la violenza, i limiti imposti all'A.C., l'educazione fascista della
gioventù, le leggi razziali, l'alleanza col nazismo... Accetta il
Concordato, il colonialismo in Africa, l'autarchia e il regime corporativo,
la "crociata" spagnola in difesa dei nazionalisti di Franco, la lotta contro
le sanzioni di Ginevra, la fine delle libertà di stampa, sindacale,
partitica, di sciopero...
Il fascismo riconosce al Vaticano, fra le altre cose, l'Università Cattolica
di Milano, aumenta le congrue parrocchiali, ripara le chiese danneggiate
dalla guerra..., ma in cambio vuole una religione sempre più come strumento
di potere.
Pio XI pubblica nel 1937 due importanti encicliche: una contro la
persecuzione religiosa nella Germania nazista (Mit brennender Sorge - Con
viva ansia), l'altra contro il comunismo ateo (Divini Redemptoris). Il
papato è convinto che mentre col nazismo si possa trattare (vedi p.es. il
Concordato del '33), col comunismo invece ciò non sia assolutamente
possibile.
Nel secondo dopoguerra i quadri direttivi dell'A.C. e dell'Università
Cattolica passano a dirigere la politica economica dell'Italia, attraverso
il partito della Democrazia Cristiana. Finisce l'opposizione cattolica allo
Stato liberale e inizia il collateralismo della Chiesa nei confronti della
D.C.
La DC offre una base di massa -quella contadina- alla borghesia
capitalistica. Alle elezioni del '48 la DC sfiora la maggioranza assoluta,
ma sull'onda di uno sfrenato anticomunismo, non sulla base di un programma
sociale anticapitalistico. Gli USA diventano il punto di riferimento
privilegiato.
L'illusione della DC è stata quella di poter garantire uno sviluppo
equilibrato del capitalismo in nome dei valori cristiani. Tuttavia questo
non si è verificato, anzi la progressiva laicizzazione del Paese è avvenuta
proprio nel periodo in cui per la prima volta nella storia d'Italia la
classe dirigente era cattolica.
L'origine di questo insuccesso sta nel concetto stesso di "capitalismo", che
la DC ha mutuato da Weber, Sombart ecc., secondo cui il capitalismo non è
tanto un modo di produzione particolare legato a una particolare forma di
proprietà e di sfruttamento, ma è piuttosto una civiltà, una cultura, una
mentalità, cioè un fenomeno sovrastrutturale.
Le proposte migliori della DC, affrontando il problema del capitalismo solo
in questi termini, non ebbero alcuno sbocco: si pensi al gruppo dossettiano,
alla sinistra cristiana, ai catto-comunisti...
La chiesa romana accetta di convivere pacificamente col capitalismo nel
Concilio Vaticano II, ma in questo Concilio sono rimasti del tutto esclusi i
motivi dello sfruttamento coloniale del Terzo Mondo (non a caso la chiesa
sudamericana, poco partecipe al concilio, convocò a Medellin nel '68 la
conferenza che reinterpretò il Concilio alla luce della realtà
sudamericana).
Con la fine del comunismo (caduta del muro di Berlino, implosione dell'Urss,
ecc.) e quindi dell'anticomunismo, la DC si è trovata ad aver perso anche
l'ultima possibilità di tenere unite forze sociali tra loro opposte. Di qui
la sua scissione in due correnti fondamentali: una di centro-destra, ancora
fortemente anticomunista; l'altra di centro-sinistra, aperta al dialogo con
le forze della sinistra riformista.
Oggi le nuove forze che vogliono governare (laiche o religiose, di destra o
di sinistra) sono convinte che il cristianesimo non sia più in grado di
modificare qualitativamente le leggi del capitalismo. L'Occidente è
diventato sempre più secolarizzato e consumista e il crollo del comunismo ha
dato a tutti la convinzione che le leggi del capitalismo siano assolutamente
immutabili. Per correggere le sue storture tutti ritengono sia sufficiente
un governo forte, razionale, efficiente, che sappia combinare le esigenze
politiche di uno Stato centralizzato con quelle organizzative delle
autonomie locali (in primo luogo regionali). Quest'ultime, in particolare,
si pretende diventino parte "organica" dello Stato e non più un territorio
da tenere, con sospetto, sotto controllo.
Con la fine dell'intesa religione/capitalismo, dobbiamo dunque aspettarci un
futuro caratterizzato da meno ideali e più autoritarismo (non solo nazionale
ma anche locale), oppure l'alternativa è quella di lottare per nuovi ideali
democratici, nel senso della partecipazione diretta, non delegata, del
popolo alla vita politica? Ciò di cui le forze popolari progressiste devono
convincersi è che il capitalismo è del tutto incompatibile con la
democrazia, oppure esistono ancora dei margini d'intesa?
(1) L'OPERA DEI CONGRESSI
L'Opera Dei Congressi promosse periodici congressi in cui furono dibattuti i
problemi relativi alla presenza dei cattolici nella vita civile e politica
del paese. In tali dibattiti si delinea una corrente di intellettuali che
vedevano nell'instaurazione di un ordine sociale democratico-cristiano
l'unica
alternativa al socialismo. Furono creati sindacati bianchi in
contrapposizione alle organizzazioni rosse dei socialisti. Le figure più
autorevoli di questa corrente furono Giuseppe Toniolo, professore a Pisa, e
il sacerdote Romolo Murri che cercarono di dar vita ad un partito cattolico
indipendente dalla Santa Sede e con un programma di democrazia politica e di
riforme sociali.
Il Pontefice Pio X, interpretando i timori dei cattolici più conservatori
che vedevano nell'attività dei gruppi un contributo all'attività del
socialismo, provvide a sciogliere l'Opera Dei Congressi (1904) e a
condannare nel 1905 la Lega democratica nazionale fondata da Murri.
Durante l'età giolittiana le agitazioni operaie e contadine e la
rappresentanza dei deputati socialisti in parlamento si erano irrobustite,
inducendo i liberali a chiedere l'apporto dell'elettorato cattolico. Già in
occasione delle elezioni del 1904 il Pontefice Pio X aveva autorizzato i
cattolici a votare per i candidati moderati e anche ad avanzare proprie
candidature, ma con la riserva, se eletti, di entrare alla camera a titolo
personale e non come esponenti di un partito politico autonomo: "cattolici
deputati sì, ma deputati cattolici no".
Quando nel 1912 la direzione del partito socialista passò all'ala
rivoluzionaria, i liberali giolittiani e le forze cattoliche si allearono
per imprimere una svolta conservativa alla politica interna. In quell'anno
Giolitti aveva varato una riforma elettorale introducente il suffragio
universale maschile: è da sottolineare però che l'estensione del diritto di
voto ad un elettorato di massa politicamente sprovveduta estendeva la
possibilità di pressioni e manipolazioni per volgere i suffragi popolari a
favore dei candidati governativi: che fosse questo l'obbiettivo del governo
Giolitti fu confermato dal Patto Gentiloni, stabilito con l'unione
elettorale cattolica presieduto dal conte Vincenzo Gentiloni: in base a tale
patto l'unione avrebbe sollecitato i cittadini cattolici a far confluire i
loro suffragi su candidati liberali, mentre questi si impegnavano a non
proporre i disegni di legge in contrasto con le posizioni della Chiesa
soprattutto sulle questioni del divorzio, dell'insegnamento religioso e
della scuola privata. Nelle elezioni del 1913, svoltesi con il nuovo sistema
elettorale, entravano alla camera più di 200 deputati ministeriali (di
Giolitti) eletti col voto determinante dei cattolici.
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