Il 16 maggio Gioacchino lasciò Napoli e partì per la Calabria, nella cui estrema punta, fra Reggio e Scilla, aveva raccolto tre divisioni forti di ventiduemila uomini, una napoletana, due francesi, comandate dai generali CAVAIGNAC, PARTOUNNEAUX, LAMARQUE, e circa seicento legni da trasporto e da guerra. Era l'impresa di Sicilia che il re voleva tentare, un'impresa difficilissima, perfino impossibile date le poche le forze che Gioacchino disponeva, visto che un esercito anglo-siculo pari per numero a quello franco-napoletano era ad attenderlo a Messina mentre una nutrita flotta britannica vigilava ed era pronta ad entrare in azione per impedire qualsiasi sbarco in qualsiasi parte dell'isola. Il re però, nonostante il contrario parere del Grenier, che aveva il comando supremo dell'esercito, e degli altri generali, era deciso a passare lo stretto per compiere un'ardua impresa e conquistarsi la gloria per i posteri su una regione così vasta e ricca e che solo di nome lui aveva la corona. Sebbene il Murat irrequieto bruciasse dal desiderio di toccar la riva opposta, tuttavia trascorsero tre mesi prima di tentare lo sbarco; ma in questo tempo non pochi fatti di guerra si verificarono, e l'armata napoletana si comportò con molto onore. Il 9 giugno sette cannoniere respinsero dodici navi nemiche; scontri navali avvennero con risultato favorevole alla marina napoletana il 22 e il 29 giugno; il 21 luglio ottanta legni avversari dovettero ritirarsi; altri scontri avvennero il 5, il 7, il 21 e il 25 agosto e il 4 e il 5 settembre; e in tutte queste azioni si distinsero il Calamello, il Caraffa, G. B. Caracciolo, Giuseppe de Cosa, il Correale, il Bausan, il Barbarà, il Montemayor, il Caffiero, i fratelli Lopresti e i francesì Teìsseire, Bongourde e Grasse. Tra il 17-18 settembre, nella notte, finalmente il MURAT decise di tentare il passaggio; la divisione napoletana comandata dal generale CAVAIGNAC, forte di duemila uomini, passò lo stretto e sbarcò a Scaletta; ma le divisioni francesi invece non si mossero; spiegazione di questo stallo sul continente alcuni lo giustificarono per la mancanza di vento, da altri si affermò che si era opposto il Grenier che aveva ordini segreti in proposito da Napoleone; altri infine hanno pensato che Gioacchino verso i tanti che erano contrari all'impresa volesse dimostrare con i fatti che non era poi tanto difficile quanto si credeva. Non vedendosi sostenuto, il generale Cavaignac minacciato sull'isola dall'esercito anglo-siculo, dai contadini armati e dalla flotta inglese, imbarcò parte della sua divisione e lasciò nell'isola novecento uomini del Reggimento Real Ccrso, i quali, dopo una bella difesa, furono fatti tutti prigionieri. Il 29 settembre 1810 Gioacchino sciolse il campo di Reggio indirizzando alle truppe un proclama in cui era detto: ".La spedizione contro la Sicilia è rinviata ad un altro momento. Lo scopo che l'Imperatore si era proposto con le minacce di quest'invasione è già conseguito; e la posizione di guerra in cui ci siamo per quattro mesi continui mantenuti con tanta costanza e con tanto onore sullo Stretto, ha nei suoi effetti oltrepassato le concepite speranze.". Inoltre vi si affermava che ". la Sicilia sarà, conquistata quando questo sarà fermamente voluto.". Ma Napoleone invece rimproverò il cognato non solo per la condotta delle operazioni, ma anche per aver parlato in suo nome nel proclama e per avere sciolto il campo. L'imperatore - come lui stesso dichiarava - voleva tenere impegnata per tutto l'inverno l'armata inglese davanti a Reggio, e non aveva proprio nessuna intenzione di conquistare la Sicilia, mentre Gioacchino, tutto intento a tradurre in atto il suo sogno di conquista, non aveva saputo penetrare il segreto pensiero del grande cognato e agevolarne l'attuazione dei piani. Tornato a Napoli, Gioacchino rivolse il pensiero alla soppressione del brigantaggio ". di struggitore -"dice il Colletta"- di uomini e di cose cittadine, senza un fine politico, alimentato solo di vendette, di sdegni o, più turpemente, d'invidia al nostro bene e di furore.". Nell'ottobre del 1810 il Murat pubblicò leggi severissime contro i banditi e i loro favoreggiatori e diede pieni poteri al giovane generale CARLO ANTONIO MANHÈS, che agì con spietata energia, prima nella Calabria, poi nelle altre regioni, liberandole in due soli mesi dei tremila banditi i cui nomi figuravano elencati nelle liste. ". Quell'inesorabile uomo - "scrive il De Castro" - non perdonò ad età, a sesso, a parentela: con i veri rei caddero anche degli innocenti, o furono puniti i più innocenti affetti di natura: gettata la diffidenza nelle famiglie, morto ogni senso di pietà, si videro casi atroci, denunce orribili, fughe romanzesche. Ma più che dare la morte, Manhès usò i più raffinati supplizi, sperando nel benefizio dell'esempio; e fra gli altri, il BENINCASA e il PARAFANTI, che per quanto uomini scellerati, morirono con brutale intrepidezza. Per raggiungere il fine adoperò quattro mezzi: notizia esatta dei facinorosi di ciascun comune, intera loro segregazione dagli onesti, armamento dei buoni, giudizi inflessibili. Ordinò che ciascun comune denunciasse i briganti; armò i terrazzieri dividendoli in schiere; da alcuni fece ritirare il bestiame agli agricoltori dei borghi più grandi, che erano poi guardati a vista da truppe regolari; da altri fece sospendere tutti i lavori campestri; e dichiarò la pena di morte verso tutti coloro che nelle campagne nascondevano dei viveri; tolse così ai malfattori ogni assistenza o connivenza da parte dei proprietari e dei contadini. Dopo averli isolati, li fece assalire; e fu così zelante che li assalì lui stesso; e a nessuno perdonò, neppure ad una madre che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un figliolo che stava lavorando nei campi. Caddero uomini, donne, fanciulli. La Calabria era diventata un campo chiuso e dove gli uomini davano la caccia ad altri uomini. Nella torre di Castrovillari languirono e morirono centinaia di inquisiti. La puzza degli insepolti sparse la morte intorno.". ".Mentre il generale Manhès, con il suo pugno di ferro distruggeva il brigantaggio, Gioacchino dedicava la sua attività a Napoli a tutte quelle opere che potevano fare rifiorire il regno e cercava soprattutto di consolidare la sua posizione concedendo titoli ad ufficiali, a magistrati e ad artisti; ma fin da allora -velleitario com'era- già pensava di rendersi indipendente dal cognato, che troppe volte lo aveva umiliato e che lo avrebbe senza dubbio sacrificato ora che gli era nato (il 20 marzo 1811) l'erede dell'impero." Un manifesto segno della sua aspirazione all'indipendenza Gioacchino l'aveva dato negli ultimi mesi del 1810 addirittura sostituendo la bandiera francese un "suo" vessillo nazionale, bianco, rosso e amaranto; il 14 giugno del 1811 ne diede un altro segno di questa brama: pubblicò cioè un decreto in cui stabiliva che tutti gli stranieri impiegati nel regno dovevano naturalizzarsi sudditi napoletani. Napoleone, sospettoso, teneva d'occhio il cognato e aveva mandato a Napoli con il titolo di ministro plenipotenziario di Francia il barone DURANT, in apparenza per regolare tutte le questioni pendenti con il regno, in effetti era per sorvegliare il re. Appena fu informato del decreto ne pubblicò un altro (6 luglio) con il quale, visto che ".il reame delle Due Sicilie fa parte del grande Impero, che il principe da cui è retto è francese e gran dignitario dell'Impero e che egli è stato posto e "mantenuto" sul trono dai Francesi.", stabiliva Napoleone che tutti i cittadini francesi fossero di diritto cittadini napoletani e che su di loro non si doveva applicare il decreto del 14 giugno. Nello stesso tempo sottrasse il supremo comando di Gioacchino, mettendo l'esercito francese sotto la direzione del GRENIER e gli assegnò il singolare nome di "Corpo d'osservazione dell'Italia meridionale" ed ordinò che si stanziasse non a Napoli, ma fra Capua e Gaeta, e meglio ancora se occupava interamente su quest'ultima la fortezza. Forse sospettoso com'era, Napoleone non si fidava troppo delle "truppe napoletane" che il cognato comandava. Gioacchino si lamentò genericamente, ma non abbandonò il pensiero di sbarazzarsi di tutti quei funzionari che non avevano chiesto la cittadinanza napoletana; infatti, cominciò a licenziarne alcuni, fra cui il ministro della guerra D'AURE e il maresciallo di palazzo LANUSSE, suscitando le proteste del Durants. Il re rispose che non dal decreto del 1806, ma dallo statuto di Baiona erano tracciati i suoi doveri verso l'impero. Allora il GRENIER -forse più sospettoso di Napoleone- occupò Gaeta, mentre il maresciallo PÉRIGNON si affrettò a tornar da Parigi per riprendere il suo ufficio di governatore a Napoli. Il Pèrignon aveva, anche l'incarico di far capire a Gioacchino che se egli era re di Napoli, Napoleone era l'imperatore e che la corona gli era stata data ".per l'interesse della Francia e della politica del grande Impero.". Era come affermare che Gioacchino era un re vassallo o meglio un prefetto imperiale. In una lettera in data del 30 dicembre 1811 il ministro francese degli esteri MARET spiegava chiaramente al marchese di GALLO ciò che era il re di Napoli: un grande feudatario dell'impero. ".Come grandi feudatari i re di Napoli si trasmettono di padre in figlio il titolo di grande ammiraglio dell'Impero; come grande feudatario il re di Napoli si è impegnato a mantenere la costituzione approvata e garantita dall'Imperatore; a fornire un contingente, in caso di guerra continentale di sedicimila fanti, pezzi d'artiglieria, vascelli, cannoni, fregate, corvette ecc. ecc.; a conservare nei suoi stati il sistema continentale e tutte le misure prese o da prendere in Francia relative al blocco dell'Inghilterra o alla distruzione dei commerci di questa potenza. Queste stipulazioni, testualmente enunciate nel trattato di Baiona, fissano la natura di quest'atto, che non è un vero e proprio trattato. Un trattato è una convenzione libera in cui si bilanciano interessi reciproci. Il trattato di Baiona invece non è che un atto di munificenza, imperiale, con il quale sua Maestà, disponendo di un trono, "a dicté les condictions de son bienfait"..". La lettera continuava enumerando ".gli obblighi assunti da Gioacchino come grande feudatario: costruzione di una piazzaforte sullo stretto di Messina, manutenzione delle batterie di Taranto, d'Otranto e di Brindisi, concorso alla difesa di Corfù, precedenza a corte al ministro imperiale, trattamento privilegiato ai Francesi residenti nel regno, protezione speciale alle famiglie napoletane che hanno contribuito "à établir la dinastie dans l'esprit des peuples"." e concludeva minacciosamente: ".Il giorno in cui i re di Napoli dimenticheranno che il loro regno fa parte del Grande Impero e che essi ne sono solo i feudatari, essi avranno lacerato il loro titolo alla corona e rinunciato alla protezione dell'Impero e alla garanzia dell'Imperatore ." I dissidi tra i due cognati continuarono, ma per il momento senza carattere di gravità. Gioacchino era spirito irrequieto ed avventuroso e non voleva essere solo un funzionario imperiale, ma la potenza di Napoleone e l'incertezza della politica internazionale tenevano a freno i suoi desideri d'indipendenza. Ma appena la fortuna volgerà le spalle al cognato, il Murat si emanciperà e si schiererà contro di lui; ora è dominato dall'Imperatore e pensa che a quella di lui è legata la sua sorte. Perciò, nonostante tutto, quando Napoleone dichiarò guerra alla Russia, Gioacchino Murat partì con undicimila uomini per andare a "prendere il suo posto" nelle file della "Gande Armèe". Anche se non sappiamo con quale spirito occupò quel posto, se fu utile, oppure dannoso. Di certo sappiamo che già nel 1813 dopo la Battaglia di Lipsia, dove lui comandava le truppe napoletane, intavolò trattative con Inghilterra e Austria per salvare il "suo" trono. Ma - dopo il "disastro", le avvisaglie delle decisioni del congresso di Vienna, lo indussero nel 1815 a riprendere le armi contro gli austriaci, cercando, con il proclama di Rimini, di ergersi a campione dell'indipendenza italiana. Smascherato da questo triplice gioco dentro le parti, dove non si era mai inserito, sconfitto a Tolentino dal nemico che non lo voleva amico, tentò di sbarcare nel "suo" regno; ma fu catturato e fucilato come uno dei tanti "briganti francesi" dai borbonici, come quando lui e lo spietato Manhès catturavano e fucilavano uno dei tanti "briganti borbonici". Catturato da un sergente di nome TRENTACAPILLI, fu nominato una commissione per giudicarlo come "nemico pubblico"; Ferdinando accordò TRENTA MINUTI, e Murat rammentando i suoi processi che si svolgevano allo stesso modo, capì che erano i suoi ultimi istanti di vita. Ma ci ritorneremo sopra quando sarà il suo anno di sventura: il 1815. FINE - ( VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI ) Dopo il Regno d'Italia e il Regno di Napoli dobbiamo ora occuparci - e sempre nello stesso periodo, della SICILIA e della SARDEGNA nel periodo che va dal 1806 al 1814 Ordinamento della Repubblica Titolo VI - Garanzie costituzionali SEZIONE I - La Corte costituzionale 134. La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione. 135. La Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo del Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative. I giudici della Corte costituzionale sono scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio. I giudici della Corte costituzionale sono nominati per nove anni, decorrenti per ciascuno di essi dal giorno del giuramento, e non possono essere nuovamente nominati. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni. La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall'ufficio di giudice. L'ufficio di giudice della Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, di un Consiglio regionale, con l'esercizio della professione di avvocato e con ogni carica ed ufficio indicati dalla legge. Nei giudizi d'accusa contro il Presidente della Repubblica intervengono, oltre i giudici ordinari della Corte, sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l'eleggibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari. 136. Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali. 137. Una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale, e le garanzie d'indipendenza dei giudici della Corte. Con legge ordinaria sono stabilite le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della Corte. Contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione. SEZIONE II - Revisione della Costituzione. Leggi costituzionali 138. Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti. 139. La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale. Costituzione della Repubblica italiana Indice Principi fondamentali Diritti e doveri del cittadino (parte prima) Ordinamento della Repubblica (parte seconda) Titolo 1 - Il Parlamento Titolo 2 - Il Presidente della Repubblica Titolo 3 - Il Governo Titolo 4 - La Magistratura Titolo 5 - Le Regioni, le Province, i Comuni Titolo 6 - Garanzie costituzionali Disposizioni transitorie e finali DIRITTI D'AUTORE:no TRATTO DA:Costituzione della Repubblica Italiana in vigore del 1 gennaio 1948 CODICE ISBN:mancante 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL:11 gennaio 1995 INDICE DI AFFIDABILITA':2 legenda 0:il file è in attesa di revisione 1:prima edizione 2:affidabilità media (edizione normale) 3:affidabilità ottima (edizione critica) Diritti e doveri del cittadino Titolo I - Rapporti civili 13. La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. 14. Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali. 15. La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziario con le garanzie stabilite dalla legge. 16. Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dai territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge. 17. I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. 18. I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. 19. Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività. 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo d'ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietati le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni. 22. Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome. 23. Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. 24. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. 25. Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. 26. L'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali. Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici. 27. La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. 28. I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrati, dagli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Titolo II - Rapporti etico-sociali 29. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare. 30. E dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, confutabile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità. 31. La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. 33. L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. E' prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. 34. La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. Titolo III - Rapporti economici 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero. 36. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. 38. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera. 39. L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E' condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica,. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. 40. Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano. 41. L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. 42. La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità. 43. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. 44. Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane. 45. La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato. 46. Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende. 47. La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese. Titolo IV - Rapporti politici 48. Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile e nei casi di indegnità morale indicati dalla legge. 49. Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. 50. Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità. 51. Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. La legge può, per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro. 52. La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici. L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica. 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. 54. Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Ordinamento della Repubblica Titolo III - Il Governo SEZIONE I - Il Consiglio dei Ministri 92. Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri. 93. Il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. 94. Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. 95. Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei Ministri. I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. La legge provvede all'ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri. 96. Il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale. SEZIONE II - La pubblica amministrazione 97. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. 98. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità. Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero. SEZIONE III - Gli organi ausiliari 99. Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. E organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l'iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge. 100. Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione. La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito. La legge assicura l'indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti di fronte al Governo. Ordinamento della Repubblica Titolo IV - La Magistratura SEZIONE I - Ordinamento giurisdizionale 101. La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge. 102. La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia. 103. Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti delle pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge. I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. 104. La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio. Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento. I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale. 105. Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. 106. Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all'ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari d'università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d'esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori. 107. I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso. Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare. I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario. 108. Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge. La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia. 109. L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. 110. Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. SEZIONE II - Norme sulla giurisdizione 111. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. 112. Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. 113. Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa. Ordinamento della Repubblica Titolo I - Il Parlamento SEZIONE I - Le Camere 55. Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione. 56. La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto. Il numero dei deputati è di seicentotrenta. Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età. La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall'ultimo censimento generale della popolazione, per seicentotrenta e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti. 57. Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale. Il numero dei senatori elettivi è di trecentoquindici. Nessuna regione può avere un numero di senatori inferiori a sette; il Molise ne ha due, la Valle d'Aosta uno. La ripartizione dei seggi tra le Regioni, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall'ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti e dei più alti resti. 58. I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età. Sono eleggibili a senatori gli elettori che hanno compiuto il quarantesimo anno. 59. E' senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. 60. La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni. La durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra. 61. Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni. Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti. 62. Le Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre. Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti. Quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l'altra. 63. Ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l'Ufficio di presidenza. Quando il Parlamento si riunisce in seduta comune, il Presidente e l'Ufficio di presidenza sono quelli della Camera dei deputati. 64. Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Le sedute sono pubbliche; tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta. Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale. I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono. 65. La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di deputato o di senatore. Nessuno può appartenere contemporaneamente alle due Camere. 66. Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità. 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. 68. I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l'ordine di cattura. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile. 69. I membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita dalla legge. SEZIONE II - La formazione delle leggi 70. La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere. 71. L'iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli. 72. Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale. Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza. Può altresì stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della commissione richiedono che sia discusso o votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. Il regolamento determina le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni. La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi. 73. Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall'approvazione. Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne dichiarano l'urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito. Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso. 74. Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata. 75. E indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum. 76. L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. 77. Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. 78. Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari. 79. L'amnistia e l'indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l'amnistia o l'indulto stabilisce il termine per la loro applicazione. In ogni caso l'amnistia e l'indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge. 80. Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. 81. Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. 82. Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione d'inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria. Ordinamento della Repubblica Titolo II - Il Presidente della Repubblica 83. Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All'elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d'Aosta ha un solo delegato. L'elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. 84. Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquant'anni di età e goda dei diritti civili e politici. L'ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica. L'assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge. 85. Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni. Trenta giorni prima che scada il termine, il Presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, la elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica. 86. Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato. In caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati indice l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione. 87. Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica. 88. Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. 89. Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri. 90. Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Principi fondamentali 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. 5. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento. 6. La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. 7. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. 8. Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. 9. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. 10. L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. 11. L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. 12. La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Ordinamento della Repubblica Titolo V - Le Regioni, le Province, i Comuni 114. La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni. 115. Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione. 116. Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d'Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali. 117. La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni: ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione; circoscrizioni comunali; polizia locale urbana e rurale; fiere e mercati; beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria e ospedaliera; istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica; musei e biblioteche di enti locali; urbanistica; turismo ed industria alberghiera; tramvie e linee automobilistiche d'interesse regionale; viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale; navigazione e porti lacuali; acque minerali e termali; cave e torbiere; caccia; pesca nelle acque interne; agricoltura e foreste; artigianato; altre materie indicate da leggi costituzionali. Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione. 118. Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente articolo, salvo quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere attribuite dalle leggi della Repubblica alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali. Lo Stato può con legge delegare alla Regione l'esercizio di altre funzioni amministrative. La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali o valendosi dei loro uffici. 119. Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province dei Comuni. Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali. Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali. La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica. 120. La Regione non può istituire dazi d'importazione o esportazione o transito fra le Regioni. Non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni. Non può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro. 121. Sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente. Il Consiglio regionale esercita le potestà legislative e regolamentari attribuite alla Regione e le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi. Può fare proposte di legge alle Camere. La Giunta regionale è l'organo esecutivo delle Regioni. Il Presidente della Giunta rappresenta la Regione; promulga le leggi ed i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo centrale. 122. Il sistema d'elezione, il numero e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali sono stabiliti con legge della Repubblica. Nessuno può appartenere contemporaneamente a un Consiglio regionale e ad una delle Camere del Parlamento o ad un altro Consiglio regionale. Il Consiglio elegge nel suo seno un presidente e un ufficio di presidenza per i propri lavori. I consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Il Presidente ed i membri della Giunta sono eletti dal Consiglio regionale tra i suoi componenti. 123. Ogni Regione ha uno statuto il quale, in armonia con la Costituzione e con le leggi della Repubblica, stabilisce le norme relative all'organizzazione interna della Regione. Lo statuto regola l'esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali. Lo statuto è deliberato dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ed è approvato con legge della Repubblica. 124. Un commissario del Governo, residente nel capoluogo della Regione, sopraintende alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e le coordina con quelle esercitate dalla Regione. 125. Il controllo di legittimità sugli atti amministrativi della Regione è esercitato, in forma decentrata, da un organo dello Stato, nei modi e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica. La legge può in determinati casi ammettere il controllo di merito, al solo effetto di promuovere, con richiesta motivata, il riesame della deliberazione da parte del Consiglio regionale. Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l'ordinamento stabilito da leggi della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione. 126. Il Consiglio regionale può essere sciolto, quando compia atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, o non corrisponda all'invito del Governo di sostituire la Giunta o il Presidente, che abbiano compiuto analoghi atti o violazioni. Può essere sciolto quando, per dimissioni o per impossibilità di formare una maggioranza, non sia in grado di funzionare. Può essere altresì sciolto per ragioni di sicurezza nazionale. Lo scioglimento è disposto con decreto motivato del Presidente della Repubblica, sentita una Commissione di deputati e senatori costituita, per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica. Col decreto di scioglimento è nominata una Commissione di tre cittadini eleggibili al Consiglio regionale, che indice le elezioni entro tre mesi e provvede all'ordinaria amministrazione di competenza della Giunta e agli atti improrogabili, da sottoporre alla ratifica del nuovo Consiglio. 127. Ogni legge approvata dal Consiglio regionale è comunicata al Commissario che, salvo il caso di opposizione da parte del Governo, deve vistarla nel termine di trenta giorni dalla comunicazione. La legge è promulgata nei dieci giorni dall'apposizione del visto ed entra in vigore non prima di quindici giorni dalla sua pubblicazione. Se una legge è dichiarata urgente dal Consiglio regionale, e il Governo della Repubblica lo consente, la promulgazione e l'entrata in vigore non sono subordinate ai termini indicati. Il Governo della Repubblica, quando ritenga che una legge approvata dal Consiglio regionale ecceda la competenza della Regione o contrasti con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni, la rinvia al Consiglio regionale nel termine fissato per l'apposizione del visto. Ove il Consiglio regionale l'approvi di nuovo a maggioranza assoluta dei suoi componenti, il Governo della Repubblica può, nei quindici giorni dalla comunicazione, promuovere la questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, o quella di merito per contrasto di interessi davanti alle Camere. In caso di dubbio, la Corte decide di chi sia la competenza. 128. Le Province e i Comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni. 129. Le Province e i Comuni sono anche circoscrizioni di decentramento statale e regionale. Le circoscrizioni provinciali possono essere suddivise in circondari con funzioni esclusivamente amministrative per un ulteriore decentramento. 130. Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali. In casi determinati dalla legge può essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione. 131. Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d'Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna. 132. Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d'abitanti, quando ne facciano richiesta tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse. Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Province e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un'altra. 133. Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell'ambito d'una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione. La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni.
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STORIA D'ITALIA - STORIA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

STORIA D'ITALIA E STORIA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
 

STORIA D'ITALIA FINO ALLA NASCITA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

CONTENUTO PARTICOLARE: Dopo il congresso di Vienna, apertosi dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia il 13 ottobre 1813, si assistette nei vari paesi ai tentativi di restaurare gli assetti politici e sociali precedenti alla rivoluzione francese. La Restaurazione non avvenne dappertutto secondo le stesse modalità, a causa della presenza la presenza soprattutto dei nuovi ceti borghesi che si erano affermati nel campo amministrativo e delle riforme economiche. La stessa classe dirigente della Restaurazione era composta da correnti politiche di diverso orientamento c'erano: - gli aristocratici conservatori che rifiutavano tutte le riforme dei periodo napoleonico; - i moderati che ritenevano possibile una conciliazione tra le aspirazioni al ritorno al passato e le nuove esigenze di riforme soprattutto nel campo amministrativo ed economico. Nel campo religioso, si assistette a una valorizzazione della fede, come elemento stabilizzatore della società. Esaltazione della fede, della tradizione religiosa e dei sentimenti, popolari furono propri della cultura romantica, diffusa in tutta Europa. Gli anni della Restaurazione, oltre a vedere i tentativi dell'aristocrazia di ripristinare il vecchio assetto prerivoluzionario, videro anche la diffusione dì un nuovo pensiero politico, di ispirazione liberale, che permeò tutti i movimenti tendenti ad associare la lotta per la libertà con quella delle autonomie e indipendenze nazionali. Il principale sostegno delle forze fautrici della Restaurazione fu l'Austria, la cui politica era diretta dal principe di Metternich, il quale se era contrario al programma degli ultramonarchici che volevano tornare al periodo prerivoluzionario, tuttavia era ostile a tutte le aspirazioni nazionali dei popoli, sottomessi direttamente o indirettamente alla Corona austriaca. Fu ciò che infatti avvenne dove, come negli stati italiani, tele processo ebbe in carattere oppressivo e illiberale. Tornarono al potere i vecchi sovrani, circondati da aristocratici e clericali reazionari. L'Austria si era assicurata un vasto dominio, che comprendeva i territori della Lombardia e dell'ex repubblica Veneta; inoltre essa esercitava un controllo, attraverso combinazioni di parentele, sul ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, su quello di Modena e sul granducato di Toscana, dove però la Restaurazione ebbe un carattere, moderato e tollerante. Nonostante la sospettosa politica dei Metternich, il Lombardo-Veneto conobbe sotto l'Austria un'amministrazione ordinata ed efficiente. Nelle province lombarde si sviluppò un movimento culturale patriottico-liberale, che ebbe tra i suoi maggiori esponenti Silvio Pellico e Federico Confalonieri. Il periodico il "Conciliatore", organo di questo gruppo di intellettuali, divenne sostenitore delle idee dei Romanticismo. Atmosfera pesante, chiusa, decisamente reazionaria contrassegnò il ritorno al potere dei re di Sardegna, Vittorio Emanuele I. Nonostante i moniti di Cesare Balbo, sostenitore di una linea liberalmoderata, il re instaurò una politica retriva, che privilegiava gli interessi dell'aristocrazia. Era, pertanto, inevitabile che si formassero correnti di opposizione clandestina, che riflettevano gli interessi più aperti e nuovi di quei nobili e borghesi che si erano "compromessi" con il regime napoleonico. Pesante atmosfera di reazione anche nello stato Pontificio, nonostante i tentativi dei segretario di stato Consalvi di ammodernare l'amministrazione e la gestione degli affari pubblici. Gli scontenti erano molti, il che spiega la diffusione della carboneria nei territori dello stato. Il regno delle due Sicilie conobbe invece un periodo meno oppressivo e soffocante di quello presente negli altri stati controllati dall'Austria. Il ministro Luigi de' Medici è famoso per la sua politica dell'amalgama, che mirava a fondere in un unico ceto politico il personale politico e burocratico dei periodo murattiano con il personale borbonico. Sotto il suo governo fu creato il regno delle due Sicilie; con questa decisione veniva abolita l'autonomia siciliana, sancita dalla costituzione dei 1812. Nonostante le aperture politiche dei Medici, fu impossibile colmare il distacco che si era prodotto fra i Borboni e le classi degli intellettuali napoletani, che ricordavano la soppressione della repubblica Partenopea dei 1799 e le aspettative per una maggiore libertà e per le riforme degli anni murattiani. Durante il 1820 l'insofferenza verso i regimi della Restaurazione, specialmente di quelli che avevano carattere reazionario e poliziesco, si manifestò anche nella diffusione delle società segrete, che variamente si ispiravano al giacobinismo, alle dottrine comunisteggianti di Babeuf e di Filippo Buonarroti, alle ideologie liberaldemocratiche. Di queste sette le più importanti in Italia furono la massoneria e la carboneria. Ma ci furono anche sette segrete costituite da cattolici e da rappresentanti dei clero, che si caratterizzavano per l'assoluta fedeltà alla Chiesa e al papa e per la preoccupazione che avevano di combattere, con i "buoni libri" e con un'azione svolta all'interno delle classi più elevate, le idee dell'illuminismo. I moti rivoluzionari che scoppiarono in Italia ebbero come punto d'origine il Sud. Nel regno delle due Sicilie il moto rivoluzionario fu av­viato da un gruppo di carbonari. Al moto aderì il generale Guglielmo Pepe. Il re Ferdinando I dovette promettere la costituzione. La rivolta si estese anche in Sicilia dove assunse l'aspetto di una rivendicazione a carattere sociale e indipendentista. Il governo napoletano inviò nell'isola il generale Pietro Colletta, che im­pose con la forza ai Siciliani la volontà unitaria dei governo. Il Metternich, preoccupato dagli effetti che le rivolte nel regno delle due Sicilie avrebbero potuto avere sugli italiani, convocò una conferenza delle grandi potenze a Troppau. Russia, Austria e Prussia proclamarono il diritto della Santa alleanza a intervenire negli stati che fossero apparsi "vittime" della rivoluzione. Fu proprio il re di Napoli Ferdinando I a invocare l'intervento austriaco e i rivoltosi furono sconfitti. Anche nel Piemonte sabaudo si ebbero moti insurrezionali, guidati dai carbonari. L'esercito austriaco e quello rimasto fedele al re sconfissero nell'aprile 1821 i ribelli. Incominciò da questo momento la storia di una vasta emigrazione politica. Repressione e reazione vi furono anche negli altri stati italiani, appoggiate sempre dall'Austria e particolarmente dure si rivelarono quelle dei Napoletano. Nel Lombardo-Veneto molti rivoltosi furono relegati nella fortezza dello Spíeiberg a scontare la loro pena. Il prevalere negli stati italiani di tendenze reazionarie e di metodi polizieschi non riuscì a impedire nelle classi colte lo sviluppo di un pensiero politico e di una cultura liberali. Nel Lombardo-Veneto si affermò la scuola riformista di Giandomenico Romagnosi, da cui sarebbe uscito il maggiore esponente dei pensiero liberale federativo, Carlo Cattaneo. Nel 1830 l'ondata di insurrezioni partita da quella parigina del 30, di Carlo X che si oppose al re Luigi XVIII, ebbe forti ripercussioni anche in Italia. L'epicentro questa volta fu il ducato di Modena, il capo della rivolta lo sfortunato Ciro Menotti, che aveva confidato nell'appoggio dei duca Francesco IV, e delle armate francesi, appoggio che venne a mancare con l'intervento delle truppe austriache l'insurrezione fu stroncata e Menotti condannato a morte. Dopo il fallimento dei moti dei 1830-31, incominciò a diffondersi in Italia negli ambienti patriottici la convinzione che con i metodi della carboneria non si sarebbe mai riusciti a sbarazzarsi dei regimi assoluti e della cappa di piombo della Santa alleanza. Chi si fece interprete di questo nuovo stato d'animo fu Giuseppe Mazzini, il quale ritenne che solo una fede nutrita di spirito religioso, capace di coinvolgere la gioventù urbana, avrebbe potuto trasformare l'obiettivo dell'unità nazionale in qualcosa di più forte delle baionette austriache e della paura dei principi. La storia, secondo Mazzini, aveva camminato attraverso un processo dialettico che la divideva in due fasi: - una fase di antitesi nella quale vi fu un a forte opposizione al sistema feudale su cui aveva trionfato l'individualismo borghese della rivoluzione francese. - Ora, invece, veniva la fase di sintesi ovvero alla proclamazione dell'Umanità, che avrebbe superato l'individualismo e aperto un'altra epoca storica. Egli, politicamente, non era per un governo democratico, infatti era convinto che l'Italia avesse bisogno di qualcuno che la governasse in un potere centralizzato, ma non secondo i metodi dell'assolutismo monarchico austriaco. Disprezzava poi le ideologie socialistiche tendenti a individuare nel proletariato la forza rivoluzionaria. Nel 1831 Mazzini fondò a Marsiglia la "Giovine Italia", che avrebbe dovuto preparare l'insurrezione popolare contro lo straniero e i regimi assoluti, così come avevano fatto i patrioti spagnoli, che avevano preso le armi contro Napoleone. Vanamente Mazzini sperò di associare Carlo Alberto alla lotta per l'unità, la libertà e l'indipendenza. Tutti i moti organizzati dalla "Giovine Italia" fallirono; il più drammatico fu quello legato ai nomi dei fratelli Bandiera, che sbarcarono nel 1844 in Calabria sperando di sollevare il popolo contro i Borboni. Tuttavia, questi fallimenti, ben lungi dall'attenuare il sentimento nazionale, l'incrementavano specialmente negli strati della borghesia più colta e progredita. Non bisogna perdere di vista che la fortuna delle correnti nazionali e patriottiche andò di pari passo con il maturare di nuove esigenze economiche, specialmente nelle zone settentrionali. Oramai si comprendeva sempre più chiaramente che la frammentazione dell'Italia in tanti staterelli era di ostacolo ai commerci e allo sviluppo dei paese. Si spiega così che, insieme con la diffusione delle ideologie patriottiche, ci fosse anche quella delle idee dei grandi maestri dei liberismo, da Smith a Bentham a Say. Ora, per superare la frammentazione politica dell'Italia, occorreva che il sentimento nazionale si traducesse in un fatto politico non solo "possibile", ma accettabile da quei ceti borghesi e aristocratici che avrebbero voluto una unificazione politica ed economica, ma senza insurrezioni popolari mazziniane. L'ideologia neoguelfa di Vincenzo Gioberti sembrò rispondere a questa esigenza, con la proposta di un accordo tra i principi italiani per una confederazione di stati presieduta dal papa. Secondo Gioberti sarebbe bastata la forza della religione per migliorare i rapporti con lo stesso nemico. Questa tesi, ricca di riferimenti storici e di elementi di filosofia politica, fu sostenuta da Gioberti nell'opera Del Primato civile e morale degli Italiani (1843), opera che ebbe un'importanza fondamentale nella formazione della mentalità della classe dirigente moderata dei nostro Risorgimento. Carlo Cattaneo invece si pose in netta opposizione con i precedenti. Egli affermava che il vero problema politico consistesse nel formare una vera coscienza unitaria nel popolo italiano prospettata ad un autogoverno e che le riforme dovessero avvenire in modo graduale per dare il tempo a tutti di adattarvisi. L'anno 1848 fu per l'Europa tutta un anno molto difficile a causa delle rivolte che la pervasero e che non ebbero solo carattere politico ma anche sociale. Dovunque fu protagonista la borghesia, per la prima volta nei moti fece la sua comparsa il proletariato. Naturalmente anche l'Italia fu colpita da tali rivolte. Il 12 gennaio insorse Palermo. Il moto si estese alla Campania, con epicentro nel Cilento. Ferdinando il fu costretto a concedere la costituzione. A Venezia fu cacciato il presidio austriaco e fu costituita una repubblica autonoma retta da Daniele Manin. Famose le Cinque giornate di lotta dei Milanesi, che riuscirono a far ritirare le truppe austriache dei generale Radetzky. Pio IX concesse una costituzione ai sudditi dello stato Pontificio. Carlo Alberto dovette concedere al Piemonte lo statuto detto "Albertino" creato sull'impronta della costituzione francese. In un clima di grandi entusiasmi Carlo Alberto, chiamato dai Milanesi, dichiarò guerra all'Austria. Alla guerra concorsero forze regolari, inviate dai sovrani costituzionali italiani, cosicché si determinò uno schieramento militare "federalista" contro l'Austria; ma i timori di Carlo Alberto circa la possibilità di mantenere il trono in caso di sconfitta, le sue perplessità verso il movimento nazionale, che andava ben oltre gli obiettivi dinastici, minarono lo sforzo bellico. L'esercito piemontese, dopo aver vinto a Goito e costretto alla resa la fortezza di Peschiera, fu sconfitto a Custoza. Carlo Alberto si vide costretto all'armistizio di Salasco. In Francia, l'opinione pubblica, atterrita dallo "spettro dei comunismo", favorì la formazione di un forte concentramento di forze conservatrici, che di lì a poco preparò la strada all'avvento al potere di Luigi Bonaparte. Negli stati asburgici, il contrasto tra le minoranze etniche consentì alla monarchia di reprimere la rivoluzione e di tornare ai vecchi ordinamenti. Il fallimento politico-militare della guerra federalista in Italia spinse il movimento nazionale a fare appello alle forze popolari. A Firenze e a Roma i democratici mazziniani rovesciarono i governi moderati e imposero il programma della Costituente italiana. A Roma fu proclamata la fine dello stato Pontificio e l'instaurazione della repubblica. Il Piemonte riprese la guerra contro l'Austria, ma il suo esercito fu sconfitto a Novara. Carlo Alberto abdicò in favore dei figlio Vittorio Emanuele II. L'Austria ritornò negli stati che le avevano mosso guerra, restaurando i vecchi governi e i principi. Incredibile fu la resistenza della repubblica Romana, sorretta da un triumvirato composto da Mazzini, Armellini e Saffi. Alla difesa della repubblica partecipò anche Giuseppe Garibaldi, ma alla fine fu la resa, per l'intervento delle truppe mandate da Luigi Bonaparte, presidente della repubblica francese. Anche la repubblica di Venezia, dopo una lunga ed estenuante resistenza, dovette conse­gnarsi agli Austriaci. A capo delle idee rivoluzionario si pose all'ora Camillo Benso conte di Cavour presidente del consiglio sardo dal 1852. Il suo modello di governo era la monarchia costituzionale ispirata al principio del giusto mezzo. Egli era infatti convito che nessuna forza fosse in grado d arrestare il progresso economico-civile. Firmò trattiti con le maggiori potenze europee assicurando alla borghesia un ruolo politico rilevante nella politica accanto alla nobiltà. Il problema dell'unificazione e della indipendenza nazionale era per lui un passo obbligato, necessario nel processo di avanzamento economico e morale dei liberalismo europeo, che aveva oramai i suoi punti di riferimento a Parigi e a Londra. Non a caso, come ministro dell'Agricoltura e poi delle Finanze nel governo d'Azeglio, Cavour si impegnò in una politica liberistica, firmando trattati di commercio con la Francia l'Inghilterra e il Belgio assicurando alla borghesia un ruolo politico rilevante nella politica accanto alla nobiltà. Uno dei suoi capolavori politici fu la formazione dei connubio tra centro-destra e centro-sinistra, che gli permise di condurre ininterrottamente dal 1852 al 1859 un indirizzo di ammodernamento, progresso e democratizzazione dello stato. Nella politica ecclesiastica, muovendosi sulla linea delle leggi Siccardi che avevano abolito la manomorta, il foro ecclesiastico e il diritto di asilo, impostò su princìpi liberali i rapporti tra stato e Chiesa. In politica estera, la questione italiana fu spogliata da Cavour di ogni premessa a carattere rivoluzionario e impostata come interesse europeo a favorire, in chiave moderata, l'estromissione dell'Austria dai territori italiani. Ecco che il 18 Gennaio 1859 firmò con Napoleone III accordi per una prossima guerra contro l'Austria. La 2° guerra d'indipendenza. Nei progetti di Cavour, che ebbero il consenso dell'imperatore, si sarebbe dovuti arrivare alla costituzione di un regno d'Italia, i cui confini avrebbero compreso il Piemonte, la valle dei Po, la Romagna e le legazioni pontificie. Intanto Mazzini, diffidente verso la politica di Napoleone III, nel quale vedeva colui che aveva represso la repubblica Romana, e di Cavour, che accusava di volere "piemontesizzare" la causa italiana, riprese a incentivare e organizzare moti insurrezionali in Lombardia. Il tentativo più importante di promuovere una sollevazione popolare fu attuato da Carlo Pisacane con lo sbarco nel Cilento, tentativo che fallì costando la vita allo stesso Pisacane. Il piano mazziniano di una contemporanea insurrezione a Genova, a Livorno e nel sud, si risolse in un insuccesso, provocando la crisi di tutto il movimento rivoluzionario posto in essere dal grande antagonista della politica di Cavour. Scoppiata la guerra tra Austria e Piemonte nel 1859, la Francia si schierò a favore del suo alleato. Questa volta le operazioni militari si risolsero con il successo dei Franco-Piemontesi ma la loro avanzata non si spinse sino all'Adriatico, com'era nei patti; si fermò al Mincio per la decisione di Napoleone III di concludere la pace (armistizio di Villafranca e pace di Zurigo) con l'Austria nel timore che il conflitto si allargasse con l'intervento delle altre potenze europee. Secondo i termini della pace non si sarebbe dovuti andare oltre l'annessione della Lombardia al regno di Sardegna, ma le insurrezioni e la costituzione di governi provvisori negli ex stati dell'Italia centrale portarono alla loro annessione al Piemonte, mentre il regno di Sardegna doveva cedere alla Francia Nizza e la Savoia. Dopo Villafranca e i plebisciti dell'Italia centrale, Cavour, anche per evitare il rischio di vedere il movimento di unificazione nazionale condizionato dalla ripresa di iniziativa dei mazziniani, si mosse in direzione di un programma unitario, che assegnava alla monarchia un ruolo di espansione non più limitato territorialmente al centro-nord, ma esteso a tutta la penisola e sotto l'egemonia della classe moderata subalpina. Egli doveva fare i conti, da questo momento, con il Partito d'azione, di ispirazione democratico-mazziniana, contrario a ricorrere all'aiuto dello straniero per realizzare l'indipendenza nazionale. Il capo di questo partito era Giuseppe Garibaldi, il quale prese l'iniziativa della famosa spedizione dei Mille in Sicilia, spedizione che condusse alla liberazione dei Mezzogiorno e alla liquidazione della monarchia borbonica. Cavour, d'intesa con Napoleone III, spedì un esercito che, attraverso le Marche e l'Umbria, raggiunse l'esercito garibaldino, facendo rientrare l'impresa dei Mille nelle prospettive di una soluzione moderata monarchico-sabauda, controllata dal governo di Torino, al di fuori dei pericolo di uno slittamento rivoluzionario. Il 18 febbraio 1861 si riuniva a Torino il primo Parlamento dell'Italia unita, che il 17 marzo proclamava il regno d'Italia sotto la monarchia dei Savoia. TESI SOSTENUTA: Dopo il Congresso di Vienna, tenutosi subito dopo la sconfitta di Napoleone, i regni di tutta Europa tentarono di cancellare, attraverso la Restaurazione, tutte le idee nate durante la Rivoluzione Francese. Essi però non tennero conto del fatto che ormai tali idee erano radicate nella popolazione e non tennero neppure conto della classe che durante tale rivoluzione aveva acquisito sempre un maggior potere: la borghesia. In Italia come in tutti gli altri paesi europei vennero avanti le società segrete ( massoneria e carboneria, in Italia ) che si opponevano al governo del luogo sia con le loro idee sia con azioni violente. Emersero poi figure di grandi statisti come Mazzini, Gioberti ed infine Cavour che pur con modalità diverse e con posizioni ideologiche non del tutto simili resero possibile l'unità d'Italia. A questa unità si è tentato di giungere in un primo momento attraverso la pura forza opponendosi al potere, con azioni di guerra, nelle singole città contro i governi centrali ma che in un modo o nell'altro alla fine venivano sedate e spesso con ingenti perdite di vite umane. Solo in un secondo momento e in particolare grazie a Cavour che si giunse all'unità italiana. Egli infatti fece in modo che la questione italiana fosse spogliata di ogni premessa a carattere rivoluzionario e impostata come interesse europeo a favorire, in chiave moderata, l'estromissione dell'Austria dai territori italiani. Così ottenne l'appoggio della Francia grazie al quale poté sconfiggere l'Austria e in un secondo momento, unite le sue truppe a quelle di Garibaldi ottenne anche la sconfitta dei Borboni. Così il 18 Febbraio 1861 l'Italia si unì sotto un unico regnante. LA CHIESA ITALIANA DAL 1815 AD OGGI Partiamo dalla Restaurazione del 1815, cioè dalla sconfitta delle idee napoleoniche di libertà borghese (sconfitta dovuta alla pretesa di veder affermate queste idee in tutta Europa attraverso l'uso della forza, esportando la rivoluzione). In occasione della Restaurazione si trovano a sedere intorno allo stesso tavolo tre religioni diverse, che si concepivano e ancora oggi si concepiscono in opposizione l'una all'altra: la cattolica (Austria e Francia), la protestante (Prussia) e l'ortodossa (Russia). Questa straordinaria convergenza nasce da un comune interesse: arginare il fenomeno del liberalismo europeo, difendendo l'assolutismo dell'ancien régime, cioè tutto il passato del privilegio clerico-nobiliare. La Santa Alleanza, in tal senso, esprime bene la volontà della politica di usare il fenomeno religioso per fini di potere e di conservazione dello status quo. Fra i princìpi della Santa Alleanza vi era quello che autorizzava ogni Stato-membro a intervenire ovunque fosse violato lo status quo pre-napoleonico. La chiesa cattolica, in Italia, era appoggiata dall'Impero austro-ungarico, dai Borboni spagnoli nel Meridione e dalla Francia di Napoleone III: tutti interessati a tenere divisa la penisola. Ormai tuttavia il liberalismo borghese non poteva più essere frenato. La Rivoluzione francese era stata un avvenimento troppo importante perché la si potesse facilmente dimenticare. E lo sviluppo industriale pareva irreversibile. Il liberalismo borghese poteva essere vinto solo in un modo: ampliando la democrazia nella società rurale pre-capitalistica. Ma questo non avvenne in nessuna parte dell'Europa occidentale. La stessa sinistra (prima socialista, poi comunista) non mise mai in discussione l'equivalenza tra rivoluzione industriale e sviluppo capitalistico. All'incapacità delle forze sociali rurali (e dell'ideologia religiosa in genere) di realizzare la democrazia socio-politica, permettendo altresì uno sviluppo industriale che non coincidesse tout-court col capitalismo, la sinistra laico-socialista rispose dando per scontato che l'industrializzazione avrebbe definitivamente portato l'Europa occidentale fuori dal Medioevo, verso la nascita di un tipo di civiltà -quella "borghese industriale"- ritenuta, ingenuamente, molto più democratica di quella precedente. I moti liberali in Italia (ma anche all'estero) avvengono a scadenze quasi decennali: '20-'21, '30-'31, '48, sino all'unificazione del 1860 e alla caduta del potere temporale dei papi nel 1870. Dire che i cattolici non hanno partecipato a questi moti, è dire una sciocchezza. La chiesa istituzionale (appoggiata all'estero dai circoli ultramontani) non vi ha partecipato, anzi ha fatto di tutto -specie dopo il fallimento del neoguelfismo di Gioberti- per ostacolarli. (Il neoguelfismo fallì non solo perché il papato non voleva combattere la cattolica Austria, ma anche perché non voleva accettare il liberalismo, né i liberali volevano accettare l'idea di un papato a guida della nazione che stava per nascere). E' stato invece il cattolicesimo non ufficiale, quello appunto liberale, che ha partecipato attivamente all'unificazione nazionale (si pensi p.es. al Manzoni), nonché alla fine dello Stato della Chiesa. La chiesa (come istituzione) reagirà male all'unificazione nazionale, con due documenti del 1864, l'enciclica Quanta cura e il Sillabo di Pio IX (1846-78), che condannano praticamente tutto quanto è "laico" e "moderno" (p.es. il concetto di separazione tra Stato e Chiesa e tra scuola e chiesa, espressi dalla formula di Cavour "Libera chiesa in libero Stato", la libertà di religione e di coscienza...). La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, sarà preceduta di pochi mesi dalla convocazione del Concilio Vaticano I, che sancisce il dogma dell'infallibilità del papa (vedi però l'opposizione dei Vecchi-Cattolici). Pio IX si autodichiarò "prigioniero" del Vaticano, scomunicherà casa sabauda e rifiuterà anche la Legge delle Guarentigie del 1871 (rendita annuale concessa al papato dallo Stato, libertà di coscienza, no ai privilegi giurisdizionali dello Stato sulla Chiesa, extraterritorialità del Vaticano, sovranità sacra e inviolabile del papa ecc.). La cosiddetta "Questione romana" è nata così. Essa si trascinerà sino al 1929, con la stipulazione dei Patti Lateranensi (Pio XI riconoscerà il regno d'Italia con Roma per capitale e il fascismo riconoscerà la sovranità papale sul Vaticano) e il successivo Concordato, che il fascismo pretese per la propria legittimazione nazionale, concedendo in cambio alcuni privilegi (p.es. l'ora di religione nelle scuole statali, il valore civile dei matrimoni religiosi ecc.) D'altro canto la chiesa, grazie a questi privilegi, aveva meno motivi di opporsi allo Stato "borghese". Tra l'altro, per la chiesa lo Stato "fascista" rappresentava l'antitesi dello Stato "liberale", così come lo stesso fascismo voleva far credere. Per quale motivo ad un certo punto si fu costretti a scegliere la strada del Concordato? Per due ragioni: da un lato la borghesia non riusciva a realizzare gli ideali in virtù dei quali aveva chiesto di unificare l'Italia (maggiore libertà, giustizia sociale, uguaglianza); dall'altro la chiesa, pur continuando a rifiutare lo Stato laico (il papato impedirà per 50 anni ai cattolici di partecipare alla vita politica: vedi il non expedit di Pio IX, ovvero il principio né elettori né eletti del 1874), s'impegnava attivamente, per quanto poteva, alla soluzione delle contraddizioni socio-economiche che il capitalismo aveva generato in Italia (si pensi al Movimento cattolico: casse rurali, leghe di mestiere, cooperative, sindacati bianchi ecc.). I cattolici intransigenti, i clericali conservatori saranno forti soprattutto nell'Opera dei Congressi e dei comitati cattolici (l'antecedente dell'Azione Cattolica) (1). L'Opera cercherà d'imboccare, con la direzione Grosoli, la via del superamento del clericalismo, ma nel 1904, dopo 30 anni di attività, verrà sciolta da Pio X: sia per impedire un suo qualunque rapporto coi modernisti, sia per fare un piacere a Giolitti, col quale si inaugura la politica clerico-moderata. Erano dunque i cattolici democratici che sul piano sociale s'impegnavano a realizzare ciò che la borghesia non riusciva a fare, a causa della sua posizione di "classe", contrapposta agli interessi delle masse contadine e operaie. Per ottenere un consenso democratico, in virtù del quale potesse restare al governo senza ricorrere a misure particolarmente repressive, la borghesia aveva bisogno che sul piano socio-economico le contraddizioni fossero attenuate dall'attiva partecipazione dei cattolici. La scelta a favore della dittatura fascista fu per la borghesia inevitabile nel momento stesso in cui cominciò a rendersi conto che non poteva più far leva sulle forze cattolico-contadine per arginare il pericolo della rivoluzione socialista-operaia (vedi il Biennio rosso del '19-'20). Non poteva più far leva su queste forze per due ragioni: 1) i cattolici democratici sapevano di poter usare la "questione sociale" contro lo Stato liberale, per questo miravano a una propria rappresentanza politica (vedi la nascita del Partito popolare); 2) le contraddizioni sociali emerse dallo sviluppo capitalistico erano state attenuate ma non risolte dall'impegno dei cattolici. Per i liberali borghesi un nuovo nemico, ancor più pericoloso dei cattolici democratici, era salito alla ribalta: il socialismo rivoluzionario. Il problema che agli inizi del secolo i cattolici democratici si posero fu il seguente: per quale ragione i cattolici, che pur sono superiori alla borghesia sul piano sociale, non possono partecipare alla vita politica (secondo l'imperativo del non expedit)? La risposta a questa domanda includeva, generalmente, due diverse considerazioni sui governi allora in carica, a seconda che il cattolico fosse "moderato" o "democratico": per il primo l'attività politica era necessaria perché molti ideali della borghesia erano giusti; per il secondo invece tale necessità dipendeva dall'esigenza che i cattolici costituissero un'alternativa politica al liberalismo. E' comunque sulla risposta a questa domanda che avviene lo scontro tra chiesa istituzionale e modernismo (la corrente religiosa più progressista di quel tempo). Il modernismo nasce in Francia verso la metà dell'800 e si sviluppa in Italia verso la fine dell'800, concludendosi con l'ascesa del fascismo. Suo esponente principale in Italia fu Romolo Murri. Il modernismo sosteneva la necessità di adeguare la chiesa al progresso dei tempi. Addirittura affermava la storicità dei dogmi. Sarà condannato nel 1907 dall'enciclica Pascendi di Pio X (1903-14). Paradossalmente lo stesso papa, pur di combattere politicamente il laicismo, sostituirà il non expedit con la formula "deputati cattolici no; cattolici deputati sì", con cui si sanzionò il clerico-moderatismo, arginando il pericolo interno della "democrazia cristiana". Intanto, sotto il papato di Leone XIII (1878-1903), la chiesa, pressata dal modernismo, all'interno, e dal socialismo, all'esterno, si vide costretta a rinunciare all'intransigenza antiliberale e a promuovere il dialogo con la borghesia (vedi Rerum novarum del 1891). Le condizioni che il papato impone al Movimento cattolico sono precise: democrazia sociale sì (nel senso del corporativismo e del paternalismo statale), democrazia politica no (nel senso dell'uguaglianza sociale e della partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica). Ciò significa che il cattolico non doveva avallare politicamente le idee del liberalismo, né doveva avere un'alternativa al liberalismo che non fosse quella della gerarchia vaticana. Murri non accetterà queste condizioni e sarà scomunicato nel 1909, e con lui molti altri modernisti (in Italia p.es. Buonaiuti). Da allora in poi l'attività del Murri si svolgerà fuori del Movimento Cattolico. I punti fondamentali della Rerum novarum sono i seguenti: 1) l'etica è superiore all'economia; 2) difesa della proprietà privata, con destinazione universale dei beni; 3) interclassismo; 4) capitalismo vuol dire sfruttamento del lavoro salariato; 5) lo Stato deve promuovere il bene comune (corporativismo); 6) sì alle associazioni operaie. L'enciclica ha accettato i presupposti del capitalismo, sperando di correggerli in senso cristiano. L'ideale sociale è il corporativismo para-feudale o al massimo mercantilistico. Ciò senza rendersi conto che il corporativismo medievale aveva funzionato proprio perché esisteva un'ideologia comune tra sfruttato (il servo della gleba) e sfruttatore (il feudatario). Il fallimento della Rerum novarum lo si può già costatare con la nascita del clerico-moderatismo, a partire dalle elezioni politiche del 1904 e dallo scioglimento dell'Opera (1). Il clerico-moderatismo rappresenta la necessità, condivisa da Giolitti e da Pio X, di un appoggio reciproco tra borghesi e cattolici (appoggio ufficializzato col Patto Gentiloni per le elezioni del 1913): i cattolici votano quei liberali che s'impegnano a combattere, se eletti, qualsiasi legislazione anticlericale (circa 200 deputati liberali saranno eletti così). Murri continuerà a lottare per avere una Lega Democratica Nazionale (non "cristiana", come poi invece vorrà Cacciaguerra): cercava l'appoggio dei socialisti in funzione anti-liberale, ma non avrà successo, né l'avrà il Cacciaguerra col suo tentativo di conciliare una posizione di rigida ortodossia cattolica con una posizione democratica in politica. Le cose cambiano con la prima guerra mondiale, poiché i cattolici si schierano dalla parte dello Stato italiano contro l'impero austro-ungarico. Si risolve così, di fatto (non ancora di diritto), la "questione romana". Nel 1919 nasce il Partito popolare di Sturzo, d'ispirazione cristiana, ma slegato (almeno ufficialmente) da una dipendenza gerarchica dal papato (come invece era l'Azione cattolica, nata nel 1905). Ovviamente sarebbe stato impossibile per un prete come Sturzo diventare segretario generale senza il consenso della curia vaticana. Infatti nel '23 abbandonerà la carica su richiesta del papato. Il P.P. nasce spontaneamente, è aconfessionale, antiliberale e antisocialista (l'ateismo dei socialisti e il concetto di proprietà collettiva impediscono qualunque rapporto coi partiti di sinistra). Lotta per avere: sistema proporzionale, suffragio femminile, elettività del Senato, libertà delle scuole e dell'insegnamento, imposta progressiva, riforma agraria al Sud, autonomie comunali, costituzione della Regione, tutela della piccola proprietà... Nel 1919 ha 100 seggi in Parlamento (grazie al grande lavoro pre-politico condotto dal Movimento Cattolico), ma nel '22, dopo essersi opposto al ritorno al potere di Giolitti, rifiuta di assumere le redini del governo coi socialisti, anzi, preferisce entrare nel primo governo fascista di coalizione, anche se nel '23 si ritira, passando all'opposizione. Dopo i delitti Matteotti e don Minzoni si schiera con la secessione parlamentare dell'Aventino. De Gasperi fu l'ultimo segretario generale. Il P.P. venne sciolto dal fascismo nel '26. La chiesa accettò lo scioglimento senza reagire, confidando più nell'obbedienza della A.C. Anche la Confederazione dei lavoratori verrà boicottata dal papato a vantaggio dei sindacati fascisti. Il P.P. risorgerà durante la Resistenza come Democrazia Cristiana. A favore del fascismo si schierano i gesuiti e Pio XI (1922-39), che sono contrari a un'intesa tra popolari e socialisti (il papa definirà Mussolini con l'espressione "l'uomo della provvidenza"). La curia vaticana appoggiò il fascismo perché credette di vedere in questo movimento una maggiore garanzia contro il socialismo. Lo stesso Mussolini, diversamente da tutti gli altri statisti liberali, affermava chiaramente (anche se per tattica) di voler difendere gli interessi della chiesa contro il socialismo. Il rapporto tra chiesa e fascismo non è però così lineare. La chiesa condanna la violenza, i limiti imposti all'A.C., l'educazione fascista della gioventù, le leggi razziali, l'alleanza col nazismo... Accetta il Concordato, il colonialismo in Africa, l'autarchia e il regime corporativo, la "crociata" spagnola in difesa dei nazionalisti di Franco, la lotta contro le sanzioni di Ginevra, la fine delle libertà di stampa, sindacale, partitica, di sciopero... Il fascismo riconosce al Vaticano, fra le altre cose, l'Università Cattolica di Milano, aumenta le congrue parrocchiali, ripara le chiese danneggiate dalla guerra..., ma in cambio vuole una religione sempre più come strumento di potere. Pio XI pubblica nel 1937 due importanti encicliche: una contro la persecuzione religiosa nella Germania nazista (Mit brennender Sorge - Con viva ansia), l'altra contro il comunismo ateo (Divini Redemptoris). Il papato è convinto che mentre col nazismo si possa trattare (vedi p.es. il Concordato del '33), col comunismo invece ciò non sia assolutamente possibile. Nel secondo dopoguerra i quadri direttivi dell'A.C. e dell'Università Cattolica passano a dirigere la politica economica dell'Italia, attraverso il partito della Democrazia Cristiana. Finisce l'opposizione cattolica allo Stato liberale e inizia il collateralismo della Chiesa nei confronti della D.C. La DC offre una base di massa -quella contadina- alla borghesia capitalistica. Alle elezioni del '48 la DC sfiora la maggioranza assoluta, ma sull'onda di uno sfrenato anticomunismo, non sulla base di un programma sociale anticapitalistico. Gli USA diventano il punto di riferimento privilegiato. L'illusione della DC è stata quella di poter garantire uno sviluppo equilibrato del capitalismo in nome dei valori cristiani. Tuttavia questo non si è verificato, anzi la progressiva laicizzazione del Paese è avvenuta proprio nel periodo in cui per la prima volta nella storia d'Italia la classe dirigente era cattolica. L'origine di questo insuccesso sta nel concetto stesso di "capitalismo", che la DC ha mutuato da Weber, Sombart ecc., secondo cui il capitalismo non è tanto un modo di produzione particolare legato a una particolare forma di proprietà e di sfruttamento, ma è piuttosto una civiltà, una cultura, una mentalità, cioè un fenomeno sovrastrutturale. Le proposte migliori della DC, affrontando il problema del capitalismo solo in questi termini, non ebbero alcuno sbocco: si pensi al gruppo dossettiano, alla sinistra cristiana, ai catto-comunisti... La chiesa romana accetta di convivere pacificamente col capitalismo nel Concilio Vaticano II, ma in questo Concilio sono rimasti del tutto esclusi i motivi dello sfruttamento coloniale del Terzo Mondo (non a caso la chiesa sudamericana, poco partecipe al concilio, convocò a Medellin nel '68 la conferenza che reinterpretò il Concilio alla luce della realtà sudamericana). Con la fine del comunismo (caduta del muro di Berlino, implosione dell'Urss, ecc.) e quindi dell'anticomunismo, la DC si è trovata ad aver perso anche l'ultima possibilità di tenere unite forze sociali tra loro opposte. Di qui la sua scissione in due correnti fondamentali: una di centro-destra, ancora fortemente anticomunista; l'altra di centro-sinistra, aperta al dialogo con le forze della sinistra riformista. Oggi le nuove forze che vogliono governare (laiche o religiose, di destra o di sinistra) sono convinte che il cristianesimo non sia più in grado di modificare qualitativamente le leggi del capitalismo. L'Occidente è diventato sempre più secolarizzato e consumista e il crollo del comunismo ha dato a tutti la convinzione che le leggi del capitalismo siano assolutamente immutabili. Per correggere le sue storture tutti ritengono sia sufficiente un governo forte, razionale, efficiente, che sappia combinare le esigenze politiche di uno Stato centralizzato con quelle organizzative delle autonomie locali (in primo luogo regionali). Quest'ultime, in particolare, si pretende diventino parte "organica" dello Stato e non più un territorio da tenere, con sospetto, sotto controllo. Con la fine dell'intesa religione/capitalismo, dobbiamo dunque aspettarci un futuro caratterizzato da meno ideali e più autoritarismo (non solo nazionale ma anche locale), oppure l'alternativa è quella di lottare per nuovi ideali democratici, nel senso della partecipazione diretta, non delegata, del popolo alla vita politica? Ciò di cui le forze popolari progressiste devono convincersi è che il capitalismo è del tutto incompatibile con la democrazia, oppure esistono ancora dei margini d'intesa? (1) L'OPERA DEI CONGRESSI L'Opera Dei Congressi promosse periodici congressi in cui furono dibattuti i problemi relativi alla presenza dei cattolici nella vita civile e politica del paese. In tali dibattiti si delinea una corrente di intellettuali che vedevano nell'instaurazione di un ordine sociale democratico-cristiano l'unica alternativa al socialismo. Furono creati sindacati bianchi in contrapposizione alle organizzazioni rosse dei socialisti. Le figure più autorevoli di questa corrente furono Giuseppe Toniolo, professore a Pisa, e il sacerdote Romolo Murri che cercarono di dar vita ad un partito cattolico indipendente dalla Santa Sede e con un programma di democrazia politica e di riforme sociali. Il Pontefice Pio X, interpretando i timori dei cattolici più conservatori che vedevano nell'attività dei gruppi un contributo all'attività del socialismo, provvide a sciogliere l'Opera Dei Congressi (1904) e a condannare nel 1905 la Lega democratica nazionale fondata da Murri. Durante l'età giolittiana le agitazioni operaie e contadine e la rappresentanza dei deputati socialisti in parlamento si erano irrobustite, inducendo i liberali a chiedere l'apporto dell'elettorato cattolico. Già in occasione delle elezioni del 1904 il Pontefice Pio X aveva autorizzato i cattolici a votare per i candidati moderati e anche ad avanzare proprie candidature, ma con la riserva, se eletti, di entrare alla camera a titolo personale e non come esponenti di un partito politico autonomo: "cattolici deputati sì, ma deputati cattolici no". Quando nel 1912 la direzione del partito socialista passò all'ala rivoluzionaria, i liberali giolittiani e le forze cattoliche si allearono per imprimere una svolta conservativa alla politica interna. In quell'anno Giolitti aveva varato una riforma elettorale introducente il suffragio universale maschile: è da sottolineare però che l'estensione del diritto di voto ad un elettorato di massa politicamente sprovveduta estendeva la possibilità di pressioni e manipolazioni per volgere i suffragi popolari a favore dei candidati governativi: che fosse questo l'obbiettivo del governo Giolitti fu confermato dal Patto Gentiloni, stabilito con l'unione elettorale cattolica presieduto dal conte Vincenzo Gentiloni: in base a tale patto l'unione avrebbe sollecitato i cittadini cattolici a far confluire i loro suffragi su candidati liberali, mentre questi si impegnavano a non proporre i disegni di legge in contrasto con le posizioni della Chiesa soprattutto sulle questioni del divorzio, dell'insegnamento religioso e della scuola privata. Nelle elezioni del 1913, svoltesi con il nuovo sistema elettorale, entravano alla camera più di 200 deputati ministeriali (di Giolitti) eletti col voto determinante dei cattolici.
Costituzione Italiana - Storia della Costituzione Italiana

 
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