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I MITI
DELL'ANTICA GRECIA
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PERSONAGGI
MITOLOGICI DELL'ANTICA GRECIA |
IL MITO DI ARACNE Aracne di Meonia era una grande lavoratrice, figlia di
Idmone, tintore di Colofone o Colofonie in Lidia, antica regione dell'Asia
Minore, oggi nella zona occidentale della Turchia. Dal IX al VI secolo a.C.
la Lidia fu una delle tre grandi civiltà della Turchia. Uno dei suoi
governatori più importanti fu Creso (561-546), ultimo sovrano della dinastia
dei lidii. Secondo Erodoto, Creso sprecò oltre dieci tonnellate d'oro per
la costruzione e la decorazione del Tempio di Artemide, un monumento più
grande del Partenone. Ma, nonostante le sue ricchezze, Creso fu sconfitto
e catturato da Ciro re dei Persiani, che lo condannò al rogo.
Capitale
della Lidia fu Sardi, ove fu inventata la moneta nel senso moderno, avente
lega titolo peso e valore stabiliti dallo Stato; la città era famosa anche
per la sua tolleranza nei confronti dei giovani che si davano
alla prostituzione per farsi la dote. Durante l'impero degli Achemenidi (nome
dei re di Persia), durato dal 558 al 331 a. C., Sardi costituì un
nodo strategico e commerciale di primaria importanza. Quanto a Colofone,
fu proprio qui che Omero si accorgerà di diventare cieco, poco prima
d'iniziare a comporre l'Iliade.
La corporazione dei tintori e dei
venditori di lana era forte anche ai tempi degli Atti degli apostoli, come ci
documenta l'episodio di Lidia, abitante a Filippi ma originaria di Tiatiri,
convertitasi per la predicazione di Paolo, che viene definita "commerciante
di porpora" (Atti 16, 14). Veniva chiamata "porpora" la stoffa di lana tinta
con una sostanza rossiccia estratta da molluschi del genere
murix.
Esiste anche una lettera, la quinta, che l'autore
dell'Apocalisse invia a Sardi, accusata di essere spiritualmente "morta",
dove esistevano fiorenti comunità ebraiche e cristiane. Aracne -dice
Ovidio- era nata da famiglia di origini umili (la madre però era già morta) e
viveva nell'umile Ipepe; aveva imparato dal padre il mestiere, ma la
creatività nel tessere le tele era tutta sua. E non solo nel tessere, ma
anche in tutte le attività correlate al mestiere; Ovidio lo dice chiaramente:
"Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse
di dita e sfilacciasse uno dopo l'altro con lungo gesto i fiocchi simili a
nuvolette, sia che con l'agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che
ricamasse...".
Aveva un talento così grande per quest'arte che venivano
ad acquistare i suoi prodotti dalle città più lontane della Lidia. Aveva
fatto del lavoro creativo lo scopo della sua vita. E se ne vantava, al punto
da ritenersi una donna diversa dalle altre, più autonoma, più indipendente.
Aveva infatti capito che col proprio lavoro poteva emanciparsi, andare oltre
il compito di vivere a immagine e somiglianza degli uomini, persino andare
oltre l'idea di dover stare sottomessa alla volontà degli
dei.
Aracne non era solo una grande lavoratrice, ma anche una donna
pensante, che sapeva rendere ragione del proprio operato. E forse per questo
non piaceva alla mentalità dominante; la sua sicurezza intimoriva, perché
metteva in crisi l'istituzione del matrimonio, della religione e persino
dello stesso Stato. Aracne metteva in dubbio la verità dei poteri costituiti.
"Non lascerò che si disprezzi la mia divinità impunemente!" - diceva Pallade,
che intanto già tramava la rivincita. E i poteri, infatti, ad un certo
punto, intervennero. Aracne doveva capire, con le buone o con le cattive, che
l'origine della sua ricchezza era un dono degli dei, cui doveva stare
sottomessa, e non frutto del proprio ingegno, del proprio carisma.
Ed
è qui che nasce la mitologia, cioè la finzione, la falsità. Ci s'inventò la
leggenda d'una sfida tra lei e la dea Atena o Pallade. Ci s'inventò che lei
avesse rifiutato di chiedere scusa della propria determinazione,
fatta passare per tracotanza (aveva lo "sguardo torvo", il "volto acceso
d'ira", si tratteneva a stento dal menar le mani - scrive Ovidio), mentre la
dea Atena sarebbe stata disposta a perdonarla, quella dea che rappresentava
la sapienza impersonificata, la quintessenza della giustizia, la
protettrice dell'intelligenza e di tutte le arti e che chiedeva, in cambio
del pentimento, che l'operaia s'inchinasse ai suoi piedi e chiedesse venia
in ginocchio. Ci s'inventò che Aracne ebbe il coraggio di sfidare,
per "insensata brama di gloria", lei che viveva del suo lavoro, il
fantasma della divinità, fatto passare per "presenza reale".
Chi
poteva negarle la maestria? Nessuno, e infatti la si condannò per blasfemia,
per ateismo. Non le era permesso, proprio mentre gareggiava con la divinità,
ossia mentre discuteva con le autorità costituite, mettere in evidenza le
loro debolezze, le incoerenze, gli abusi sessuali che, a partire dalla
suprema divinità, Zeus, avevano compiuto impunemente.
La sconfitta
artistica di Minerva fu inevitabile, in quanto la sua rappresentazione era
trionfalistica e quindi statica, senza pathos; effigiando il colle di Marte,
i dodici numi (compresa se stessa), con Giove nel mezzo, dall'aria grave e
maestosa, e ai quattro lati della tela le scene degli sconfitti per sua mano,
essa non aveva fatto altro che raffigurare il potere, le istituzioni,
l'aspetto celebrativo dell'arte.
Viceversa, nella tela di Aracne c'era il
fuoco, l'odio per il maschio stupratore, la satira nei confronti
dell'ipocrisia della religione pagana, che tollerava questi abusi e anzi li
riproduceva.
La stessa Atena era nata da uno stupro, perpetrato da Zeus
ai danni di Meti, che poi fu da lui divorata, temendo che il figlio, ancora
in grembo, una volta adulto l'avrebbe spodestato. Il figlio, come noto,
nascerà col nome di Minerva dalla testa spaccata di Zeus.
Ma Atena non
può solidarizzare con Aracne, lei che aveva acquisito dei poteri maschili
accettando le regole maschili del gioco. Anzi, il solo fatto che qualcuno le
ricordi che l'essere donna comporta dei doveri di emancipazione che gli
uomini non possono conoscere, la fa trasalire, al punto che straccia subito
la tela di Aracne e con una spola di legno colpisce questa più volte in
fronte.
Isolarono Aracne al punto da costringerla a impiccarsi, o forse
la linciarono, facendo passare l'omicidio per un suicidio. Nessuno
poteva difenderla: certamente non gli uomini, che lei vedeva sotto una luce
di violenza, di sopraffazione nei confronti delle donne. Certamente non
il poeta galante Ovidio, che non può tollerare un'eccessiva autonomia
al femminile e che al massimo può umanizzare i personaggi della
mitologia, facendoli uscire dal loro involucro stereotipato, e in tal senso è
possibile che in questa Metamorfosi vi sia una sorta di tentativo poetico
di simpatizzare per l'eversione (il ruolo dell'artista?), restando entro
i limiti della legalità.
In ogni caso alla storia doveva passare la
versione che Aracne era morta per il suo volgare ateismo, cioè
l'interpretazione secondo cui l'ateismo è necessariamente un anti-umanismo,
che, come tale, va bandito dalla società.
IL MITO DI ICARO E
DEDALO Quando si parla del mito di Dedalo e Icaro è molto facile ricordarsi
della vicenda in cui Icaro perse la vita: fa quasi parte di una
memoria collettiva, appresa sui banchi di scuola. Eppure di Dedalo, il padre
di Icaro, sappiamo molto poco: chi ha studiato i classici o letto qualche
libro di mitologia saprà certamente ch'egli fu il costruttore del famoso
labirinto del Minotauro, da cui appunto, insieme al figlio, uscì
"volando".
Premessa storico-culturale
Nella storia della mitologia
della Grecia antica l'artigiano si trova ad essere spesso confuso con altre
funzioni sociali o professionali: medico, ambasciatore, assistente religioso,
mediatore, indovino... che potevano far capo a una funzione onnicomprensiva:
quella del demiurgo. Ed è probabile che anche nella vita reale in parte fosse
così. Tra gli dèi dell'Olimpo Efesto, p.es., appare come un demiurgo, in
quanto loro coppiere, signore dei metalli e dei talismani, nonché del fuoco,
con cui appunto si forgiavano i metalli.
La stessa techne si riferiva a
due categorie economiche che noi oggi teniamo, a motivo della divisione del
sapere e delle esigenze produttive del capitale, assai poco unite: arte e
artigianato.
Il demiurgo (ne parliamo perché lo stesso Dedalo può in
parte rientrare in questa funzione) va considerato senza dubbio come un
soggetto mitologico che rispecchiava una dimensione del lavoro sociale molto
meno frantumata di oggi nelle varie specializzazioni, un soggetto dotato di
abilità manuale e di intelligenza pratica, una sorta di "tuttofare", capace
di districarsi nelle situazioni più difficili o impreviste, in cui veniva
richiesta una competenza a 360 gradi.
Ovviamente, poiché si trattava
di una civiltà antica, i cui conflitti di classe, molto forti, non trovavano
nella tecnologia quella mediazione sufficiente a eliminare l'esigenza del
religioso, era molto facile confondere scienza e magia. La religione permeava
di sé ogni aspetto della vita sociale, per cui facilmente l'uso della
tecnologia, specie nella letteratura, veniva ad essere ricollegato a un uso
di tipo magico.
La metallurgia di Efesto, p.es., è sempre strettamente
legata alla magia: Ares e Afrodite, sorpresi in adulterio, vengono chiusi in
una sua rete dalle maglie invisibili (oggi parleremmo di "raggi infrarossi").
Efesto ha addirittura la capacità di mettere in movimento esseri che
dovrebbero restare immobili: p.es. i mantici della fucina si muovono da soli
(come fossero dei robot in una catena di montaggio).
I greci
avvertivano le grandi potenzialità della tecnica, se ne
sentivano affascinati, ma nello stesso tempo le temevano, poiché sembravano
rendere superflua la presenza dell'uomo, ovvero minacciare dei rapporti
sociali e politici costituiti.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che un
rapporto economico di tipo schiavile, in cui cioè la dipendenza del
lavoratore era "fisica" e non, come oggi, contrattuale, non ha mai favorito,
in nessuna civiltà antica, lo sviluppo illimitato della tecnologia: oltre un
certo livello non si è mai andati.
La tecnologia si sviluppa
enormemente sotto il capitalismo proprio per surrogare un rapporto umano non
più possibile, cioè per ripristinare lo schiavismo in forma sublimata,
garantendo la libertà personale o giuridica al lavoratore, con cui egli (che
per definizione è nullatenente) può accettare le condizioni dell'imprenditore
o morire di fame. Ovviamente l'operaio può ribellarsi a questa situazione, ma
potevano farlo anche gli schiavi al tempo dei greci e dei romani. Allora era
la religione a influenzare negativamente i lavoratori, oggi sono sempre più
le forme ideologiche del consumismo.
E' sintomatico, in tal senso, che
Efesto sia una delle pochissime divinità a occuparsi di artigianato (l'altra
è Pallade) e sia anche l'unica a essere invalida (soffriva di una debolezza
alle gambe o di una deformità ai piedi). I greci hanno sempre guardato con
sospetto uno sviluppo eccessivo della tecnologia, formalmente perché temevano
d'infrangere i rapporti uomo/natura o anche uomo/dio (Prometeo, p.es.,
pagherà caro l'aver fatto conoscere agli uomini i segreti del fuoco); nella
sostanza per i motivi suddetti relativi ai limiti dell'economia
schiavile.
Probabilmente ci si rese anche conto (come ben testimonia
anche il mito di Aracne, oltre quello di Prometeo) che uno sviluppo eccessivo
della techne avrebbe potuto portare a uno sviluppo dell'ateismo: il che
sarebbe stato rischioso in una società il cui antagonismo di classe aveva
bisogno della religione (che oggi come allora si esprime in miti e leggende)
per essere meglio accettato dalla popolazione di cultura modesta, non
intellettuale.
Inoltre molto forte era il disprezzo, da parte dei ceti
più benestanti, del lavoro manuale, considerato un'occupazione da schiavi o
da servi domestici. La moderna borghesia, da questo punto di vista,
rappresenta, almeno nella sua fase iniziale, il riscatto del lavoro nei
confronti della rendita dovuta alla proprietà trasmessa per via ereditaria. E
Dedalo, sotto questo aspetto, può simboleggiare una sorta di borghese ante
litteram.
Insomma, uno sviluppo eccessivo della techne avrebbe
contribuito a dare al lavoro una dignità pericolosa, che avrebbe potuto
rimettere in discussione i rapporti di classe, basati su precise differenze
di censo, di casta ecc.
Non dimentichiamo che secondo le versioni di
Omero e di Esiodo, Efesto imparò la metallurgia all'insaputa dei propri
genitori, che l'avevano in un certo senso disconosciuto (era nato senza amore
e abbandonato perché deforme). Efesto è una sorta di figura piccolo-borghese
rinnegata dall'aristocrazia, un reietto dell'alta società, che fa fortuna in
virtù del proprio lavoro di fabbro, della propria abilità artigianale, e che
però sul piano politico o culturale non avrà mai il coraggio di emanciparsi
né dai poteri che governano l'economia schiavile né dalle ideologie religiose
che la giustificano. E' anzi proprio Efesto che, seppur malvolentieri,
incatena Prometeo, su ordine di Zeus, alla rupe.
La versione femminile
di Efesto è, come noto, quella di sua sorella Pallade Atena, anch'essa nata
per sbaglio, come frutto indesiderato, e nei cui confronti Zeus non poté fare
altro che prendere atto.
Non a caso il culto delle due divinità, tra gli
operai e gli artigiani, marciava sempre in coppia, in quanto entrambi hanno
la stessa indole e la stessa passione per la scienza e per
l'arte.
Atena (la Minerva dei romani) è a un tempo guerriera e
protettrice dei falegnami, signora dei carri e delle navi, patrona dei
tessitori e dei vasai, inventrice dell'aratro.
L'unico momento in cui
fece una pessima figura fu nella sfida con Aracne, quando un'artigiana senza
religione dimostrò di essere migliore di lei.
Dunque in questo contesto
culturale va visto il mito di Dedalo, che rappresenta, se vogliamo,
l'archetipo dell'artigiano geniale, tra i primissimi inventori, in assoluto,
accanto a Epeo (famoso per aver costruito il cavallo di Troia) e Palamede
(fatto uccidere da Ulisse, il cui genio militare mal sopportava uno sviluppo
eccessivo della scienza e della tecnica applicato alla vita
civile).
Il mito di Icaro
Prima di parlare di Dedalo affrontiamo
il mito di Icaro, perché, rispetto al primo, appare come una sorta di
banalizzazione.
Icaro rappresenta, col suo volo aereo straordinariamente
anticipatore, il sogno dell'adolescente di diventare adulto prima del tempo,
di superare la mediazione di una vita piena di contraddizioni (quella di
Dedalo) nell'immediatezza di una coerenza assoluta all'ideale, quella
coerenza che porta sempre, come anche la sua vicenda dimostra, a
contraddizioni ancora maggiori, tragiche in quanto irrisolvibili. Icaro
vedeva l'accortezza e la moderazione del padre (che chiedeva, come strategia
di volo, di abbandonarsi ai venti e di volare né troppo alto né troppo basso)
come una forma di cedimento all'ideale assoluto di perfezione, come una forma
di eccessiva esitazione, un compromesso inaccettabile con le forze della
natura e dell'ignoto insondabile.
Icaro, ch'era figlio di una schiava,
aveva fretta di volare in alto, per liberarsi dei timori, delle riserve
mentali, dei pregiudizi del passato, senza tener conto dei condizionamenti
della realtà. Ecco perché raffigura, sul piano politico, l'avventurismo,
l'estremismo infantile.
Forse Icaro rappresenta anche l'ateismo
impulsivo, autoritario, egocentrico: il suo bisnonno, Eretteo, nonno di
Dedalo, fu sepolto vivo sotto terra per il suo ateismo.
Il mito di
Dedalo
Cosa dice la leggenda? Della stirpe regale ateniese di Cecrope
o Metionidi, figlio di Metione, pronipote di Eretteo o Erittonio, Dedalo è
geniale artefice in ogni settore artigianale. Inventa molti nuovi strumenti
di lavoro: sega, trapano, accetta, filo a piombo, succhiello,
colla...
Geloso di suo nipote Talo, che immaginava di poter realizzare il
tornio, il compasso, una sega metallica o che forse pensava di rivelare ad
altri i segreti di Dedalo, lo uccide gettandolo dall'Acropoli. Costretto
all'esilio o forse fuggiasco, ripara a Creta presso Minosse, fabbricando
statue che muovevano da sole occhi, braccia e gambe e progetta un luogo per
la danza, destinato ad Arianna, figlia di Minosse.
Per la moglie di
Minosse, invece, costruisce una struttura a forma di vacca di legno ricoperta
di cuoio che permetteva alla regina, nascosta all'interno, di unirsi a un
toro, quello che il dio Poseidone aveva donato a Minosse, perché lo
sacrificasse, e che lui invece aveva sostituito con un altro di minor valore,
suscitando così le ire del dio, che indusse la regina ad innamorarsi del
toro. Dall'unione sessuale nascerà il Minotauro: un mostro che sul corpo
umano aveva una testa di toro.
Minosse, per nascondere il Minotauro,
chiede a Dedalo di costruire il Labirinto (a Cnosso), dove, essendo chiuso da
un bosco, con molti andirivieni, era impossibile uscirne una volta
entrati.
Accade poi che Androgeo, uno dei figli di Minosse, viene ucciso
dagli Ateniesi: il padre li combatte e, approfittando dell'occasione, li
costringe al tributo di sette giovani e di altrettante giovinette da inviare,
ogni nove anni a Creta per essere divorati dal Minotauro.
Atene però,
al terzo tributo, manda Teseo per uccidere il Minotauro. E' proprio Dedalo
che per compiacere Arianna che amava l'eroe, dà a questa il gomitolo che
doveva servire per far ritrovare a Teseo la strada del ritorno, dopo aver
ucciso il Minotauro.
Ma Minosse viene a sapere tutto e, non potendo
punire la figlia ch'era fuggita con Teseo, rinchiude lo stesso Dedalo col
figlio Icaro nel labirinto.
Dedalo però trova un altro modo per
uscirvi: riesce a preparare grandi ali di penne, tenute insieme con la cera,
e ad applicarle sulle sue scapole e su quelle di Icaro, col quale spiccano il
volo.
Dedalo aveva raccomandato a Icaro di volare ad altezza media, ma
quello vola troppo in alto, sicché il sole scioglie la cera delle ali, e
Icaro, sotto gli occhi del padre, precipita nel mare Tirreno e
affoga.
Dedalo, invece, proseguendo nel suo volo, raggiunge la Sicilia
(Agrigento), mettendosi al servizio del re Cocalo. Gli costruisce una diga,
fortifica una cittadella per proteggere i tesori del re, edifica su una
roccia a picco le fondamenta di un tempio ad Afrodite, installa uno
stabilimento termale...
Ma Minosse lo cerca perché lo vuole morto e
propone una ricompensa a chi sarà in grado di far passare un filo attraverso
il guscio di una chiocciola. Il re Cocalo sottopone Dedalo alla prova. Questi
attacca il filo a una formica che introduce nel guscio attraverso un buco
praticato alla sommità. Quando la formica esce il problema è
risolto.
Minosse scopre così la presenza di Dedalo e chiede che gli venga
consegnato, ma le figlie del re Cocalo, per salvare Dedalo, lo aiutano a far
morire Minosse nell'acqua bollente mentre il re sta facendo il
bagno.
Dedalo torna poi ad Atene dove diventa capostipite della famiglia
ateniese dei Dedalidi.
Commento
Per un uomo di stirpe regale,
grande dovette essere lo smacco dell'esilio, dopo l'omicidio del nipote. Già
in patria tuttavia era dedito a lavori artigianali, quindi è da presumere che
la sua fosse una stirpe in declino.
Dallo smacco tuttavia si riprese
presto, mettendo il suo ingegno al servizio del re cretese
Minosse.
Riteneva d'essere stato cacciato ingiustamente e agognava un
ritorno in patria da persona ricca e famosa.
Non lavorando più in
proprio ma alle dipendenze di un potente, aveva dovuto modificare il proprio
carattere: imparò se non la modestia, certamente la prudenza.
Poi,
"insofferente d'essere confinato a Creta da troppo tempo e punto
dalla nostalgia della terra natale" -come dice Ovidio-, Dedalo fece di tutto
per andarsene, disposto persino a barattare la propria libertà con la
schiavitù del figlio, che aveva avuto da una schiava dell'isola, per quanto
fosse disponibile anche a una soluzione opposta.
Dedalo aiutò Teseo a
uccidere il Minotauro anche per vendicarsi del fatto che Minosse non voleva
lasciarlo tornare in patria. D'altra parte Dedalo sapeva troppe cose sul
labirinto e su altri segreti del regno minoico perché potesse muoversi
liberamente.
Quando Minosse lo inseguì fino in Sicilia, l'intento era
chiaro: Dedalo sarebbe stato meglio morto che libero. Il labirinto di Cnosso
era stata la sua fortuna ma anche la sua disgrazia, poiché lì si celavano i
segreti più reconditi della debolezza della monarchia cretese.
Fortuna
per lui che fu inseguito da un potere agli sgoccioli, destinato ad essere
superato da quello miceneo.
Proprio per aver aiutato Teseo, Dedalo poté
rientrare da trionfatore nella sua Atene, riverito e rispettato. Ritornò da
borghese arricchito e inaugurò una nuova stirpe.
Critica
Nella
mitologia greca l'artista-artigiano è un personaggio ambiguo per definizione,
in quanto capace di svelare i segreti della natura, di piegare il volere
degli dei, di mettersi al servizio dei potenti per ingannare le masse
(fabbrica illusioni), di arricchirsi notevolmente.
Dedalo, in tal senso,
rappresenta lo scienziato che si mette al servizio della politica e che,
senza un preciso ideale da conseguire, finisce col tradire questo potere per
mettersi al servizio di un altro potere, che gli offre un contratto più
vantaggioso. Infatti, se avesse tradito Minosse avrebbe recuperato la
cittadinanza ateniese con tutti i diritti annessi.
Dedalo è uno
scienziato senza scrupoli, che per interesse o vanità è in grado di
concorrere alla creazione di mostri disumani, come appunto
il Minotauro.
E' un uomo pericoloso in quanto potenzialmente disposto
a tutto, "maestro della creazione e della vita, il demiurgo è anche colui che
uccide, che aiuta a uccidere o che fa uccidere, assassino geloso del proprio
allievo e discepolo, omicida per imprudenza del proprio figlio Icaro,
complice dell'uccisione compiuta da Teseo del Minotauro, istigatore
dell'assassinio di Minosse suo sovrano" (F. Frontisi-Ducroux, Dédale, Paris
1975).
Lo stesso labirinto "è un luogo enigmatico, scarsamente materiale,
un percorso inestricabile, rappresentazione spaziale del concetto di aporia,
di problema insolubile o che contiene la soluzione in se stesso. Il "dedalo"
è l'immagine stessa dello spirito che lo ha concepito: tortuoso,
sinuoso, ricco di infiniti meandri come ricco di risorse è il genio del suo
autore. Se l'intelligenza di Atena è tecnica, la techne di Dedalo è
concettuale. Anche Minosse, per ritrovare l'artigiano, non propone una prova
manuale, ma un test di capacità intellettuale"(op.cit.).
Tuttavia la
civiltà greca, essendo ostile per cultura al lavoro manuale, preferirà
attribuire alla funzione dell'artigiano-scienziato un posto di rilievo più
nella leggenda che nella vita reale.
CENNI DI STORIA DI CRETA E DELLA
CIVILTA' MINOICA
Oggi cosa sappiamo, sul piano storico, della civiltà
cretese o minoica (da "minos" che significa "re") sorta nella più grande
isola dell'Egeo? Seguiamo la suddivisione cronologica data dallo scienziato
inglese Arthur Evans, che diede inizio agli scavi archeologici a
Creta.
Il primo periodo minoico nell'isola di Creta va dal XXX al XXII
sec. a. C. I primi uomini approdarono a Creta verso il 6.500 a.C. (età
neolitica, strato X degli scavi): conoscevano l'uso dell'agricoltura
e dell'allevamento, fabbricavano arnesi in osso e pietra e ignoravano
la ceramica.
Intorno al 2.800 a.C. i minoici, occuparono gran parte
dell'isola. L'importanza dell'isola era dovuta proprio alla sua posizione
geografica, vero e proprio crocevia tra Europa, Asia e
Africa.
I cretesi non erano di origine semitica né indoeuropea,
ma venivano dall'Asia Minore (coste nord-occidentali dell'Anatolia) e
appartenevano alle popolazioni sparse intorno al Mediterraneo prima
dell'arrivo degli indoeuropei.
L'occupazione principale degli abitanti
era la pesca, l'allevamento del bestiame e in parte l'agricoltura: il suolo,
in massima parte collinare e montagnoso, si prestava alla coltura dell'olivo
e della vite o al pascolo, ma anche al grano, all'orzo, ai legumi e ai fichi,
prodotti in quantità eccedente rispetto ai bisogni locali, mentre i boschi
fornivano legname in abbondanza. Nell'estremità orientale dell'isola, molto
rocciosa, si viveva prevalentemente di pesca.
Il metallo più usato era
il rame. Si conosceva anche la ceramica, come risulta dal vasellame
ritrovato, ch'era fatto a mano. Si era in grado di fabbricare
barche.
L'ordinamento sociale era di tipo comunitario o egualitario,
sicuramente pre-schiavistico.
Non essendo stata invasa da tribù
straniere sino alla metà del II millennio, si deve pensare che per circa 1500
anni la cultura minoica si sia sviluppata secondo proprie forme originali,
autoctone, anche se questo non significa che non vi fossero contatti con
culture esterne, specie quelle egizia, fenicia, siro-palestinese, da cui
acquistavano soprattutto metalli, di cui l'isola è quasi priva.
Il
periodo medio-minoico va dal XXI al XVII sec. a. C. Tratto caratteristico di
quest'epoca è la diffusione del bronzo, ma anche dell'oro, dell'argento e del
piombo. Cambia completamente la costruzione delle armi, che diventano molto
efficaci. Essendo a metà strada tra Cipro (l'isola del rame) e i porti dello
Ionio, dove si accumulava lo stagno proveniente dal Nord, Creta diventa un
punto di passaggio obbligato per il commercio dei metalli in bronzo tra
oriente e occidente, favorita in questo non solo dalla sua posizione centrale
ma anche dalle numerose baie e dai golfi dell'isola.
I cretesi furono
i primi a non navigare soltanto lungo le coste ma ad affrontare il mare
aperto. Infatti furono in grado di liberare il mare dai pirati, sostituendosi
a loro in maniera più organizzata, cioè pretendendo, in cambio della
"protezione", il pagamento di tributi da parte delle popolazioni
costiere.
Le imbarcazioni tradizionali che navigavano lungo le coste
avevano conservato le caratteristiche delle chiatte usate lungo i fiumi, col
fondo piatto e i parapetti molto bassi. I cretesi invece, avendo bisogno di
fare lunghe e veloci traversate, sistemarono sul fondo delle loro navi
la chiglia, una tavola di legno posta di taglio che forniva una
maggiore stabilità; poi alzarono i parapetti per evitare allagamenti in caso
di tempesta. Inserirono anche due timoni per governare meglio l'imbarcazione
e sfruttarono meglio la vela, già usata dagli egizi sul Nilo.
In
questo periodo l'artigianato si sviluppa anche con l'invenzione della ruota
del vasaio per costruire vasellame (si usa anche la maiolica). I
vasai usavano il tornio con tale abilità da riuscire a creare vasi con
pareti sottilissime, dette "a guscio d'uovo". Nasce anche per la prima volta
in Europa il carro a quattro ruote. Inizialmente gli artigiani imitavano
quelli egizi, ma ben presto si perfezionarono autonomamente.
Per la
prima volta si edificano sontuosi palazzi, posti, come in Mesopotamia, al
centro delle città: Cnosso (ricostruito per tre volte), Festo, Mallia,
Gurnia, Haghia-Triada. Poiché le città non avevano mura, si pensa che in caso
di pericolo ci si rifugiasse in questi palazzi. Alla difesa di Creta tuttavia
bastava la flotta, che pattugliava il mare e non lasciava avvicinare nessuna
nave nemica.
La città di Cnosso sorgeva a circa 4 km dal mare. Il nucleo
del palazzo poteva accogliere circa 12.000 persone, mentre l'abitato
circostante contava circa 70.000 abitanti.
Si sviluppa notevolmente
l'arte con affreschi, dipinti, decorazioni di piante, fiori e animali, scene
di caccia e di pesca, la lotta col toro: nessun particolare è trascurato, a
testimonianza di uno stile vivo e realistico che non si trova in quella
egizia e mesopotamica, così maestosa e solenne, consacrata agli dèi e ai
sovrani anziché agli uomini e alle donne.
Nelle raffigurazioni a
carattere religioso si nota un carattere più laico rispetto a quelle coeve
del mondo egizio o babilonese. I loro dèi, suddivisi tra le varie categorie
sociali (dinastie reali, guerrieri, corporazioni artigiane,
allevatori-agricoltori), esprimono una concezione serena della vita e della
natura e non hanno quell'impronta paurosa di molte divinità egiziane e
orientali. Primeggia il culto della Grande Madre (la Terra) e, nel mondo
animale, sono venerati il toro, il serpente e il grifone (corpo di leone e
testa e ali di aquila). Il supremo sacerdote era rappresentato dallo stesso
re: simbolo del suo potere era l'ascia a doppio taglio (la "bipenne"). Le
cerimonie si svolgevano all'aperto e solo in un secondo tempo all'interno dei
grandi palazzi.
La conquista più importante di questo periodo è la
scrittura pittografica, che poi diventerà geroglifica, simile a quella
egizia, e lineare A, sillabica, ancora indecifrata. La scrittura viene
utilizzata per la registrazione e la contabilità dei prodotti e per le
necessità amministrative dei reggenti dei grandi palazzi.
La società,
che si sviluppa in maniera autonoma rispetto a influenze
esterne significative, è chiaramente divisa in classi e si deve presumere
la presenza di schiavi. Nel palazzo di Cnosso (risultato di una
elaborazione durata circa mezzo millennio) vi sono prigioni con
raffigurazioni di guardie armate. I giovani che Minosse pretende ogni anno da
Atene ha un evidente riferimento a una sorta di tributo di schiavi pagato da
popolazioni sottomesse. Quanto pesante fosse la condizione di questi schiavi,
dei liberi artigiani e gli agricoltori obbligati a fornire le loro
prestazioni gratuite allo Stato, è difficile dirlo. Erodoto, p.es., scrive
che se una donna cretese sposava uno schiavo, i figli erano considerati
legittimi; se invece era un cittadino cretese a sposare una schiava o una
straniera, i suoi figli erano privi di ogni diritto: questo perché contava la
discendenza per parte di madre.
Che esistano discriminazioni lo si
nota anche nel rapporto uomo-donna, che perde l'originaria uguaglianza. Come
agli schiavi, agli stranieri e ai giovani in età non adulta, anche alle donne
non venivano riconosciuti i diritti politici.
Politicamente è in
questo periodo che scoppia una dura lotta per l'egemonia dell'isola tra i
singoli centri dell'isola, che si prolungherà per quasi due secoli e che si
concluderà con la vittoria di Cnosso.
La gestione dell'economia e del
potere politico tendono a centralizzarsi in un unico palazzo. Il sovrano
accentra tutte le principali funzioni politiche, amministrative e religiose,
controllando perfino i settori più importanti dell'artigianato, come p. es.
la metallurgia, ed è probabile che l'iniziativa dei traffici fosse una sua
prerogativa. Ovviamente si sviluppa una classe di funzionari e burocrati al
diretto servizio del re.
Dagli studi degli archeologi pare che verso il
1700-1750 a. C. molti palazzi siano stati distrutti da una serie di incendi
(forse dovuti a un terremoto), ma i reperti dimostrano che vi fu una grande
ripresa tra il 1600 e il 1400 a. C.
Il periodo tardo-minoico va dal
XVI al XII sec. a. C. Per tutta l'isola viene tracciata una rete stradale con
posti di sorveglianza. Le città sono quasi 100. I palazzi vengono ampliati e
decorati con un lusso senza precedenti. Appare l'uso della moneta e il
sistema di numerazione è decimale. I tributi versati dai contadini
restano prevalentemente in natura: olio, vino, cereali, fichi...
I
ceti nobiliari si arricchiscono notevolmente. Le loro case private e
tombe familiari sono particolarmente lussuose. Le case avevano acqua di
sorgente trasportata da tubi di terracotta infilati uno dentro l'altro,
impianti di illuminazione e di riscaldamento, bagni e sistemi di fognatura
per le acque piovane e di rifiuto.
Molto forte è l'attività dei
cantieri navali, con cui si possono stabilire strette relazioni commerciali
con Egitto (avorio), Siria e soprattutto con la Grecia micenea (marmo), Cipro
(rame), ma vi furono scambi commerciali anche con Spagna (argento) e
Inghilterra (stagno). Le navi costruite col legname dei suoi boschi detengono
il predominio dell'Egeo tra il 1600 e il 1400 a. C., periodo che coincide con
la massima espansione minoica (talassocrazia).
Sorgono grandi santuari
su montagne e dentro le grotte, dove tutta la popolazione di Creta celebra i
propri riti.
E' molto probabile che nella prima metà del XV sec. a. C.
Creta sia stata conquistata dalle tribù greche degli achei e che Cnosso sia
diventata provincia micenea e che per suo tramite le città achee della
Grecia controllassero gran parte dell'isola.
Il palazzo di Cnosso
subisce una nuova distruzione intorno al 1400-1450 a. C. e, successivamente,
tutti i palazzi cretesi vengono distrutti. La distruzione è stata così
repentina che si è pensato sia dipesa dal terremoto e maremoto causato
dall'eruzione del vulcano della vicina isola di Thera (Santorino): un
disastro simile a quello di Pompei.
Si è propensi credere che Creta sia
stata attaccata dai Micenei, forse in seguito al terremoto, cogliendo gli
abitanti in una fase di profonda crisi. I vecchi centri del potere minoico:
Festo, Tilissio, Mallia, erano ormai gestiti dal re miceneo di
Cnosso.
La burocrazia di palazzo adatta la propria scrittura lineare A
alla lingua greca dei nuovi padroni e nasce la scrittura lineare B, composta
di 88 segni indicanti le vocali e le consonanti e con molti segni che
indicavano concetti. Questa scrittura viene accolta dai micenei che decidono
di portarla in Grecia. Tra le parole che gli achei hanno preso dai
cretesi, theos (divinità), hieros (sacro), labyrinthos, kyklops (ciclope),
Hermes (dio dei pastori), Efesto (dio dei fabbri).
Praticamente tra il
1300 e il 1220 a.C. le due civiltà usano la stessa lingua, le stesse
strutture amministrative e le stesse divinità. Le conquiste della cultura
cretese furono fatte proprie e ulteriormente sviluppate dagli
achei.
Verso il 1370 il palazzo di Cnosso fu molto probabilmente
distrutto dai micenei del continente.
Nei secoli XII-XI a. C. Creta
deve assistere all'invasione dorica, che porrà fine alla sua civiltà. Gli
ultimi centri palaziali micenei di Creta furono distrutti tra la fine del
XIII sec. e l'inizio del XII sec. a.C.
I romani sottomisero l'isola dal
69 a.C. fino al 395 d.C. Creta diventa una provincia dell'impero bizantino
dal 395 all'824, dopodiché viene conquistata dagli arabi nell'824 che la
tengono fino al 961, anno in cui viene liberata da Niceforo Phokas, che
inaugura il secondo periodo bizantino fino al 1204. I veneziani la comprarono
subito dopo la quarta crociata (1204) e la conservarono fino al 1669. I
turchi vi si installarono a partire dal 1669 e la dominarono fino al 1898;
infine, dopo la rivoluzione del 1898 e una breve parentesi di autonomia,
Creta diventò parte integrante della Grecia a partire dal 1912. Dal 1941 al
1944 dovette sopportare l'invasione nazista e dal 1967 al 1974 la dittatura
fascista dei colonnelli, come tutta la Grecia.
MINOSSE ALIAS
MINOTAURO
Secondo varie mitologie (cfr Omero, Odissea, Diodoro Siculo,
Biblioteca storica; Apollodoro, Biblioteca; Plutarco, Vita di Teseo;
Ovidio, Metamorfosi) Minosse sarebbe stato figlio di Zeus, che trasformatosi
in toro, avrebbe rapito e sedotto una bellissima fanciulla dell'isola di
Creta, chiamata Europa (Ellotide), di origine fenicia, e sarebbe stato
adottato da Asterione re di Creta. Il che vuol dire che non si conosce il
vero padre di Minosse, il quale, come fratelli, aveva Radamanto e Sarpedone,
che col tempo sarebbero diventati sovrani, rispettivamente, di Festo e
Milatos. Minosse, invece, come vedremo, avrà la signoria su Cnosso, cercando
a più riprese di allargare i propri domini. Europa dunque sarebbe stata
sedotta da un potente dell'isola (lo stesso Asterione?), fatto passare per
Zeus, nelle sembianze di un toro che sorgeva dai flutti del mare. Spesso -
come si può notare - gli aspetti mitici vengono in soccorso a verità
incresciose o poco edificanti.
MINOSSE di PLATONE
SOCRATE: Che
cos'è per noi la legge? AMICO: Ma quale legge è oggetto della tua
ricerca? SOCRATE: Ma come? è possibile che una legge differisca da un'altra,
se considerata sotto l'unico aspetto di essere legge? Esamina bene dunque
ciò che io mi trovo a domandarti. Saremmo infatti nella stessa
situazione qualora io ti chiedessi che cos'è l'oro: se tu, così come ora, mi
domandassi di quale oro mai io parli, credo che tu non porresti un giusto
quesito, dal momento che l'oro non si differenzia assolutamente in nulla
dall'oro, né una pietra da un'altra, se naturalmente si considerino l'oro in
sé e la pietra in sé; e così nemmeno una legge differisce da un'altra, ma
tutte sono la medesima realtà. Ogni legge infatti è legge allo stesso modo
delle altre, non l'una di più, l'altra di meno; dunque io ti chiedo proprio
questo: che cos'è la legge in genere? Se quindi hai pronta la risposta,
esponila. AMICO: Che cos'altro mai potrebbe essere una legge, Socrate, se non
ciò che è stato stabilito? SOCRATE: Ma come, per te il parlare coincide
con le cose dette, o la vista con ciò che si vede, o l'udito con quello che
si sente? Oppure, una cosa è il parlare e un'altra ciò che si dice; un conto
la vista, un altro ciò che si vede; un conto l'udito, un altro ciò che si
ode, e quindi una cosa è la legge, un'altra le regole stabilite? è così o
come sembra a te? AMICO: Ora queste due realtà mi appaiono
distinte. SOCRATE: Dunque la legge non si identifica con le norme
stabilite. AMICO: Non mi pare. SOCRATE: Allora che cosa mai può essere la
legge? Esamineremo la questione in questo modo. Se qualcuno ci domandasse
relativamente a ciò che si è detto proprio ora: "Poiché dite che ciò che si
vede è percepito dalla vista, qual è la natura di
quest'ultima?". Risponderemmo a costui che essa è quella percezione che
attraverso gli occhi rende manifesta la realtà; e se di nuovo ci domandasse:
"Allora, se con l'udito si sente ciò che si sente, che cos'è l'udito?". Gli
risponderemmo che è quella facoltà che attraverso le orecchie ci rende
percepibili i suoni. Allo stesso modo dunque, anche se ci venisse chiesto:
"Se le norme stabilite sono fissate dalla legge, qual è l'essenza della
legge? è una percezione oppure un atto dimostrativo, come nel caso della
scienza che dimostra ciò che insegna; o ancora è una scoperta con cui si
trova ciò che si trova, simile alla medicina che scopre ciò che è salutare e
ciò che provoca malattia, o simile alla mantica che scopre, secondo quanto
dicono gli indovini, ciò che gli dèi hanno in animo? Infatti, come credo,
l'arte è per noi scoperta della realtà; o no?" AMICO:
Certamente. SOCRATE: Dunque con quale di queste realtà in particolare noi
potremmo far coincidere la legge? AMICO: A me sembra che la legge possa
essere identificata con i decreti e le deliberazioni. Del resto, chi potrebbe
definirla in altro modo? Cosicché, in definitiva, sembra, per quanto tu mi
domandi, che la legge sia un atto deliberativo dello Stato. SOCRATE: A
quanto pare affermi che la legge è dimensione politica. AMICO: Sì,
certo. SOCRATE: E forse dici bene; ma probabilmente in quest'altro modo
noi esamineremo meglio il problema. Pensi che alcuni uomini siano
sapienti? AMICO: Sì, certamente. SOCRATE: Dunque i sapienti sono sapienti
in virtù della sapienza? AMICO: Sì. SOCRATE: E allora i giusti sono giusti
per la giustizia? AMICO: Assolutamente. SOCRATE: Dunque anche coloro che
agiscono in conformità alle leggi, lo fanno grazie alla legge? AMICO:
Sì. SOCRATE: Mentre coloro che violano le leggi agiscono così a
causa dell'illegalità? AMICO: Sì. SOCRATE: E coloro che rispettano le
leggi sono giusti? AMICO: Sì. SOCRATE: Invece coloro che le infrangono
sono ingiusti? AMICO: Sì, sono ingiusti. SOCRATE: Dunque la giustizia è
ciò che di più bello vi possa essere e così pure la legge? AMICO: E'
così. SOCRATE: Al contrario l'ingiustizia e l'illegalità sono la cosa
più vergognosa? AMICO: Sì. SOCRATE: E le une salvaguardano le città e
tutto il resto, mentre le altre causano distruzioni e rivolgimenti? AMICO:
Sì. SOCRATE: Così, come bisogna concepire la legge in qualità di bene,
allo stesso modo la si deve ricercare come tale. AMICO: Come
no? SOCRATE: Non è forse vero che noi diciamo che la legge è un
atto deliberativo dello Stato? AMICO: Noi affermiamo proprio
questo. SOCRATE: E dunque? Non vi sono atti deliberativi buoni e
cattivi? AMICO: Sì che ce ne sono! SOCRATE: Ma assolutamente la legge non
può essere cattiva. AMICO: No, infatti. SOCRATE: Quindi, non è giusto
rispondere semplicemente che la legge è un atto delil?erativo dello
Stato. AMICO: Mi sembra di no. SOCRATE: L'affermazione che la legge è una
cattiva deliberazione mal si accorderebbe con quanto detto prima. AMICO:
Sì, certo. SOCRATE: Ma anche a me sembra che la legge sia un'opinione; e
poiché non è quella cattiva, non è a questo punto evidente che è quella
buona, se veramente è un'opinione? AMICO: Sì. SOCRATE: Ma quale
opinione è buona se non quella vera? AMICO: Appunto! SOCRATE: E l'opinione
vera non è forse la scoperta di ciò che è? AMICO: E' così
infatti. SOCRATE: La legge allora vuole essere scoperta di ciò che
è. AMICO: E coma mai, Socrate, se la legge è scoperta di ciò che è, non
ci serviamo sempre delle medesime leggi in riferimento ai medesimi casi, se
con queste noi scopriamo la natura delle cose? SOCRATE: Nondimeno, la
legge aspira ad essere scoperta della realtà; dunque gli uomini che non si
servono sempre delle medesime leggi non possono trovare sempre, almeno per
quanto ci sembra, ciò che vuole la legge, la realtà. Su allora, da qui in poi
chiariamo se ci serviamo sempre delle stesse leggi o talvolta di alcune,
talvolta di altre, e se tutti utilizzano le medesime leggi o certi alcune,
certi altre. AMICO: Ma, Socrate, non è certo difficile sapere che gli uomini
non utilizzano sempre le stesse leggi, ma alcuni ne impiegano alcune,
altri altre. Poiché per esempio, mentre per noi non è lecito sacrificare
uomini, anzi è considerato empietà, i Cartaginesi invece compiono sacrifici
umani in quanto per loro è un atto conforme alle e umane e divine e in virtù
di questo alcuni di loro sacrificano a Crono addirittura i propri figli,
come forse anche tu hai sentito dire. E non sono solo i barbari ad usare
leggi diverse dalle nostre, ma anche gli abitanti della Licea (1) e i
discendenti di Atamante, (2) quali sacrifici compiono, pur essendo Greci!
Come del resto sappiamo e forse anche tu hai sentito dire di quali leggi
noi stessi ci servivamo in passato per i defunti, quando sacrificavamo
vittime sacre prima del trasporto funebre e mandavamo a chiamare le donne che
raccoglievano in un'urna le ossa bruciate dei morti. E ancora prima
addirittura si seppellivano i morti in casa; noi invece non facciamo nulla di
tutto questo. Si potrebbero raccontare altri mille casi analoghi: questo
infatti è un importante campo di dimostrazione del fatto che né tra noi, né
tra gli altri uomini sussistono sempre i medesimi usi. SOCRATE: Non c'è da
meravigliarsi, carissimo, se tu parli con cognizione, di cose a me ignote.
Finché però tu esponi a modo tuo con lunghi discorsi ciò che a te sembra
giusto, e io a mia volta faccio lo stesso, temo che non troveremo mai un
punto d'incontro; se invece la ricerca fosse posta in comune, ci sarebbe
qualche possibilità di trovarsi d'accordo. Dunque se vuoi, procedi insieme a
me nella ricerca ponendomi domande, o se preferisci dandomi
risposte. AMICO: Preferisco, Socrate, rispondere alle tue
domande. SOCRATE: Ebbene, tu ritieni ciò che è giusto ingiusto e ciò che è
ingiusto giusto, oppure pensi che quello che è giusto, è giusto e quello che
è ingiusto, è ingiusto? AMICO: Io ritengo giusto ciò che è giusto e
ingiusto ciò che è ingiusto. SOCRATE: E tutti quanti la pensano a questo
modo? AMICO: Sì. SOCRATE: Anche i Persiani? AMICO: Sì, anche
loro. SOCRATE: Ma è così sempre? AMICO: Sempre. SOCRATE: E non è forse
vero che qui le cose che hanno più peso sono ritenute più pesanti e quelle
che ne hanno meno più leggere? O è vero il contrario? AMICO: No, ma quelle
che hanno più peso sono considerate più pesanti e quelle che ne hanno meno
più leggere. SOCRATE: E questo è valido anche a Cartagine e a Licea?
(3) AMICO: Sì. SOCRATE: E ciò che è bello, a quanto pare, è ritenuto bello
dovunque, mentre ciò che è brutto, lo è in ogni luogo, ma è impensabile che
il bello sia brutto e il brutto bello? AMICO: E' così. SOCRATE: Dunque,
per dirla in generale, presso di noi e presso tutti gli altri popoli si
ritiene che le cose che sono, sono e quelle che non sono, non sono? AMICO:
A me sembra di si. SOCRATE: Allora, chi si sbaglia riguardo a ciò che è, si
sbaglia riguardo a ciò che è conforme alla legge. AMICO: Così, Socrate,
secondo quanto tu dici, ciò che per noi è conforme alla legge appare tale
anche agli altri popoli; ma se mi metto a pensare a come noi non cessiamo mai
di stravolgere da capo a fondo le leggi, non posso esserne
persuaso. SOCRATE: Forse perché non riesci a capire che, nonostante i
cambiamenti, le leggi rimangono di fatto sempre le stesse. Prova però a
considerare insieme a me la questione in questo modo. Non ti sei mai
imbattuto in uno scritto sulla cura dei malati? AMICO: Sì,
certo. SOCRATE: Tu sai dunque di quale arte tratta questo scritto? AMICO:
Sì, di medicina. SOCRATE: E tu chiami medici coloro che si intendono di
quest'arte? AMICO: Sì, certo. SOCRATE: Dunque quanti possiedono tale
scienza la pensano tutti allo stesso modo, o gli uni in un modo e gli altri
in un altro? AMICO: A me pare che la pensino allo stesso modo. SOCRATE: E
soltanto i Greci concordano fra di loro nel campo della conoscenza, o anche i
barbari si trovanod'accordo fra di loro e con i Greci? AMICO: è senz'altro
inevitabile che coloro che possiedono una stessa conoscenza concordino fra di
loro, sia Greci che barbari. SOCRATE: Giusta risposta, ma è sempre
vero? AMICO: Sì, sempre. SOCRATE: E non è forse vero che i medici scrivono
sulla salute ciò che ritengono essere vero? AMICO: Sì. SOCRATE: Quindi
questi scritti dei medici relativi alla medicina sono le leggi della
medicina. AMICO: Sì, quelli che si attengono a questa scienza. SOCRATE:
Allora anche gli scritti che riguardano l'agricoltura sono leggi relative a
quest'arte? AMICO: Sì. SOCRATE: Di chi sono propri allora gli scritti e le
leggi sulla lavorazione dei giardini? AMICO: Dei giardinieri. SOCRATE:
E queste valgono per noi come leggi del giardinaggio? AMICO: Sì. SOCRATE:
E sono valide per coloro che sanno curare giardini? AMICO: Come
no? SOCRATE: E sono i giardinieri che lo sanno fare. AMICO:
Sì. SOCRATE: Di chi sono propri gli scritti e le leggi sulla preparazione
delle pietanze? AMICO: Dei cuochi. SOCRATE: Dunque queste sono le leggi
proprie dell'arte culinaria? AMICO: Senza dubbio. SOCRATE: E sono proprie
di coloro che sono in grado, a quanto pare, di occuparsi della preparazione
dei cibi? AMICO: Sì. SOCRATE: E coloro che lo sanno fare non sono forse,
come si dice, cuochi? AMICO: Infatti sono loro che se ne
intendono. SOCRATE: Bene; di chi sono propri allora gli scritti e le leggi
sul governo dello Stato? Non sono forse di coloro che sanno governare gli
Stati? AMICO: A me sembra di sì. SOCRATE: E lo sanno fare altri, oltre ai
politici e ai sovrani? AMICO: No, solo questi. SOCRATE: Dunque, questi
scritti politici che gli uomini chiamano leggi, sono scritti di re e uomini
buoni. AMICO: Tu dici il vero. SOCRATE: E quelli che possiedono scienza,
potranno mai scrivere talvolta una cosa, talvolta un'altra sugli stessi
argomenti? AMICO: No. SOCRATE: E potranno mai cambiare continuamente leggi
in relazione agli stessi oggetti? AMICO: No, certo. SOCRATE: Se quindi
noi vediamo da qualche parte alcuni fare questo, diremo che costoro
possiedono scienza o piuttosto che sono incompetenti, dal momento che
agiscono così? AMICO: Senza dubbio incompetenti. SOCRATE: E non diremo
forse che ciò che è giusto ha in ogni modo valore di legge, sia che riguardi
la medicina, la cucina o il giardinaggio? AMICO: Sì. SOCRATE: E diremo
forse che ciò che non è giusto è conforme a legge? AMICO: Assolutamente
no. SOCRATE: Quindi è opposto alla legge. AMICO:
Inevitabilmente. SOCRATE: Dunque anche fra gli scritti sul giusto e
l'ingiusto e in genere sull'ordinamento di uno Stato e su come bisogna
governare uno Stato, il giusto è legge sovrana, l'ingiusto no, ma ha valore
di legge solo per gli incompetenti, in quanto contrario alla legge. AMICO:
Sì. Allora ci troveremo giustamente d'accordo nel definire la legge scoperta
di ciò che è. AMICO: Così pare. SOCRATE: Dilunghiamoci ancora su questo
punto. Chi con perizia sparge sulla terra i semi? AMICO: Il
contadino. SOCRATE: E costui sparge su ogni terra i semi adatti? AMICO:
Sì. SOCRATE: Il contadino allora è un buon dispensatore di semi, e le sue
norme e regole riguardo a questo, sono giuste? AMICO: Sì. SOCRATE: E
chi è un buon dispensatore di note nelle melodie e chi sa distribuirle nel
modo più adatto? Insomma: chi possiede leggi giuste a questo
riguardo? AMICO: Il flautista e il citarista. SOCRATE: Quindi il miglior
legislatore in questo campo è colui che sa suonare meglio il
flauto. AMICO: Sì. SOCRATE: E chi è quello più in grado a stabilire il
regime alimentare per il corpo degli uomini? Non è forse colui che prescrive
quello più adatto? AMICO: Sì. SOCRATE: Dunque le prescrizioni e le leggi
di costui sono le migliori e colui che è il legislatore più capace in questo
campo è anche il più abile a stabilire diete. AMICO:
Certamente. SOCRATE: Chi è costui? AMICO: Il maestro di
ginnastica. SOCRATE: Ed egli è il più capace a prendersi cura del corpo
dell'umano gregge? AMICO: Sì. SOCRATE: Ma chi è il più abile a
pascolare il gregge di pecore? Qual è il suo nome? AMICO: E' il
pastore. SOCRATE: Quindi le leggi del pastore sono le migliori per le
pecore. AMICO: Sì. SOCRATE: E quelle del mandriano per i buoi. AMICO:
Sì. SOCRATE: Ma da chi provengono le leggi migliori per l'anima degli
uomini? Non derivano forse dal re? Rispondi. AMICO: Dico di
sì. SOCRATE: Certamente dici bene. Sapresti forse dirmi chi tra gli antichi
è stato un buon legislatore per quanto concerne il suonare il flauto?
Forse non ti viene in mente, ma permetti che io te lo ricordi? AMICO: Sì
certo. SOCRATE: Non si dice forse che sia stato Marsia (4) e il suo amato
Olimpio di Frigia? (5) AMICO: E' vero. SOCRATE: Certo le loro arie per
flauto sono intutto divine ed esse sole commuovono e rivelano coloro che
hanno rapporti con gli dèi; esse sole poi sopravvivono ancora adesso, proprio
in virtù del loro carattere divino. AMICO: E' proprio così. SOCRATE: E chi
si dice sia stato tra gli antichi re un buon legislatore a tal punto che le
sue leggi sono in vigore ancora adesso, quasi fossero divine? AMICO: Non
mi viene in mente. SOCRATE: Non conosci chi tra i Greci si serve delle leggi
più antiche? AMICO: Forse tu alludi agli Spartani e al loro legislatore
Licurgo? SOCRATE: No, queste leggi probabilmente non hanno ancora trecento
anni o forse li superano di poco. Ma tu sai da dove provengono le leggi
migliori tra queste? AMICO: Dicono da Creta. SOCRATE: E non sono forse
questi tra i Greci ad utilizzare le leggi più antiche? AMICO:
Sì. SOCRATE: Tu sai dunque quali tra questi furono buoni sovrani: Minosse (6)
e Radamante, (7) i figli di Europa e Zeus da cui hanno avuto origine
tali leggi. AMICO: Veramente, Socrate, dicono che Radamante fosse un
giusto, ma raccontano che Minosse fosse un selvaggio, di pessimo carattere
e ingiusto.(8) SOCRATE: Carissimo, tu parli di un mito attico oggetto di
una tragedia. AMICO: Ma come? Non si tramandano queste notizie su
Minosse. SOCRATE: Non certo ad opera di Omero e di Esiodo; e sicuramente essi
sono più attendibili di tutti i tragediografi prestando fede ai quali tu
dici queste cose. AMICO: Ma che cosa dicono questi due riguardo a
Minosse? SOCRATE: Te lo dirò, affinché anche tu come i più non dica qualcosa
di sacrilego. Infatti non c'è nulla di più empio e nulla da cui
bisogna guardarsi di più, del peccare di fronte agli dèi con le parole e con
i fatti, e in secondo luogo davanti a uomini divini. Di certo bisogna
sempre riflettere molto qualora si voglia biasimare o lodare un uomo, per
non parlare ingiustamente. Anche per questo si deve imparare a distinguere
gli uomini buoni da quelli cattivi, poiché il dio si sdegna qualora si
biasimi chi è simile a lui o si lodi colui che è esattamente l'opposto:
L'uomo simile alla divinità è l'uomo buono. Non conferire poi carattere sacro
alle pietre, al legno, agli uccelli, ai serpenti piuttosto che all'uomo;
al contrario, ritieni l'uomo buono il più sacro di tutti e il malvagio il
più empio. Per questo motivo ti parlerò anche di Minosse, del modo in cui
lo lodano Omero ed Esiodo, per impedire che tu da uomo, figlio di uomo,
usi parole sbagliate nei confronti di un eroe figlio di Zeus. Omero
infatti quando dice di Creta che in essa abitavano molti uomini e che aveva
novanta città, a queste ne aggiunge un'altra: "La grande città di Cnosso,
dove Minosse amico intimo del grande Zeus regnò nove anni".(9) è dunque
questa la lode di Omero a Minosse fatta di poche parole, ma mai indirizzata a
nessun altro dei suoi eroi. In più punti della sua opera come qui risulta
chiaro che per Omero Zeus è un dio sapiente e che la sapienza è un'arte
bellissima. Il poeta dice inoltre che Minosse ogni nove anni conversava con
Zeus e lo frequentava per essere educato, in quanto Zeus è il vero
sapiente.(10) Che dunque Omero non attribuisca a nessuno degli eroi, se non a
Minosse, il privilegio di essere educato da Zeus costituisce già di per sé
una lode meravigliosa. Inoltre nell'Odissea, nel passo della discesa agli
Inferi, Omero ha rappresentato nelle vesti di giudice con lo scettro d'oro
Minosse e non Radamante;(11) in alcun modo Radamante riveste qui la funzione
di giudice o di intimo di Zeus. Per questi motivi io affermo che tra
tutti Omero ha lodato in particolare Minosse. Non esiste infatti lode più
grande dell'essere detto il solo figlio di Zeus ad essere stato educato da
Zeus e il verso: "Regnò nove anni in stretto rapporto col grande Zeus"
significa proprio che Minosse era intimo di Zeus. Gli oaroi sono infatti i
discorsi e oaristes è colui che è ammesso nell'intimità del discorso. Omero
diceva dunque che Minosse si recava ogni nove anni nell'antro di Zeus, in
parte per imparare, in parte per mostrare coi fatti ciò che aveva appreso da
Zeus nei nove anni precedenti. Vi sono tuttavia alcuni che ritengono
l'oaristes compagno di bevute e divertimenti di Zeus. Ci si potrebbe però
servire di questa argomentazione per dimostrare che coloro che la pensano in
quel modo non dicono nulla di ragionevole: infatti non c'è nessun uomo, greco
o barbaro, che si tenga lontano dai banchetti o da questo tipo di
passatempo, di cui fa parte il vino, se non i Cretesi e in secondo luogo gli
Spartani che l'hanno imparato dai Cretesi. Addirittura a Creta, oltre alle
altre leggi stabilite da Minosse c'è quella di non bere fino
all'ubriachezza quando si sta con gli altri. è certo chiaro che Minosse
stabilì come leggi valide anche per i suoi concittadini quelle che riteneva
giuste. Minosse infatti non pensava in un modo e poi agiva in contrasto con
le sue convinzioni, come un uomo qualunque: è proprio questa l'intimità di
cui parlavo, fatta di discorsi volti ad educare alla virtù. Su tale base
dunque Minosse pose le leggi per i suoi concittadini, attraverso le quali
Creta prosperò felicemente e per tutto il tempo, e così Sparta almeno da
quando iniziò a servirsene come se fossero state divine. Anche Radamante
era un uomo buono, infatti era stato educato da Minosse. Egli però non era
stato istruito relativamente a tutta l'arte del regnare, ma solo per essere
al servizio del regno, per quanto riguarda il presiedere i tribunali: proprio
in seguito a ciò ebbe fama di essere un buon giudice. Minosse infatti si
avvaleva di quel custode di leggi per la cittadella, mentre per il resto di
Creta ricorreva a Talo.(12) Quest'ultimo girava tre volte l'anno di villaggio
in villaggio per salvaguardare le leggi che teneva scritte su tavolette di
bronzo: per questo fu soprannominato "bronzeo". Esiodo raccontò cose simili
sul conto di Minosse, infatti dopo averne citato il nome dice: "Egli tra i re
mortali fu il più regale e regnò su gran parte dei popoli confinanti, con lo
scettro di Zeus; regnò sulle città grazie ad esso".(13) Lo scettro di Zeus
non allude a nient'altro che all'educazione impartita dal dio in virtù della
quale governava Creta. AMICO: Allora, perché mai, Socrate, si era divulgata
su Minosse codesta fama di uomo incolto e intrattabile? SOCRATE: Per lo
stesso errore da cui anche tu, carissimo, se sei saggio e tutti gli altri
uomini che vogliano essere tenuti in pregio da qualcuno, devono stare in
guardia: non inimicarsi mai nessun poeta. I poeti infatti hanno grande
influenza sulla fama delle persone a seconda che nei loro poemi ne parlino
male o bene. Proprio in questo Minosse sbagliò, poiché combatté contro questa
città in cui vi sono ogni forma di sapienza e vari poeti di ogni genere
letterario, compreso quello tragico. A ben vedere, inoltre, la tragedia
esiste da noi sin dall'antichità e non inizia, come generalmente si crede,
con Tespi o Frinico, (14) ma se si vuole condurre una ricerca si troverà
senz'altro che è un'antica scoperta di questa città. Inoltre la tragedia è il
genere letterario più popolare ed avvincente e noi inserendo in essa Minosse
ci vendicammo di quei tributi che ci costrinse a pagare. Dunque fu questo
l'errore di Minosse, l'essersi reso odioso ai nostri occhi, ed è a partire da
tale fatto che ottenne fama più ignobile, quella che è oggetto della tua
domanda. Evidentissima prova che fosse invece buono e rispettoso delle leggi,
come appunto dicevamo prima, e buon legislatore, consiste nel fatto che le
sue leggi sono rimaste immutate, in quanto proprie di chi ha veramente colto
la verità relativamente al governo dello Stato. AMICO: Mi sembra, Socrate,
che il tuo discorso abbia offerto spiegazioni plausibili. SOCRATE: Dunque,
se dico il vero, non ti pare che i Cretesi concittadini di Minosse e
Radamante si servano delle leggi più antiche? AMICO: Mi sembra proprio di
sì. SOCRATE: Questi allora fra gli antichi sono stati i migliori
legislatori, pastori e guide degli uomini, come anche Omero disse a riguardo
del buon stratega che è pastore di moltitudini. (15) AMICO: Sì
certo. SOCRATE: Su allora, per Zeus propizio, se qualcuno ci chiedesse quali
cose il buon legislatore e pastore del corpo stabilisce per il corpo al fine
di renderlo migliore, noi diremmo bene e risponderemmo in breve, il cibo e
le fatiche, l'uno per accrescerlo, le altre per esercitarlo e renderlo
sodo. AMICO: Giusto. SOCRATE: E se poi oltre a questo ci chiedessero:
"Quali cose il buon legislatore e pastore stabilisce per l'anima, per
renderla migliore?". Che cosa mai dovremmo rispondere per non vergognarci di
noi stessi e della nostra età? AMICO: Non so cosa dire. SOCRATE: Ma è
proprio vergognoso per le anime di entrambi mostrare di non avere conoscenze
in quello che per loro costituisce il bene e il male, e d'altra parte
scoprire di possedere queste stesse conoscenze relativamente al corpo e alle
altre
realtà.
NOTE
1)
Località dell'Arcadia: cfr. Pausania, libro 8, 38. 2) Re di Orcomeno in
Beozia rischiò di essere giustiziato come vittima espiatoria al posto dei due
figli Frisso ed Elle portati in salvo dall'ariete dal vello d'oro; fu salvato
dal nipote Citisoro (cfr. Erodoto, libro 7, 197). 3) Cfr. la nota 1. 4)
Celebre flautista, protagonista di narrazioni mitiche; secondo la leggenda
osò gareggiare con Apollo e una volta vinto fu scorticato dal dio e appeso ad
un albero: ctr. Platone, Respublica, libro 3, 399e; Leges, libro 3, 677d;
Diodoro Siculo, libro 3, 58-59; Apollodoro, libro 1, 4, 2; Igino, Fabulae
165. 5) Auleta di origine frigia ricordato dalle fonti come grande
innovatore (Plutarco, De musica, 11), visse presumibilmente tra l'11esimo e
l'ottavo secolo a.C. 6) Re di Creta, figlio di Zeus e di Europa: cfr.
Omero, Odyssea, libro 4, 564; Diodoro Siculo, libro 4, 60; 77,2 e 13,4; libro
5, 79. 7) Re di Creta, fratello di Minosse, acquisì fama di giudice equanime:
cfr. Platone, Leges, libro 1, 624a-b. 8) Si tratta della tradizione
iniziata dai tragici che legavano la figura di Minosse alla vicenda del
Minotauro. 9) Omero, Odyssea, libro 19, 178-179. 10) Cfr. Diodoro Siculo,
libro 4, 60; Apollodoro, libro 3,1,2; Strabone, libro 10, 4,8. 11) Omero,
Odyssea, libro 11, versi 568-671. 12) Le fonti lo indicano come il mitico
servo di bronzo dalla testa di toro donato da Zeus a Minosse come custode di
Creta: cfr. Apollonio Rodio, libro 1, 639 e seguenti; Apollodoro, libro 1,
9,26. 13) Esiodo, frammento 103 Merkelbach-West. 14) Tespi, poeta e attore
greco, nacque verso il 580 a.C. in un demo dell'Attica; secondo la tradizione
fu uno degli iniziatori dei genere tragico. Di Frinico, anch'egli poeta
tragico del sesto secolo a.C., si conoscono i titoli di nove tragedie. 15)
Omero, Ilias, libro 1, verso 623.
ULISSE E POLIFEMO Nel IX libro
dell'Odissea Ulisse racconta ai Feaci la sua avventura con Polifemo, facendo
mostra di quelle che comunemente vengono definite le sue migliori qualità:
curiosità intellettuale, coraggio e astuzia, che sono poi in questo poema gli
ingredienti ideali del buon esploratore, anzi dell'avventuriero.
La
storia ch'egli narra fa parte di una storia dei Ciclopi molto più
antica (come quella dei Titani e dei Giganti), perché connessa alle
cosmogonie e teogonie del mondo mediterraneo: infatti nella mitologia greca i
Ciclopi erano figli di Urano e Gea, prima ancora che nascessero gli dei
dell'Olimpo e a questi per molto tempo furono ostili. La civiltà minoica, che
ha segnato di più il passaggio dalla società comunitaria a quella
antagonistica, li conosceva assai prima di quella micenea.
Kyklops
significava anticamente "dal viso o dall'occhio rotondo" (che verrebbe voglia
di interpretare con aggettivi come "ingenuo" o "semplice" se non si sapesse
di fare delle forzature, e che comunque non volle mai dire "viso monoculare":
tutt'al più si può pensare a una semplice caratteristica fisica, analoga a
quelle di tante altre popolazioni della terra). Ulisse invece (in cui Omero
si identifica) ne fa occasione per una descrizione mostruosa, inverosimile,
viziata da pregiudizi ideologici.
Dovendo giustificare, al suo esordio,
la rottura col passato comunitario, la civiltà micenea ha avuto bisogno, già
nelle versioni orali del poema, di rappresentare i Ciclopi come giganti rozzi
e incivili. La descrizione che ne fa Ulisse è molto significativa non solo
del pregiudizio con cui si guardava al proprio passato, ma anche
dell'ideologia con cui si voleva legittimare il proprio presente. La terra
delle Capre (collocata dai critici presso i Campi Flegrei in Campania oppure
presso il Vesuvio o infine alle falde dell'Etna) era abitata, secondo Omero,
da esseri deformi, violenti e privi di leggi, estranei alla vita sociale,
civile, politica e religiosa, incapaci di lavorare la terra o di navigare,
quindi dediti prevalentemente all'allevamento o pastorizia (anche se una
leggenda posteriore di Esiodo li vede come operai metallurgici al servizio di
Efesto, intenti a produrre fulmini per Zeus) e con potere assoluto su mogli e
figli. Più avanti Ulisse dirà che erano anche antropofagi.
Qui bisogna
anzitutto premettere che l'Odissea rappresenta il prosieguo, in tempo di
pace, degli stessi valori individualistici affermati nell'Iliade, con la
differenza che mentre nell'Iliade il duello fisico degli eroi belligeranti è
parte costitutiva dei canti, qui invece si ha a che fare con situazioni più
artificiose, con duelli più intellettuali e verbali, dove però a volte
l'epilogo è non meno tragico e cruento.
Il caso di Polifemo rientra in
quei duelli in cui i contendenti simboleggiano due civiltà opposte, di cui
una, per come viene descritta, non può neppure essere considerata una
civiltà; è un duello in cui non vi sono semplicemente degli interessi
antitetici da difendere (come nel caso di Atene e Troia), ma un abisso di
cultura che rende impossibile qualunque forma di intesa, di dialogo, di
comunicazione.
E' così grande la distanza che il narratore non ha
scrupoli nell'utilizzare la caricatura nel descrivere l'avversario, che è
incredibilmente mostruoso in ogni suo aspetto, da quello psicofisico a quello
sociopolitico. E questo nonostante che l'episodio sia il tema che fa aprire
il capolavoro omerico e il leit-motiv di tutto il tragico peregrinare del suo
eroe principale, a testimonianza, evidentemente, del fatto che l'azione
compiuta ai danni di Polifemo andava considerata molto grave.
Il
racconto vuole essere emblematico di quanto il narratore va dicendo per tutto
il poema, e cioè che l'eroe greco è superiore ad ogni altro abitante del
Mediterraneo. L'astuzia affermata da Ulisse ha la stessa finalità che aveva
nell'Iliade: ribadire il primato della forza sulla debolezza, con
la precisazione che col concetto di "forza" s'intende non solo quella
fisica (come poteva apparire nell'Iliade, in quanto Troia non era meno
civilizzata di Atene), ma anche quella morale e intellettuale. Frutto di
una civiltà secolare basata sul confronto politico dei partiti della polis,
sulle guerre di conquista, sulla complessità della lingua greca, sulla
raffinatezza dell'arte... quell'astuzia (in greco mêtis) che nell'Iliade
aveva caratterizzato, in primis, il personaggio di Ulisse, nell'Odissea
prevale decisamente sulla forza di tutti i protagonisti e anche su tutte le
altre loro caratteristiche umane.
Il carattere dimesso, riservato, da
eminenza grigia, da consumato diplomatico che Ulisse mostra nell'Odissea è
mera finzione, pura tattica finalizzata al primato della forza, della
sopraffazione. L'Ulisse dell'Odissea è più politico che militare, proprio
perché usa di più l'astuzia delle parole, del linguaggio doppio,
ingannatore.
Il suo relativismo etico è totale. Non esistono più ideali
sociali per cui valga la pena combattere, se non quelli strettamente privati:
ritornare a casa, tra i propri cari. I quali, come poi accadrà, non saranno
sufficienti a fermare Ulisse, perché ciò che più conta nella sua vita è in
realtà la fuga dalla realtà, l'avventura fine a se stessa, il rifiuto
delle responsabilità morali, le pulsioni del proprio io.
L'Ulisse
dell'Odissea, e lo vedremo anche in questi versi dedicati a Polifemo, è
freddo, calcolatore, in quanto sta per togliersi i panni del militare per
indossare quelli dell'avventuriero, dell'esploratore, in attesa di diventare
(ma questa sarà una caratteristica moderna) un vero e proprio uomo
d'affari.
Se non si comprende bene questa metamorfosi, risulta poi
difficile chiedersi quanta parte abbia avuto nella descrizione di questo
episodio (e in fondo di tutto il poema) il pregiudizio nei confronti delle
società pre-greche o pre-elleniche o pre-schiavistiche o, se vogliamo
classificarle con una parola generica, "barbare".
Non solo infatti si
assiste in questa descrizione al trionfo di un'astuzia che di umano conserva
assai poco, ma anche al trionfo di un'ideologia (classista) che dà
dell'identità del nemico da abbattere una rappresentazione del tutto falsata,
strumentale all'uso prevaricatore e persino vendicativo della stessa
astuzia.
L'odio di Ulisse nei confronti di Polifemo è dettato dal
pretesto dell'ospitalità negata. Ulisse non si chiede se l'atteggiamento
guardingo, sospettoso di Polifemo possa essere la conseguenza di un passato
rapporto conflittuale tra due società tra loro irriducibili: comunitaria e
classista.
Eppure si ha netta l'impressione che il rapporto tra Ulisse e
Polifemo vada ben aldilà dei due protagonisti e che, in definitiva,
rappresenti, in maniera per così dire figurata, la lotta tra una civiltà
ormai scomparsa, che sopravvive solo a se stessa, e una che vuole imporsi a
tutti i costi, come se si assistesse alla descrizione paradigmatica della
diffusione colonialistica della civiltà europea, i cui esordi vanno cercati
-come noto- nelle civiltà minoica e micenea.
La descrizione sub-umana
di Polifemo è tutta funzionale alla legittimazione di una civiltà che in nome
dell'astuzia (mêtis), dell'intelligenza acculturata, del linguaggio forbito,
della scienza e della tecnica... si ritiene superiore ad ogni altra e quindi
autorizzata a imporsi, a diffondersi con ogni mezzo. L'approdo di Ulisse e
dei suoi compagni nella terra delle Capre è quella di un ladro che, da quanto
è abituato, non sa neppure di esserlo, di un saccheggiatore che fa sue senza
problemi cose che non gli appartengono (da notare che venivano dalla terra
dei Ciconi, dopo aver devastato la città, ucciso la maggior parte degli
abitanti maschi e stuprato la maggior parte delle donne, cui era seguita
un'esperienza di totale evasione tra gli effetti allucinogeni del
loto).
Appena scesi nella terra del ciclope, gli achei fanno fuori un
centinaio di pecore e capre e mangiano a sazietà. Per spiegare tale
atteggiamento Ulisse premette subito nel suo racconto, pur senza saperlo al
momento dello sbarco, che si trattava della terra dei Ciclopi, fertile di
natura, a prescindere dal loro lavoro, che agricolo non è. E poi, dal punto
di vista culturale, i Ciclopi sono troppo rozzi perché degli esseri
civilizzati si abbassino a chiedere il permesso di trafugare un centinaio di
animali per sfamarsi, i quali peraltro vengono detti "selvatici" da Ulisse,
cioè di nessuno.
I Ciclopi vivono in una terra ricca di suo e non sanno -
fa notare Ulisse dall'alto della sua conoscenza agronomica - che potrebbero
ricavarne cento volte di più se solo conoscessero scienza e tecnica e se solo
sapessero costruire navi con cui scambiare i prodotti, venderli... Ulisse dà
per scontato che l'economia di scambio sia nettamente superiore, sotto
ogni aspetto, a quella di mera sussistenza.
E' sintomatico ch'egli
descriva Polifemo con tutti i pregiudizi possibili prima ancora d'aver
parlato del dialogo tra i due, e cioè che è un mostro solitario dal corpo
talmente grande da non apparire umano, è anzi feroce e ingiusto, privo di
affetti, perché non sposato, senza figli, senza amici o parenti, insomma una
cosa orripilante.
La leggenda in realtà narra che Polifemo amò la ninfa
Oceanina Galatea, la quale però gli preferiva il giovane Aci, figlio di
Fauno, che, sorpreso con lei dal Ciclope, fu da questi ucciso col lancio
d'una rupe.
Ulisse stranamente racconta che s'era portato con sé il vino
perché sapeva che ne avrebbe avuto bisogno, lasciando così credere ch'egli
già sapesse dell'esistenza del ciclope nell'isola.
Anche quando
entrano nella sua grotta, la prima cosa che viene in mente agli achei è
quella di rubare formaggi e animali.
Ulisse invece, curioso di natura e
pronto a tutte le sfide, preferisce mangiare i formaggi direttamente dentro
la grotta, per vedere se Polifemo vorrà ospitarlo, e per mostrare che lui,
l'eroe militare, era l'umano, mentre l'altro, il pecoraio analfabeta, il
ferino, e precisa, nel racconto ai Feaci, con tutta l'ipocrisia che sempre lo
contraddistingue in questi casi, che una parte dei formaggi, essendo egli un
uomo "pio" e "religioso", fu dedicata agli dèi. Quando Polifemo li vede è
lui che ne ha paura. Teme infatti che siano pirati o stranieri venuti lì per
qualche loro interesse, che non lo riguarda. Ha timore d'essere raggirato o
saccheggiato.
Ulisse gli risponde con un'altra richiesta ipocrita, quella
di rispettarli in nome del loro dio, secondo le regole della loro religione,
della loro cultura.
La risposta di Polifemo è uno dei motivi per cui
verrà ucciso: egli dichiara il proprio ateismo, e non sarà per rispetto alla
religione achea se deciderà di ospitarli o meno.
Ma l'astuto Ulisse lo
è anche quando affabula i Feaci; infatti fa loro capire che l'ateismo di
Polifemo era rozzo, triviale, era l'ateismo di un bruto, come d'altra parte è
ogni forma d'ateismo, in quanto l'ateismo è volgare per definizione e
comunque sono "barbari" coloro che lo professano. L'ateismo è di per sé
immorale perché suppone un'autonomia dell'uomo dalla divinità.
E
siccome Ulisse equipara l'ateo al selvaggio tiranno e menzognero, subito si
sente indotto a difendersi rispondendo a una domanda di Polifemo che la sua
nave era già affondata. E di ciò accusa, con poca diplomazia in verità, lo
stesso protettore del ciclope: Posidone.
Perché dunque meravigliarsi se
al sentire quelle cose, Polifemo reagì uccidendo due suoi compagni? Il motivo
è che ora Ulisse deve descrivere l'aspetto più ripugnante di Polifemo, quello
in virtù del quale egli potrà legittimare la sua terribile vendetta: il
cannibalismo.
Ma non è forse vero che tutti gli uomini primitivi vengono
descritti come antropofagi da tutte le popolazioni civili al loro primo
incontro?
Per mostrare l'inaudita ferocia forse un secondo redattore ha
aggiunto altri quattro pasti ferini.
Quanto disti la letteratura
pagana da quella cristiano-primitiva lo si comprende bene dal pensiero
immediato che viene in mente all'eroe Ulisse, religioso e civilizzato: la
vendetta.
E per metterla in pratica continua a mentire dicendo che aveva
portato il vino per fargli piacere. Lo prende in giro, trattandolo come un
idiota; e mentre gli offre il vino lo offende di nuovo, mostrando di non
avere di lui alcuna paura: "tu non vivi da giusto" (la "giustizia" del
primitivo interpretata secondo i canoni di quella ritenuta più
avanzata).
Il ciclope promette di dargli ospitalità, ma Omero, non
volendo rischiare che noi si sia indotti a credere nella buona fede del
ciclope, fa parlare quest'ultimo con lo stesso atteggiamento astuto di
Ulisse, solo che il suo è ovviamente limitato, infantile, essendo quello di
un uomo preistorico. Polifemo promette di dargli ospitalità perché ha
apprezzato il vino, ma in cambio vuole sapere come Ulisse si chiama, e
questi, siccome non può scendere a patti con un essere così spregevole e
inferiore, fa leva sulla propria superiorità linguistica e mente un'altra
volta, abbindolandolo: "Mi chiamo Nessuno".
Si noti come in questa
ambiguità terminologica si celi anche, psicologicamente, un rapporto falsato
che Ulisse ha con la realtà e col suo interlocutore, qui come altrove. Assai
raramente si fa riconoscere o svela le sue origini: dà sempre l'impressione
di essere un uomo privo di identità, senza un passato. A forza di mentire,
d'ingannare, di tradire sembra che si vergogni di essere quel che è, cioè da
un lato sembra che l'umano sia un sentimento del tutto atrofizzato,
dall'altro però proprio questo continuo bisogno di negarsi svela
indirettamente un certo senso di colpa.
La distanza tra i due è comunque
incolmabile e il delitto dell'istintivo ed esasperato Polifemo rende vana
qualunque possibilità di intesa. Nella mente di Ulisse frulla solo un'idea:
come eliminare l'avversario.
Omero a questo punto ha gioco facile:
Polifemo si rimangia la promessa non perché Ulisse ha mentito, ma perché sin
dall'inizio la sua promessa era falsa.
La descrizione dell'accecamento
deve necessariamente essere molto dettagliata, perché deve suscitare da parte
del lettore-ascoltatore il gusto di una rivincita.
Al sentire le sue
urla gli altri Ciclopi accorsero subito, smentendo così che Polifemo vivesse
una vita del tutto isolata.
Qui il racconto cade nel ridicolo. Polifemo
non apre la porta della grotta, ma spiega agli amici che "Nessuno" lo ha reso
cieco. Al che è naturale che gli altri lo ritengano come uscito quasi di
senno e se ne vadano immediatamente. I consigli che gli danno sono gli stessi
che avrebbero potuto dargli gli uomini civilizzati. Tutto il suo male gli
viene dal suo ateismo, che è in definitiva protervia. Solo con la fede potrà
risanarsi, cioè recuperare il senno. Ulisse è soddisfatto e di fronte al
dolore di Polifemo se la ride.
Poi di nuovo l'inganno, questa volta per
difendersi dall'inevitabile rappresaglia: Ulisse lega i suoi compagni al
ventre degli arieti che, una volta usciti dall'antro, verranno poi trafugati
dagli achei.
E continua l'oltraggio a Polifemo, unendo alla vendetta la
beffa. Ulisse si permette di fare la predica del moralista: è stato Zeus a
punire l'arroganza e la brutalità del ciclope.
Pur con tutta la sua
civiltà o forse proprio per questa, Ulisse appare come un uomo vendicativo,
iroso, beffardo, cinico e crudele. Avverte fortemente il bisogno di rivelare
al debilitato Polifemo quale sia il suo vero nome. Ha bisogno di sentirsi
grande.
E Omero non vede l'ora di scrivere che la fine ingloriosa di
Polifemo era stata predetta dagli dèi, per cui andava considerata sommamente
giusta. Il che, tra l'altro, pare sia messo per giustificare il bisogno
d'infierire, con gusto sadico, sul nemico ferito, anche se non sarebbe
sbagliato chiedersi se questa esagerazione non sia un'aggiunta posteriore,
poiché Polifemo sembra pentirsi ed essere disposto a ospitare Ulisse e a
pregare Posidone, affinché lo guarisca, essendo di lui
figlio.
Tuttavia Ulisse è irremovibile nella sua spietatezza e gli augura
di restare cieco tutta la vita, perché se avesse potuto l'avrebbe addirittura
ucciso.
Il racconto si conclude con la supplica di Polifemo a Posidone,
che Ulisse non possa tornare più a Itaca o, che se vi riesca, trovi grandi
sciagure nella propria casa, senza amici che possano aiutarlo. Singolare
una maledizione del genere, da parte di un protagonista dipinto come
un energumeno antisociale.
E a Ulisse il gioco diventa facile: gli ci
vuol poco a incolpare Polifemo e suo padre-protettore dell'incapacità della
sua missione di civilizzare il mondo intero.
Appare dunque chiaro che
questo episodio riflette la transizione dalla cultura pre-schiavistica, che i
micenei (specie i coloni) possono aver incontrato in alcune zone della parte
occidentale del Mediterraneo e quella più propriamente schiavistica e
razzistica ch'essi avevano creato sulle fondamenta di quella minoica. In
generale esso indica il passaggio dalla civiltà basata sull'allevamento a
quella basata sull'agricoltura organizzata, sull'artigianato raffinato e
sulla commercializzazione dei rispettivi prodotti.
PROMETEO INCATENATO
OVVERO LA COSCIENZA DI SE' Commento psicopolitico alla tragedia di
Eschilo
La personalità di Efesto che incatena Prometeo fa da ponte tra
l'umanità di Prometeo e la disumanità o antiumanità di
Zeus.
Ovviamente bisogna intendersi sulla disumanità di Zeus, poiché qui
si ha a che fare con una divinità che presume di compiere un atto di
giustizia nei confronti del consesso divino, cioè nei confronti delle
esigenze di un ordine superiore, sovratemporale, a quello umano, come può
essere superiore, nell'etica hegeliana, lo Stato alla società civile o
all'individuo singolo (quest'ultimo, al di fuori della società, veniva
addirittura considerato da Hegel come una mera astrazione).
Efesto
incatena Prometeo alla rupe caucasica con la consapevolezza che non si può
violare l'ordine costituito, cioè incatena in quanto politico conservatore,
anche se non vorrebbe farlo come uomo. Egli quindi rispetta la ragion di
stato. Sarà poi la stesura del Prometeo liberato, andata perduta, che indurrà
Eschilo a fare di Efesto il liberatore di Prometeo con la conseguente
riconciliazione di quest'ultimo con Zeus e l'accesso all'Olimpo.
L'accusa
che nel Prometeo incatenato Efesto muove a Prometeo è quella ufficiale per
cui è stato da Zeus condannato e che si pone a un duplice livello, politico e
culturale: ha diffuso la democrazia sociale tra gli uomini, mettendoli in
condizione di pervenire all'ateismo.
Potere (servo di Zeus) afferma
chiaramente che l'esistenza degli dèi suppone l'assenza di libertà per gli
uomini, in quanto la libertà è strettamente connessa al potere e solo chi ne
dispone al massimo livello è davvero libero, quindi solo Zeus lo è. Tutti gli
altri sono liberi in quanto si riconoscono in questa situazione e la
accettano come un destino o una necessità che li sovrasta.
Il dono che
Prometeo fece agli uomini fu quello che avrebbe permesso loro di rendersi
autonomi dalla dipendenza economica e insieme da quella religiosa, che le è
strettamente correlata: il dono del fuoco, cioè il dono del lavoro, poiché il
fuoco è fonte di trasformazione della materia prima (del ferro
in particolare, fonte di supremazia militare).
D'altra parte sono
proprio le caratteristiche degli dèi dell'Olimpo, assai diverse da quelle
delle divinità precedenti, che rendono quasi dovuto il sentimento di
emancipazione degli uomini. Gli dèi sono tanto più autoritari quanto più gli
uomini vorrebbero porsi in maniera autonoma.
Prometeo non fece altro che
tirare delle conseguenze logiche. Gli uomini, per potersi difendere da
queste divinità bellicose hanno bisogno di maggiori poteri. "Zeus domina con
nuovi poteri, oltre ogni legge", canta il coro delle Oceanine. Cioè il suo
dominio somiglia molto da vicino a quello di una monarchia assoluta, che non
deve rendere conto ai suoi pari né ad alcuna legge scritta; solo al fato deve
sottomettersi, ma il fato è imperscrutabile, inaccessibile, totalmente
indipendente dalla volontà di chicchessia. In una situazione così "bloccata"
agli uomini privi di potere non resta che credere nel fato o nel destino,
nella speranza che le sue ragioni siano migliori di quelle dei potenti,
uomini o dèi che siano, proiezioni consapevoli, quest'ultimi, della volontà
umana di dominio.
Eschilo tuttavia fa dire a Prometeo che il destino di
Zeus è segnato: verrà sconfitto da un altro (un suo figlio) più potente di
lui. "Un giorno egli sarà spezzato e ammansito... vorrà con me legarsi
d'amicizia".
Molto interessante è la descrizione della lotta tra Zeus e i
Titani. Da questa lotta non emerse un vincitore soltanto, ma ben tre: Zeus
dominava il cielo, Poseidone il mare e Ade l'aldilà. Mare e terra venivano
distinti, per cui Zeus non aveva potere sugli uomini quando questi si
avventuravano sul mare.
Una lotta che presumibilmente rifletteva un
periodo in cui le polis si combattevano tra loro, qui simboleggiato dalla
contesa tra i monti Olimpo e Otride, finché una triade ebbe la meglio, e di
queste polis una, è da presumere, doveva essere posta ai confini dell'impero,
l'altra dominava la terra e la terza il mare.
Prometeo fa chiaramente
capire che alla fine di questa lotta fratricida vinsero non i più forti (i
Titani), ma i più astuti (i figli di Crono). E' dunque probabile che le prime
civiltà si basassero unicamente sul concetto di forza, senza possedere
elevata cultura o capacità commerciale. E non è da escludere che la forza di
queste civiltà sia stata esagerata dalle civiltà successive, risultate
vincenti.
Sotto questo aspetto è anche possibile che la lotta tra gli dèi
sia il riflesso di una lotta tra civiltà molto diverse nell'uso degli
strumenti di lavoro (da quelli tecnologici fino agli schiavi, inclusa
ovviamente la lavorazione della terra), e che alla fine siano risultate
vincenti quelle capaci di piegare meglio le esigenze della morale a quelle
della forza e del potere politico. In questa capacità di strumentalizzazione,
di manipolazione ideologica, in questa progressiva falsificazione delle cose
è emersa la superiorità della civiltà greca (minoico-micenea).
Non
sarebbe quindi strano pensare che in origine la guerra fosse p.es. tra popoli
mediterranei e popoli di origine asiatica o caucasica (sciti, sarmati...),
oppure, più semplicemente, tra la civiltà cretese e quella micenea. E' lo
stesso Eschilo (vissuto tra il 525 e il 456 a.C.) che, per bocca di
Prometeo, fa l'elenco delle popolazioni sconfitte dai greci: gli uomini
dell'occidente (in riferimento alla parte ovest del Mediterraneo, quindi in
sostanza all'Africa, ma anche alle popolazioni italiche preromane), l'Asia
santa (dal fiume Don all'Indo e al Nilo 1), la società matriarcale o delle
"guerriere vergini" della Colchide (antica regione sul mar Nero, tra il
Caucaso e l'Armenia), la schiera scita, nomade, delle lagune di Meotide
(antico nome del mar d'Azov, dunque golfo della Sarmazia a nord del Ponto
Eusino o mar Nero, abitato dalle Amazzoni), gli Arabi lungo il Caucaso, i
selvaggi Calibi (popolo dell'Asia Minore).
Prometeo, in questa lotta, pur
essendo inizialmente schierato, per ragioni di appartenenza etnica, con i
Titani 2, comprese che questi non sarebbero mai riusciti a vincere,
semplicemente perché la loro organizzazione intorno al concetto di forza era
troppo primitiva, troppo estranea al concetto di astuzia intelligente
(metis), per cui scelse di stare dalla parte di Zeus.
La differenza che
Prometeo pone tra sé e Zeus è che questi, dopo la vittoria, non voleva
riconoscere alcun diritto agli uomini, cioè al popolo lavoratore, che era
stato ereditato vincendo i Titani e che Zeus avrebbe voluto -dice Prometeo
con enfasi- sterminare o schiavizzare.
Prometeo sembra riferirsi a una
volontà egemonica che gli appariva eccessiva, ingiustificata. In quanto
titano egli sembra esprimere un senso di umanità superiore a quello di Zeus,
probabilmente perché più originario, meno contaminato dal progresso
tecnologico e culturale, dallo sviluppo dei commerci e della proprietà. E
pensare che fu lui stesso a decidere col consenso degli dèi dell'Olimpo come
distribuire risorse e privilegi tra divinità e umanità, un tempo uniti
attorno a una stessa mensa imbandita. Questo viene confermato nella Teogonia
di Esiodo.
Dopo la vittoria di Zeus, Prometeo fu costretto ad adeguarsi
alla sua volontà, nella speranza che i Titani e i popoli che vivevano con
loro potessero emanciparsi come quelli greci, ma i vincitori della
guerra preferivano usarli come soggetti colonizzati, senza alcun diritto,
e Prometeo tradì una seconda volta, aiutando i mortali ad
emanciparsi, dapprima infondendo loro l'esigenza di un riscatto, poi
organizzandoli attorno all'idea di edificare una civiltà con gli stessi mezzi
della civiltà che li aveva sconfitti e che li teneva oppressi. E diede loro
la conoscenza per usare al meglio il fuoco, cioè diede loro i segreti
dell'artigianato più avanzato.
Oceano è l'altro Titano che, dopo la
fine della guerra, comprese le ragioni di Prometeo. Ora però gli chiede di
adattarsi alla nuova monarchia, prendendo atto della mutata
situazione.
Poiché si sente tradito dalle promesse di Zeus, Prometeo
declina l'offerta, nella convinzione che la sconfitta è solo temporanea e che
un giorno la nuova monarchia verrà abbattuta.
D'altra parte -egli
spiega a Oceano- non è possibile una riconciliazione con Zeus e le altre
divinità alleate, perché tutti l'avevano tradito assicurandogli all'inizio un
trattamento equo per le popolazioni sconfitte.
Prometeo ebbe pietà dei
mortali perché li vedeva vittime delle circostanze, soggetti a eventi non
decisi da loro e ai quali, per incoscienza o inettitudine, non avevano saputo
partecipare. A questa gente egli volle dare "pensiero e coscienza" e anche la
capacità di vivere una vita più dignitosa, più produttiva, insegnando loro le
arti e i mestieri che aveva appreso dalla civiltà greca.
Prometeo
aveva dovuto riconoscere che la civiltà ellenica era tecnologicamente,
culturalmente di molto superiore alle civiltà che vivevano ai confini del
Mediterraneo. Ma aveva anche capito che questa superiorità non si traduceva,
di per sé, in un'occasione di crescita per le popolazioni sottomesse o
sconfitte.
E tra queste popolazioni le donne (rappresentate qui da Io)
risultano le più oppresse, perché se gli uomini sono schiavizzati da altri
uomini, le donne lo sono due volte.
Zeus, anche in questo caso,
rappresenta il potere che vuole strumentalizzare a suo piacere la figura
femminile.
Prometeo non vede futuro, nel Mediterraneo, per le donne e
consiglia a Io di andare o verso oriente, verso l'Asia, oltre il Bosforo
(lontane anche dalle civiltà mediorientali), oppure in Africa, oltre il Nilo,
cioè di là dalla civiltà egizia.
Prometeo cerca di spiegare, con
linguaggio oscuro, a Io che il potere di Zeus verrà superato e ripristinato
il senso di umanità solo quando i valori femminili prevarranno
sull'antagonismo maschile. Solo così Zeus capirà la differenza tra "servire"
e "regnare".
E' a questo punto che entra in scena Ermes, messaggero di
Zeus, che annuncia a Prometeo una ulteriore sevizia da parte di Zeus: un
rapace, figlio di Tifone, verrà a rodergli il fegato (sede del coraggio) in
eterno, finché un altro dio non vorrà sostituirlo o lui non vorrà scendere
nell'Ade per essere definitivamente dimenticato.
Una leggenda
posteriore permetterà anche a Zeus di fare un dono agli uomini: quello del
vaso di Pandora, pieno di sventure, eccetto una, simboleggiata nella
speranza. In questa maniera gli uomini dovranno credere che le disgrazie
della loro vita non dipendono da loro stessi, ma dal destino e quindi sono
inevitabili, e nel contempo dovranno limitarsi a sopportarle illudendosi di
poter migliorare nel futuro la loro condizione.
1 L'Asia interna, la
Siberia, la Cina e l'estremo oriente furono ignote all'Europa fino al
Medioevo. Asia è anche il nome di una provincia romana costituitasi intorno
al 133 a.C. in un'area dell'odierna Turchia.
2 Prometeo era di stirpe
regale o aristocratica, un uranide, figlio del titano Giapeto (a sua volta
figlio di Urano e di Gea), gettato nel Tartaro da Zeus, e di Asia o Climene
(a sua volta figlia di Oceano e di Teti). Prometeo aveva dunque Crono come
zio e Zeus come cugino. I suoi fratelli erano:
Epimeteo, ingannato da
Zeus, che lo indusse a sposare Pandora, Atlante, costretto da Zeus a
sostenere la volta del cielo, Menezio, folgorato da Zeus e precipitato
nell'Erebo quando aiutò i Titani a scalare l'Olimpo. Considerando che,
secondo una leggenda, Prometeo creò il primo essere umano con l'aiuto di
Pallade Atena, è possibile dire ch'egli va considerato come un progenitore
della stirpe greca e, per estensione, di tutta la stirpe umana.
Figli
di Prometeo furono Asia e Deucalione, quest'ultimo re della
Tessaglia, l'unico che insieme alla moglie Pirra meritarono, secondo Zeus,
d'essere salvati dal diluvio universale.
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