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IL MITO DI ULISSE - IL MITO DI CIRCE

ULISSE - LA MAGA CIRCE

IL MITO DI ULISSE
Ulisse, in greco Odisseo (il nome latino Ulixes risulta preso da una forma
dialettale), è l'eroe più celebre di tutta l'antichità e il più celebrato
negli ultimi 27 secoli.
Tutti i manuali scolastici presentano l'Odissea come un poema in cui viene
narrato il ritorno avventuroso in patria di uno degli eroi della guerra di
Troia. In realtà le vicende di Ulisse sono solo il pretesto per raccontare
una storia che di avventuroso ha assai poco rispetto al motivo di fondo che
la domina e che è eminentemente tragico, come è tragico il suo eroe
principale.
Tra la fine dell'VIII sec. a. C. e l'inizio del VII furono messi per
iscritto, in lingua greca, l'Iliade e l'Odissea, approdo finale di una
tradizione orale risalente, probabilmente, all'età dei greci micenei, la cui
civiltà era crollata verso il 1200-1100 a. C. Fu nel momento in cui, verso
il VII sec. a. C., molti greci cominciarono a migrare verso occidente,
portando con sé le loro memorie, che qualcuno mise per iscritto i due poemi.
Secondo un'antica tradizione leggendaria Ulisse è un bisnipote di Ermes, il
dio delle trasformazioni, che si contrappone ad Apollo, dio semplice,
chiaro, unico. E infatti per Omero Ulisse è al vertice delle capacità umane,
complessivamente intese: è dotato d'incredibile perspicacia e intuito
(polymetis), sa adattarsi alle più inattese emergenze della sua tumultuosa
esistenza (polytropos), ha una grandissima astuzia (polymechanos), è capace
di mille pensieri (polyphron) ed è in grado di sopportare le più terribili
sofferenze (polytlas), è insomma un uomo di mondo, rotto, anzi "navigato" a
tutte le esperienze (polyplanes).
E' il personaggio più moderno perché il più umano, non ovviamente nel senso
"cristiano" o "laico" in cui oggi intendiamo la parola "umano" o
l'espressione "senso dell'umanità", poiché Ulisse era anche capace di
efferate crudeltà e terribili vendette 1, ma semplicemente perché incarna
tutte le caratteristiche dell'uomo moderno, ed infatti egli è figlio di una
grande civiltà antagonistica: passione militare, volontà di comando, astuzia
politica e diplomatica, affabulazione e capacità di persuasione, relativismo
etico 2, licenza sessuale (note sono le sue amanti: Circe, Nausicaa, Calipso
ecc.), coraggio nell'affrontare le avventure, patriottismo 3 e senso di
superiorità etnica, di stirpe 4, di civiltà, spirito di sacrificio 5,
curiosità intellettuale 6, rispetto formale della religione.
Ulisse in realtà non è mai esistito, se non nella fantasia di un redattore o
di più redattori, che volevano convogliare in un individuo isolato quei
valori che tutti insieme non realizzarono né avrebbero potuto realizzare
alcun ideale sociale, di convivenza pacifica e democratica.
L'Iliade infatti è il fallimento di una civiltà, quella micenea,
rappresentata da una polis che vince un'altra polis, senza per questo
migliorare il proprio destino, è cioè il simbolo dell'impossibilità di una
coesistenza in nome degli ideali e dei comportamenti che furono di molti
eroi troiani e greci e che in Ulisse si sommano stupendamente (sul piano
artistico delle letteratura) in un'unica persona, che però appare come eroe
isolato, i cui compagni di sventura sono soltanto delle comparse.
L'Odissea è la sconfitta dell'Iliade, ma in forma sublimata, accentuando al
massimo l'umanità di un eroe di carta, che nella realtà non può esistere,
perché nessun uomo può essere tutte quelle cose insieme. Lo stesso Omero
afferma che oltre il Peloponneso esiste solo l'irrealtà.
L'Iliade infatti, trattando il tema della guerra in nome di un ideale di
giustizia, suggeriva l'idea che entro certi limiti era possibile sospendere
le esigenze della democrazia, in attesa della conclusione del conflitto. Ma
l'Odissea è il tentativo di mascherare il fallimento di quegli stessi ideali
vissuti in tempo di pace.
Ulisse viene fatto vivere in una dimensione surreale proprio perché non
sarebbe stato in grado di vivere un'esistenza normale, nella vita reale,
nella prosaicità di una vita pacifica, senza conflitti sociali o bellici.
La sua personalità è in fondo quella di un disadattato sociale, analoga a
quella dei reduci militari di qualunque sporca guerra, di uno che non può
avere amici che non siano i propri commilitoni, e che quindi andrebbe
rieducato a una vita sociale normale, dedicata al lavoro, al rispetto delle
regole di una convivenza civile.
E' raro nella nostra civiltà, che nella sostanza rispecchia molti di quei
valori omerici, nonostante i duemila anni di cristianesimo, vedere qualcuno
criticare il mito di Ulisse, ovvero riprendere le critiche di Sofocle
(Filottete) ed Euripide (Ecuba), e anche di Filostrato (Eroico),
approfondendole ulteriormente.
Eppure l'umanità di Ulisse è un inganno e dovremmo liberarcene, cioè non
dovremmo lasciarci più sedurre dalla sua personalità accattivante, come lui
non si lasciava sedurre dal canto delle sirene, perché Ulisse non è un
modello da imitare, ma un cattivo esempio per chi vuole fuoriuscire
dall'antagonismo sociale. Le sue disavventure non possono più indurci a
giustificare il suo egocentrismo, il suo maschilismo, e tutte le debolezze
connesse a questi vizi capitali, che dalla cultura della sua civiltà si sono
introiettati nel comportamento della sua persona.
Ulisse è un personaggio invivibile, è quello che ogni maschio vorrebbe
essere e che se vi riuscisse renderebbe impossibile la vita di società. Egli
rappresenta il tentativo di voler sopravvivere a se stessi, nonostante le
contraddizioni impongano una svolta verso il recupero di una dignità umana
autentica.
Neppure Penelope è in grado di riconoscerlo (e come avrebbe potuto dopo
dieci anni di guerra contro i troiani e dopo altri dieci di peregrinazioni?)
e ha bisogno di un segno tangibile, che però, guarda caso, è un'altra prova
di abilità: il letto scavato nell'ulivo, mentre a tutti gli altri dovrà dare
l'ennesima prova di forza. Ulisse non viene riconosciuto come uomo, ma come
artigiano e come militare. La sua personalità di uomo è da tempo scomparsa.
Penelope è in fondo la vera eroina (anch'essa molto irreale) che ha
sopportato per vent'anni l'egocentrismo del marito, solo che il suo
atteggiamento non fa storia, o meglio, non fa il "romanzo d'avventura", non
stimola la fantasia, non fa evadere nei sogni irreali. La sua figura non
appare chiaramente come un'alternativa a Ulisse, ma piuttosto come una forma
di ripiego.
Ulisse torna a casa non perché vuole rivedere la moglie e il figlio, ma
perché è stanco delle sue avventure. Torna a casa da vecchio, come se avesse
bisogno di farsi compatire o perdonare. La strage dei Proci non è forse
servita a tale scopo? Il suo modo di dimostrare la propria utilità è stato,
ancora una volta, quello di usare le armi e seminare morte e terrore. S'è
fatto perdonare e nel contempo ha fatto capire chi comanda di nuovo a Itaca:
di tutti i pretendenti e molestatori di Penelope sono due personaggi minori
avranno salva la vita. E così ha dato l'impressione d'essere tornato per
rivendicare una proprietà minacciata, di cui moglie e figlio costituivano un
mero accessorio 7.
In realtà Ulisse non può essere riscattato dal suo ritorno in patria, dalla
fedeltà coniugale affermata solo in ultima istanza, dall'amore dimostrato
nei confronti di un figlio che è cresciuto all'ombra della sola madre. Non
lo riscatta tutto ciò e neppure lo riscattano tutte le sue disavventure, che
lui in fondo ha cercato per dare un senso alla sua vita errabonda, vana e
vacua, e neppure il fatto ch'egli abbia dimostrato una indipendenza di
giudizio nei confronti della religione ufficiale: Ulisse ha un atteggiamento
troppo opportunista nei confronti degli dèi pagani falsi e bugiardi.
La vita di un uomo non può essere riscattata dalle disgrazie che avrebbe
potuto tranquillamente evitare, se avesse vissuto una vita più normale, o
peggio dagli ultimi cinque minuti in cui l'ha vissuta, accanto alla moglie e
al figlio, da vero marito e da vero padre, perché non saranno questi minuti
a porre le basi per un senso alternativo di umanità. Non a caso una leggenda
lo fa morire oltre le colonne d'Ercole, alla ricerca di nuove avventure e
giustamente Dante lo condanna all'Inferno (canto XXVI), non solo come
consigliere fraudolento, ma anche come uomo folle ed egoista che porta alla
rovina i suoi compagni, raggirati col miraggio d'una conoscenza illimitata
(che nella Commedia appare fine a se stessa, ma che nella realtà storica
diverrà occasione di saccheggi e devastazioni coloniali da parte dell'Europa
borghese).
Ulisse deve smettere d'esserci simpatico. Uno che non ha imparato altro che
a uccidere e mentire, uno che odia la cultura perché conosce solo l'uso
della forza e dell'astuzia quando la forza non basta, uno che maschera
dietro una serietà formale la propria superficialità, per quale motivo deve
occupare un posto centrale nella cultura del nostro tempo e soprattutto
nella cultura classica delle nostre scuole?

1 P.es. scannò Polissena, figlia di Priamo, sulla tomba di Achille per
esaudire un desiderio postumo di costui. Una delle cose più vergognose che
fece fu quella di far credere a Clitennestra che Achille voleva sposare sua
figlia Ifigenia; invece ne aveva bisogno il padre Agamennone per
sacrificarla ad Artemide.

2 Ulisse aveva un senso etico così relativo che quando ebbe necessità di
trafugare i cavalli di Reso e il Palladio, promise al soldato troiano
catturato, Dolone, un'alta ricompensa se li avesse aiutati, ma subito dopo
aver ottenuto quanto cercava chiese la testa di Dolone e le sue spoglie le
appese alla prua della sua nave. Nella stessa occasione, quasi pugnalò a
tradimento il compagno Diomede, che era riuscito a mettere le mani sul
Palladio prima di lui.

3 Tuttavia Ulisse quando si trattò di entrare in guerra contro Troia,
onorando così lo stesso patto che lui aveva richiesto di firmare, si finse
pazzo, e mentre stava arando la sabbia, Palamede tolse dalle braccia di
Penelope il piccolo Telemaco e lo adagiò davanti all'aratro, costringendo
Ulisse a fermarsi. Fu in quell'occasione ch'egli promise di vendicarsi di
Palamede, riuscendo a farlo lapidare proprio durante la guerra troiana, dopo
averlo fatto passare per un traditore (cfr Filostrato, Eroico).

4 A dir il vero esiste una versione sulla nascita di Ulisse che vede non in
Laerte ma in Sisifo suo padre, il quale, per vendicarsi dei furti di
bestiame che subiva da parte del nonno di Ulisse, Autolico, violentò la
figlia di quest'ultimo, Anticlea, mettendola incinta. Fu proprio Autolico
che mise a Ulisse il nome di Odisseo, che in greco significa "l'odioso".

5 Però volle a tutti i costi le armi di Achille, che invece sarebbero dovute
spettare ad Aiace Telamonio, che era riuscito a trascinare il corpo e le
armi di Achille dietro le linee. Aiace, umiliato da Ulisse, impazzì e si
suicidò.

6 Attenzione che in Ulisse la curiosità intellettuale non coincide
propriamente con l'esperienza culturale. Ulisse è refrattario alla cultura
(p.es., fece di tutto per eliminare Palamede, figlio di Nauplio, molto più
colto e geniale di lui).

7 Non dimentichiamo che Ulisse voleva sposare Elena, messa all'asta da suo
padre Tindaro, e che sposò Penelope solo perché squattrinato. Fu in
quell'occasione che chiese a tutti i principi Achei di firmare un patto di
alleanza per difendere l'onore di Elena anche dopo il matrimonio; e da qui
nascerà, formalmente, la guerra di Troia.

IL MITO DI CIRCE

Circe rappresenta la donna che, essendo stata tradita dall'uomo, vuole
sfruttare la carica erotica di cui è consapevole come arma di rivalsa per
schiavizzarlo.
Ma rappresenta anche la donna che, sotto la scorza del risentimento, cela un
animo generoso, disponibile a ripensare le proprie paure, capace di
rimettersi in gioco.

L'APPRODO SULL'ISOLA E L'INCONTRO DI ULISSE E COMPAGNI CON CIRCE

Dopo essere riusciti a evitare il primitivismo dei sardi Lestrigoni, Ulisse
e i suoi 46 compagni approdano all'isola Eea, presso il capo Circeo o in un
promontorio del Lazio, un tempo lagunoso. (1)
L'isola era abitata da Circe, figlia, secondo alcuni, del Giorno e della
Notte; secondo altri, del Sole e della Luna (Ecate) o della ninfa Perse,
"sorella germana di Aiete pericoloso"(137), "dea tremenda con voce
umana"(136). Aiete o Eeta fu padre di Medea e traditore degli Argonauti.
Secondo una leggenda Circe sarebbe stata innamorata di Glauco, senza esserne
corrisposta, perché egli amava Scilla, che Circe, per gelosia, cambiò in un
mostro marino, dopo avere avvelenato la fonte presso la quale i due amanti
erano abituati a ritrovarsi insieme.
Gran carattere, questa Circe "dai bei riccioli"(136, 220), che Omero e tutte
le leggende qualificano come "maga", perché così appariva, ad una società
non più "naturalistica", come appunto quella omerica, chiunque avesse grandi
conoscenze delle proprietà terapiche o venefiche di erbe e radici, di cui
l'isola peraltro era ricca.
Circe viveva in luoghi remoti, non civilizzati, "tra la fitta macchia e la
selva"(150), in un'economia basata sull'autoconsumo di prodotti della terra,
del mare, della cacciagione (156-186), anche se i suoi "bei riccioli" fanno
pensare a una donna dell'alta società, ma che in realtà nel contesto
indicano soltanto una simbologia standardizzata di "bellezza femminile".
Quando i compagni di Ulisse la incontrano scoprono che sapeva anche
"tessere" perfettamente (222), come Penelope, Calipso..., e che aveva una
"voce bella" quando cantava (221). Altrove si dirà che aveva conoscenze
anche nel campo della marineria, in quanto insegnò un nodo a Ulisse (VIII,
447-8): cosa d'altro canto spiegabile in quanto viveva in stretto contatto
anche col mare.
Ulisse e i suoi compagni approdano casualmente nell'isola, essendosi perduti
in mezzo al Tirreno, e quando la comitiva di 23 uomini, andata in
perlustrazione, s'accorge delle abitazioni costruite "con pietre
squadrate"(211) e "porte lucenti"(230) in cui viveva Circe (2), subito
rimane colpita da un fatto molto strano: i lupi e i leoni che vi fanno la
guardia sono del tutto mansueti.
Euriloco, che comandava la spedizione, s'insospettisce di questo ma anche
del fatto che, abituato a distinguere il sacro dal profano, abituato a
considerare la religione come qualcosa di specifico, di oggettivamente
determinabile e di sicuramente contestualizzabile in uno spazio urbano, le
"porte lucenti", tali perché rivestite di bronzo, gli sembrano essere
l'ingresso non di un palazzo residenziale ma di un tempio sacro, cioè di un
contenitore il cui contenuto gli pare estraneo.
Avendo perso la memoria di una religione i cui misteri altro non erano che
conoscenze naturalistiche, e temendo il contrasto tra ferocia innata e
mansuetudine acquisita da parte degli animali di guardia, decide di
rifiutare l'invito ad entrare fatto loro da Circe. Successivamente verremo a
sapere dallo stesso Euriloco che non erano animali feroci fatti diventare
mansueti dalla maga, ma uomini trasformati in docili bestie (433). Dalla
paura del confronto il pregiudizio: il passo, come si vede, è breve.
Lupi e leoni erano stati messi lì per scoraggiare i pavidi, per tenere alla
larga i curiosi. Sono mansueti a causa dei "filtri maligni" di Circe (213) -
scrive il misogino Omero -, ma a lei servono semplicemente come forma di
allarme: il fatto che si comportino esplicitamente come animali domestici è
indicativo della presenza di un carattere non ingenuo da parte dei marinai,
che avrebbero dovuto andarsene, vinti dalla paura, ma che invece, abituati
alle mille difficoltà di una vita travagliata, non si lasciano intimorire
più di tanto.
Il superamento di questa prova, unitamente al vociare roboante e corale con
cui la chiamano, è motivo sufficiente per fare agire Circe nel modo come
vedremo.
"Diamole una voce"(228) non vuol dire semplicemente "chiamiamola", ma
"facciamoci sentire", ed è frase detta da Polite, che qui stranamente Ulisse
definisce "il più caro e fidato tra i compagni"(225), pur avendo egli
affidato la missione a Euriloco, il quale non rimase fuori per paura ma
perché sospettoso di trame e inganni, proprio come Ulisse.
Polite invece qui rappresenta, in quanto "capo di forti"(224), il tipo
spaccone, lo smargiasso, che non si lascia impressionare né dalle belve che
in teoria avrebbero dovuto essere feroci, né dalla lucentezza di un portone
che avrebbe dovuto indicare la riservatezza di un luogo sacro (forse
dedicato ad Atena).
E' Circe che, vedendo questo, ha già capito con chi ha a che fare, memore di
amare esperienze passate: se quegli uomini vogliono entrare solo perché
vedendo una donna sola in un palazzo del genere pensano di poterla circuire
come vogliono, fare di lei oggetto del loro arbitrio, avranno - secondo una
felice legge del contrappasso, visibile anche laddove viene usato lo
strumento della "verga" - ciò che meritano.
Poiché sa cosa piace agli uomini: avere potere e godere, Circe offre loro di
sedersi su "troni e seggi"(233) e di cibarsi a sazietà con "formaggio,
farina d'orzo, pallido miele, vino di pramno"(234-5), cioè in sostanza una
dolce torta accompagnata con vino rosso e asprigno, facendo loro credere che
il "bello" deve ancora venire.
Circe sa di non potersi difendere in altro modo che con l'inganno: è troppo
grande la sproporzione tra la sua cultura, le sue forze, la civiltà ch'essa
rappresenta e il mondo del nemico che la circonda; l'uso stesso della verga
appare come un tentativo un po' puerile di dimostrare che dietro gli effetti
dell'infuso di bromuro si celava una sorta di magia.
Curioso che come conseguenza della trasformazione in porci, Omero ponga la
dimenticanza della "patria" (qui del tutto fuori contesto) e non la perdita
della virilità maschile, cadendo peraltro in palese contraddizione quando da
un lato dice che dovevano "obliare del tutto la patria"(235-6) e dall'altro
che avevano "la mente ben salda"(240).
La condanna in realtà era proprio questa, ch'essi dovevano sentirsi uomini
solo nella mente, mentre nel corpo erano diventati come eunuchi, anche se
simbolicamente trasformati in maiali. (3)
Euriloco, rimasto fuori, non può aver visto la metamorfosi ferina dei suoi
compagni; al massimo si era impensierito del fatto che non erano più tornati
indietro, e per questo s'era convinto che fossero tutti misteriosamente
morti. Qui ci sono due versetti che cozzano tra loro: il 244, ove si dice
che "in fretta tornò alla nave", col che il lettore può anche pensare
ch'egli avesse visto la suddetta trasformazione, e il 260, in cui al
contrario è scritto che "rimase a lungo a spiare" (con le porte serrate
"spiare" qui vuol dire semplicemente "attendere").
Sia come sia, è qui interessante il fatto che l'intrepido Euriloco, "simile
a un dio"(205), una volta ritornato alla nave, appaia come un codardo: Circe
l'aveva talmente terrorizzato, senza peraltro fargli nulla, ch'egli non ha
neppure la forza di riferire i fatti, e quando Ulisse gli chiede di
accompagnarlo sul posto, egli declina immediatamente l'invito temendo di
fare la stessa fine.
Non si tratta solo di un escamotage dell'autore di far risaltare l'eroismo
di Ulisse, nel confronto coi suoi compagni (sotto questo aspetto la cosa,
pur avendo un contenuto drammatico, appare quasi divertente), ma si tratta
anche del fatto che qui Euriloco rappresenta la coscienza moderna che teme
il passato o un presente non facilmente decifrabile e lo fugge senza
soluzione di continuità.
Egli ha paura che il passato prenda il sopravvento sul suo presente e
supplica Ulisse di lasciarlo sulla nave, cioè di non riportarlo in un luogo
e in un tempo le cui coordinate semantiche gli sfuggono completamente.
Ulisse insomma se la deve veder da solo con Circe.
Già all'inizio del VII secolo a.C., in seguito alla navigazione dei
Calcidici, l'Isola Eea viene identificata col Circeo. Le affermazioni di
Omero sono state avvalorate da altri storici, poeti e scrittori di scienze
naturali, come Esiodo nella sua Teogonia, Eschilo, Teofrasto,
Presudo-Scylax, Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Infine Strabone in età
augustea, il quale asserisce che al Circeo i sacerdoti mostravano sia il
sepolcro di Elpenore che la coppa di Ulisse e i rostri della nave. Nel libro
V° della "Geografia" egli scrive che "a 290 stadi da Antium c'è il monte
Circeo, che sorge come un'isola sul mare e sulle paludi. Dicono che sia
anche ricco di erbe... Vi è un piccolo insediamento, un santuario di Circe e
un altare di Atena; viene anche mostrata una tazza che, a quanto dicono,
sarebbe appartenuta ad Odisseo...".
Diversa era la conformazione delle dune che oggi dividono il mare dal lago
di acqua salmastra denominato "Lago di Paola". (mappa grotte)
Le dune, nel 3200 a.C., si distribuivano su due grandi linee parallele alla
costa di Sabaudia, come, in egual modo, erano le altrettante posizionate dal
lato della costa che separa San Felice Circeo da Terracina (quest'ultime
sono ormai scomparse e non esiste più alcun lago salmastro, ma ricchi
documenti fotografici ne avvalorano la passata esistenza).
Le file di dune più arretrate costituivano piccole catene di colline (nella
località Molella e Ceraselle si possono ancora oggi vedere dei piccoli colli
che si ramificano man mano che si estendono lungo la direttrice che porta
verso Sermoneta).
Queste colline erano ricoperte di lecci e sughere, come ancor oggi se ne
vedono in località "La Bagnara".
Le dune si univano sotto il monte Circeo collegandolo alla terra ferma con
una bassa lingua di sabbia. Era un fragile e sottile istmo, l'attuale
località "La Cona": il mare lambiva questa terra e la modificava ad ogni suo
cambiare di correnti. Per brevi periodi venivano asportate dai flutti le
sabbie rendendo periodicamente il promontorio un'isola.
Avvenne poi la definitiva saldatura con la creazione di due grandi
insenature, una di levante e l'altra di ponente, tanto che le stesse
rendevano al promontorio l'aspetto illusorio di un'isola.
Avvicinarsi troppo alla costa era un problema. Infatti la particolare
tecnica di navigazione e la tipologia delle vele delle fragili imbarcazioni
di allora, in caso di tempo cattivo, non permettevano di doppiare il Monte
Circeo, tanto che molti si schiantavano sulle sue coste. Fu proprio per
risolvere questo problema che i Romani costruirono un canale interno che
evitava il periplo del promontorio.
Il porto di Paola doveva servire come approdo di emergenza da utilizzare per
lo stretto necessario. Dopo il cattivo tempo, rimanere a lungo in questo
porto poteva essere rischioso per il pericolo dell'occlusione dell'accesso
al golfo a causa del depositarsi di sabbie.
Esistono inoltre delle strutture, denominate "Ciclopiche", individuate in
lunghi muraglioni (in parte ormai scomparsi di cui ne rimane traccia di
fondamenta), con spessore di vari metri. Queste strutture discendono dai
versanti del promontorio del Circeo per collegarlo al versante marino di
Levante e alla pianura Pontina (scavalcando la collina di Monticchio),
nonché per unire gli estremi apicali opposti del Promontorio.
Ulisse, partendo dalle sponde del lago di Paola, seguirà i larghi
muraglioni, attraversando le colline di lecci e sughere per giungere, dopo
aver superato il fiume di Mezzo Monte, sul Promontorio del Circeo.
Potenzialmente l'antica città dei Circei doveva essere abitata ancora dai
suoi costruttori che periodicamente diminuivano di numero, in quanto
dovevano badare alle greggi che stagionalmente facevano transumare nei
vicini monti al di là della pianura Pontina.
Rimaneva a guardia della rocca un gruppo di uomini, forse comandati da una
regina o sacerdotessa. Questo nucleo suppliva alla sua ridotta entità
numerica con l'astuzia e l'approntamento di trappole, l'uso delle quali, da
parte di un popolo comandato da una regina-sacerdotessa, rimase impresso tra
i navigatori di allora, quali Fenici e Greci.
Si raccomanda anche la lettura di questo file: Lo spazio marittimo del
Mediterraneo occidentale in età romana: geografia storica ed economia
(pdf-zip). [2] Il palazzo ha fatto pensare alle strutture delle regge
micenee, ma anche ad antichi monumenti di tipo religioso (dolmen?). [3] Il
farmaco narcotizzante o paralizzante di Circe (225-6) è simile a quello
usato da Elena (IV, 219-30) e lo si pensa proveniente dall'Egitto.
Il "fermo" o "duro dovere"(273) che impone a Ulisse di andare - da solo - a
recuperare i compagni, non è che un mix di responsabilità nei confronti dei
suoi subordinati e di spirito d'avventura, la ricerca di emozioni forti, la
curiosità di misurarsi con un nuovo pericolo, di mettersi alla prova. (1)
L'incontro con Ermes (Mercurio), protettore dei ladri e dei mercanti, servo
fedele e anzi figlio di Zeus, è significativo, perché qui Ermes rappresenta
il rivale n. 1 di Circe, colui che le ha già prospettato la fine sicura dei
suoi poteri, l'inutilità della sua resistenza (331).
Ulisse sa avvalersi dei nemici di Circe, specie di quelli che conoscono bene
il territorio in cui essa opera: una conoscenza che è scienza delle cose
evolute, opposta alla magia, all'animismo o alla conoscenza del mondo
naturale data da tradizioni secolari. (2)
Ermes non ha paura di Circe perché conosce l'antidoto alle sue erbe
paralizzanti e nel contempo presume di possedere una visione religiosa
superiore a quella naturalistica di lei, sebbene sia, la sua, una visione
"di primo pelo, la cui giovinezza è leggiadra"(279), cioè una visione per
così dire "neonata", che ha bisogno di tempo per imporsi e che comunque sa
riconoscere in Ulisse un validissimo supporto.
L'eloquente Ermes, colui che conduce le anime dei morti sino alla barca di
Caronte, non ha una spada ma una "verga d'oro": egli infatti è la neovisione
intellettuale e individuale che, per imporsi, ha qui bisogno della volontà
forte di un eroe. Ed è proprio lui che, per primo, svela a Ulisse che i suoi
compagni sono stati narcotizzati, metaforicamente trasformati in maiali.
Mentre con la vicenda di Polifemo si era in presenza di uno scontro globale
di civiltà: mercantile-schiavistica da un lato, agricolo-pastorale
dall'altro, qui invece lo scontro è di un solo elemento di quelle civiltà:
la religione, impersonata da una donna, che è antica, ancestrale,
primordiale, la cui cultura deve essere superata da una nuova religione, più
astratta, più ambigua, più moderna, in quanto ha come scopo la
legittimazione di rapporti sociali fortemente antagonistici.
Ulisse, non essendo ateo coerente, dichiarato (come Prometeo che, guarda
caso, fu incatenato proprio da Ermes), non può vincere da solo la forza di
Circe; essendo un uomo formalmente religioso, cioè devoto alla religione dei
potenti, anche se nella pratica è artefice di inganni, ha necessariamente
bisogno di un alleato, che, quanto a scaltrezza, simbolicamente gli
somiglia.
Pur essendo un giovincello, Ermes è già abbastanza smaliziato, com'è giusto
che sia nelle civiltà più avanzate; pertanto non ha difficoltà, conoscendo
le umane debolezze, a mettere in guardia Ulisse dalle provocazioni erotiche
di Circe, che si difenderà invitandolo a giacere con lei (296). Potrà sì
accettare il suo letto (297), ma a certe condizioni, quelle per cui riuscirà
ad ottenere i compagni sani e salvi.
Tuttavia questo, di coricarsi con lei, era stato il desiderio anche dei suoi
compagni: dunque perché lui sì e loro no? Per il semplice motivo che qui il
"saggio" Omero insegna che il passato va superato rispettandolo formalmente:
non ci può essere rottura violenta.
I compagni d'Ulisse s'erano comportati in maniera precipitosa, irruente; lui
invece, che è astuzia per antonomasia, non avrà bisogno che del proprio
self-control, non gli servirà neppure di sguainare la spada, gli basterà
minacciare di farlo: gli argomenti per vincere saranno altri.
Da notare che esistono interessanti sfumature tra ciò che gli chiede di fare
Ermes e quanto Ulisse effettivamente farà. Ermes dice testualmente: "lei
impaurita t'inviterà a coricarti; tu non rifiutare, né allora né dopo, il
letto della dea, perché i compagni ti liberi e aiuti anche te. Ma imponile
di giurare il gran giuramento dei beati, che non ti ordirà nessun altro
malanno: che appena nudo non ti faccia vile e impotente"(296-301).
Ora, posto che per un tipo come Ulisse la fedeltà coniugale doveva essere un
valore alquanto relativo, indubbiamente gli sarà apparsa con un certo favore
la prospettiva di potere ottenere da Circe quanto desiderato semplicemente
andandoci a letto. Tuttavia, ciò che più stupisce, ma sino a un certo punto,
è che qui Ermes fa passare Circe per una ninfomane o, se si preferisce, per
una prostituta di lusso (e c'è chi l'ha scambiata per la tenutaria di un
bordello da marinai), anticipando per così dire il fatto ch'essa deciderà di
liberare i compagni solo dopo aver soddisfatto la propria libido. E siccome
Ermes presume di conoscere le debolezze dell'uomo "civilizzato" e di Ulisse
in particolare, lo invita a chiedere a Circe il solenne giuramento. Vedremo
però che Ulisse si comporterà diversamente.
Il farmaco-antidoto che Ermes suggerisce a Ulisse di mangiare non era che
una pianta officinale del Circeo, già conosciuta dagli antichi romani: il
suo nome, "moly", indica semplicemente un'erba dalla radice nera e dal fiore
color latte. Era chiamata così dagli dèi (305), perché qui deve apparire
chiaro che se Circe possiede la conoscenza dei poteri della natura, non può
però competere con la nuova civiltà che avanza, basata sulle scienze e le
arti e soprattutto sull'astuzia e sull'inganno. Ulisse sa più cose di quanto
lei possa immaginare e può persino ucciderla.
Anche Circe è dea, ma limitata nei suoi poteri: "gli dèi invece possono
tutto"(306).


[1] Prima di questo episodio Ulisse è sì rammaricato quando perde qualcuno
dei suoi compagni, ma certamente non esita a trascinarli con sé nel
pericolo, anche quando questo è perfettamente evitabile (come nel caso
dell'incontro con Polifemo), proprio allo scopo di dimostrare, come esigenza
vitale irresistibile, la sua superiorità sotto ogni aspetto. Tuttavia Ulisse
non ha mai avuto occasione di salvare i suoi compagni da una situazione
pericolosa ormai compiuta, nella quale lui stesso non sia causa o concausa.
In questo episodio non è stato lui ad aver trascinato loro nei guai, ma il
contrario, sicché qui viene rappresentato l'eroe che rischia la vita per il
bene dei suoi compagni. (torna su)
[2] Da notare che quando Ermes scenderà dall'Olimpo per parlare con Calipso
avrà prima consultato gli altri dèi e agirà per volere di Zeus; in questo
episodio invece troviamo un Ermes assai poco definito e molto irreale. Non è
tipico degli dèi omerici, e dell'Odissea in particolare, apparire
all'improvviso, apparentemente senza una ragione, per aiutare un personaggio
o un eroe. Qui la figura di Ermes è quindi un espediente narrativo per far
sì che Ulisse riesca a superare la sua "prova".
Vi è comunque una certa differenza di stile tra l'Ulisse che attribuisce le
proprie vittorie al favore degli dèi, anche se in definitiva se la cava con
la propria astuzia, e questo Ulisse, un po' fiabesco, che sarebbe finito
richiuso in un porcile se non avesse ricevuto un aiuto privilegiato dal
cielo.
A dir il vero tutto l'episodio di Circe sembra immerso in un'atmosfera
fiabesca, che forse riprende tradizioni secolari di narrazione orale di
favole con al centro maghe e incantesimi. Il che non significa che non vi
sia un fondo di realtà vera.

Circe, al vedere Ulisse superare l'inganno grazie all'aiuto di Ermes, chiede
di congiungersi con lui perché spera di poterlo "raggirare" con l'ultima
chance che le è rimasta: "saliamo sul letto, perché congiunti nel letto e in
amore ci si possa l'un l'altro fidare"(334-5).
Ma Ulisse non cede al ricatto sessuale, perch'egli domina i sensi con
l'astuzia dell'uomo che prima deve salvaguardare l'interesse: "Come puoi
chiedermi d'essere mite con te, che nella casa m'hai fatto maiali i
compagni, e qui tenendomi adeschi anche me, insidiosa, a venire nel talamo
sopra il tuo letto, perché, appena nudo, mi faccia vile e impotente? Sul tuo
letto io non voglio salire, se non acconsenti a giurarmi, o dea, il gran
giuramento che non mediti un'altra azione cattiva a mio danno"(337-44).
Nella seconda sequenza abbiamo creduto di ravvisare una sottile differenza
tra quanto richiesto da Ermes e quanto invece messo in pratica da Ulisse.
Alla richiesta di Ermes di cedere, previo giuramento, al ricatto sessuale
per la liberazione dei compagni, Ulisse darà un'interpretazione leggermente
diversa: "Lei giurò subito come volevo... allora io salii sul bellissimo
letto di Circe"(345-7).
In pratica Ulisse accetta l'invito di giacere con Circe prima ancora che i
compagni siano stati liberati, semplicemente con la promessa, sotto
giuramento, che lei non avrebbe tramato altri inganni a suo danno. Nel
consiglio di Ermes vi era invece la liberazione dei compagni, anzitutto,
come motivazione dell'amplesso.
Qui, a proposito del giuramento, delle due l'una: o Ulisse impone a Circe un
giuramento che non appartiene alla cultura di lei, sacerdotessa sicuramente
più "laica" del "servo fedele" Ermes, per farle capire che se l'avesse
trasgredito la vendetta sarebbe stata terribile; oppure le chiede un
giuramento antico, che per Circe aveva un valore assai maggiore di quelli
che si facevano ai tempi di Ulisse.
Il giuramento in questione veniva comunque pronunciato chiamando a testimone
il Cielo, la Terra e lo Stige, cioè valori in cui, a parte l'ultimo, anche
Circe avrebbe potuto credere.
In effetti lo Stige, il fiume infernale, nel nome del quale gli dèi
pronunciavano i loro giuramenti, sembra essere una categoria appartenente
più alla cultura di Ermes, con cui questi chiede a Ulisse di sottomettere
Circe.
Uno spergiuro faceva decadere gli dèi, per un periodo di cento anni, dal
dono privilegiato della divinità. Sulle rive di questo fiume, Caronte
prendeva in consegna dalle mani di Mercurio le ombre ch'egli, poi, dallo
Stige sospingeva, sulla sua barca, nell'altro fiume infernale, l'Acheronte.
Si può quindi supporre che in quel giuramento vi fosse in realtà
un'ammissione di sconfitta culturale di Circe non solo nei confronti di
Ulisse ma anche nei confronti di Ermes, suo principale rivale.
Comunque nella letteratura antica troviamo molti esempi che ci testimoniano
l'importanza della pratica del giuramento. Il fatto stesso che garanti del
giuramento fossero gli dèi, la dice lunga sulla difficoltà che una cultura
naturalistica e agro-pastorale come quella rappresentata da Circe potesse
sopravvivere nel confronto, anche violento, con la nuova cultura emergente
di Ermes e, qui, del suo emissario, Ulisse, entrambi esponenti di una
cultura urbana, mercantile, individualistica...
Non dimentichiamo che anche Ermes faceva addormentare o risvegliare gli
uomini con la sua verga e che conduceva le anime nell'Ade, cioè in un
inferno non meno avvilente del porcile della maga. La religione di Circe è
indubbiamente più primitiva: la sua magia è legata ai segreti della natura e
non a una rappresentazione intellettuale dell'oltretomba, con cui i
sacerdoti del mondo ellenico potevano spaventare gli sprovveduti o illudersi
di tenere a freno i potenti.
Ma la cosa più interessante di questa sequenza è che Ermes ha avuto bisogno
di Ulisse per imporsi su Circe, non avendo le sue qualità fondamentali, a
testimonianza che nell'area geografica in cui è ambientata la vicenda, i
valori culturali non erano stati ancora così profondamente alterati dai
rapporti schiavistici e mercantili tipici della società ellenica.
Ulisse infatti è il "multiforme", il "versatile"(330), l'uomo rotto a ogni
esperienza, disposto a tutto pur di primeggiare, ma capace di farlo con
astuzia, lungimiranza... A lui non basterà neppure fidarsi della parola
data, come vedremo nella sequenza successiva.
Circe dispone di quattro ancelle che qui, invece di apparire come "schiave",
vengono definite come "ninfe", in quanto nate da "boschi, fonti, fiumi". Le
loro funzioni sono tipiche della servitù domestica.
Circe non sembra qui disporre di serve come frutto di un bottino di guerra,
e Omero, per il quale una qualunque forma di servizio domestico è
necessariamente legata all'istituto della schiavitù, preferisce rendere
misteriosa la provenienza di queste ancelle piuttosto che ammettere una
società diversa da quella in cui lui era vissuto.
A parte questo, ciò che qui non si riesce a comprendere è se il rito del
bagno purificatore e il pranzo precedano l'atto sessuale o lo seguano,
considerato che al v. 347 Ulisse ricorda d'essere salito "sul bellissimo
letto di Circe" appena questa fece la solenne promessa di non macchinare
contro di lui.
La domanda è legittima, perché nel primo caso Ulisse apparirebbe più vicino
all'uomo comune, con le sue debolezze, mentre nel secondo caso, visto che il
bagno prosegue col rifiuto del pranzo, Ulisse apparirebbe come un uomo
integerrimo, preoccupato anzitutto del dovere di liberare i compagni dalla
schiavitù.
Ha dei risvolti quasi comico-erotici tale questione, in quanto, ad un certo
punto viene detto che il bagno ristoratore tolse all'eroe "la snervante
fatica"(363), che pare sia quella di un amplesso con una donna da troppo
tempo digiuna.
L'erotismo sta nel fatto che non sembrano essere le quattro ancelle a lavare
Ulisse, ma la stessa Circe, almeno stando a quanto si deduce dal v. 361: "mi
fece sedere nella vasca e me la (l'acqua versò dal gran tripode... m'ebbe
lavato e unto con olio copiosamente, mi gettò un bel manto e una tunica
indosso, mi guidò e fece sedere su un trono..."(361-6).
E' solo a questo punto che Ulisse di nuovo parla esplicitamente di
un'ancella (368) che "gli versa dell'acqua da una brocca... perché mi
lavassi" - come se un uomo appena uscito dalla vasca avesse bisogno di
lavarsi le mani per sedersi a tavola...
Questo rimescolio ambiguo di atti e funzioni, su cui si insiste compiaciuti,
con particolari osé, è strumentale all'ideazione di un'atmosfera magica, per
la quale l'ascoltatore o il lettore di questi versi doveva sicuramente
provare piacere. Un costrutto ammiccante del genere sarebbe stato
impensabile in un testo cristianamente ispirato.
Forse si può presumere che i versetti relativi all'ancella che gli versa
l'acqua invitandolo a lavarsi siano stati aggiunti proprio per attenuare il
livello piccante di una descrizione in cui la protagonista è la stessa
Circe.
Questi versi infatti sono contraddittori a quello (364) in cui viene detto
che l'eroe fu "lavato e unto con olio copiosamente", avverbio, quest'ultimo,
che lascia immaginare più di quanto dica.
E' difficile dire se la richiesta di liberare i compagni dalla schiavitù sia
precedente o successiva al rapporto sessuale di Ulisse con Circe.
Qui i tempi, ovvero la sequenza delle azioni, potrebbero anche avere un
certo peso nel determinare la psicologia dell'eroe, la sua scala di valori.
Non sarebbe infatti stata la stessa cosa vederlo chiedere quella liberazione
dopo un certo tempo passato tra le braccia della maga, e vederlo invece
porre come condizione dell'amplesso proprio quella liberazione.
E' intanto possibile anticipare che Ulisse e i suoi compagni rimasero con
Circe per più di un anno e, secondo una leggenda, egli ebbe da lei un
figlio, chiamato Telegono. Costui, successivamente, sarebbe stato mandato da
Circe alla ricerca del padre, che, dopo l'approdo a Itaca, non s'era fatto
più vedere nell'isola di Eea (a parte il breve soggiorno di XII,1-141); e,
senza saperlo, Telegono sarebbe sbarcato proprio a Itaca, dove avrebbe
saccheggiato l'isola insieme ai suoi compagni, imitando, in questo, le gesta
di chi l'aveva generato.
Assalito ad un certo punto da Ulisse e da Telemaco, avrebbe ucciso lo stesso
Ulisse, dopodiché, per ordine di Atena, avrebbe sposato Penelope, da cui
avrebbe avuto Itaco, fondatore di Tuscolo e di Preneste (ma altre leggende
sostengono che non ci fu alcun matrimonio e che il fondatore di Tuscolo fu
lo stesso Telegono).
Una versione, questa, che viene per così dire incontro alla tesi di un
ennesimo risentimento, peraltro giustificato, che Circe provò nel momento in
cui, dopo essersi concessa nonostante le numerose delusioni, dovette
nuovamente subire l'amarezza dell'abbandono.
Amarezza tanto più grande quanto più si considera che le parole che lei gli
dice (378-381), con "soave voce" o "alate parole", standogli a fianco, sono
indubbiamente qualcosa di molto poetico, che lascia presumere un'intesa
forte di coppia, come se le due rispettive intelligenze e sensibilità non
avessero avuto bisogno di molto tempo prima di intendersi.
Circe parla come se Ulisse fosse già divenuto il padrone di casa, l'amante
fedele, l'amico fidato, il partner da lei sempre desiderato.
In realtà Ulisse è troppo pieno di sé per potersi fermare in un medesimo
luogo ed amare chi gli sta vicino. La richiesta di ritrovare la patria nasce
in realtà dall'insoddisfazione di una vita non abbastanza movimentata.
Non a caso quando tornerà a Itaca, il suo volto, il suo stesso corpo saranno
talmente sfigurati che stenteranno a riconoscerlo. Sarà il ritorno di un
uomo senza pace, sconfitto dalla sua stessa ansia di vivere, dalle sue
insondabili contraddizioni. Ulisse non può amare nessuno perché ama solo se
stesso, che è un sé vuoto di vero contenuto umano.
La richiesta di liberare i compagni s'interseca, qui come altrove, con la
sua insoddisfazione per la vita in generale, con la sua incapacità a vivere
relazioni stabili, normali. Egli sembra già essere stanco di Circe, al punto
che non vede l'ora di andarsene. Il fatto è però che le esigenze narrative
dell'episodio impongono coerenza con la trama apologetica di questo eroe (di
carta).
Quando Circe ritrasforma i porci in esseri umani vien detto, stranamente,
che gli animali erano di "nove anni"(390), cioè piuttosto anzianotti, e che
i marinai tornarono "più giovani di come erano prima, e molto più belli e
più grandi a vedersi"(395-6). Evidentemente avevano riacquistato la virilità
perduta.
E' comunque da escludere che dal primo amplesso con Circe alla richiesta di
liberare i compagni sia passato molto tempo, poiché l'altra metà della
ciurma lo attendeva al largo. E quando lo vedrà ritornare saranno tutti così
contenti - scrive Omero - come se fossero già arrivati a Itaca (415 ss.). Il
che fa appunto pensare che un certo tempo dovette essere trascorso.
Non solo, ma è evidente che se Ulisse ha preteso la liberazione dei compagni
come condizione per restare sull'isola per non più di un certo tempo, il suo
scopo era quello di far innamorare Circe di lui, o comunque quello di far
credere che lui lo era di lei, e anche questo, naturalmente, per essere
dimostrato, avrebbe richiesto del tempo.
Interessante è notare che Circe per la prima volta qualifica con
l'appellativo di "astutissimo"(401) il laerziade solo dopo che questi le
aveva chiesto di liberare i compagni, i quali, in seguito, gli moriranno
tutti, a testimonianza che Ulisse non nutriva nei loro confronti una stima
superiore o anche solo uguale a quella che nutriva nei confronti di se
stesso.
I suoi compagni d'avventura sono tutte comparse mediocri, scarsamente
caratterizzate sul piano psicologico e che nel complesso hanno una funzione
strumentale all'esaltazione delle sue virtù individuali.
In questo libro X l'unico vero compagno di Ulisse è Circe, nei cui confronti
egli si deve sforzare di trovare delle giustificazioni almeno formalmente
etiche, per potersi "liberare" di lei e riaffermare così il proprio
egocentrismo.
Circe, che qui rappresenta il rifiuto di una civiltà più "moderna" della
sua, vive in una sorta di riserva naturale, lontana dal mondo cosiddetto
"civilizzato", arroccata in una specie di fortilizio, in cui cerca di
portare avanti un'ultima disperata difesa.
Tutto sommato Omero è piuttosto indulgente nei confronti di questa
"amica-nemica" del protagonista, che presenta molti lati affascinanti,
capaci di giustificare l'atteggiamento remissivo di Ulisse e che, se fosse
stata di sesso maschile, probabilmente avrebbe ricevuto un trattamento meno
riguardoso.
In effetti Circe non è una figura come le altre, è un personaggio centrale
del poema (più di 700 versi le vengono dedicati), in quanto rappresenta la
possibilità di una sintesi, di una mediazione, nello scontro tra le due
civiltà rivali. E' lei che spiegherà a Ulisse come comportarsi nell'Ade, per
interrogare Tiresia, come agire con le Sirene, come difendersi da Scilla e
Cariddi, come comportarsi nell'isola di Trinacria dove pascolano le mandrie
eterne del Sole, che lei conosce bene, essendo figlia stessa del Sole.
Circe toglie a Ulisse gli atteggiamenti violenti, vendicativi, maschilisti e
Ulisse fa uscire Circe dall'isolamento, riconciliandola con la nuova realtà
ch'egli stesso, insieme ad Ermes, rappresenta.
Tuttavia, e su questo Omero difficilmente avrebbe potuto transigere, Circe
non ha la forza di trattenere Ulisse, perché Ulisse non può essere
trattenuto da nessuno, essendo egli l'archetipo di una civiltà senza pace,
che insegue la pace come appagamento della sete di dominio, di conoscenza,
di avventure, in cui poter misurare le proprie risorse, fisiche
intellettuali morali.
Ulisse è colui che sospetta la presenza di "inganni"(380): Circe lo conosce
di fama ed ora ha la conferma di quanto egli sia incredibilmente
"astuto"(401). Lo è talmente tanto ch'egli non si fida neppure del
giuramento che da lei ha preteso, la quale, proprio per questo, non può che
rimproverarlo; al che Ulisse ribatte dicendo d'essere sì convinto che lei
non voglia più raggirarlo, ma al tempo stesso di non essere del tutto
persuaso che il giuramento abbia un effetto positivo sui compagni che
languiscono nel porcile.
Cioè in sostanza Ulisse non riesce a dare per scontata l'efficacia estensiva
del patto con la maga e vuole per così dire mettere nero su bianco.
Volendo restare fedele al suo clichè di uomo accorto sino all'inverosimile,
Ulisse deve continuare a sospettare, perché il "sospetto" e non tanto
l'astuzia è il leit-motiv del poema. E' proprio questa caratteristica
psicologica dominante che rende Ulisse un personaggio modernissimo.
Essendo abituato a vedere il prossimo come un potenziale nemico, Ulisse era
diventato un maestro nel tendere tranelli, nel tramare complotti e terribili
vendette. Il suo atteggiamento ha fatto ricche le classi mercantili e le
strategie politico-militari di ogni epoca e latitudine.
Anche Circe è una donna sospettosa, ma perché vorrebbe rimanere quel che è,
strettamente legata al proprio passato. A differenza di Ulisse, che è sempre
in "posizione di attacco" e tutto quello che tocca subisce spesso radicali
trasformazioni, Circe si pone invece sulla "difensiva", anche se qui gli
eventi la portano a un ripensamento notevole della propria concezione di
vita.
La liberazione dei compagni di Ulisse dalla schiavitù (dei sensi) comporta
infatti una grande metamorfosi, che non riguarda soltanto il loro aspetto
fisico, di nuovo umano e ringiovanito, ma anche la coscienza morale della
maga, poiché se nei compagni il pianto liberatore ha la funzione di
esprimere chiaramente gioia per il "corpo" ritrovato, in lei invece ha come
una funzione catartica, di liberazione dal pregiudizio anti-maschile, di
riconciliazione morale col sesso opposto, che va oltre l'attrazione fisica,
che pur essa provava per Ulisse, intenzionata com'era a volerlo sposare (IX,
31-32).
Tant'è che appena liberati i compagni, propone a Ulisse di andare a prendere
gli altri e di restare tutti ospiti della sua reggia. E' evidente ch'essa
può aver pensato alla porcilaia come arma di ricatto contro eventuali
ripensamenti da parte di Ulisse a suo danno. Ed è altresì evidente il suo
timore di perderlo, ora che ha voluto soddisfare quello che per lui era il
desiderio principale.
Ma Circe è una "gran signora"(394), sia nei poteri della conoscenza che
nella profondità d'animo, qui testimoniata dalla commozione interiore. E'
capace di rischiare una soluzione a lei sconveniente perché in fondo sa come
rispettare la libertà umana.
Dopo la liberazione dei compagni, Ulisse avrebbe anche potuto rifiutare
l'ospitalità e la sostanza del racconto sarebbe rimasta inalterata.
Egli non aveva un debito di riconoscenza nei confronti di Circe, benché qui
l'accettazione dell'ospitalità, e per così tanti mesi, lasci supporre
ch'egli provasse nei suoi confronti una certa attrazione.
Circe era riuscita a "persuadere il cuore superbo"(406) di Ulisse, a
raddolcire, coi suoi modi gentili, il suo "animo altero", fiero d'aver
ottenuto tutto quanto s'era promesso. Una qualche trasformazione morale era
avvenuta anche in lui.
Ed Euriloco, che qui rappresenta la coscienza intransigente, schematica, lo
mette sull'avviso, ma inutilmente: Ulisse aveva già deciso di restare ospite
di Circe.
Il diverbio tra Euriloco e Ulisse è particolarmente significativo, poiché
forse per la prima volta qualcuno dell'equipaggio ha il coraggio di dire
quello che pensa dell'"impavido Ulisse"(436), il temerario irresponsabile
che aveva portato a morte alcuni compagni nell'antro di Polifemo.
Praticamente Euriloco, qui suo rivale, stava minacciando un ammutinamento.
Tuttavia Omero - ovviamente per non smentire la tesi che il suo eroe è
intoccabile, in quanto al di sopra di ogni critica - dirà che sarà proprio
Euriloco a dare ai suoi compagni il consiglio più funesto di tutta la
spedizione: quello di uccidere le vacche sacre (XII, 340 ss.), che in
pratica vorrà dire violare delle tradizioni religiose consolidate usando lo
strumento della forza. Un consiglio che porterà tutti inesorabilmente a
morire.
Qui intanto il permaloso Ulisse, che non tollera osservazioni sul proprio
operato (specie se fatte in pubblico), sarebbe pronto a far fuori il suo
stretto parente se le "dolci parole"(442) dei compagni non lo facessero
desistere e accettare l'idea che Euriloco resti a guardia della nave.
Ma Euriloco, che ben conosceva lo spirito vendicativo di Ulisse, la sua
"terribile furia"(448), alla fine cede e prende a seguirli.
Le parole di Circe, alla vista del secondo pianto dei compagni di Ulisse,
testimonia una grande saggezza e sobrietà: standogli vicino, chiede al suo
amato che la si smetta di lasciarsi così tanto condizionare dagli affanni
patiti e dalle offese subite, e si provveda a rifocillarsi, a rinfrancarsi
con cibo e vino, per guardare avanti e tornare a vivere una nuova vita.
E' così persuasiva che Ulisse non può fare a meno di considerarla come una
"dea risplendente"(455), molto "chiara" nel suo parlare. Virgilio provvederà
a costruire sulla falsariga di questa donna il personaggio di Didone.
Circe mostra d'aver capito molto bene l'origine del dolore di quei
guerrieri-marinai: "non avete mai l'animo in pace, perché molto avete
sofferto", a causa dell'"aspro mare"(464-5) e degli "uomini ostili"(459).
Tuttavia, se tale interpretazione del dolore si addiceva bene alla
psicologia di quei navigatori, sinceramente desiderosi di tornare a casa,
risultava ancora insufficiente per un personaggio complesso,
contraddittorio, psichicamente instabile come Ulisse.
Qui è evidente che Circe, pur essendo consapevole che la loro origine è nel
Mediterraneo orientale, propone loro di restare per sempre con lei,
ricostruendosi una nuova vita.
Ora spera che non si ricordino più del loro passato, non come prima, usando
droghe soporifere, ma in virtù di una vita sicura, serena, lontana dai
pericoli della cosiddetta "moderna civiltà". Circe propone loro di vivere
un'esistenza più "naturale" e meno "artificiosa".
I marinai e soprattutto Ulisse si lasciano sulle prime convincere: gli uni
perché stanchi di peregrinare a vuoto, l'altro perché vuole misurarsi anche
in questa esperienza, verificando sino a che punto sarebbe in grado di
resistere lontano dall'antagonismo, dai contrasti tipici delle società
divise in classi, ceti, stirpi contrapposte.
E' singolare che in questo frangente, ad un certo punto, non sia Ulisse a
chiedere ai compagni di riprendere il cammino, ma il contrario.
Si ha come l'impressione ch'egli si fosse trovato così bene con Circe che
forse sarebbe stato anche disposto a dimenticare patria e famiglia. Ma non
bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze.
Anzitutto perché quand'egli le chiede di lasciarli andare, fa riferimento a
una promessa di lei (483), che non si evince dal contesto del libro, per cui
si deve presumere sia stata fatta privatamente.
La stessa richiesta di partire dall'isola, per fare ritorno in patria, viene
fatta privatamente dal solo Ulisse, mentre tutti i suoi compagni dormono
profondamente (479).
Ulisse prese una decisione di comune accordo con tutti i compagni, ma per
non ferire la sensibilità di Circe, la comunicò a quest'ultima come se fosse
stata una sua iniziativa e come se lei dovesse fargli un ultimo piacere.
Evidentemente Ulisse si sentiva in colpa, ma voleva far capire a Circe che
la decisione era stata presa solo da lui, forse al fine di evitare ogni
possibile ritorsione a danno dei compagni. Egli sapeva bene di essere amato
da Circe e che questa, per amore, non gli avrebbe negato nulla.
La comitiva era consapevole di avere un debito di riconoscenza nei confronti
della maga, in quanto li aveva ospitati per più di un anno, e, per tale
ragione, nessuno si sarebbe arrischiato di tradire le sue aspettative.
La chiusa di questo libro è evidentemente posticcia, in quanto serve per
giustificare il comportamento strumentale di Ulisse, che si è servito
dell'ospitalità di Circe per rimettersi in sesto e riprendere con maggior
vigore il viaggio di ritorno.
Una leggenda posteriore allo stesso Omero vuole che Circe lasci andare
Ulisse perché quest'ultimo ha un compito molto importante: quello di entrare
nel regno dei morti per sapere, dall'indovino Tiresia e dalla madre
Anticlea, il futuro che l'attende. Col che egli sembra qui anticipare,
vagamente, i racconti non meno mitologici delle apparizioni del Gesù
post-pasquale, nonché le sue discese agli inferi.
In realtà Ulisse non sa qui che pesci pigliare e visibilmente cerca di
arrampicarsi sugli specchi, attribuendo ai suoi compagni un'esigenza che
invece è tutta sua. Il fatto che ne voglia parlare a Circe privatim
testimonia proprio della sua paura di non poter reggere apertamente il
confronto con loro.
E Circe, che non è certo stupida, anche questa volta è costretta a
rivolgersi a lui con l'epiteto che meglio lo qualifica: "astutissimo"(488),
e lo rassicura di nuovo con "chiaro" linguaggio: "non restare più in casa
mia contro voglia"(489).
Si rivolge a lui direttamente, senza usare il plurale maiestatis, perché sa
bene che il "problema" è più del suo amato che dei suoi compagni. E non è un
problema relativo alla patria o alla famiglia, ma alla sua stessa instabile
identità, che trova pace solo nel conflitto, soddisfazione solo nel
pericolo.
A questo punto Omero ha buon gioco nell'attribuire alla stessa Circe l'idea
della partenza, come se lei già si aspettasse una richiesta del genere, e
sulla base di una motivazione molto impegnativa: il viaggio nell'Ade, toglie
Ulisse dall'imbarazzo di dover giustificare il proprio egocentrismo. E'
Circe che indica a Ulisse la meta da seguire, come nessun altro personaggio
del poema sarà mai capace di fare.
Fondamentali sono i versetti 496-98: "a me si spezzò il caro cuore: piangevo
seduto sul letto e il mio cuore non voleva più vivere e vedere la luce del
sole".
Ulisse si trova in questa lacerazione interiore perché da un lato non ha
motivazioni plausibili per lasciare Circe e Telegono, dall'altro non può
tergiversare col proprio egoismo da eroe insoddisfatto, insaziabile
d'avventure, che gli impone appunto d'andarsene.
Qui la psicologia è fine, perché Ulisse non è affatto intimorito dalla prova
che l'attende, ma semplicemente imbarazzato dalle pulsioni del proprio
individualismo, che devono tener conto in qualche misura del bene ricevuto.
Tant'è che ad un certo punto pone una domanda che chiarisce bene il suo vero
stato d'animo: "chi lo guiderà questo viaggio?... non arrivò mai nessuno da
Ade". Cioè Ulisse non si preoccupa più di tanto dei sentimenti di Circe, di
ciò ch'essa provava per lui, ma piuttosto di sapere come organizzarsi per
intraprendere una nuova avventura, in cui forse avrà il privilegio d'essere
il primo in assoluto.
La sua sensibilità, la sua psicologia è quella di uno schiacciasassi: i
movimenti sono lenti, studiati, calcolati nei particolari, ma inesorabili.
Sotto il suo peso, tutti i sassi sono uguali.
E quanto sia astuto è ben visibile anche laddove, con fare molto
diplomatico, racconta l'atteggiamento ch'ebbe nei confronti dei suoi
compagni: "li incitai con dolci parole stando accanto a ciascuno: - Non
cogliete più il dolce sonno, dormendo, ma andiamo: me l'ha consigliato Circe
possente".
Il che contraddice visibilmente quanto già affermato prima da Omero, secondo
cui furono i suoi compagni a redarguirlo del fatto che presso Circe stava
godendosi la vita dimenticando il dovere di tornare in patria.
Ora invece si ha l'impressione che Ulisse debba convincerli di nascosto, uno
per uno, e che riesca ad ottenere il loro consenso dopo non poche
difficoltà. Tant'è che mentre questi vengono presentati come disposti a
tornare a casa, Ulisse invece brama una nuova avventura: incontrare Tiresia
nell'Ade.
Sarebbe forse un'ipotesi inverosimile sostenere che intorno all'improvvisa
morte di Elpenore, che, stando alla versione ufficiale, sarebbe caduto dal
tetto perché ubriaco vi era andato a riposare, vi è la mano di Ulisse? Il
dissidio tra lui e i compagni non poteva forse aver raggiunto livelli
insostenibili, specie in considerazione del fatto che ogniqualvolta Ulisse
voleva intraprendere una nuova missione, il rischio per i suoi compagni era
sempre quello di morire?
Il testo dice, ad un certo punto, che i compagni cominciarono a "piangere" e
a "strapparsi i capelli", proprio come prima Ulisse, solo che questi,
essendo un leader che vuol farsi rispettare, non può che affermare
perentorio: "nessun vantaggio però gli veniva piangendo". E' l'epilogo della
sua doppiezza.
Mentre se ne vanno piangendo verso la nave dalla chiglia nera, Circe, di
nascosto, vuol lasciar loro un ricordino: "un montone e una pecora nera",
perché non si dimentichino di lei.
La chiusa omerica è altamente poetica: "un dio che non voglia, chi potrebbe
vederlo con gli occhi mentre va qui o là?"(573-4).
Quei due animali non erano che un simbolo della relazione tra i due
protagonisti: l'uso religioso che lui avrebbe dovuto farne è un altro
discorso.

L'ARTE DA CRETA A MICENE
Dal suo inizio l'arte pre-greca riceve l'influsso dall'Oriente.
L'arte cretese (o minoica) e micènea, nei palazzi di Cnosso e di Festo,
rivela caratteristiche tipicamente orientali, forse grazie ai fenici,
intermediari tra le due civiltà, che apportarono all'occidente ancora
barbaro, la religione e l'arte assira ed egiziana.

La civiltà cretese si estende dal 2000 a.C. al 1500 a.C., mentre quella
micènea dal 1500 a.C al 1000 a.C.



 Della prima il suo centro è l'isola di Creta, dove regnò il leggendario
Minosse.

In architettura troviamo il palazzo di Cnosso (capitale dell'isola),
scoperto dall'inglese sir Evans all'inizio del secolo XX, che era la reggia
di Minosse e che fu chiamato, dalla leggenda greca, il labirinto, dove
viveva rinchiuso il cosiddetto Minotauro.
Il palazzo di Festo, scoperto dagli italiani Halbherr e Pernier, ugualmente
all'inizio del secolo XX.

I due palazzi furono distrutti da un incendio, verso il 177 a.C. ricostruiti
vennero nuovamente distrutti verso il 1300 a.C. Hanno un gran cortile
centrale dal quale si accedeva alle abitazioni (a Cnosso sono 500) ed ai
magazzini, circondato da portici a pilastri e colonne. Molto importante è la
ceramica e la pittura parietale al fresco, che decora i palazzi con colori
accesi, la cui tematica rappresenta uomini e donne dell'epoca, animali e
vegetazione.


 Della cultura micènea sono le mura e la Porta dei Leoni a Micene e le mura
e il palazzo fortificato di Tirinto. Si sono trovate anche tombe a cupola e
oggetti d'oro (il tesoro di Atreo).

Salvo la Porta dei Leoni la scultura manca totalmente, forse si trattava di
sculture di legno che il tempo distrusse.

La ceramica occupa un posto di primo piano, dai colori bianco o rosso su
fondo nero per poi passare ai colori scuri (marrone o nero) su fondo chiaro.

ARCHITETTURA, PITTURA E SCULTURA IN GRECIA

Architettura, pittura e scultura in Grecia si definivano con il termine
'tecnè' (dal quale deriva la nostra tecnica), che i romani identificarono
con 'ars'.

Ubbidiva a determinate regole, come categorie permanenti ed assolute. Non
esisteva la differenza che facciamo noi tra arte e artigianato, tra arte e
tecnica.

Architettura greca

Il tempio è il principale monumento architettonico greco, che era la dimora
del dio, dove solo il sacerdote poteva entrarvi, mentre i fedeli si
riunivano fuori del tempio.

I primi templi di legno si sono perduti, e i resti dei primi costruiti in
muratura risalgono al secolo VI a.C. e si dividono in due parti: il prònaos
(vestibolo) e il naòs (cella del dio). Dietro il naòs v'era l'epistodomo
(atrio posteriore), nel quale si custodiva il tesoro della città.

Il tempio era costruito su file di colonne, doriche con fusto e capitello
piatto, senza base. All'inizio le colonne erano lisce, poi con scanalature
verticali, affinché non sembrassero piatte. Lo stile corinzio appare durante
l'epoca ellenistica, ed ha un capitello con volute ricoperto da foglie
d'acanto.

Il tetto era di legno, a due spioventi, rivestito di lastre di terracotta,
sopra le colonne v'era la trabeazione (che includeva l'architrave o
epistilio, il fregio e la cornice), al centro il frontone con decorazione
scultorea policroma anche nelle mètopi.

Il tempio dorico era semplice, nudo, severo, e secondo i greci rappresentava
il principio maschile.

I templi dorici del VI secolo più importanti sono: quello di Heraiòn di
Olimpia, in Grecia e quello di Posidonia, vicino a Salerno.

Del secolo V, in Grecia, troviamo i seguenti templi: Tesoro degli ateniesi a
Delfi, Tempio di Egina al Pireo, Tempio di Zeus in Olimpia, il Partenone (o
tempio della dea vergine - Athena Parthenos), di marmo pentèlico, costruito
dagli architetti Ictino e Calicrate e decorato dallo scultore Fidia, durante
l'epoca di Pericle, che fece ricostruire l'Acropoli d'Atene, incendiata e
distrutta per ben due volte dagli invasori persiani.

Quest'ultimo ha 8 colonne di fronte e l7 ai lati, la cella è divisa in tre
navate con altre file di colonne, la cella principale conteneva la
gigantesca statua crisoelefantina (oro e avorio) di Atena, di Fidia.

Per correggere l'illusione ottica i lati del frontone sono leggermente
concavi e non retti, affinché da lontano appariscano retti. La prima e
l'ultima delle otto colonne frontali sono collocate un po' più vicine alla
seconda e penultima, affinché appariscano tutte a uguale distanza se viste
da lontano, anche le pareti esterne del tempio sono un po' inclinate verso
l'interno affinché sembrino rette da lontano.

Anche le colonne hanno un éntasi (specie di rigonfiamento nel centro) per
farle apparire più alte e snelle.

Successivamente il Partenone fu trasformato in chiesa ortodossa dai
bizantini, poi in moschea e in polveriera, durante la dominazione turca;
assediata Atene dai veneziani fu bombardata dal Morosini.

Importanti sono anche il tempio di Teseo (o di Efesto), il tempio di Apollo,
il tempio di Tegea, e in Italia il tempio di Siracusa, il tempio della
concordia ad Agrigento, ed altri.

Lo stile jónico, più piccolo, elegante, più esile, slanciato e decorativo,
con base e capitello con volute, era considerato dai greci come
rappresentante dello stile femminile.

I più importanti sono: tempio di Apollo Dìdimo a Mileto, tempio di Diana ad
Efeso, il Mausoleo de Alicarnasso nella Caria, l'Altare di Pérgamo, i
Propìlei all'ingresso dell'Acropoli di Atena, costruiti dall'architetto
Mnesicle, che conteneva una pinacoteca, il tempio di Athena Nikè, l'Eretteo
con le famose cariàtidi in sostituzione delle colonne.

Scultura greca

Le sculture primitive del secolo VIII al VI erano di legno (xoàna) e si sono
perdute, ma sono giunte a noi quelle di pietra o marmo, come la statua di
Nicandro.

L'evoluzione della scultura si divide in periodo geometrico, arcaico
primitivo, arcaico avanzato, classico ed ellenistico.

Gli stili sono tre: il dorico schematico e rozzo; lo jonico, delicato e
dettagliato nei particolari; l'attico, che è una fusione dei due stili.

La tematica era la seguente: figura maschile nuda (Apòllini o kùroi), la
parte destra della scultura era quasi uguale a quella sinistra (simmetria),
se non per una gamba un po' avanzata e un braccio alzato, come l'Apollo di
Sunio e il Moscòforo (che rappresenta il dedicante Rhombos che sostiene un
vitello sulle sue spalle: questa immagine fu ripresa dai primitivi cristiani
simbolizzando Cristo, come il buon pastore).

Figura femminile vestita (kòrai=ragazze), raffigurante le dedicanti vestite
di gala, come le numerose kòre trovate negli scavi dell'Acròpoli d'Atene.

In queste sculture si notano ancora influssi orientali, come gli occhi a
mandorla, la simmetria corporale, la staticità, la rigidità anatomica, la
frontalità.

Mentre nel periodo classico appare il profilo greco, il movimento e la
ondulazione plastica e ritmica delle forme, l'equilibrio e l'armonia.

Mirone (500?-450?), principalmente bronzista, preferisce il verismo e cerca
di captare il movimento. Di lui ci è pervenuta la copia romana del Discòbolo
(e solo un frammento del corpo originale) e la copia romana di Marsia.

Policleto (470-400?) appartiene allo stile dorico e reagisce al verismo,
preferendo idealizzare le sue figure, cercando di captare l'essenziale e la
sobrietà dei suoi nudi, creati in accordo a proporzioni geometriche, che
fissò nel suo trattato 'kànon'. Abbiamo la copia romana del suo Dorìforo,
giovane atleta, una copia greca del Diadùmeno, un atleta che si cinge il
capo con la benda della vittoria e una copia romana d'una Amazzone.

Fidia (490-?): uno dei massimi artisti della storia dell'arte, appartenne
alla scuola àttica, contraria al verismo; le sue figure sono sobrie ed
essenziali e mostrano una calma olimpica e maestosa, serena e dignitosa.
Sono sue le sculture del Partenone, la statua di Atena Pàrtenos di 12 metri
di altezza, di cui restano solo due statuette, copie più o meno fedeli. Lo
Zeus Olimpico, ugualmente colossale statua crisoelefantina di 14 metri
d'altezza, anche questa andata perduta. Numerose sono le opere che ci sono
giunte e che risentono l'influenza di Fidia, come le cariatidi dell'Eretteo.

Prassìtele (390-340). Alla serenità olimpica e al perfetto controllo
emozionale di Fidia, Prassìtele reagisce con i suoi nudi delicati che
rivelano espressioni languide e trasognate. Ci sono pervenute tre opere
originali: le lastre di Mantinea, l'Ercole col piccolo Dioniso e la testa di
Eubuleo. Quindi le copie romane di Apollo Sauròctonos, dell'Afrodite di
Cnido,

Skopas (390?-340), scultore attico che reagisce allo stile di Fidia, ma
conservando la saldezza dei corpi e dando ai volti espressioni passionali ed
alterate. Opere originali o copie sono la statua di Meleagro, le sculture
del Mausoleo di Alicarnasso, sculture del tempio di Athena Alea in Tegea.
Molte altre risentono la sua influenza, tra le quali la copia della famosa
Venere di Milo.

Lisippo (370-300?) reagisce agli stili di Policleto e di Prassìtele,
rivelando nei volti, ed anche nei corpi, un realismo nervoso. Dei suoi
bronzi ci sono giunte solo copie ellenistiche e romane, come l'Apoxyòmenos,
l'Agìa di Delfi, Eros che tende l'arco, Poseidòn in riposo, Ercole farcese,
Erma di Alessandro in Grande, il Sarcòfago di Sidone, ed altre.

La scultura ellenistica, dal secolo IV al I, diventa eccessivamente
realista, con profusione di particolari, accentuazione dei sentimenti, delle
passioni, dei gesti. Si preferiscono i gruppi statuari con temi allegorici,
mitici, come Tyche di Antiochia, il Nilo, la Vittoria de Samotracia, la
Vittoria di Archernos, l'Apoteosi di Omero, Gruppo di Niobe e dei niòbidi,
il Gàlata moribondo, il Gàlata che, dopo aver ucciso la sua compagna, si
suicida per non cader prigioniero, il gruppo di Menelao e Pàtroclo, gruppo
del Laocoonte, il Toro Farnese, il Bambino che strozza un'oca, il Vecchio
pescatore, e vari ritratti, Centauri, Satiri, Sileni, Fauni e animali
diversi.

Pittura greca

La pittura greca si è perduta completamente, sebbene si conoscano i nomi dei
pittori famosi come Polignoto, Apelle, Protògene, Zeusi ed altri, e inoltre
sono arrivate fino ai nostri giorni una quantità di ceramiche che ci danno
un'idea di quello che doveva essere l'autentica pittura:

Pittura vascolare

Periodo Arcaico

Stile geometrico (IX-VII): vasi dipinti in fasce orizzontali con temi
geometrici. Eccezione: ceramica àttica (Dipylon), che combina lo stile
geometrico con figure di uomini ed animali. Le figure sono nere su fondo
chiaro.

Stile naturalista (VII-VI): vasi decorati con figure di uomini e animali.
Figure nere sul fondo rosso dell'argilla.

Periodo Aureo (V-VI)

Predominio dello stile attico. Figure rosse su fondo nero. Alcuni vasi sono
policromi.

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