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STORIA DI ROMA ANTICA

STORIA DELL'ANTICA ROMA

Romolo e Remo

STORIA DI ROMA ANTICA

Introduzione
Lo Stato sorge dalla necessità di un gruppo sociale di organizzarsi per tenere sotto controllo l'intera struttura della società. Ciò che è decisivo e primario è sempre la produzione. Non appena sorgono differenze sociali (di classe o di casta) sorge lo sfruttamento, che determina la natura dell'epoca: "the particular form of exploitation ultimately determined the whole structure of society". Le necessità e la fisionomia della produzione decidono delle forme politiche, sociali, culturali e ideologiche prevalenti. In questo senso occorre ricordare che le forze produttive sono sempre specifiche di un modo di produzione: "ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo entro e mediante una determinata forma di società" non si tratta di un rapporto meccanico, di "recipiente" (rapporti di produzione) a "contenuto" (forze produttive), ma dialettico. Lo Stato, i rapporti tra le classi, sono assieme parte dei rapporti di produzione ed espressione delle forze produttive. Per mantenere la pace sociale e allargare l'estensione del proprio dominio, la classe o casta dominante si serve della forza militare, a cui in ultima analisi si riduce ogni Stato. La forma militare è un riflesso della forma sociale che la produce. Questo si vede con estrema chiarezza nelle trasformazioni che hanno avuto gli eserciti delle città Stato greche e poi di Roma. In questo scritto descriveremo le due vie attraverso cui l'umanità superò la società gentilizia: il modo di produzione antico (schiavile) e il modo di produzione asiatico. Quest'ultimo ha un particolare interesse storico e politico. Infatti, sotto il profilo storico, si tratta di una formazione sociale in cui la nascita dello Stato precede quella delle classi. Sotto il profilo politico, lo studio di questo modo di produzione può fornire alcune indicazioni sull'estinzione dello Stato nella società postcapitalista. L'umanità ha vissuto per gran parte del suo tempo in società senza classi, senza Stato e senza proprietà privata all'interno di strutture tribali e familiari in cui era garantita una piena e sostanziale uguaglianza sociale. Le antiche strutture gentilizie si dissolsero attraverso due vie: la nascita delle classi (come in Grecia e in Italia); la cristallizzazione di alcune loro caratteristiche in una formazione sociale nuova, il modo di produzione asiatico. In un primo tempo, il marxismo ha analizzato esclusivamente l'esperienza "europea" di nascita dello Stato, e con un errore di prospettiva storica l'ha considerata il caso "generale". Col tempo si è capito che la transizione allo Stato avvenuta in Europa (e forse in Giappone) è abbastanza rara mentre il modo asiatico è la norma. Nella storia la situazione tipica è rappresentata da una struttura in cui una casta e non una classe fa sorgere lo Stato. D'altronde, le classi sociali in un certo senso esistono solo nel capitalismo, l'unico modo di produzione in cui i rapporti sociali sono puri, non "contaminati" da aspetti religiosi, etnici, ideologici. Non solo, ma la funzione produttiva della classe determina nel capitalismo ogni altra sua caratteristica, soprattutto nel campo dei rapporti politici. Le classi sono classi in campo economico, politico, sociale. Lo Stato è il capitalista collettivo. Questa simbiosi si rompe quando lo Stato assume una forma bonapartista, ovvero quando l'espressione politica del dominio borghese si estrania dal controllo della classe capitalista e diviene un potere autonomo avente lo scopo di riportare l'ordine nella società. Nell'epoca antica, lo Stato ha quasi sempre connotati bonapartisti, in quanto è più indipendente dalla sua struttura sociale, e non c'è piena coincidenza tra classi economiche, sociali e politiche. Ad esempio gli schiavi sono una classe economica (producono plusprodotto), ma non politica. L'indipendenza della casta dominante, che fa sorgere lo Stato, dalle classi produttive, è maggiore ecc. Il percorso più o meno comune dei popoli del Mediterraneo prima della storia antica è questo: tribù nomadi si appropriano di un territorio (spesso con la forza). Laddove la terra è più fertile, la crescita della popolazione spinge all'allevamento e all'agricoltura. All'inizio si tratta di attività svolte su proprietà collettive (seppure in modalità diverse: i tre "casi" analizzati da Marx nelle Forme che precedono la produzione capitalistica). La proprietà della terra è comune ma il possesso a volte è privato. Col tempo, si sviluppa una casta di gestori delle terre collettive (perché queste devono essere attribuite, o perché ve ne sono di nuove); inoltre, all'espandersi del villaggio, il capo militare acquista un peso crescente: la guerra diviene un attività decisiva per lo sviluppo delle forze produttive. Infatti, il basso sviluppo tecnico, se unito ad una crescita demografica, rende l'espansione territoriale una condizione di sopravvivenza della comunità. C'è una tendenza ineliminabile di queste due caste (sacerdoti, guerrieri) ad estraniarsi dalla proprietà collettiva per farne una proprietà individuale. In questo senso, il modo di produzione asiatico o "palaziale" ha una tendenza a farsi feudale. Ciò che lo distingue, tra le altre cose, dalla società schiavista classica è che in tale contesto il lavoro schiavile non ha mai un peso preponderante. Gli schiavi per debiti o i prigionieri di guerra, sono aiutanti di chi lavora la terra o domestici. Il modo di produzione asiatico ha attraversato la storia di ogni paese. In alcuni durando pochi secoli, in altri giungendo fino alle soglie dell'epoca contemporanea. Le modalità con cui si passa dal modo di produzione asiatico alla società antica da cui nasce lo Stato di tipo greco-romano sono diverse. Vi si conservano vestigia "asiatiche" più forti in alcune zone, impercettibili altrove. Ad esempio, in Attica l'invasione dorica portò alla fusione con le popolazioni preesistenti con la completa scomparsa dei villaggi gentilizi, base del modo di produzione asiatico. A Sparta, l'oligarchia dorica dominava una popolazione di servi che coltivava terreno pubblico, come poi accadrà con la plebe romana: "Gli Spartiati, tra i quali era diviso il terreno coltivato dagli iloti, non attendevano che ad attività militari". Il caso particolare di Sparta deriva dal fatto che l'invasione dorica non portò alla fusione con le popolazioni autoctone ma alla loro totale e permanente sottomissione. Gli Spartiati erano collettivamente proprietari di tutta la terra coltivata dagli iloti, un residuo della società asiatica che spiega l'arretratezza politica e culturale di Sparta ma anche il fatto che gli Spartani fossero gli unici guerrieri professionisti dell'Ellade, il che era anche necessario, dato che le dure condizioni degli iloti producevano continue rivolte. In tutti i casi, l'evoluzione delle strutture politiche gentilizie verso società "statali" avviene a partire dalla democrazia assembleare classica, tipicamente con l'emergere di un gestore della proprietà collettiva e un capo militare. Il nomadismo cede a poco a poco alla più produttiva vita stanziale. Ben presto sorge la necessità di superare le condizioni produttive date (appropriazione semplice) e nasce un vero modo di produrre queste condizioni, principalmente tramite l'agricoltura e dunque i canali per l'irrigazione. Questo conduce alla strutturazione sociale: senza centralizzazione niente irrigazione. I lavori pubblici implicano una casta di tecnici. La guerra implica un capo. Il processo aggregativo conduce a città Stato che conquistano le regioni limitrofe creando imperi, pur con tempistiche molto diverse. In Egitto si costituiscono presto due regni poi unificati da un re assistito da un corpo di funzionari. In Mesopotamia troviamo invece ancora a lungo città Stato che poi evolvono verso l'impero (Sargon sembrerebbe essere stato il primo imperatore vero e proprio). In Grecia le città Stato resistono, pur nella forma di leghe e con il predominio di Atene o di altre città, sostanzialmente fino all'ingresso nella storia ellenica della Macedonia e in realtà, sino alla conquista romana. L'evoluzione verso la gestione della proprietà pubblica da parte di una casta avviene in tutti i luoghi. Solo che in alcuni questo conduce rapidamente alla nascita di classi e dunque a uno Stato classista (come quello greco), mentre in altri paesi l'evoluzione viene come congelata dal basso livello di sviluppo delle forze produttive, e il modo di produzione asiatico sopravvive fino a quando non si scontra con una società più avanzata, tipicamente il capitalismo. Come detto, il ruolo della guerra è decisivo nello sviluppo di questo modo di produzione. Gli imperi come quello persiano avevano un esercito fatto di popoli soggetti, mercenari ecc., gente che era in qualche modo al di fuori del tessuto sociale, ad eccezione della cavalleria o dei carri, di pertinenza nobiliare. Questo permetteva lunghe campagne lontano dalla propria città, guerre di conquista. Ma è chiaro che un simile esercito non poteva sorgere in Grecia. Le poleis non avevano infatti popoli soggetti, né erano così ricche da reclutare miliziani. Inoltre, armare gli schiavi (peraltro pochi) era assai rischioso. Non rimaneva che reclutare gli stessi cittadini per la difesa dello Stato. Per secoli, la guerra tra le città Stato si ridusse ad uno scontro di falangi oplitiche di durata assai limitata e di conseguenze (in termini di morti e feriti) ridotte. Le guerre persiane cambiarono tutto. La democrazia greca, ovvero il dominio dei latifondisti per il tramite di assemblee popolari, si dimostrò assai più vitale dell'autocrazia orientale. Gli opliti sconfissero eserciti dieci volte più numerosi. Per quanto riguarda Atene, la sua ampia democrazia può farsi risalire essenzialmente all'importanza della flotta (e dunque alla massa di cittadini necessari per la navigazione). Ad ogni modo, le guerre persiane dimostrarono quanto la società greca fosse superiore al modo di produzione asiatico: l'esercito permanente, per necessità nutrito dal surplus creato da altri, e dunque insieme causa ed effetto della guerra permanente, si dimostrò inferiore al popolo in armi, così come il metodo di selezione dei quadri militari (politici che dopo la guerra tornavano ad essere oratori o addirittura a coltivare la terra come Cincinnato, rispetto ai nobili persiani). Ma anche nella polis, quando le campagne belliche cominciarono a durare anni, il condottiero e l'oplita divennero soldati di professione e addirittura mercenari (si pensi all'Anabasi di Senofonte, ai precettori spartani di Annibale). Questo pose le basi per la crisi delle democrazie oplitiche greche e romane. Il modo di produzione asiatico invece, rimase pressoché immutato nei secoli e nei millenni conservando le sue caratteristiche. 1. L'umanità prima del modo di produzione asiatico Per la stragrande maggior parte del suo tempo, da che è divenuto un animale cosciente attraverso il lavoro associato, l'uomo ha vissuto in formazioni sociali prive di qualunque gerarchia sociale o sessuale, dove la divisione del lavoro tra i sessi o la presenza di un capo non comportava l'accumulo di alcun privilegio. Usando le definizioni di Engels, la storia dell'uomo prima della società divisa in classi può suddividersi così: a) Stato selvaggio l'uomo si stacca dagli altri ominidi; vive di raccolta e di caccia di piccoli animali in orde di ridotte dimensioni che all'inizio non sono molto diverse dai branchi degli altri primati. Le sue capacità produttive si sviluppano con la scoperta del fuoco e l'uso di armi più efficienti; questo permette la sua diffusione per tutta la Terra. In questo periodo, ad eccezione di grandi scoperte (come il fuoco), la vita procede senza cambiamenti, nella completa eguaglianza sociale. b) Barbarie lo sviluppo delle forze produttive comincia con l'allevamento e la coltivazione delle piante nei luoghi in cui ciò è possibile (Mesopotamia, ecc.). Qui avviene la prima grande differenziazione dell'umanità: i popoli di pastori si accrescono di numero spingendo le tribù di cacciatori in terre sempre peggiori. In seguito, l'agricoltura permette un aumento della densità della popolazione di dieci e anche cento volte. Ad essa si aggiungono le altre innovazioni che accompagnano l'ultima fase della barbarie: la fusione del ferro, la scrittura alfabetica ecc. Come ormai noto, l'agricoltura porta con sé, oltre al formidabile aumento delle forze produttive, nuovi rapporti di produzione, nuove relazioni tra gli uomini, inevitabili proprio per questo aumento. La donna, forza-lavoro ormai di secondo piano, viene ridotta a madre e domestica, i costumi sessuali si fanno rigidi. Sorge un'ideologia a difesa della famiglia monogamica. L'alimentazione basata, dapprima su animali nutriti a cereali, in seguito direttamente sui cereali, peggiora enormemente la salute della popolazione. Gli agricoltori sono bassi e malati, i cacciatori, alti, forti e sani. Ma gli agricoltori sono molti di più e i cacciatori sono sterminati o cacciati. La pastorizia portò con sé due elementi decisivi: la proprietà individuale e uno stabile sovrappiù. Queste due cose resero conveniente e inevitabile la subordinazione di altri uomini (e contestualmente delle donne) per badare ai greggi (che producono un sovrappiù "naturale" con la nascita di nuovi animali, il latte, ecc.). Sorse il diritto patriarcale, il potere del pater familias divenne assoluto. Le donne e i servi vennero gradualmente esclusi dalla vita pubblica, dalla politica, dalla cultura. L'accudimento della prole, un tempo l'aspetto decisivo della vita pubblica, divenne una questione privata, al di fuori dell'economia pubblica. Fu questa l'ultima epoca della società gentilizia, che abbracciò un lungo periodo di tempo e che condusse, attraverso le due distinte modalità prima citate, al sorgere dello Stato. La democrazia gentilizia, basata sull'autogoverno dei produttori in assenza di qualunque tipo di coercizione, lasciò il posto a strutture gerarchiche. La crisi della gens venne causata, come ogni altra crisi di una società, dal successo produttivo dell'uomo. Tradizionalmente, la gens occupava un territorio ed era un'unità combattente, con il nome di un animale (totem). Lo sviluppo della popolazione condusse al moltiplicarsi dei membri della gens che diedero così vita a scissioni in gens madri e in diverse gentes figlie confederate tra loro (fratrie); l'ulteriore passo fu la fusione di queste fratrie in una tribù. La lega delle tribù fu lo stadio massimo di sviluppo della società gentilizia, così come vediamo con gli indiani d'America o con le popolazioni barbariche europee. A questo livello di sviluppo non si dava ancora uno Stato. La terra era proprietà comune della tribù, non vi erano differenziazioni sociali degne di nota, tutti erano ancora liberi ed eguali, anche le donne; non si conosceva la schiavitù. Questo sistema ha retto per secoli, e in alcuni luoghi per millenni, ma lo sviluppo della società conduceva inevitabilmente verso la sua fine. Il suo punto debole era la mobilità territoriale. Se una gens potesse occupare a tempo indefinito lo stesso luogo, e se la popolazione variasse di poco, tutto procederebbe immutato (non per nulla questa è la situazione delle società gentilizie scoperte dall'uomo bianco negli ultimi secoli in Amazzonia, Africa, ecc.). Ma che succede se nel territorio della gens vivono non gentili? All'inizio, quando sono una piccola minoranza, li si può ricondurre all'interno della gens. Ma quando cominciarono a essere la maggioranza ciò non poté più essere fatto. Ecco che da quel momento i gentili appaiono una minoranza di privilegiati con diritti politici (gli eupatrides romani) di fronte alla massa della popolazione di "nuovi venuti". Allo stesso modo, è proprio lo sviluppo delle forze produttive a mettere in crisi la gens. L'allevamento e l'agricoltura si prestano ad una appropriazione privata: nasce prima il possesso e poi la proprietà individuale, nasce la famiglia monogamica. Sorge un surplus che può essere scambiato al di fuori della gens, la guerra diviene conveniente, i capi militari sono sempre più importanti. In definitiva, "la gens aveva vissuto. Essa venne distrutta dalla divisione del lavoro che spartì la società in classi e fu sostituita dallo Stato". Lo Stato fornì alla classe economicamente dominante i mezzi politici per preservare ed allargare i propri privilegi economici. Questa è la storia di Roma e di Atene. In altre zone invece, si mantennero strutture comunitarie sulle quali si innestò una casta. Tale secondo sviluppo (in realtà comune anche a Roma ed Atene, seppur per breve tempo) è il modo di produzione asiatico. Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche 2. Il modo di produzione asiatico. Storia e caratteristiche essenziali Con la differenziazione sociale nasce la necessità di difendere le proprietà di alcuni, i loro privilegi, escludendone tutti gli altri: nasce lo Stato, nascono la legge, i tribunali, gli eserciti. La divisione del lavoro pone anche la necessità di un coordinamento mediato del lavoro sociale: la moneta, i prezzi, il mercato. Questo è quello che accade in occidente. Ma il surplus precede la nascita delle classi. E, in realtà, non sempre la generazione di surplus è indice di sfruttamento. Può ben darsi una società in cui il plusprodotto è gestito dalla comunità a fini sociali. Ma, allo stesso tempo, lo sfruttamento non è necessariamente innestato sui rapporti di produzione; può invece derivare dal ruolo politico, dal "potere funzionale" di una casta. Si può dare sfruttamento al di fuori dei rapporti di produzione (o meglio lo sfruttamento nasce al di fuori dei rapporti di produzione, che contribuisce a creare). Questa è la base del modo di produzione asiatico. Qui lo Stato nasce da una funzione produttiva o da una conquista militare: la difesa delle terre coltivate dalle tribù gentilizie, la difesa dell'ager publicus (difesa militare ma anche sviluppo produttivo con i lavori pubblici). In occidente, accanto all'ager publicus si sviluppano rapporti di produzione basati sulla proprietà individuale, mentre in oriente l'attività individuale rimane marginale rispetto alla proprietà fondiaria collettiva. In definitiva, il modo di produzione asiatico nasce su villaggi pressoché gentilizi, ma sulla base dello sfruttamento politico di questi villaggi da parte della burocrazia statale. Le comunità primitive, insieme unità di produzione e di consumo, sono tutte uguali. Per questo lo scambio, la divisione del lavoro e la moneta restano insignificanti. Il lavoro astratto e concreto non si distinguono, dato che non c'è compravendita di forza-lavoro e il lavoro è immediatamente sociale. D'altra parte la proprietà fondiaria comune, base della produzione asiatica, è costitutiva del modo di produzione asiatico: il divieto di compravendita della terra rigoroso. Quando inizia, lo scambio è tra famiglie, tribù, non tra individui, l'accumulazione non è privata. La forma "naturale" di esistenza dell'uomo è nella sua comunità immediata. Lo Stato requisisce il pluslavoro e lo trasforma in palazzi, piramidi, canali. Il modo di produzione asiatico è la trasformazione qualitativa del comunismo rurale in una società di classe. La storia del concetto di modo di produzione asiatico nasce da alcune considerazioni di Marx sulle riflessioni che la cultura europea, da Hegel ai filosofi francesi e inglesi, facevano sull'asiatismo come forma congenita e arretrata di esistenza dei popoli orientali. In un primo periodo, come si è accennato, gli stessi fondatori della concezione materialistica della storia svilupparono una analisi storica abbastanza lineare. Alcuni passi di Marx potrebbero essere ascritti a questa visione, come il famoso brano della Prefazione a Per la critica dell'economia politica in cui Marx enumera i modi di produzione come una sequenza lineare[8]. Ma già negli anni '50 gli studi antropologici permettono a Marx ed Engels di fare passi avanti. Marx è particolarmente interessato a stabilire come in occidente si è giunti dalla proprietà collettiva al capitalismo attraverso i diversi modi di produzione. Il modo di produzione asiatico appare a Marx come una delle vie per cui la società gentilizia viene dissolta e la studia soprattutto "per differenza", per capire perché non ha dato luogo al capitalismo. Così facendo scopre che non esiste una sequenza lineare di stadi storici (anche per via della legge dello sviluppo diseguale e combinato) e che la storia dei diversi modi di produzione è assai più dialettica di quanto quell'elenco potrebbe dire. Scopre anche che il modo di produzione asiatico si estese ben oltre quanto si era supposto in precedenza: "è una menzogna storica che questa proprietà collettiva sia mongolica. Come accennai diverse volte nei miei scritti, essa è di origine indiana e si riscontra perciò presso tutti i popoli civili europei all'inizio del loro sviluppo. La forma specificamente slava (non mongolica) di essa in Russia (e che si ripete anche presso degli slavi meridionali non russi) ha anzi la maggiore somiglianza, mutatis mutandis, con la variante antico-tedesca della proprietà collettiva indiana."[9] Ma questo approfondimento non rispondeva solo a finalità teoriche ma era, come sempre nella storia del marxismo, strettamente intrecciato a questioni di scottante attualità politica. I populisti russi ritenevano possibile, per la Russia, evitare il capitalismo, passando dalla comunità rurale al socialismo. Marx ed Engels non esclusero che ciò fosse possibile a patto che si desse come condizione preliminare la vittoria della rivoluzione socialista in occidente. La vittoria della classe operaia tedesca, inglese, francese, avrebbe evitato le "gioie" del capitalismo ai popoli orientali. Approfondendo la situazione russa, Marx ed Engels conobbero la natura e l'estensione del modo di produzione asiatico. Abbiamo tracce di questo lavoro teorico sia nelle opere di Marx (tra cui, soprattutto, le Forme) sia nella loro corrispondenza. In uno scambio di vedute sulla proprietà fondiaria del giugno 1853, Marx sostiene che per capire l'arcano delle società orientali occorre partire dal fatto che non vi esisteva proprietà privata della terra e Engels risponde: "l'assenza della proprietà fondiaria è in realtà la chiave per tutto l'Oriente; qui risiede la storia politica e religiosa. Ma per quale motivo gli orientali non arrivano ad avere una proprietà fondiaria, neanche quella feudale? Io credo che la ragione risieda soprattutto nel clima, assieme con le condizioni del suolo.l'irrigazione artificiale è la prima condizione dell'agricoltura, e questa è cosa o dei comuni o delle province o del governo centrale e Marx a sua volta osserva: "Ciò che spiega completamente il carattere stazionario di questa parte dell'Asia.sono le due condizioni che si sostengono a vicenda: 1) i public works come cosa del governo centrale; 2) accanto ad essi tutto l'impero, escluse le poche città maggiori, dissolte in villages, che possedevano una completa organizzazione a sé e costituivano un piccolo mondo a sé" I tratti fondamentali del modo di produzione asiatico sono già delineati in questo scambio. Ma successivamente, del modo di produzione asiatico si parlò poco. Engels non lo discusse ne l'origine della famiglia, Plechanov ne negò l'esistenza. Il concetto di modo di produzione asiatico "passò di moda" dopo la morte di Marx soprattutto per ragioni politiche. Ai teorici della Seconda internazionale, filocolonialisti, faceva comodo asserire che tutti i paesi si dovevano sviluppare come l'Inghilterra. Per molto tempo, la Seconda internazionale adottò, seppure implicitamente, la famosa politica coloniale socialista, che era una giustificazione integrale delle politiche imperialiste europee. Solo dopo aspre battaglie queste posizioni vennero respinte. La Terza internazionale, la cui nascita si accompagnò al risveglio delle masse dei paesi coloniali, si occupò ampiamente del problema. Alcuni studiosi (Rjazanov, Varga) diedero interessanti contributi sul tema. Purtroppo, questo, come ogni altro dibattito teorico, si spense con la stalinizzazione dell'Internazionale. Il concetto di modo di produzione asiatico cadde in disgrazia per due ragioni: innanzitutto Stalin voleva giustificare l'alleanza con il Kuomintang (e dunque aveva interesse a che la Cina fosse equiparata a un paese feudale); in secondo luogo, la discussione di uno Stato di casta faceva in qualche modo risaltare la natura della stessa Russia stalinista. Ad esempio nel 1930 Rakovskij, dirigente dell'opposizione di sinistra, paragonò apertamente la burocrazia sovietica e il funzionariato asiatico. Da lì in poi i sostenitori del modo di produzione asiatico vennero identificati con i trotskisti e con ciò bollati di infamia. In seguito, lo studio del modo di produzione asiatico venne affrontato, come in origine, in relazione alla stagnazione economica e sociale. Ad esempio in La formazione del pensiero economico di Marx, Mandel, che confina la formazione asiatica all'India e della Cina, lo caratterizza con lo strapotere dello Stato che impedisce lo sviluppo del capitalismo. Seppure in questa società vi sono delle classi ("accanto ai contadini esistono non solo i funzionari pubblici ma anche dei proprietari fondiari che s'appropriano illegalmente della proprietà del suolo, dei mercanti e dei banchieri") queste classi sono troppo deboli di fronte allo Stato per permettere uno sviluppo indipendente. La sintesi del dibattito sul modo di produzione asiatico è dunque: perché questa formazione resiste per millenni ad oriente mentre in Grecia e a Roma entra ben presto in crisi? La risposta è connessa allo sviluppo delle forze produttive: in Attica e nel Lazio, l'esplosione demografica condusse rapidamente alla proprietà privata delle terre. E una volta che in una zona il modo di produzione asiatico è stato superato, non può più tornare. Così, quando i barbari eliminano la carcassa dell'impero romano ormai agonizzante non si ricrea un modo di produzione asiatico perché i capi guerrieri anziché rioccupare i palazzi si dividono le terre vincolandovi i contadini. Il genio del valore di scambio e del denaro, una volta uscito dalla bottiglia dei rapporti interpersonali di divisione del lavoro, non vi tornerà più. La proprietà feudale è esercitata da una classe che ha ancora alcuni caratteri della casta (il cavaliere "vince" la terra grazie al sovrano), ma nel complesso è proprietaria dei mezzi di produzione (i contadini e la terra); il modo di produzione asiatico è finito per sempre. Le caratteristiche essenziali del modo di produzione asiatico, già delineate da Marx, possono riassumersi come segue: a) esiste un sovrano assoluto la cui autorità promana direttamente dal cielo. È il capo dell'esercito e della burocrazia. Esercita la giustizia, nomina i governatori, tramanda il potere ai propri eredi. Per certi versi è proprietario dei mezzi di produzione (il che significa, della terra), ma solo nel senso che incarna il vertice della casta che collettivamente se ne è appropriata; b) le classi sono appena all'inizio: "le caste, embrione di una differenziazione in classi, sono il prodotto delle antiche funzioni pubbliche esercitate da alcune persone mantenute a carico di tutta la comunità". La casta dominante sorge dunque dal seno della proprietà fondiaria collettiva, tende a divenire una classe, ma non lo è ancora. Trae il suo dominio economico dal potere politico. I funzionari sono numerosi e onnipotenti. Hanno due compiti fondamentali: sono sacerdoti e scribi. In quanto sacerdoti, attendono ai culti di Stato, interpretano i voleri degli dei e così via. In quanto scribi sono i depositari del sapere (essenzialmente astronomico e matematico) che gli consente di gestire la produzione e lo Stato. Al loro interno vi è una gerarchia necessaria anche per i culti (la gerarchia celeste è lo specchio della gerarchia terrestre). Gli scribi gestiscono la proprietà fondiaria sia direttamente (le terre dei templi) che indirettamente. A volte, il re è il capo degli scribi. Altre volte, questi hanno una relativa indipendenza. Si può anzi affermare che soprattutto i governatori tendono inesorabilmente a distaccarsi dal potere centrale e per questo vanno cambiati spesso. La classe dominante del modo di produzione asiatico si formerà partendo dalla casta dei sacerdoti piuttosto che dai capi militari perché i sacerdoti hanno accumulato le conoscenze decisive: astronomiche e matematiche, per prevedere lo sviluppo delle piene e per costruire i canali, due prerequisiti chiave per la produzione. La casta sacerdotale è poi depositaria dell'ideologia dominante; c) la gran massa della popolazione vive in villaggi indipendenti ed autarchici, in cui vi è una piena fusione di agricoltura e industria, dove non si conosce la proprietà fondiaria individuale e vi permane la proprietà comune tribale. Così, tutta la terra è formalmente del re, dello Stato, ma è posseduta in concreto dalle comunità di villaggio. Per sopravvivere questa produzione abbisogna di imponenti lavori idraulici, forniti centralmente; d) in cambio di questi lavori, lo Stato si appropria di tutto il surplus creato dalle comunità di villaggio e lo concentra al vertice per opere tecnicamente improduttive, ma essenziali per la persistenza della società (come piramidi, valli difensivi, ecc.); e) il surplus accumulato non è capitale se non accidentalmente, poiché la produzione rimane orientata ai valori d'uso, il mercato e la moneta sussistono ai margini della società; f) ai confini degli Stati "asiatici" vi sono territori di conquista abitati da nomadi o popolazioni neolitiche che a volte, sospinte da modificazioni ambientali o da invasioni, si avvicinano minacciosamente (si tratta pur sempre di tribù guerriere). Spesso queste tribù vengono gradualmente inglobate, arrivando addirittura al vertice dell'apparato statale. Altre volte sono distrutte. Altre ancora, approfittando della crisi di un regno, calano dalle montagne e mettono a ferro e fuoco la città; g) vi è una distinzione tra classi politiche e classi in senso economico. Mentre nel capitalismo la sovrapposizione è di norma totale, nel modo di produzione asiatico la classe produttivamente dominante (la comunità di villaggio) politicamente non ha neppure un'esistenza vera e propria. 2.1. Alcuni casi specifici di modo di produzione asiatico I primi Stati asiatici sorgono in Medio Oriente: "A partire dalla seconda metà del IV millennio sorgono, fra la Mesopotamia e l'Egitto, le prime società che sembrano richiamarsi alla forma asiatica. I caratteri essenziali sono la monarchia.l'amministrazione retta da funzionari, la direzione accentrata dell'economia, l'invenzione della scrittura." Nel quadro di queste caratteristiche generali, il modo di produzione asiatico si sviluppa, come ogni altra formazione sociale, in forme storicamente specifiche, sulla base di fattori ambientali, dell'interazione con altri modi di produzione, dello sviluppo diseguale e combinato e così via. Alcuni regni (come quello persiano) avevano un più spiccato carattere feudale, con una casta di veri e propri vassalli (i satrapi), seppure anche in tal caso vi era un'importanza decisiva delle opere pubbliche. In India gli Arya invasori imposero la loro struttura: una tribù retta da un re (rajan) coadiuvato dal consiglio (nobili e "monaci"). Il re era essenzialmente il capo militare. L'assetto dell'esercito era, come sempre, fortemente gerarchico: la fanteria appiedata e armata alla leggera, il re e nobili con i carri da guerra. Poco sappiamo sulla proprietà della terra anche se sembra che i pascoli fossero comuni. D'altra parte, formalmente, nella civiltà Mogol indiana il re era l'unico proprietario, come sempre in ogni modo di produzione asiatico. Nota Rosa Luxemburg: "L'antichissima organizzazione economica degli indiani - la comunità di villaggio di tipo comunista - si era conservata per millenni in diverse forme e aveva compiuto una lunga parabola storica interna nonostante le tempeste politiche."[17] Per trasformare l'India in qualcosa di appetibile gli Inglesi "regalarono" la terra al Gran Mogol e costrinsero alla vendita i campi comunali, dopo di che se la presero tutta. Così si passò dalla terra collettiva al latifondismo in pochi anni. Ma a differenza di tutti i conquistatori precedenti "gli inglesi furono i primi.a mostrare una completa indifferenza per le opere pubbliche di carattere economico", come è ovvio, per la classe capitalista. Ne seguirono carestie a non finire, un efficace strumento per creare un consistente proletariato urbano. Gli Arya trattarono i popoli preesistenti come iloti, senza mai fondersi con essi, tanto da dare origine al sistema delle caste che, col passare del tempo, ebbe carattere sempre più chiuso (endogamia, ecc.). Il potere dei sacerdoti era enorme e produceva, come ovunque si dia luogo alla separazione tra lavoro manuale e intellettuale, ad un'ontologia idealista: "Il sole non sorgerebbe se il sacerdote non offrisse di buon'ora il sacrificio del fuoco" La storia di questa casta è analoga a quella di tutti questi gruppi: in origine il brahamano era lo sciamano della tribù, col tempo viene a far parte di una casta chiusa (si pensi ai Leviti di cui parla l'Esodo). Per la Cina sembrerebbe effettivamente esserci un'epoca feudale prima del sorgere dell'Impero, come dimostrerebbero le continue rivolte contadine contro i nobili. Il feudalesimo era però combinato con elementi precedenti (clan gentilizi su base religiosa). Solo gli appartenenti al clan (nobili) potevano avere proprietà feudale e cariche pubbliche. Questo dimostrerebbe che il feudalesimo era in realtà una forma estrema di dominazione di tipo spartano, con gli invasori che soggiogano le popolazioni precedenti togliendogli la proprietà della terra e costringendoli a lavorare per loro. I nobili erano anche gli unici cavalieri e aurighi dato che, come sempre, la struttura militare ricalca quella sociale. La cosa interessante è che in Cina sembra essersi avuto un passaggio inverso: dall'essere "veri" feudatari, i nobili diventarono col tempo semplici funzionari imperiali, gestori del fondo del "principe". Per la massa della popolazione formata da contadini che lavorano terra di cui hanno il possesso ma non la proprietà, non mutò nulla di sostanziale. Il potere centrale cercò di sostenere la classe contadina arginando la concentrazione fondiaria e impedendo addirittura la compravendita di terra. Ma come in situazioni analoghe a Roma o in Grecia, senza successo. Allo Stato i contadini dovevano: varie tasse, il servizio militare, il lavoro coatto in opere pubbliche. Gli schiavi erano per lo più pubblici (minatori, lavoratori dei monopoli statali, ma anche impiegati), e costituivano forse l'1-2% della forza-lavoro. Come per gli imperi mesopotamici o per Roma, vi era un continuo attrito con le popolazioni nomadi (qui gli Unni) che accelerano la necessità di un esercito permanente di opere pubbliche, ecc. Gli Etruschi rappresentano per certi versi una situazione intermedia tra oriente ed occidente. Anche storicamente essi presentano un misto di elementi italici con influssi esterni orientali. Creano una struttura di città Stato aristocratiche, non estranee a continui influssi greci, ma allo stesso tempo con notevoli residui asiatici. L'Italia etrusca emerge dall'età del bronzo con la civiltà villanoviana, villaggi collinari fortificati dominati da una tribù, con una società ancora gentilizia e la proprietà comune delle terre. Ad essa segue una fase di dissoluzione dei rapporti tribali con il sorgere del pater familias padrone di tutto, con gruppi aristocratici che dominano la proprietà fondiaria e schiere di clientes (quasi servitori, residui di strutture gentilizie). I palazzi ricchi e maestosi, le tombe opulente sono classiche caratteristiche "orientali". Così come in città, sul campo di battaglia vediamo elementi misti. Si usa la tattica oplitica, ma a capo della falange c'è il ricco sul carro. In sintesi: "La società arcaica, formatasi lentamente nella "grande Etruria" sulla distruzione dell'economia di villaggio avviata all'indomani dell'appropriazione privata della terra tra X e IX secolo a.C., ha trovato già nell'VIII secolo a.C. nella servitus di larghi strati contadini lo strumento economico e il rapporto sociale di produzione ideale.l'elemento dominante della produzione era rappresentato dal lavoro involontario non schiavile: ciò che ha reso peculiare l'area etrusca è stata la capacità di riproduzione del sistema fino alla piena età ellenistica, laddove nel resto del Mediterraneo più civilizzato era da tempo scomparso."[19] Quanto all'America, quando arrivarono gli spagnoli, il regno azteco attraversava la fase di declino del modo di produzione asiatico. Gli Aztechi, come molte altre popolazioni nomadi, giunsero a occupare la terra di altre popolazioni più evolute e le sottomisero con la forza. Ne emerse un'ideologia della violenza che in questo caso si incentrava sui sacrifici umani rituali. Come è normale in queste formazioni, non si dava proprietà privata fondiaria: "Nel dominio fondiario, la società azteca non conosce il diritto di proprietà. Le terre possono appartenere allo Stato che le gestisce sia direttamente, sia per il tramite di istituzioni pubbliche. Oppure appartengono a comunità, le città stesse."[20] Ogni cittadino aveva il diritto-dovere trasmissibile di coltivare un lotto di terra "naturalmente inalienabile" (l'ager publicus né più né meno). Il signore, che è un guerriero, veniva premiato dall'imperatore con il diritto di usufrutto di un dominio imperiale. In questa società si conosceva la schiavitù di guerra, per debiti, per punizione e anche volontaria (la più frequente). In pratica un povero si rivolgeva ad un signore, stipulando un contratto con cui otteneva subito il pagamento del proprio lavoro di una vita e viveva di quello. Finito di spendere andava a servire il padrone. Se si mostrava pigro veniva "sacrificato". A dominare lo Stato vi sono le classiche due figure: guerrieri e sacerdoti: "Due caste dominanti si spartiscono il terribile compito di governare: i preti e i guerrieri"] I guerrieri avevano in realtà un compito non troppo difficile. Le guerre di conquista erano per lo più battaglie diplomatiche, gli scontri armati si risolvevano in brevi scaramucce quasi rituali in cui si mirava a catturare gente da sacrificare. Gli armamenti erano del tutto inefficienti. I preti gestivano il vero apparato repressivo: la morte rituale sull'altare per mezzo di pratiche raffinate e spaventose. Il legame tra economia e religione era qui ancor più organico che in altri casi di società "asiatica": "Per la classe dirigente, l'economia non può dissociarsi dal servizio religioso e comunitario; per essa, la vera ricchezza consiste dunque nel merito e nei vantaggi che dal merito derivano, vale a dire, essenzialmente, nel diritto d'usufrutto di certe terre." All'arrivo degli spagnoli il commercio e il denaro erano già presenti, seppur ancora in posizione secondaria. Come detto, il sacrificio costituiva un elemento essenziale della vita pubblica azteca. Si sacrificavano quasi esclusivamente prigionieri di guerra come monito per tutti gli oppressi. Il prigioniero veniva drogato, ubriacato e poi spesso fatto faticare fino allo sfinimento e infine ucciso in vari modi (scuoiato, accoltellato, decapitato, buttato in una pentola ecc.), i teschi esposti in lugubri monumenti. Sebbene alcuni abbiano voluto vedere in questo un'usanza "tribale" o legata all'innato sadismo umano, la realtà è che si trattava di pratiche aventi una ben precisa connotazione sociale: "La presenza perpetua e pletorica di questi trofei, visi suppliziati ben presto ridotti allo stato di crani perforati, ispira al popolo un rispetto misto a terrore.il sacrificio si impone come strumento di dominio; esso instaura, tramite il superamento che esso stesso promuove, una legge "soprannaturale" che conferisce potenza al suo detentore." Questo vale anche per l'antropofagia, che non serviva certo a sfamare: "l'antropofagia appare chiaramente come una cerimonia di casta: bisogna essere nobili, militari o negozianti per avere il diritto di mangiare la carne umana; quanto alla gente comune e ai contadini, essi ne sono privi." E' l'estremo sacrificio e l'estremo monito: la ribellione conduce all'annientamento, addirittura all'assorbimento dello schiavo nel ventre del suo padrone. Anche in questa società gran parte del sovrappiù è sperperata in modi che sembrano a prima vista improduttivi (le feste sacrificali), che però hanno un ruolo di primo piano nel mantenere il dominio sociale. Inoltre, si trattava di società molto repressive anche in materia sessuale. Come al solito, la repressione sessuale è parte del più generale clima oppressivo all'interno di una società. Infine, il modo di produzione asiatico prevaleva anche in Africa, laddove la società aveva superato il livello gentilizio: "Quando i francesi conquistarono l'Algeria.dominavano le antichissime istituzioni sociali ed economiche.se nelle città.dominava la proprietà privata e, nelle campagne, già grandi estensioni di terra erano state usurpate come demanio statale dai vassalli turchi, tuttavia, quasi la metà della terra coltivata continuava ad appartenere in proprietà indivisa alle tribù arabo-cabile; e qui vigevano ancora secolari, patriarcali costumi" Cioè dominava una struttura semigentilizia simile alla zadruga slava. I francesi distrussero questa proprietà collettiva. Lo stesso fecero gli europei nel Transvaal, dove in più si ebbe lo scontro tra la la piccola economia schiavile boera e le necessità dell'imperialismo britannico che condusse alle guerre anglo-boere. Gli inglesi distrussero l'economia dei Boeri trasformando i capitribù in proprietari terrieri: "Ciò urtava in pieno con la tradizione e coi rapporti sociali dei negri, giacché la terra era possesso collettivo delle tribù indigene, e perfino i capi più crudeli e dispotici.avevano soltanto il diritto e il dovere di assegnare ad ogni famiglia un appezzamento, che però rimaneva in suo possesso solo finché effettivamente coltivato." La stessa situazione si trova in Egitto, dove le terre dei villaggi furono privatizzate con gravi problemi (a nessuno conveniva più lavorare per il sistema di irrigazione, le dighe, ecc., che erano comuni). Le fonti storiche dimostrano dunque che il modo di produzione asiatico lungi dall'essere confinato in Medio oriente, è la forma storicamente "ordinaria" in cui viene ad esaurirsi la società gentilizia. Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche 3. L'origine dello stato nella Grecia classica Lo Stato ateniese, che ha poi influenzato ogni altra formazione simile nel Mediterraneo, sarebbe dunque un'eccezione storica e non la regola. È quindi tanto più opportuno analizzarne le caratteristiche specifiche, delineate magistralmente da Engels. In Grecia vediamo la nascita sia della formazione asiatica dello Stato che di quella "europea". La particolarità è che la prima durò molto poco rispetto ai paesi vicini (Persia, Egitto, ecc.) a causa delle invasioni. Infatti, le civiltà cretese e micenea, classici Stati asiatici, vennero distrutte da una combinazione di invasioni, crisi interne e sconvolgimenti naturali. L'epoca asiatica greca, l'età del bronzo, terminò con l'invasione dei Dori, che portarono con loro l'età del ferro. Ma il fatto che le tribù che invadevano l'Ellade avessero il ferro non era casuale. Dipendeva dal fatto che essendo strutture tribali non temevano di armare con mezzi così efficaci tutto il popolo. Da un punto di vista sociale l'età del ferro fu un ritorno a strutture comunitarie di proprietà e di produzione. Questi due fattori, quello tecnologico (la superiorità del ferro che costa molto meno del bronzo e rende di più), e quello sociale (gli invasori non avevano classi e dunque armavano tutti gli uomini, mentre i micenei dovevano tenere disarmata la maggior parte del popolo), si fondevano e alimentavano a vicenda. L'età del bronzo rappresenta la fase asiatica della storia greca. La terra è ancora formalmente di tutti, anche se l'appropriazione dei suoi frutti è parzialmente individuale e il re (come indica Omero) si considera già il proprietario dei terreni quale rappresentante della comunità. La schiavitù era appena all'inizio, come si vede dal fatto che i marinai omerici sono tutti volontari; i piccoli contadini che coltivano la terra comunitaria rappresentavano ancora la forma dominante di produzione. Nell'economia palaziale vi è sì una divisione del lavoro sviluppata, ma solo per quanto riguarda i funzionari del re o del tempio. Per diversi secoli, la distruzione del modo di produzione asiatico lasciò la Grecia in uno stato di stagnazione. Nel tempo, dalle morenti strutture gentilizie si staccò una aristocrazia che si prese le terre e vi fece lavorare braccianti liberi e schiavi (i primi diventavano spesso schiavi col tempo, per debiti ecc.). Quando la Grecia emerse da questo periodo buio, la struttura gentilizia stava di nuovo lasciando il posto ad altre strutture sociali, ma non più asiatiche bensì schiavili e per certi versi feudali. Alle vecchie società asiatiche si sostituirono aristocrazie di nobili proprietari effettivi della terra. Che questa crisi delle strutture gentilizie non sia passata inosservata lo dimostra l'osservazione di Aristotele che, nella Costituzione degli ateniesi, descrive la lotta di classe tra nobili e popolo trovandone i motivi nell'asservimento economico e politico del popolo. Ma con lo svilupparsi della civiltà classica le cose cambiarono. Se la vecchia democrazia gentilizia era ormai morta, le strutture nobiliari avevano anch'esse fatto il loro tempo. Lo scontro di classe rischiava di lacerare il tessuto sociale in modo definitivo, come mostrava il fenomeno della schiavitù per debiti. Il processo è particolarmente documentato per quanto riguarda Atene. Le gentes attiche vivevano ormai da tempo in tribù all'interno di un territorio metropolitano con le loro istituzioni originali (la classica democrazia militare gentilizia). Ma la stanzialità e la crescita della produzione cambiarono tutto. Sorse la ricchezza individuale, la proprietà privata. Da qui la necessità di uno Stato. I membri delle diverse gentes vivevano ormai mischiati, e c'era un numero crescente di cittadini al di fuori delle trenta gentes originali. Cominciò così una guerra di attrito tra la vecchia costituzione gentilizia e le nuove condizioni materiali che possiamo studiare, ad esempio, attraverso le tre costituzioni di Atene (tradizionalmente attribuite a Teseo, Solone e Clistene). Alla fine le gentes vennero fuse in un popolo al cui interno nacque una forza repressiva. La produzione per lo scambio era ormai almeno altrettanto importante che quella di valori d'uso: il denaro acquisiva sempre più peso, con l'usura e il debito. La proprietà privata condusse allo scambio di merci contro denaro e attraverso questo scambio alla sottomissione di un numero crescente di persone alla ricchezza dei pochi. Si concentrava la proprietà fondiaria. Tutto questo portò alla schiavitù su larga scala. Perché ad Atene questo processo fu così rapido? Per via della densità della popolazione e dello sviluppo del commercio. Lo Stato che scaturì dal declino della gens assicurò dei diritti 'universali', laddove la gens li garantiva solo ai propri membri. In cambio assicurò il dominio della ricchezza, la nascita del denaro, dei debiti, della povertà. Una volta cristallizzati al vertice della società, questi privilegi dovevano essere difesi. Nacque lo Stato, con la sua polizia (che curiosamente all'inizio era composta da schiavi: nessun gentile voleva un mestiere tanto degradante!), come strumento per difendere gli ateniesi dagli schiavi, che erano ormai la gran parte della popolazione (almeno il 95% con i meteci, secondo Engels, forse in realtà non oltre il 50-60%). Già nella costituzione di Clistene, il ruolo delle gentes era definitivamente tramontato: la popolazione veniva divisa in base al demo di appartenenza e a classe censuarie-militari (cavalleria, opliti, flotta). Il sorgere delle classi fu un trauma talmente dirompente che in alcuni momenti rischiò di lacerare la società. Il caso più chiaro si ebbe ai tempi di Solone, quando i conflitti sociali tra popolo e nobili portarono a una situazione rivoluzionaria. Solone si rese conto della insanabilità della situazione, si schierò con i poveri eliminando la schiavitù per debiti e il monopolio politico degli aristocratici, fondando la democrazia classica. Dando al popolo "tanti privilegi quanti bastavano" (Finley) egli permise all'imperialismo ateniese due tre secoli di sviluppo economico e culturale. Sebbene la democrazia ateniese fosse lungi dall'essere universale, è comunque vero che ebbe almeno due punti di forza: la legge scritta e la rotazione delle cariche, che proteggevano il popolo dagli abusi dei nobili. Inoltre, si trattò pur sempre di un esempio di democrazia diretta notevole, con migliaia di persone che si riunivano per discutere. In altri posti, le vecchie strutture gentilizie si mantennero anche dopo il sorgere dello Stato, come vediamo nell'apella spartana. Atene e la Grecia, circondati da nemici assai più forti, non potevano espandere l'economia schiavile oltre il limitato ambito delle popolazioni elleniche. Quando la Macedonia unificò il paese e conquistò il regno persiano, non vi condusse la società schiavile ma ne assunse le caratteristiche: Alessandro divenne un re persiano. Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche 4. Roma, l'apogeo della forma statale schiavile A Roma toccò in sorte di perfezionare e portare alle sue estreme conseguenze il sistema schiavista del Mediterraneo, sviluppando compiutamente i contrasti sociali insiti in esso. Le gentes originali della zona, la cui assemblea si chiamava senato, divennero poco a poco una minoranza della popolazione (i patrizi), divenendo una corporazione chiusa separata dai nuovi venuti, la plebe. La proprietà fondiaria comune della gens (cioè del patriziato) divenne un privilegio di classe: ci lavoravano i clientes del senatore (il senato era composto dai capi delle 300 gentes originali, alcune migliaia di persone). Ma le strutture gentilizie sopravvivevano ancora: l'assemblea del popolo (i comitia curiata) si svolgeva col popolo raccolto per curie (cioè fratrie) e approvava o respingeva le proposte a maggioranza assoluta; essa era retta dal rex, ufficio non ereditario, secondo i classici schemi della democrazia militare gentilizia. Quando Roma cominciò ad espandersi, le curie non poterono tenere testa allo sviluppo. Servio Tullio, ispirandosi a Solone, creò una costituzione censuaria, decretando la fine della democrazia gentilizia. Si formò così l'assemblea delle centurie, dove la prima classe, assieme ai cavalieri, aveva la maggioranza assoluta. La società romana arcaica Pur nella difficoltà d'interpretare informazioni più mitologiche che reali, di sicuro possiamo dire che Roma nacque fondendo la struttura sociale tipica di ogni città etrusca (Ruma è il nome di una famiglia etrusca) alle ancora forti strutture gentilizie, superando così da subito la formazione asiatica. La Roma dei re è dunque una città Stato con deboli caratteristiche asiatiche come si vede dal ruolo dell'ager publicus. I senatori si appropriano dei frutti delle terre pubbliche di cui però non hanno assolutamente la proprietà individuale (e per certi versi, nemmeno ancora quella collettiva). Inoltre, essi sono l'unica classe armata in permanenza (cavalieri con relativa fanteria di clientes), mentre alla plebe è vietato armarsi; infine, gestiscono lo Stato tramite il senato e le altre cariche pubbliche. Si può dire che fino all'Impero questa struttura rimase intatta, con la differenza che i vecchi senatori dovettero fare spazio ai nuovi ricchi e spesso addivenire a un accordo con la plebe, costituita fondamentalmente dai lavoranti dell'ager publicus; si trattava di contadini poveri i quali erano esclusi dal potere politico e fornivano la base dell'esercito di Roma, e dunque della sua espansione territoriale. Questa espansione avvantaggiava quasi esclusivamente i senatori, ma nella misura in cui forniva schiavi e terreni, consentiva un certo bottino a tutti gli altri. Al tempo, la schiavitù non era il rapporto di produzione dominante. Gli schiavi erano quasi tutti romani ed erano parte della famiglia (famiglia deriva dal termine famulus, schiavo domestico), e seppur senza diritti personali, non avevano però una vita particolarmente dura. La forma principale di reclutamento dello strato schiavile era ancora la schiavitù per debiti e per necessità familiare o la semplice riproduzione degli schiavi. La principale lotta sociale del tempo era dunque quella tra due ordini liberi e riguardava il fulcro del processo produttivo: la produzione agricola. Il pluslavoro estratto da plebei e schiavi veniva ancora principalmente utilizzato per accrescere i valori d'uso dei senatori anche se non era sconosciuta l'accumulazione sotto forma di denaro. Peraltro, la circolazione della moneta è strettamente connessa al commercio di schiavi. Nel 269 a.C. nacque il conio delle monete. All'epoca la popolazione contava circa 3 milioni di cittadini liberi e 2 milioni di schiavi. Come detto, l'accordo tra patrizi e plebei fu la carta vincente dell'espansionismo romano. La pace sociale permise di armare la plebe e dunque superare i piccoli eserciti di clientes tipici delle città Stato etrusche, andando verso le formazioni oplitiche della Grecia classica. Naturalmente, in cambio di un esercito incomparabilmente più ampio ed efficiente dei vicini, il senato dovette fare numerose concessioni (il tribunato della plebe, ecc.). L'esercito della Roma che si affaccia al rango di potenza aveva (secondo quanto si ricava dalle famose 12 tavole): 18 centurie di aristocrazia equestre, 80 centurie della prima classe, ovvero la fanteria pesante (plebei ricchi, la spina dorsale dell'esercito), 20 centurie ciascuna della seconda, terza e quarta classe in ordine decrescente di armamento, 30 centurie della quinta classe, fanteria leggera. Vi erano poi due centurie di artigiani (una sorta di genio) mentre il proletariato era disarmato e agiva come portaordini, esploratore ecc. Questa organizzazione (che implica un esercito di circa 20.000 uomini) era anche la struttura politica della città. Per quell'epoca un esercito forte di 20.000 effettivi era inaudito per l'Italia. La forza dell'esercito riflette la struttura politica che lo crea e che difende. Mentre gli etruschi e i popoli con strutture sociali analoghe erano ancora organizzati in famiglie che ricordavano i clan gentilizi, nella repubblica romana i funzionari e gli ufficiali erano eletti da tutti i cittadini (patrizi). E' un'idea che funzionerà bene: la selezione dei dirigenti non è affidata al caso (il figlio del re), ma a una scelta politica. Nel tempo il ruolo e il peso relativo dei diversi tipi di funzionari statali cambia, riflettendo plasticamente il conflitto di classe che riuscirà a incanalare egregiamente. Così sorsero i tribuni della plebe, rappresentanti della parte più ricca della plebe, già allora in lotta per la terra. Nel tempo, la plebe assume un peso crescente, come si vede nell'obbligatorietà, per uno dei consoli, di essere plebeo, la possibilità di accedere a sempre più cariche ecc. Con lo sviluppo della produzione schiavile, la lotta tra plebei e patrizi si presenta sempre più come lotta tra due frazioni della classe dominante non più come lotta tra classe oppressa e classe dominante. Come detto, ai patres, i vecchi senatori collettivamente proprietari fondiari, si aggiunse una nuova classe mercantile (soprattutto, per il commercio di schiavi), che spingeva per una politica espansionistica. La necessità dell'espansione territoriale mutò i caratteri politici e sociali di Roma. Innanzitutto, creò un esercito e una casta di ufficiali permanenti. Ad una struttura ancora fortemente democratica, dove ogni carica pubblica era elettiva, temporanea e collegiale (ad esempio, il centurione veniva scelto dagli stessi soldati per meriti di guerra) si sostituì una casta di militari di professione, laddove nella Grecia classica ciò non era avvenuto se non con l'invasione macedone. Le esigenze della guerra avevano dimostrato che la durata annuale delle cariche era inadeguata e spesso si ricorse alle proroghe. Non solo, ma si accrebbe enormemente il peso de comandanti militari. In secondo luogo, l'aristocrazia terriera si alleò per necessità ai propri omologhi dei territori conquistati, concedendogli i diritti giuridici romani. In questo modo, i nobili di ogni città divenivano la quinta colonna romana e Roma assimilava di fatto la classe dominante locale. Questo processo, inevitabile, fu enormemente accelerato dalle guerre puniche. La sconfitta di Cartagine segnò una svolta irreversibile. L'urbe conquistò immense ricchezze, metà del Mediterraneo, con un esercito che era ormai divenuto permanente. La lotta tra Roma e Cartagine fu una lotta tra due sistemi inconciliabili. Ma per quanto i due sistemi fossero incompatibili, rimanevano due sistemi basati sullo sfruttamento. Così quando nel 241-238 a.C. a Cartagine si sviluppò una lotta rivoluzionaria di contadini e schiavi (Polibio la definì: "la guerra più crudele e più selvaggia di tutte le guerre della storia che conosciamo"), Roma e Siracusa, pur nemiche di Cartagine, consegnarono i prigionieri alla città e si rifiutarono di aiutare i ribelli, manifestando una chiara solidarietà di classe che aiutò la spietata repressione. Ad ogni modo, la sconfitta di Annibale, pose fine alla Roma delle origini. Espansione e guerre puniche Ancora nel IV secolo, Roma era una città stato di secondo piano. La terra conquistata fino al momento era andata ai senatori e la plebe viveva malissimo. L'invasione dei Galli (387 a.C.) fu decisiva. Come spesso accade, infatti, la guerra aggrava e rende evidenti le contraddizioni sociali. Ne seguirono rivolte e sommosse che portarono a una totale revisione dei rapporti tra patrizi e plebei (le leggi Licinie, del tutto analoghe alla riforma di Solone). Fra le altre cose, fu vietato a chiunque di avere oltre 500 iugeri di terra pubblica e fu dato molto più peso all'assemblea politica (quella che ad Atene era la bulè). A quest'epoca i contatti tra Roma ed Atene erano trascurabili, dunque abbiamo un classico esempio di come le stesse condizioni oggettive conducano a uno sviluppo delle strutture sociali pressoché identico. Come si è visto, la riforma diede i suoi frutti: legando a sé buona parte della plebe, lo Stato romano ebbe una base sufficiente per aggredire i vicini. In circa un secolo Roma si espanse distruggendo i Sanniti, gli Etruschi, resistendo a Taranto e Pirro, ai Galli. L'enorme espansione del territorio fornì le risorse materiali per mantenere l'accordo tra plebe e senato. Dopo Cartagine, l'aristocrazia romana divenne definitivamente aggressiva. La pace non pagava più. L'economia schiavista era in fase di piena ascesa e i tributi dei popoli vinti necessari. Roma si espanse con la tattica già vista: interveniva nei dissidi interni di un popolo prendendo le parti della fazione nobiliare in crisi e stroncando ogni ribellione. I territori vinti in battaglia andavano ai nobili (proconsolati) e non all'ager publicus. L'espansione territoriale scavò dunque un fossato tra senatori e plebe. I primi avevano accumulato enormi patrimoni con cui acquistavano terre e schiavi, spesso cacciando i contadini con la violenza. La necessità di giustificare queste brutalità fece sorgere una vera e propria ideologia del profitto, che si riduceva poi al trattare gli schiavi in modo bestiale. Dal canto loro, i contadini italici erano stati uccisi a migliaia durante le guerre (ne erano morti forse addirittura mezzo milione). I terreni lasciati liberi venivano accorpati ai latifondi (a volte, come detto, anche con la violenza). Alla fine, tra una guerra e l'altra, a questo strato non rimaneva che riversarsi in città esercitando una forte pressione politica, ma spesso anche vendendosi al miglior offerente. Senza più nessun rapporto con il processo produttivo, la plebe viveva di sussidi statali e acquisì un interesse diretto all'espansionismo. Così si formò un nuovo contratto sociale tra senato e plebe, che non si incentrava più sui rapporti di produzione ma su un'alleanza politica basata sull'estrazione del pluslavoro dagli schiavi. Che ormai gli schiavi fossero la base della produzione lo dimostra, ad esempio, il fatto che nel II secolo a.C., a Delo si vendevano circa 10.000 schiavi al giorno, per lo più destinati all'Italia. In un semestre arrivavano in Italia l'equivalente della popolazione totale di schiavi che vi vivevano solo un secolo prima. Peraltro, gli schiavi erano una classe molto disomogenea. I più sfruttati erano quelli delle miniere (in Spagna c'erano miniere con 40.000 schiavi) e dei campi. Per il padrone erano parte dei propri beni mobili e Varrone coniò la famosa definizione di instrumenti genus vocale. Catone, nel suo famoso "manuale", consigliava ogni brutalità possibile (come far lavorare gli schiavi legati uno all'altro; uccidere i vecchi e i malati, frustare crocifiggere i ribelli). Nel complesso, questa epoca diede le basi per il lungo dominio romano sul Mediterraneo e, si può dire, sul mondo conosciuto. Ci si potrebbe chiedere: c'erano al tempo le risorse per una società capitalista? Non si può negare che alcune precondizioni fossero presenti, in particolare c'era stata un'accumulazione originaria che prendeva una forma "idonea", cioè monetaria, al suo uso propulsivo. Ma mancava l'ingrediente fondamentale. Il lavoro schiavile è intrinsecamente poco produttivo e il profitto che il padrone ne trae si basa per lo più sull'uso di una massa crescente di fattori (nuovi schiavi e nuove terre) e non sull'aumento della produttività del lavoro. Come si è già notato, la società antica non ha un fattore endogeno di sviluppo ma deve ricorrere all'espansione allargata e per questo si può formulare per essa una teoria del crollo. Finché i nobili trovavano nuove terre e nuovi schiavi la società si sviluppava. Non appena il costo della conquista superò i vantaggi, subentrò una crisi, peraltro assai protratta. E' interessante notare come, al solito, l'ideologia rimanga indietro rispetto allo sviluppo della società. Il paternalismo senatoriale funzionava in un villaggio di contadini ma non serviva a molto in un impero. In realtà, la Roma potenza di prim'ordine non era tenuta assieme da un'ideologia o da una religione (che invece assorbiva dall'esterno). Solo la disorganizzazione degli schiavi e la potenza delle armate romane hanno tenuto assieme per alcuni secoli la vastità delle colonie. Ad ogni modo, in circa un secolo e mezzo la potenza romana aveva preso il Mediterraneo. Nello stesso periodo la ricchezza fondiaria si era enormemente concentrata nelle mani dei senatori, mentre all'altro estremo sociale si era creata una classe di sottoproletari mantenuti dallo Stato, ingrossata dai coltivatori rovinati dalle importazioni. Gli schiavi crescevano e si moltiplicavano con le guerre e i debiti. Per questo, i due secoli finali della repubblica furono anche un periodo di tumultuosa crescita della lotta di classe. Gli schiavi concentrati in Italia erano ormai una quantità enorme, soprattutto in Sicilia. Così le rivolte degli schiavi vi fiorirono. Ma sebbene a volte gli schiavi avessero la meglio sotto il profilo militare (a un certo punto in Sicilia i rivoltosi contavano su 200.000 uomini), dopo aver "liberato" una zona non avevano nulla con cui sostituire lo schiavismo. Così, si davano al brigantaggio, cercavano di tornarsene a casa o costituivano piccole città Stato simili alla Roma delle origini. In alcuni di questi movimenti vi fu anche la partecipazione, di solito sporadica, di strati di popolazione libera. Tuttavia, in generale gli enormi problemi etnici e sociali rendevano difficile la saldatura delle forze tra piccoli contadini e schiavi, oggettivamente su due fronti diversi. Anche se la classe dominante era d'accordo sulla necessità di schiacciare i ribelli, molti circoli della capitale capivano che ci voleva una riforma. Il movimento dei Gracchi fu proprio questo. La famiglia dei Gracchi, di antica e nobile origine, si mise alla testa del movimento riformatore che ben presto si spinse ben più lontano di quanto avrebbero voluto. La lotta contro la fazione dominante del senato da parlamentare si fece ben presto illegale e rivoluzionaria. Per circa cinque anni (125-120 a.c.) il senato venne esautorato e Caio Gracco, come tribuno della plebe, esercitò il potere democratico con cui portò avanti delle riforme che anche nel periodo della reazione non vennero seriamente intaccate. Ma si trattò del canto del cigno della vecchia repubblica. La Roma dei contadini indipendenti era finita. La conseguenza più importante del conflitto tra i Gracchi e il senato fu il crescere del peso dell'esercito. La società romana era sempre più chiusa in una serie di equilibri precari che nessuno poteva risolvere in un senso o nell'altro. I Gracchi provarono a tornare alla Roma antica e ovviamente fallirono. Ormai Roma era una potenza schiavista. I condottieri, a partire da Mario, cominciarono a reclutare le truppe su base volontaria. Da braccio armato dei piccoli agricoltori l'esercito diveniva la guardia personale del condottiero, da cui si aspettava il bottino, ma a cui garantiva lealtà anche contro la stessa Roma. Anche per questo le cariche erano ormai quasi vitalizie. D'altronde, le diverse fazioni non potevano ormai più comporre pacificamente i loro dissidi, come dimostravano le selvagge scene di violenza durante le elezioni. Così le lotte tra i capi militari sostituirono i 'partiti' dei tempi dei Gracchi e il senato. In questa lunga guerra civile, più ancora delle opinioni politiche contarono gli strumenti di cui i dirigenti si servirono. Mario, Silla, Pompeo, Cesare, pur su posizioni diverse si servirono dell'esercito per conquistare e mantenere il potere. L'esito era inevitabile. Il "cesarismo", ovvero il bonapartismo schiavile, era ormai solo questione di tempo. Cominciò Silla, che arrivò addirittura a marciare sulla città, penetrandovi come un nemico, per restaurare il potere del senato eliminando l'iniziativa legislativa dei tribuni. Silla fece un deserto sia delle zone ribelli, come il Sannio, sia di Roma, con le liste di proscrizione. Egli fu di fatto il primo imperatore, solo non a vita: si ritirò volontariamente nel '79. Ma nonostante la spaventosa repressione, Silla non riuscì a consolidare la struttura del regime. Si assistette alla ribellione di Sertorio in Spagna, che unendo gli schiavi alle tribù locali e al movimento democratico romano liberò la Spagna e la resse con giustizia ed equità. Ma il culmine della crisi venne con la rivolta di Spartaco, che riuscì a sconfiggere l'esercito romano. A un certo punto, intere regioni italiane erano fuori dal controllo romano e innumerevoli schiavi si unirono alla rivolta. Ma anche qui si vide che il dramma delle rivolte schiavili antiche: la mancanza di un'alternativa sociale. Alla fine, come sempre, la rivolta venne annegata nel sangue. I romani perdettero decine di migliaia di schiavi e molte zone dell'Italia erano state devastate. Questo diede un ulteriore impulso all'espansionismo. Lo si vide con la campagna in Gallia. In dieci anni Cesare conquistò l'attuale Francia uccidendo un milione di uomini e facendone prigionieri altrettanti. La storia di Cesare è esemplare di come le tendenze soggettive contino assai meno degli sviluppi storici obiettivi. Cesare era un democratico e usò il suo potere per indebolire i privilegi del senato, concedendo riforme popolari. Ma con che cosa poteva essere sostituito il potere del senato? Con i vecchi comizi curiati gentilizi? Si trattava di strutture buone per un paesino tribale, non per un impero. Alla fine, al senato si sostituì una burocrazia permanente e soprattutto l'esercito dei condottieri. Sebbene Cesare fosse un democratico e godesse di forti simpatie tra la plebe, il suo potere si basava sull'esercito, non sulla popolazione romana. La sua azione politica accelerò nei fatti la fine della vecchia Roma. La repubblica schiavista aveva fatto il suo tempo, le classi che ne formavano il nerbo erano scomparse. La crisi della repubblica Lo scoppio di conflitti aperti era ora solo questione di tempo. Questi conflitti avevano diversi piani. Da una parte c'erano rivolte schiavili; dall'altro sommosse cittadine; infine lotte tra frazioni della nobiltà che, appoggiandosi a questo o quello strato, cercavano di avvantaggiarsi della crisi. A tutto ciò si aggiunse la lotta delle colonie contro il dominio romano e l'intrecciarsi di tutto questo. Iniziamo con gli schiavi. Le rivolte degli schiavi giunsero inattese per la società romana. Le prime ebbero luogo in Italia (in Sicilia nel 135-132). Poi si svilupparono nelle colonie con connotati anche di liberazione nazionale (rivolta di Aristonico in Asia Minore, ecc.); infine in Italia si ebbero le più vaste con la seconda guerra civile siciliana e Spartaco. Per le ragioni spiegate, per quanto eroiche fossero queste rivolte, il loro destino era segnato. L'enorme pericolo rappresentato da queste rivolte spinsero a concedere talune riforme (gli schiavi furono trattati più umanamente, la cittadinanza romana fu estesa a tutti gli italici) accompagnate comunque da una spietata repressione (che fu la base per la nascita delle religioni di tipo cristiano). Questi aspri conflitti posero lo Stato romano in una crisi perenne. La situazione fu presa in mano, come era inevitabile, dai dirigenti militari. Qualunque fosse la loro fede politica, i capi militari furono un veicolo obiettivo di bonapartismo. Per secoli, la repubblica era riuscita a far fronte ai propri problemi esportandoli e dunque insieme, rinviandoli ed approfondendoli. A un tratto ciò non fu più possibile. Nasce così l'impero, ideologicamente innestato nel corpus dei costumi repubblicani. Augusto attuò un programma di rafforzamento dello schiavismo: sottomise i liberti e rese molto più difficile liberare gli schiavi, epurò il senato e l'apparato statale per renderlo consono al nuovo potere. Questo nuovo potere si reggeva su un esercito che aveva ormai 300.000 effettivi permanenti. L'impero, quando Vespasiano ampliò gli strati dominanti con elementi extraitalici, divenne l'organo del dominio di classe di tutti gli schiavisti del Mediterraneo. Il suo compito era sottomettere schiavi e colonie assicurando un afflusso continuo di risorse al centro. Per questo la politica imperiale era spietata verso chi si ribellava. Nelle guerre contro gli ebrei, i romani uccisero quasi 600.000 uomini, disperdendo gli altri. Ma la ferocia delle legioni non poteva supplire al fatto che il lavoro degli schiavi rendeva sempre meno. Per questo nei meandri della società schiavile, nei latifondi ormai rovinati, cominciarono a sorgere nuove forme di produzione (l'economia coloniale frazionata). Ad ogni modo, il costo irrisorio del lavoro, che per giunta non ricadeva sul singolo aristocratico ma sullo Stato stesso, impediva ogni avanzamento tecnologico. Di fatto, le tecniche della coltivazione della terra rimasero immutate per secoli. Gli aristocratici potevano rimediare alla scarsa produttività semplicemente ampliando le proprie terre. Addirittura ci fu uno sforzo cosciente in questo senso; Vespasiano e altri vietarono la diffusione di innovazioni perché avrebbero distrutto occupazione quando, ancora circa il 90% della popolazione viveva in campagna. Così, non potendosi aumentare la produttività (il plusprodotto relativo), l'unico modo per accrescere la ricchezza era accrescere l'estensione dei propri terreni. Questo apriva la strada a continue lotte tra nobili. Per esempio, Nerone fece condannare sei proprietari terrieri così da incamerare le loro terre che comprendevano circa metà dell'Africa romana. La cultura e l'ideologia del tempo riflettevano la lenta decadenza. Cinismo, disillusione, mancanza di ogni ferma convinzione sostituivano le scuole filosofiche del passato. Nel tardo impero gli schiavi costituivano circa due terzi della popolazione, ma poiché venivano liberati in massa, occorreva un loro approvvigionamento altrettanto massiccio. Quando la prospettiva di essere liberati si ridusse, si svilupparono rivolte. Queste, assieme alla bassa produttività della formazione schiavile fece sì che questa fosse sostituita in modo crescente dal colonato. Giuridicamente era una forma ibrida perché si trattava di non schiavi che però avevano obblighi verso il padrone. Il latifondo non veniva frazionato perennemente ma solo affittato, come era una volta per l'ager publicus. Ad ogni modo gli schiavi, sconfitti militarmente e con un effettivo miglioramento delle proprie condizioni, non si ribellarono più su larga scala. Dovettero ripiegare sulla liberazione celeste, avendo perso la battaglia per la liberazione reale. Le rivolte di massa dei provinciali costituivano invece un grave pericolo. La crisi dell'impero Si può dire che l'impero romano sviluppò nei modi visti la società schiavile più classica mai vista al mondo. Uno stato enormemente complesso risucchiava risorse a interi continenti. Ma anche se durò secoli, l'impero fu comunque una forma transitoria di società. In questo senso ha una certa somiglianza con lo stalinismo. La vittoria nella seconda guerra mondiale nascose il suo carattere di degenerazione storica per alcuni decenni. Ma alla fine arrivò il redde rationem. Il peso dell'impero era intollerabile per una società che non aveva modo di aumentare le forze produttive. D'altra parte questa stagnazione non consentiva nemmeno l'aumento puramente estensivo delle risorse perché l'esercito doveva difendere un confine lungo decine di migliaia di chilometri. Alla fine, come sempre succede, la crisi scoppiò improvvisa con l'arrivo dei barbari, ma i segni del declino erano evidenti, a partire da un totale vuoto morale e ideologico in cui si inserirono facilmente le diverse forme di culti orfici, soprattutto il cristianesimo. Seppure questa fu all'inizio una ideologia rivoluzionaria, non essendoci le condizioni sociali per una rivoluzione, divenne presto il sostegno principale dello Stato schiavile (un po' come successe nel capitalismo con il socialismo riformista). Si avevano crisi e spaccature al vertice della società, il declino delle classi "medie", l'aumento dell'uniformità nello sfruttamento della classe oppressa. Mancava però una teoria che spiegasse cosa fare, e questo a sua volta dipendeva dall'impossibilità oggettiva di creare una società senza classi in questo mondo. Non a caso si diffondevano dottrine che predicavano società senza classi in un mondo fantastico. L'impossibilità di vincere ovviamente non impedì comunque le rivolte. Basti pensare agli ebrei (non solo gli Esseni) e alle rivolte sotto Comodo per la mancanza di grano. La società tardoromana Se il modo di produzione non riesce a sviluppare la produttività del lavoro, per sopravvivere deve ricorrere a risorse esterne. Questo implica la sua espansione territoriale e l'incontro con altre civiltà. Il modo di produzione schiavile era talmente improduttivo che nella sua forma più sviluppata, Roma, si combinava con un mondo in gran parte ancora dominato da rapporti asiatici o gentilizi. Esso non aveva un motore di sviluppo propriamente endogeno. Sopravviveva "luxemburghianamente" con l'espansione territoriale. Non appena finirono le terre da conquistare, iniziò il suo lungo declino. La parabola della società romana era già in fase discendente alla nascita dell'impero. Le province si allontanavano, il trucco di integrare i barbari nell'esercito non funzionava più. Per tutti, l'impero era un orribile peso senza nessun senso se non permettere alla cricca imperiale di vivere nel lusso più sfrenato. Ogni città si rifugiava nei suoi campi accelerando le spinte centrifughe. In ultima analisi l'impero si reggeva sull'esercito. Fu solo questione di tempo perché l'esercito subisse sconfitte decisive contro gli Unni e i Goti. Che la burocrazia imperiale fosse del tutto dominata dall'esercito lo si vedeva nella nomina dell'imperatore che era semplicemente un generale, spesso profondamente ignorante di materie amministrative, a volte analfabeta, ma con un certo seguito nella truppa. Lo sbandamento sociale si rifletteva nello sbandamento ideologico: la classe dominante non aveva assolutamente una visione omogenea delle cose, c'erano così pagani, cristiani divisi in cento sette, agnostici. Ma questo frazionamento aveva una base oggettiva: non c'era nessuna possibilità di salvare l'impero d'occidente dalla rovina. L'impero soffocava a tal punto la società che parti crescenti delle province preferivano vivere sotto i barbari. Le zone di confine dell'impero erano di fatto una fusione tra diverse popolazioni barbare, ormai stanziali, con altre nomadi. Per questo, quando si sviluppò la crisi, alle tribù di Goti, di Vandali, che puntavano verso Roma non fu difficile passare, poiché la popolazione li considerava dei liberatori. E così il cerchio si chiuse e i barbari spazzarono via le rovine della società schiavile senza però portare nulla in cambio. Ne nacque l'economia basata sui contadini coloni, la diffusione dei monasteri autosufficienti ecc., in definitiva, nella splendida definizione di Marx, il declino delle parti in lotta. Così si concluse la parabola della società antica. MONARCHIA E REPUBBLICA La storia di Roma viene suddivisa dagli storici in tre periodi: monarchia, dalla fondazione (753 a.C.) alla cacciata del re di origine etrusca Tarquinio il superbo (509 a.C.); repubblica, sino alla fondazione dell'impero per opera di Augusto (30 a.C.); impero, sino alla caduta dell'impero d'occidente (476 d.C.). Roma non ebbe una fondazione precisa. La data del 753 a.C., che non si basa su alcun documento, fu fissata nel I sec a.C. La città ebbe probabilmente origine da poche capanne abitate da pastori, che col tempo si raggrupparono in un villaggio sul colle Palatino, non lontano dal Tevere. Quando Roma diventò la città più forte e ricca del suo tempo, si pretese che le sue origini fossero nobiliari: di qui il ricorso ai miti/leggende (Romolo figlio di Marte, dio della guerra, la madre, Silvia, sacerdotessa della dea Vesta, discendente dell'eroe troiano, Enea, scampato alla distruzione della sua città, poi approdato sulle rive del Lazio). Durante la fase monarchica, i re di Roma -secondo la tradizione semileggendaria- sarebbero stati sette: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Ad essi la tradizione attribuisce l'organizzazione dello Stato e dell'esercito, del culto religioso, la fondazione del porto di Ostia, la costruzione di ponti, acquedotti ecc. Il nome Tarquinio sta ad indicare che per un certo periodo Roma fu dominata da genti di origine etrusca. Forse Tarquinio il superbo fu cacciato dalla città perché voleva imporre una monarchia assoluta ed ereditaria. Dopo di lui i romani proclamarono la repubblica. Al tempo della monarchia, il re veniva eletto dal Senato (autorevole consiglio di anziani). Il re governava ed esercitava il potere politico, giudiziario, militare e religioso. La religione era politeistica e naturalistica (divinità dei campi, dei boschi, delle greggi). Gli abitanti di Roma erano distinti in tre classi (guarda il diagramma della Costituzione): patrizi (ricchi e potenti, si consideravano discendenti dei fondatori della città), plebei (umili lavoratori, senza diritti politici: non potevano neppure contrarre matrimoni coi patrizi, né trattare affari); schiavi (all'origine prigionieri di guerra, di proprietà dei padroni cui venivano assegnati; si chiamavano liberti se affrancati). Il primo periodo della repubblica si differenzia da quello monarchico sostanzialmente per un fatto: invece di un re in carica fino alla morte, il senato patrizio eleggeva ogni anno due consoli (repubblica aristocratica). Le prerogative religiose erano affidate a un sacerdote apposito. Il governo, anche qui, era in mano ai patrizi, i soli che ricoprivano cariche pubbliche e che erano membri di diritto del senato. Solo loro potevano fare le leggi. I plebei, pur essendo costretti a partecipare alle guerre, con grave danno per i loro campi e per l'attività artigiana, non avevano il diritto di partecipare alla spartizione dei territori occupati. Sicché, ad ogni guerra il divario tra patrizi e plebei invece di diminuire, aumentava: il rischio maggiore era che, indebitandosi, i plebei finissero tra le fila degli schiavi. La pretesa parificazione dei diritti con i patrizi, portò i plebei a condurre dure lotte sociali, civili e politiche. Alla fine i patrizi furono costretti a riconoscere due magistrati (tribuni della plebe) come rappresentanti dei plebei in senato. Essi potevano opporre il loro veto alle leggi ritenute anti-plebee. Ma la più grande conquista dei plebei furono le Leggi delle XII tavole (incise nel 450 a.C. su tavole di bronzo ed esposte nel Foro, la piazza più importante della città). Esse segnano il passaggio dal diritto orale a quello scritto: affermano il principio dell'uguaglianza davanti alla legge e la sovranità del popolo. Tuttavia, solo dopo circa un secolo e mezzo fu riconosciuto ai plebei il diritto di accedere a tutte le cariche pubbliche. La concessione dei diritti ai plebei portò le classi e i ceti più agiati a scatenare diverse guerre di conquista contro i popoli vicini, per "recuperare", per così dire, i privilegi perduti. Roma così poté affermare il suo predominio su Etruschi, Volsci, Equi, Sanniti... (Italia centrale), dopodiché si volse verso sud, impegnandosi nella guerra contro Taranto e altre colonie greche. Tra il V e il III sec a.C. praticamente i romani occuparono tutta la penisola. I popoli conquistati non vennero schiavizzati, ma furono costretti ad accettare le leggi romane, il latino come lingua, alcune divinità religiose ecc. Fra il III e il II sec. a.C. i romani contadini e guerrieri, com'erano sempre stati, cominciarono ad interessarsi anche di commercio e di navigazione, soprattutto perché, conquistando le città etrusche e greche, erano venuti a contatto con civiltà che per molti aspetti erano superiori alla loro. L'interesse per gli scambi commerciali portò Roma al conflitto con Cartagine (città fondata dai Fenici), che allora dominava tutto il Mediterraneo. Le "guerre puniche" (fenicie) durarono un secolo e mezzo. Roma rischiò di essere distrutta dalla memorabile impresa del generale Annibale, che dalla Spagna era giunto in Italia passando le Alpi. Tuttavia, Roma non solo occupò la Spagna e altre colonie cartaginesi, ma, non volendo alcun rivale nel Mediterraneo, rase al suolo la città di Cartagine, trasformandola in provincia romana. Nello stesso anno (146 a.C.), anche la Grecia divenne provincia romana. Le idee direttive dell'organizzazione politico-amministrativa delle province: nessuna uguaglianza di diritti tra romani e popoli assoggettati; formale rispetto delle tradizioni locali; diversità di trattamento (divide et impera). L'egemonia sul Mediterraneo concentrò nelle mani di poche classi agiate enormi ricchezze: in particolare i latifondisti acquistavano grandi proprietà che poi trasformavano in pascoli o che facevano lavorare gratuitamente dagli schiavi comperati a poco prezzo. I proprietari dei piccoli poderi, che coltivavano la terra direttamente, non potevano sostenere sul mercato la concorrenza dei latifondisti. Di qui la necessità di vendere i poderi, di lavorare come braccianti nei poderi altrui, d'indebitarsi, di emigrare... Fu così che nacquero nuove lotte sociali tra patrizi e plebei. Fra i molti tribuni della plebe che cercarono di difendere gli interessi delle classi meno abbienti, spiccano i nomi di Tiberio e Caio Gracco, la cui riforma agraria prevedeva il frazionamento del latifondo e la distribuzione dei lotti a coloro che s'impegnavano a coltivarli direttamente. Tuttavia i latifondisti seppero opporre un'efficace resistenza. La lotta sociale tra patrizi e plebei assunse, sul piano politico, la fisionomia di una lotta tra due partiti avversi: democratico (Caio Mario) e aristocratico (Cornelio Silla). Mario si era procurato il favore del popolo per aver immesso nell'esercito anche i cittadini sprovvisti di censo, trasformando l'esercito da cittadino in mercenario. Silla era invece appoggiato dal senato e, dopo aver sconfitto Mario (che non si arrischiò di fare delle riforme "troppo democratiche"), si proclamò dittatore a vita. Il gesto era senza precedenti, poiché la legge romana concedeva il titolo solo in caso di guerra e per non più di sei mesi. Silla tuttavia, due anni dopo, lascerà volontariamente il potere ritirandosi a vita privata, salvaguardando così l'autorità del senato. Non molti anni dopo, a causa del riaccendersi delle ostilità fra i due partiti e per evitare lo scontro armato, si propose di affidare il potere a un triumvirato: Pompeo (per il prestigio militare), Crasso (per la ricchezza), Cesare (perché capo del partito democratico). La pace ebbe breve durata a causa delle rivalità tra Cesare e Pompeo. La lotta politica si trasformò in guerra civile e Pompeo ebbe la peggio. La morte di Crasso nella guerra contro i Parti permise a Cesare di farsi conferire dal senato: potestà tribunizia (sua persona sacra e inviolabile, con potere di veto verso le delibere senatoriali), pontificato massimo (suprema carica religiosa), dittatura a vita (tutti i poteri civili e militari). Cesare segnò il tramonto della potenza del senato e l'inizio del trapasso dalla repubblica all'impero (monarchia militare assoluta e divina). Egli aveva in mente un vasto piano di riforme (ad es. concedere alle province la cittadinanza per romanizzare l'impero), ma non poté realizzarle perché morì in una congiura organizzata dai pompeiani (44 a.C.). Gli stadi evolutivi essenziali della storia sociale romana sono tre e coincidono, all'incirca, con le sue tre macro-fasi istituzionali: la Monarchia, la Repubblica e l'Impero. Se la prima (di cui in realtà sappiamo molto poco) rappresenta la fase arcaica di Roma, la seconda costituisce invece un momento nella formazione di quell'organizzazione socio-economica il cui esito finale culminerà nella nascita dell'Impero (costituendo perciò il lungo periodo di transizione dall'epoca arcaica a quella - più matura - pienamente imperiale). L'Impero, infine, conoscerà dapprima un momento di evoluzione positiva, al quale farà seguito uno di crisi e di recessione economica, il cui culmine sarà costituito dalla caduta dell'Impero d'Occidente. Principali fasi - sociali e economiche - della storia romana: A - FASE MONARCHICA : è quella delle caste e del capitalismo fondiario, nella quale i ricchi proprietari diventano sempre più ricchi, mentre i piccoli (proprio a causa della loro povertà) sono sempre più vincolati ai primi dai debiti: una civiltà caratterizzata, quindi, dal fenomeno del patronato o del clientelismo. B - FASE REPUBBLICANA : è caratterizzata dalla prima espansione militare, nonché dalla nascita dei primi commerci e dei primi eserciti di professione - tutte attività che aiutano la plebe ad accrescere la propria ricchezza e il proprio prestigio politico e sociale: si passa quindi da una società chiusa, fondata sulle caste (nella quale conta essenzialmente la nascita), ad una più aperta, in quanto basata sulle classi (in cui anche la ricchezza, frutto del lavoro e dell'iniziativa privata, diviene una fonte di potere). C - FASE IMPERIALE : è il periodo - che si estende dalla tarda Repubblica fino al'Impero - in cui sorge e si afferma una concezione globale dello stato: lo stato inteso come complesso di regioni che intrattengono tra loro degli scambi commerciali (secondo una modalità capitalistica di tipo distributivo) e culturali. In essa il latifondo diviene sempre più una - ma non la sola - fonte di ricchezza, poiché gli scambi commerciali costituiscono il complemento della ricchezza puramente agraria: essi pongono infatti in circolazione i prodotti della terra. Pur fondamentali e potenti, i latifondisti non sono più la sola classe egemone: si affiancano a essi le classi affaristiche e finanziarie (equestri) ma anche la plebe agiata, che vive di commerci o svolgendo mansioni amministrative per l'Impero o infine arruolandosi negli eserciti. [Si ricordi a tale proposito la relazione di reciproco sostegno tra Stato e ceti medi, ovvero tra burocrazia ed eserciti e classi commerciali]. In questi anni si sviluppa un sistema integrato, nel quale le varie classi (fondiarie, finanziarie, commerciali e burocratiche-militari) collaborano al benessere collettivo, mantenendo inoltre i ceti più poveri (essenzialmente la plebe urbana) con le eccedenze della loro ricchezza. Al vertice di una tale organizzazione, si trovano l'Imperatore e la sua corte - il centro direttivo di questo vastissimo e complesso organismo politico (l'Imperatore è inoltre affiancato dalle più antiche istituzioni repubblicane, portatrici essenzialmente degli interessi della nobiltà e dei ceti più ricchi). Tale situazione 'idilliaca' però (che si protrae approssimativamente dalla nascita dell'Impero fino al periodo di Traiano e Antonino Pio) si interromperà nel terzo secolo, quando una serie di fattori - riconducibili a un abbassamento della produttività (forse per la carenza di schiavi e per la crisi conseguente del sistema produttivo dei latifondi) e all'inizio delle invasioni barbariche su tutti o quasi i confini - determineranno una rottura della precedente situazione di armonia sociale. A questo punto, quell'alleanza tra i ceti che aveva caratterizzato e sostenuto il rigoglio dell'Impero comincia a vacillare: meno produttività significa infatti meno commercio, quindi più povertà, quindi ampliamento dei latifondi (divenuti il più sicuro rifugio alla miseria); mentre maggiori difese militari significano maggiori spese statali e maggiori tasse (quindi, di nuovo, un incremento della povertà.). Inizia così una fase involutiva, nella quale i latifondi tendono a divenire realtà economiche autonome, isolate dal resto della società e tendenzialmente indipendenti rispetto al resto dello Stato; mentre quest'ultimo tende a considerare tali forze degli ostacoli per il proprio dominio (il che implica la rottura del precedente equilibrio tra città e campagne, elemento fondamentale per la stabilità e il benessere dell'Impero). Ma, soprattutto, lo Stato è costretto sempre più spesso a difendere i propri confini dai barbari, e per fare ciò deve affidarsi 'anima e corpo' agli eserciti, aumentando inoltre il carico fiscale a danno dei privati cittadini. Inizia a questo punto una fase ulteriore, segnata dallo strapotere dei soldati e delle truppe insediate stabilmente nelle varie regioni imperiali, nonché di conseguenza dalla tendenza di queste ultime al separatismo e all'irredentismo. A una tale tendenza, Roma reagirà rafforzando il predominio istituzionale dell'autorità centrale dell'Imperatore, rinnegando tuttavia in tal modo anche quelle antiche tradizioni istituzionali, democratiche e pluralistiche, che avevano caratterizzato i periodi più felici della sua storia. In questi anni l'Impero romano finisce perciò per perdere quei connotati che aveva avuto sin dalla propria nascita (con Ottaviano Augusto), cominciando ad assomigliare da un punto di vista politico al suo più tradizionale nemico: l'impero persiano. Rafforzando l'autorità assoluta dell'Imperatore, lo Stato cerca di mantenere il controllo sui tanti particolarismi locali di carattere militare da cui è oramai minato. Tuttavia appare chiaro come una tale situazione in futuro sia destinata a degenerare, essendo le esigenze di difesa militare in costante crescita (e assieme a esse anche i poteri degli eserciti). Inizia allora un'ultima fase - il cui esito finale sarà costituito dalla nascita dell'economia feudale - in cui lo Stato, indebolito e debilitato dalle contraddizioni che lo minano internamente (essenzialmente la crescita dei latifondi a spese delle città e una militarizzazione esasperata), si alleerà con la nascente Chiesa cristiana, la quale costituirà - soprattutto attraverso le proprie opere di assistenza sociale - un valido complemento e un aiuto per la sua missione civilizzatrice. La Chiesa guiderà così l'Impero verso una nuova era: un'era che per la parte occidentale ed europea sarà di totale dissoluzione (con la nascita dei regni barbarici), mentre per quella asiatica sarà piuttosto di ristrutturazione, nel segno comunque di un'economia fondamentalmente agraria - seppure caratterizzata, rispetto a quella occidentale, da un numero maggiore di scambi commerciali e culturali. 1. La monarchia (VIII - VI secolo), ovvero il periodo gentilizio-arcaico dello Stato romano Nel primo assetto dello Stato romano è il Sovrano ad essere al vertice della gerarchia sociale; al di sotto di questi si trova la grande proprietà terriera, costituita esclusivamente dai nobili, rappresentati politicamente dal Senato. La classe senatoria-nobiliare si pone come una casta chiusa, impermeabile a qualsiasi cambiamento e come tale immobile. Al di sotto della nobiltà si trova il resto della popolazione, ovvero quella che potremmo definire la plebe, anche se in realtà quella tra plebei e patrizi è una contrapposizione molto posteriore. Per ora sarebbe quindi più corretto parlare, anziché di plebei, di popolo o di ceti subalterni. Anche la struttura sociale conferma poi la natura arcaica del primissimo Stato romano: la popolazione si divide per gentes (ovvero per ceppi familiari differenti), all'interno dei quali si trovano i patroni (i nobili) e i loro clientes (essenzialmente pastori e contadini). Questo tipo di rapporto implica che il cliente si impegni a rendere nell'arco di tutta la sua vita dei servizi al proprio patrono, ricevendone in cambio protezione; e implica inoltre per il primo il dovere di aiutare il secondo nel caso che questi cada in disgrazia. Questo fatto ci fa ben capire come la società arcaica si basi su rapporti sociali estremamente rigidi, di casta, e non preveda (almeno in linea di massima) alcuna possibilità di mobilità sociale. L'altra struttura portante della società romana è la familia, l'unità che sta alla base della gens stessa: ogni gens è infatti rappresentata in senato dagli esponenti delle proprie famiglie più autorevoli. Anche dentro la famiglia i rapporti di potere sono fortemente gerarchizzati: al di sopra di tutti si trova infatti il pater familias, la cui autorità è quasi assoluta. 2. Evoluzione della Monarchia romana Il Lazio diviene presto una zona d'influenza politica economica e culturale etrusca. Non è un caso quindi se alcuni dei sovrani romani (i Tarquini) sono di origine etrusca. Tale influenza, però, non passa solo attraverso gli aspetti politici e istituzionali (bisogna notare anzi come l'influenza etrusca non si trasformi mai in un vero e proprio dominio), ma riguarda al contrario tutti gli aspetti della società romana. Essa da l'avvio (essendo causa di forti trasformazioni sociali) ad una considerevole evoluzione interna, determinando molto probabilmente l'insorgere dei primi rivolgimenti sociali, di quelli cioè che possiamo considerare come i primi segni della lotta di classe in Roma. Sotto l'influenza etrusca si crea una classe di ricchi di origine plebea (fatto che all'inizio comporta un semplice ampliamento della classe senatoria), mentre sul piano amministrativo si inventa una nuova forma di ripartizione della popolazione: ovvero quella basata sulle curie (alternativa a quella per gentes), il cui criterio è di natura territoriale. In questo periodo ha così inizio una lunga lotta tra due opposte concezioni della gestione dello Stato: a - la concezione arcaica dei senatori (legata, come si sarà capito, alla difesa dei privilegi di 'casta'), b - e una concezione più moderna (che potremmo definire 'classista') tendente invece a una società in cui sia presente anche una certa mobilità sociale (e opposta chiaramente alla concezione basata sulla divisione per caste). La lotta tra esse avrà, tra gli altri suoi effetti, anche il passaggio dalla monarchia alla repubblica. Intanto, sul piano internazionale, Roma comincia a divenire una potenza nel Lazio, pur non essendo l'unica. Una tale situazione di competizione la porterà a scontrarsi con altre città, e al tempo stesso darà inizio al lungo processo di ingigantimento territoriale. 3. Innovazioni sociali e politiche sotto Servio Tullio Dei sette (mitici) re di Roma, quello che merita una menzione particolare è senza dubbio Servio Tullio. Si deve a lui una prima trasformazione della società romana in senso decisamente democratico (come attesta anche la tradizione delle sue umili origini). Fondamentalmente egli opera due riforme, peraltro strettamente interconnesse: quella dell'ordinamento della popolazione e quella dell'esercito. In entrambe detiene un ruolo fondamentale l'aspetto censuario, ovvero il criterio della ricchezza individuale, che sostituisce - o meglio integra - quello di casta. a - Riguardo alla riforma dell'ordinamento la popolazione viene divisa in centurie, cioè secondo il diverso censo dei cittadini. b - Una cosa simile avviene anche all'interno dell'esercito. Ai cavalieri (di origine nobiliare) si aggiungono infatti gli opliti [notare l'influenza della cultura militare greca], divisi a loro volta in base al censo. Per capire l'importanza di una simile riforma bisogna tenere presenti le implicazioni che essa non può non avere all'interno della società antica. La possibilità di appartenere in modo stabile (e non solo come 'recluta' in tempo di guerra) all'esercito dello Stato comporta infatti un alto grado di riconoscimento sociale (si tenga presente che l'esercito è il principale strumento di offesa e soprattutto di difesa dello Stato), avendo quindi per conseguenza dei risvolti politici enormi. L'introduzione di vasti strati sociali nell'esercito permanente rappresenta perciò una grandissima conquista politica e sociale per il popolo, che si vede ora partecipe di una parte almeno del prestigio e del potere direttivo delle classi nobiliari. Nel periodo finale della monarchia, quindi, la società romana comincia ad uscire dalla sua fase arcaica, nella quale il potere era assegnato essenzialmente in base a criteri di nascita e di privilegio, e inizia un lungo percorso di 'ammodernamento' in cui il censo (cioè la ricchezza, anche se di un tipo non ancora monetario) detiene un ruolo essenziale nell'inserimento sociale dei cittadini: da una struttura per caste dello Stato si passa così a una struttura per classi. Fu la contesa tra allevatori e contadini che fece nascere tra i romani la monarchia, e la leggenda di Romolo e Remo ne è la ricostruzione mitologica. Come tutte le monarchie antiche, arcaiche, l'agricoltura, ovvero la popolazione stanziale, ebbe la meglio sull'allevamento, ovvero la popolazione nomade. Come ciò sia potuto accadere è difficile dirlo: non possono essere stati fenomeni meramente quantitativi, come p.es. l'aumento della popolazione, a determinare una svolta così radicale. Ovvero all'accrescere dei fenomeni quantitativi ad un certo punto deve aver fatto seguito una decisione qualitativa che s'è posta in maniera drammatica, in aperta violazione di consuetudini condivise dalla comunità di villaggio (la leggenda suddetta non è molto diversa, sotto questo aspetto, da quella di Caino e Abele). Si possono fare alcune ipotesi: gli allevatori erano divenuti un elemento di freno allo sviluppo del villaggio; la parte più debole tra gli allevatori decise di diventare stanziale; la scoperta dell'agricoltura portò il villaggio a sottovalutare l'importanza dell'allevamento. Si può inoltre dire che le popolazioni stanziali, per avere la meglio su quelle nomadi anche sul piano culturale, ebbero bisogno di darsi delle motivazioni ideologiche, o meglio mitologiche, con cui spiegare il loro atteggiamento prevaricatore. Di qui le leggende sulla discendenza troiana dei romani, anzi dei latini, o sulle origini semidivine del fondatore Romolo. Il fatto che molti re romani siano stati di origine etrusca si può forse spiegare pensando che gli etruschi erano allora la popolazione italica più forte e Roma dovette scendere a patti con loro. Ma è anche possibile accettare l'ipotesi che furono proprio le popolazioni stanziali ad aver bisogno degli etruschi per potersi imporre su quelle nomadi, dedite all'allevamento e contrarie alla privatizzazione della terra, salvo poi sbarazzarsi degli stessi etruschi a vittoria ottenuta e consolidata. La nascita e lo sviluppo della monarchia, che durò due secoli e mezzo (753-509 a.C.), comportò l'espansione progressiva dei romani a danno delle popolazioni limitrofe, senza che per questo si riuscì a risolvere il principale conflitto sociale interno, quello tra le classi abbienti, i patrizi, e le classi proletarie, i plebei. Il più importante dei cosiddetti "sette re" fu senza dubbio Servio Tullio, che divise la popolazione in cinque classi di reddito, al fine di assicurare allo Stato delle entrate sicure, che non dipendessero unicamente dalle conquiste militari. I nullatenenti erano destinati a rimanere tali, poiché erano esclusi da qualunque diritto e persino dalla possibilità di arruolarsi nell'esercito. Quest'ultimo, a sua volta, era organizzato su base classista: nella spartizione del bottino i cavalieri ottenevano di più rispetto ai fanti con armatura pesante, e questi di più rispetto a quelli con armatura leggera. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica aristocratica fu determinato dall'ampliarsi del potere economico di quelle classi che non potevano vantare una discendenza di alto rango. Il potere era semplicemente determinato dal possesso fondiario. Oppure fu determinato dal fatto che le classi aristocratiche, divenute molto potenti sul piano economico, volevano sbarazzarsi della tutela politica degli etruschi. Molto probabilmente gli etruschi poterono essere cacciati solo dopo che le classi abbienti promisero ai plebei il riconoscimento di taluni diritti o privilegi. Forse da qui è nato il fenomeno del clientelismo: se il plebeo aiutava il patrizio a rivendicare i propri diritti, questi poteva ricompensarlo con forme di assistenza o riconoscendogli la facoltà di esercitare alcuni diritti. Per "plebeo" non bisogna ovviamente intendere lo "schiavo", ma semplicemente il lavoratore privo di proprietà terriera, quella che appunto faceva la differenza tra le classi. Plebeo poteva essere l'artigiano, il piccolo commerciante, così come il piccolo coltivatore. Probabilmente la monarchia fu abbattuta dalle classi plebee politicamente organizzate dalle classi patrizie di nuova ricchezza, che non potevano vantare una sicura discendenza nobiliare. L'accordo tra patrizi e plebei in funzione anti-etrusca e forse anche in contrasto coi poteri forti delle classi più agiate e conservatrici, durò circa una ventina d'anni: già nel 486 a.C. i plebei non avevano più alcuna possibilità di essere eletti come consoli. Non è un caso che dopo la fine della monarchia il governo venisse affidato a due consoli: con questa forma di governo le classi patrizie potevano dimostrare la propria democraticità agli occhi di quelle plebee. Tuttavia, ogni rivoluzione politica viene presto tradita se non si risolvono le contraddizioni sociali. Ai plebei occorse più di un secolo (leggi Licinie-Sestie del 367 a.C.) prima di essere riammessi alle maggiori cariche pubbliche. Per ottenere ciò essi dovettero organizzarsi politicamente e lottare in maniera unita. Le conquiste principali furono le Dodici Tavole (leggi scritte), l'istituzione del Tribunato (una sorta di sindacato con funzioni politiche), il diritto alla secessione (una sorta di rifiuto di combattere contro un nemico comune ed esterno), il diritto ai matrimoni misti (interclassisti). Il difetto principale dell'amministrazione del governo repubblicano stava nel carattere delegato della democrazia e nel fatto che le classi più povere restavano comunque escluse dall'esercizio di qualunque forma di potere istituzionale. P.es. nell'assemblea più allargata (i Comizi centuriati) erano assenti tutti coloro che non avevano un reddito sufficiente a garantirsi un equipaggiamento militare. I Comizi centuriati, nonostante questa forte limitazione nella base sociale, avrebbero potuto garantire maggiore democrazia alle istituzioni rispetto a quanto avrebbe potuto fare il Senato, dove la carica era a vita e dove poteva accedere solo chi aveva svolto funzioni pubbliche (magistrato ecc.). Di fatto però i Comizi centuriati avevano un potere piuttosto formale, in quanto mentre il Senato serviva per garantire e ampliare un potere già acquisito sul piano economico, i Comizi centuriati avrebbero dovuto servire per contrastare tale potere o per permettere alle classi meno agiate di conquistarlo o di vederselo aumentare. Il che non avvenne. Nella democrazia qualunque forma di delega della rappresentanza riduce di fatto il livello di partecipazione del cittadino nel contesto locale in cui opera. Il fallimento politico dei Comizi centuriati rispetto alle prerogative del Senato porterà allo svuotamento progressivo del concetto di democrazia e all'involuzione verso la dittatura imperiale. Peraltro, i Comizi centuriati avevano anche un difetto politico congenito, che impediva un'equa rappresentanza democratica: tutto il popolo romano era stato suddiviso in base al censo in 193 centurie, ciascuna delle quali poteva esprimere solo un voto. Le classi più ricche disponevano di 98 voti e quindi della maggioranza assoluta. Si può in un certo senso dire che il fallimento politico dei Comizi centuriati portò Roma a trasformarsi in un soggetto imperialistico nei confronti delle popolazioni limitrofe. Questa dinamica politico-militare si ripeterà nei secoli futuri a livelli sempre più elevati, cioè con gradi più marcati o forme più acute, sino al punto in cui oltre un certo limite non sarà più possibile andare. Che questa democrazia non funzionasse è dimostrato anche dal fatto che in politica estera fu proprio in questo periodo che Roma scatenò l'offensiva più forte contro le popolazioni italiche (150 anni per occupare tutto il Lazio, dal 509 al 350 a.C.: un tempo così lungo perché in concomitanza scoppiarono dure lotte intestine tra patrizi e plebei). E comunque la storia di Roma è stata continuamente contrassegnata dal fatto che proprio nel momento in cui sembrava essere più garantita la democrazia, quello invece era il momento in cui s'imponevano dinamiche totalitarie. E queste sono tanto meno cruente in politica interna quanto più possono esserlo in politica estera. Quando si dice che la repubblica ha conosciuto delle forme di democrazia superiori a quelle del periodo monarchico e imperiale, non bisogna mai dimenticare di sottolineare che la democrazia ivi presente aveva non solo i limiti delle democrazie parlamentari e delegate, ma anche quelli relativi alle discriminazioni sociali basate sul reddito e soprattutto sulla proprietà. Proprio le leggi delle Tavole autorizzavano a schiavizzare il debitore insolvente o persino a eliminarlo fisicamente se nessuno voleva pagare per lui. Già nel III sec. a.C. Roma dominava tutta l'Italia, con esclusione della parte nord e delle isole. Le concessioni che i patrizi fecero ai plebei servirono anche per assicurarsi l'appoggio di quest'ultimi nelle conquiste militari contro le popolazioni italiche. E' interessante notare, in questo senso, che quanto più le popolazioni italiche reagivano all'invasione romana, tanto più i patrizi erano disposti a concedere i diritti rivendicati dai plebei: sarà questa la strategia vincente contro i cartaginesi di Annibale. Le conquiste territoriali dei romani furono così grandi in tutto il periodo repubblicano che la Roma imperiale praticamente pensò di poter vivere di rendita per i secoli futuri. La più grande illusione fu proprio quella di credere che le popolazioni sottomesse avrebbero accettato il dominio romano solo perché questo presumeva di mostrare la propria superiorità con l'esercizio del diritto, con l'esperienza bellica, con le capacità di costruzioni edilizie, ecc. In realtà la persistenza delle contraddizioni socio-economiche porterà le popolazioni sottomesse (specie quelle di confine) a parteggiare per i popoli invasori. Roma si illuse enormemente nel credere che le cosiddette "popolazioni barbariche", una volta sottomesse o cacciate dai loro territori, avrebbero accettato con rassegnazione la loro sorte. Sarebbe interessante verificare quanto il lato "barbaro" di tali popolazioni fosse una caratteristica ad esse endogena o non anche una conseguenza dei secoli di terrore causato dallo strapotere di Roma. Le invasioni in epoca medievale furono certamente terrificanti, ma non meno dell'oppressione che Roma esercitò su queste popolazioni per almeno mezzo millennio. Roma cercò di accattivarsi le simpatie di tali popolazioni concedendo diritti sempre maggiori, reclutandole nelle file degli eserciti, riconoscendo qualunque culto religioso, ma tutto ciò servì solo a rallentare l'inevitabile crollo. E' sicuramente sbagliato sostenere che la causa principale del crollo fu dovuta alle invasioni barbariche. Il motivo principale furono le interne contraddizioni, di tipo sociale ed economico, la mancata soluzione delle quali comportò l'indebolimento generale dell'impero nei confronti della pressione esterna. Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che le invasioni barbariche furono una risposta alla mancata soluzione di quelle contraddizioni: non la risposta più adeguata ma certamente una nuova risposta a quelle contraddizioni. I barbari aumentarono il tasso di democrazia della società romana o comunque diedero una forma sociale a un concetto di democrazia che al massimo si esprimeva in forme giuridiche e solo parzialmente politiche. La redistribuzione della proprietà permetterà la trasformazione della schiavitù in servaggio e permetterà anche un certo progresso tecnologico nella lavorazione della terra. Si può forse dire che dopo le guerre puniche, che pur furono le più importanti per i destini dell'impero, Roma aveva praticamente segnato il proprio destino. Queste guerre, infatti, invece di servire ad allargare la base sociale del futuro impero, la restrinsero enormemente, a tutto vantaggio e dei proprietari terrieri, che divennero grandi latifondisti, e dei grandi mercanti (l'ordine equestre). Le province furono considerate come terra di conquista di grado inferiore a quelle italiche, una sorta di proprietà esclusiva delle classi più agiate. Si arrivò a questo proprio perché dette classi volevano recuperare nei territori più lontani (o per loro mezzo) ciò che erano state costrette a cedere nella madrepatria, a causa delle lotte sociali. L'enormità dei latifondi, che si trovavano anche in Italia, determinò la fine dei piccoli proprietari terrieri, la loro trasformazione in operai salariati se non in schiavi, in mercenari o, peggio, in delinquenti. L'ultima chance che Roma ebbe di ripensare la politica favorevole al latifondo fu quella offerta dai tentativi di riforma agraria dei fratelli Gracco, ma l'opposizione fu netta. E' indicativo di quanto dovette essere esteso il latifondo il limite massimo di proprietà che i Gracchi posero ai senatori: 125 ettari, che potevano tranquillamente raddoppiare se esisteva prole. Significativo altresì il fatto che quando l'ultimo Gracco cercò di allargare la base sociale dell'impero concedendo la cittadinanza romana a tutti gli italici (coi privilegi annessi), persino la plebe di Roma gli si rivoltò contro. Questo a testimonianza dei rapporti clientelari che i grandi proprietari di beni e di terre erano già riusciti a creare nel corso delle conquiste imperiali. La cittadinanza fu concessa solo in occasione della guerra sociale (90-88 a. C.), ma a condizione di salvaguardare intatto il patrimonio terriero: un potere che per essere conservato avrà sempre più bisogno di una dittatura politica, la quale, per imporsi, avrà bisogno di apparire solo formalmente a favore della plebe e contraria allo strapotere del Senato, ma che nella sostanza continuerà a fare gli interessi dei possidenti di beni mobili e immobili, vecchi e nuovi. Di particolare rilievo il fatto che la gestione dell'impero assumerà sempre più sul piano politico una veste militare, permettendo così ai ceti senza proprietà di potersi emancipare. Il capo dell'impero era da un lato il rappresentante della classe senatoria, che a sua volta rappresentava i ceti più agiati, ma nel contempo era anche il rappresentante di quelle esigenze che per via militare ambivano a riconoscimenti politici ed economici. Le guerre civili inaugurate da Mario e Silla andarono oltre la contesa politica tradizionale e sconfinarono sul terreno più difficile da gestire del conflitto politico-militare e istituzionale. I leaders politici dei partiti avversi erano diventati anche capi militari. Questo comportava una svolta nei rapporti di forza istituzionali, poiché l'esercito, da organo meramente esecutivo al servizio del Senato, cioè dello Stato, si stava trasformando in un organo esecutivo parallelo allo Stato, quindi con potere decisionale autonomo, in grado addirittura d'interferire nella strategia della leadership politica imperiale. L'esercito non tutelava soltanto gli interessi dei proprietari fondiari, ma anche quelli dei cavalieri (equites), i "nuovi ricchi" i cui interessi imprenditoriali spesso configgevano con quelli agrari dei latifondisti. L'esercito non aveva solo lo scopo di assicurare la gestione imperiale delle colonie, difendendone i confini dalle popolazioni cosiddette "barbariche" e sedando i tumulti interni, ma anche quello di controllare che le discriminazioni sociali a danno di plebe e schiavi non sfociassero in aperta ribellione (o non finissero coll'incentivare le rivolte degli stessi schiavi, come quella capeggiata da Spartaco). Con Mario l'esercito diventa un mezzo di emancipazione economica dei ceti marginali e sono proprio questi ceti che, paradossalmente, difendono le istituzioni e le classi agiate. Questi paradossi sono tipici di quelle civiltà che vogliono risolvere le contraddizioni sociali, giunte a un grado estremo di acutezza, con gli stessi mezzi generati dalle medesime contraddizioni. L'esercito subì una trasformazione radicale, in quanto già alla fine della repubblica, si trovava ad essere più legato al profitto ricavato dalle guerre, dai saccheggi, ecc. che non al concetto di difesa della patria o di difesa di alcune categorie sociali. L'esercito stava per diventare una miriade di eserciti, ognuno dei quali si sentiva autorizzato ad agire in relativa autonomia. E questo proprio nel momento in cui il diritto romano si stava universalizzando e la concessione della cittadinanza romana a tutti i cittadini dell'impero di fatto rendeva instabile ogni privilegio della capitale. La progressiva militarizzazione dell'impero non era solo in funzione della pressione "barbarica" lungo il limes, ma era dettata anche da esigenze di politica interna. Interessante fu il fatto che a partire da Costantino la sfera politico-militare capì che per continuare a tutelare gli interessi dei ceti più abbienti occorreva darsi una veste anche culturale e religiosa che apparisse quanto più possibile democratica: di qui la scelta per il cristianesimo. Senza volerlo l'impero aveva posto una delle basi istituzionali dei futuri regni barbarici, e cioè l'alleanza di Stato e cristianesimo.

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