STORIA DI ROMA ANTICA
Introduzione
Lo Stato sorge dalla necessità di un gruppo sociale di organizzarsi per
tenere sotto controllo l'intera struttura della società. Ciò che è decisivo
e primario è sempre la produzione. Non appena sorgono differenze sociali (di
classe o di casta) sorge lo sfruttamento, che determina la natura dell'epoca:
"the particular form of exploitation ultimately determined the whole
structure of society".
Le necessità e la fisionomia della produzione decidono delle forme
politiche, sociali, culturali e ideologiche prevalenti. In questo senso
occorre ricordare che le forze produttive sono sempre specifiche di un modo
di produzione:
"ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo entro
e mediante una determinata forma di società"
non si tratta di un rapporto meccanico, di "recipiente" (rapporti di
produzione) a "contenuto" (forze produttive), ma dialettico. Lo Stato, i
rapporti tra le classi, sono assieme parte dei rapporti di produzione ed
espressione delle forze produttive.
Per mantenere la pace sociale e allargare l'estensione del proprio dominio,
la classe o casta dominante si serve della forza militare, a cui in ultima
analisi si riduce ogni Stato. La forma militare è un riflesso della forma
sociale che la produce. Questo si vede con estrema chiarezza nelle
trasformazioni che hanno avuto gli eserciti delle città Stato greche e poi
di Roma.
In questo scritto descriveremo le due vie attraverso cui l'umanità superò la
società gentilizia: il modo di produzione antico (schiavile) e il modo di
produzione asiatico. Quest'ultimo ha un particolare interesse storico e
politico. Infatti, sotto il profilo storico, si tratta di una formazione
sociale in cui la nascita dello Stato precede quella delle classi. Sotto il
profilo politico, lo studio di questo modo di produzione può fornire alcune
indicazioni sull'estinzione dello Stato nella società postcapitalista.
L'umanità ha vissuto per gran parte del suo tempo in società senza classi,
senza Stato e senza proprietà privata all'interno di strutture tribali e
familiari in cui era garantita una piena e sostanziale uguaglianza sociale.
Le antiche strutture gentilizie si dissolsero attraverso due vie: la nascita
delle classi (come in Grecia e in Italia); la cristallizzazione di alcune
loro caratteristiche in una formazione sociale nuova, il modo di produzione
asiatico.
In un primo tempo, il marxismo ha analizzato esclusivamente l'esperienza
"europea" di nascita dello Stato, e con un errore di prospettiva storica l'ha
considerata il caso "generale". Col tempo si è capito che la transizione
allo Stato avvenuta in Europa (e forse in Giappone) è abbastanza rara mentre
il modo asiatico è la norma. Nella storia la situazione tipica è
rappresentata da una struttura in cui una casta e non una classe fa sorgere
lo Stato.
D'altronde, le classi sociali in un certo senso esistono solo nel
capitalismo, l'unico modo di produzione in cui i rapporti sociali sono puri,
non "contaminati" da aspetti religiosi, etnici, ideologici. Non solo, ma la
funzione produttiva della classe determina nel capitalismo ogni altra sua
caratteristica, soprattutto nel campo dei rapporti politici. Le classi sono
classi in campo economico, politico, sociale. Lo Stato è il capitalista
collettivo. Questa simbiosi si rompe quando lo Stato assume una forma
bonapartista, ovvero quando l'espressione politica del dominio borghese si
estrania dal controllo della classe capitalista e diviene un potere autonomo
avente lo scopo di riportare l'ordine nella società. Nell'epoca antica, lo
Stato ha quasi sempre connotati bonapartisti, in quanto è più indipendente
dalla sua struttura sociale, e non c'è piena coincidenza tra classi
economiche, sociali e politiche. Ad esempio gli schiavi sono una classe
economica (producono plusprodotto), ma non politica. L'indipendenza della
casta dominante, che fa sorgere lo Stato, dalle classi produttive, è
maggiore ecc.
Il percorso più o meno comune dei popoli del Mediterraneo prima della storia
antica è questo: tribù nomadi si appropriano di un territorio (spesso con la
forza). Laddove la terra è più fertile, la crescita della popolazione spinge
all'allevamento e all'agricoltura. All'inizio si tratta di attività svolte
su proprietà collettive (seppure in modalità diverse: i tre "casi"
analizzati da Marx nelle Forme che precedono la produzione capitalistica).
La proprietà della terra è comune ma il possesso a volte è privato. Col
tempo, si sviluppa una casta di gestori delle terre collettive (perché
queste devono essere attribuite, o perché ve ne sono di nuove); inoltre, all'espandersi
del villaggio, il capo militare acquista un peso crescente: la guerra
diviene un attività decisiva per lo sviluppo delle forze produttive.
Infatti, il basso sviluppo tecnico, se unito ad una crescita demografica,
rende l'espansione territoriale una condizione di sopravvivenza della
comunità. C'è una tendenza ineliminabile di queste due caste (sacerdoti,
guerrieri) ad estraniarsi dalla proprietà collettiva per farne una proprietà
individuale. In questo senso, il modo di produzione asiatico o "palaziale"
ha una tendenza a farsi feudale. Ciò che lo distingue, tra le altre cose,
dalla società schiavista classica è che in tale contesto il lavoro schiavile
non ha mai un peso preponderante. Gli schiavi per debiti o i prigionieri di
guerra, sono aiutanti di chi lavora la terra o domestici.
Il modo di produzione asiatico ha attraversato la storia di ogni paese. In
alcuni durando pochi secoli, in altri giungendo fino alle soglie dell'epoca
contemporanea.
Le modalità con cui si passa dal modo di produzione asiatico alla società
antica da cui nasce lo Stato di tipo greco-romano sono diverse. Vi si
conservano vestigia "asiatiche" più forti in alcune zone, impercettibili
altrove. Ad esempio, in Attica l'invasione dorica portò alla fusione con le
popolazioni preesistenti con la completa scomparsa dei villaggi gentilizi,
base del modo di produzione asiatico. A Sparta, l'oligarchia dorica dominava
una popolazione di servi che coltivava terreno pubblico, come poi accadrà
con la plebe romana: "Gli Spartiati, tra i quali era diviso il terreno
coltivato dagli iloti, non attendevano che ad attività militari". Il caso
particolare di Sparta deriva dal fatto che l'invasione dorica non portò alla
fusione con le popolazioni autoctone ma alla loro totale e permanente
sottomissione. Gli Spartiati erano collettivamente proprietari di tutta la
terra coltivata dagli iloti, un residuo della società asiatica che spiega l'arretratezza
politica e culturale di Sparta ma anche il fatto che gli Spartani fossero
gli unici guerrieri professionisti dell'Ellade, il che era anche necessario,
dato che le dure condizioni degli iloti producevano continue rivolte.
In tutti i casi, l'evoluzione delle strutture politiche gentilizie verso
società "statali" avviene a partire dalla democrazia assembleare classica,
tipicamente con l'emergere di un gestore della proprietà collettiva e un
capo militare. Il nomadismo cede a poco a poco alla più produttiva vita
stanziale. Ben presto sorge la necessità di superare le condizioni
produttive date (appropriazione semplice) e nasce un vero modo di produrre
queste condizioni, principalmente tramite l'agricoltura e dunque i canali
per l'irrigazione. Questo conduce alla strutturazione sociale: senza
centralizzazione niente irrigazione. I lavori pubblici implicano una casta
di tecnici. La guerra implica un capo. Il processo aggregativo conduce a
città Stato che conquistano le regioni limitrofe creando imperi, pur con
tempistiche molto diverse. In Egitto si costituiscono presto due regni poi
unificati da un re assistito da un corpo di funzionari. In Mesopotamia
troviamo invece ancora a lungo città Stato che poi evolvono verso l'impero
(Sargon sembrerebbe essere stato il primo imperatore vero e proprio). In
Grecia le città Stato resistono, pur nella forma di leghe e con il
predominio di Atene o di altre città, sostanzialmente fino all'ingresso
nella storia ellenica della Macedonia e in realtà, sino alla conquista
romana.
L'evoluzione verso la gestione della proprietà pubblica da parte di una
casta avviene in tutti i luoghi. Solo che in alcuni questo conduce
rapidamente alla nascita di classi e dunque a uno Stato classista (come
quello greco), mentre in altri paesi l'evoluzione viene come congelata dal
basso livello di sviluppo delle forze produttive, e il modo di produzione
asiatico sopravvive fino a quando non si scontra con una società più
avanzata, tipicamente il capitalismo.
Come detto, il ruolo della guerra è decisivo nello sviluppo di questo modo
di produzione. Gli imperi come quello persiano avevano un esercito fatto di
popoli soggetti, mercenari ecc., gente che era in qualche modo al di fuori
del tessuto sociale, ad eccezione della cavalleria o dei carri, di
pertinenza nobiliare. Questo permetteva lunghe campagne lontano dalla
propria città, guerre di conquista. Ma è chiaro che un simile esercito non
poteva sorgere in Grecia. Le poleis non avevano infatti popoli soggetti, né
erano così ricche da reclutare miliziani. Inoltre, armare gli schiavi
(peraltro pochi) era assai rischioso. Non rimaneva che reclutare gli stessi
cittadini per la difesa dello Stato. Per secoli, la guerra tra le città
Stato si ridusse ad uno scontro di falangi oplitiche di durata assai
limitata e di conseguenze (in termini di morti e feriti) ridotte. Le guerre
persiane cambiarono tutto. La democrazia greca, ovvero il dominio dei
latifondisti per il tramite di assemblee popolari, si dimostrò assai più
vitale dell'autocrazia orientale. Gli opliti sconfissero eserciti dieci
volte più numerosi. Per quanto riguarda Atene, la sua ampia democrazia può
farsi risalire essenzialmente all'importanza della flotta (e dunque alla
massa di cittadini necessari per la navigazione). Ad ogni modo, le guerre
persiane dimostrarono quanto la società greca fosse superiore al modo di
produzione asiatico: l'esercito permanente, per necessità nutrito dal
surplus creato da altri, e dunque insieme causa ed effetto della guerra
permanente, si dimostrò inferiore al popolo in armi, così come il metodo di
selezione dei quadri militari (politici che dopo la guerra tornavano ad
essere oratori o addirittura a coltivare la terra come Cincinnato, rispetto
ai nobili persiani). Ma anche nella polis, quando le campagne belliche
cominciarono a durare anni, il condottiero e l'oplita divennero soldati di
professione e addirittura mercenari (si pensi all'Anabasi di Senofonte, ai
precettori spartani di Annibale). Questo pose le basi per la crisi delle
democrazie oplitiche greche e romane. Il modo di produzione asiatico invece,
rimase pressoché immutato nei secoli e nei millenni conservando le sue
caratteristiche.
1. L'umanità prima del modo di produzione asiatico
Per la stragrande maggior parte del suo tempo, da che è divenuto un animale
cosciente attraverso il lavoro associato, l'uomo ha vissuto in formazioni
sociali prive di qualunque gerarchia sociale o sessuale, dove la divisione
del lavoro tra i sessi o la presenza di un capo non comportava l'accumulo di
alcun privilegio.
Usando le definizioni di Engels, la storia dell'uomo prima della società
divisa in classi può suddividersi così:
a) Stato selvaggio
l'uomo si stacca dagli altri ominidi; vive di raccolta e di caccia di
piccoli animali in orde di ridotte dimensioni che all'inizio non sono molto
diverse dai branchi degli altri primati. Le sue capacità produttive si
sviluppano con la scoperta del fuoco e l'uso di armi più efficienti; questo
permette la sua diffusione per tutta la Terra. In questo periodo, ad
eccezione di grandi scoperte (come il fuoco), la vita procede senza
cambiamenti, nella completa eguaglianza sociale.
b) Barbarie
lo sviluppo delle forze produttive comincia con l'allevamento e la
coltivazione delle piante nei luoghi in cui ciò è possibile (Mesopotamia,
ecc.). Qui avviene la prima grande differenziazione dell'umanità: i popoli
di pastori si accrescono di numero spingendo le tribù di cacciatori in terre
sempre peggiori. In seguito, l'agricoltura permette un aumento della densità
della popolazione di dieci e anche cento volte. Ad essa si aggiungono le
altre innovazioni che accompagnano l'ultima fase della barbarie: la fusione
del ferro, la scrittura alfabetica ecc. Come ormai noto, l'agricoltura porta
con sé, oltre al formidabile aumento delle forze produttive, nuovi rapporti
di produzione, nuove relazioni tra gli uomini, inevitabili proprio per
questo aumento. La donna, forza-lavoro ormai di secondo piano, viene ridotta
a madre e domestica, i costumi sessuali si fanno rigidi. Sorge un'ideologia
a difesa della famiglia monogamica. L'alimentazione basata, dapprima su
animali nutriti a cereali, in seguito direttamente sui cereali, peggiora
enormemente la salute della popolazione. Gli agricoltori sono bassi e
malati, i cacciatori, alti, forti e sani. Ma gli agricoltori sono molti di
più e i cacciatori sono sterminati o cacciati.
La pastorizia portò con sé due elementi decisivi: la proprietà individuale e
uno stabile sovrappiù. Queste due cose resero conveniente e inevitabile la
subordinazione di altri uomini (e contestualmente delle donne) per badare ai
greggi (che producono un sovrappiù "naturale" con la nascita di nuovi
animali, il latte, ecc.). Sorse il diritto patriarcale, il potere del pater
familias divenne assoluto. Le donne e i servi vennero gradualmente esclusi
dalla vita pubblica, dalla politica, dalla cultura. L'accudimento della
prole, un tempo l'aspetto decisivo della vita pubblica, divenne una
questione privata, al di fuori dell'economia pubblica. Fu questa l'ultima
epoca della società gentilizia, che abbracciò un lungo periodo di tempo e
che condusse, attraverso le due distinte modalità prima citate, al sorgere
dello Stato.
La democrazia gentilizia, basata sull'autogoverno dei produttori in assenza
di qualunque tipo di coercizione, lasciò il posto a strutture gerarchiche.
La crisi della gens venne causata, come ogni altra crisi di una società, dal
successo produttivo dell'uomo. Tradizionalmente, la gens occupava un
territorio ed era un'unità combattente, con il nome di un animale (totem).
Lo sviluppo della popolazione condusse al moltiplicarsi dei membri della
gens che diedero così vita a scissioni in gens madri e in diverse gentes
figlie confederate tra loro (fratrie); l'ulteriore passo fu la fusione di
queste fratrie in una tribù. La lega delle tribù fu lo stadio massimo di
sviluppo della società gentilizia, così come vediamo con gli indiani d'America
o con le popolazioni barbariche europee. A questo livello di sviluppo non si
dava ancora uno Stato. La terra era proprietà comune della tribù, non vi
erano differenziazioni sociali degne di nota, tutti erano ancora liberi ed
eguali, anche le donne; non si conosceva la schiavitù.
Questo sistema ha retto per secoli, e in alcuni luoghi per millenni, ma lo
sviluppo della società conduceva inevitabilmente verso la sua fine. Il suo
punto debole era la mobilità territoriale. Se una gens potesse occupare a
tempo indefinito lo stesso luogo, e se la popolazione variasse di poco,
tutto procederebbe immutato (non per nulla questa è la situazione delle
società gentilizie scoperte dall'uomo bianco negli ultimi secoli in
Amazzonia, Africa, ecc.). Ma che succede se nel territorio della gens vivono
non gentili? All'inizio, quando sono una piccola minoranza, li si può
ricondurre all'interno della gens. Ma quando cominciarono a essere la
maggioranza ciò non poté più essere fatto. Ecco che da quel momento i
gentili appaiono una minoranza di privilegiati con diritti politici (gli
eupatrides romani) di fronte alla massa della popolazione di "nuovi venuti".
Allo stesso modo, è proprio lo sviluppo delle forze produttive a mettere in
crisi la gens. L'allevamento e l'agricoltura si prestano ad una
appropriazione privata: nasce prima il possesso e poi la proprietà
individuale, nasce la famiglia monogamica. Sorge un surplus che può essere
scambiato al di fuori della gens, la guerra diviene conveniente, i capi
militari sono sempre più importanti. In definitiva, "la gens aveva vissuto.
Essa venne distrutta dalla divisione del lavoro che spartì la società in
classi e fu sostituita dallo Stato". Lo Stato fornì alla classe
economicamente dominante i mezzi politici per preservare ed allargare i
propri privilegi economici. Questa è la storia di Roma e di Atene. In altre
zone invece, si mantennero strutture comunitarie sulle quali si innestò una
casta. Tale secondo sviluppo (in realtà comune anche a Roma ed Atene, seppur
per breve tempo) è il modo di produzione asiatico.
Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche
2. Il modo di produzione asiatico. Storia e caratteristiche essenziali
Con la differenziazione sociale nasce la necessità di difendere le proprietà
di alcuni, i loro privilegi, escludendone tutti gli altri: nasce lo Stato,
nascono la legge, i tribunali, gli eserciti. La divisione del lavoro pone
anche la necessità di un coordinamento mediato del lavoro sociale: la
moneta, i prezzi, il mercato. Questo è quello che accade in occidente. Ma il
surplus precede la nascita delle classi. E, in realtà, non sempre la
generazione di surplus è indice di sfruttamento. Può ben darsi una società
in cui il plusprodotto è gestito dalla comunità a fini sociali.
Ma, allo stesso tempo, lo sfruttamento non è necessariamente innestato sui
rapporti di produzione; può invece derivare dal ruolo politico, dal "potere
funzionale" di una casta. Si può dare sfruttamento al di fuori dei rapporti
di produzione (o meglio lo sfruttamento nasce al di fuori dei rapporti di
produzione, che contribuisce a creare).
Questa è la base del modo di produzione asiatico. Qui lo Stato nasce da una
funzione produttiva o da una conquista militare: la difesa delle terre
coltivate dalle tribù gentilizie, la difesa dell'ager publicus (difesa
militare ma anche sviluppo produttivo con i lavori pubblici). In occidente,
accanto all'ager publicus si sviluppano rapporti di produzione basati sulla
proprietà individuale, mentre in oriente l'attività individuale rimane
marginale rispetto alla proprietà fondiaria collettiva. In definitiva, il
modo di produzione asiatico nasce su villaggi pressoché gentilizi, ma sulla
base dello sfruttamento politico di questi villaggi da parte della
burocrazia statale. Le comunità primitive, insieme unità di produzione e di
consumo, sono tutte uguali. Per questo lo scambio, la divisione del lavoro e
la moneta restano insignificanti. Il lavoro astratto e concreto non si
distinguono, dato che non c'è compravendita di forza-lavoro e il lavoro è
immediatamente sociale. D'altra parte la proprietà fondiaria comune, base
della produzione asiatica, è costitutiva del modo di produzione asiatico: il
divieto di compravendita della terra rigoroso. Quando inizia, lo scambio è
tra famiglie, tribù, non tra individui, l'accumulazione non è privata. La
forma "naturale" di esistenza dell'uomo è nella sua comunità immediata. Lo
Stato requisisce il pluslavoro e lo trasforma in palazzi, piramidi, canali.
Il modo di produzione asiatico è la trasformazione qualitativa del comunismo
rurale in una società di classe.
La storia del concetto di modo di produzione asiatico nasce da alcune
considerazioni di Marx sulle riflessioni che la cultura europea, da Hegel ai
filosofi francesi e inglesi, facevano sull'asiatismo come forma congenita e
arretrata di esistenza dei popoli orientali.
In un primo periodo, come si è accennato, gli stessi fondatori della
concezione materialistica della storia svilupparono una analisi storica
abbastanza lineare. Alcuni passi di Marx potrebbero essere ascritti a questa
visione, come il famoso brano della Prefazione a Per la critica dell'economia
politica in cui Marx enumera i modi di produzione come una sequenza
lineare[8]. Ma già negli anni '50 gli studi antropologici permettono a Marx
ed Engels di fare passi avanti. Marx è particolarmente interessato a
stabilire come in occidente si è giunti dalla proprietà collettiva al
capitalismo attraverso i diversi modi di produzione. Il modo di produzione
asiatico appare a Marx come una delle vie per cui la società gentilizia
viene dissolta e la studia soprattutto "per differenza", per capire perché
non ha dato luogo al capitalismo. Così facendo scopre che non esiste una
sequenza lineare di stadi storici (anche per via della legge dello sviluppo
diseguale e combinato) e che la storia dei diversi modi di produzione è
assai più dialettica di quanto quell'elenco potrebbe dire. Scopre anche che
il modo di produzione asiatico si estese ben oltre quanto si era supposto in
precedenza:
"è una menzogna storica che questa proprietà collettiva sia mongolica. Come
accennai diverse volte nei miei scritti, essa è di origine indiana e si
riscontra perciò presso tutti i popoli civili europei all'inizio del loro
sviluppo. La forma specificamente slava (non mongolica) di essa in Russia (e
che si ripete anche presso degli slavi meridionali non russi) ha anzi la
maggiore somiglianza, mutatis mutandis, con la variante antico-tedesca della
proprietà collettiva indiana."[9]
Ma questo approfondimento non rispondeva solo a finalità teoriche ma era,
come sempre nella storia del marxismo, strettamente intrecciato a questioni
di scottante attualità politica. I populisti russi ritenevano possibile, per
la Russia, evitare il capitalismo, passando dalla comunità rurale al
socialismo. Marx ed Engels non esclusero che ciò fosse possibile a patto che
si desse come condizione preliminare la vittoria della rivoluzione
socialista in occidente. La vittoria della classe operaia tedesca, inglese,
francese, avrebbe evitato le "gioie" del capitalismo ai popoli orientali.
Approfondendo la situazione russa, Marx ed Engels conobbero la natura e l'estensione
del modo di produzione asiatico. Abbiamo tracce di questo lavoro teorico sia
nelle opere di Marx (tra cui, soprattutto, le Forme) sia nella loro
corrispondenza. In uno scambio di vedute sulla proprietà fondiaria del
giugno 1853, Marx sostiene che per capire l'arcano delle società orientali
occorre partire dal fatto che non vi esisteva proprietà privata della terra
e Engels risponde:
"l'assenza della proprietà fondiaria è in realtà la chiave per tutto l'Oriente;
qui risiede la storia politica e religiosa. Ma per quale motivo gli
orientali non arrivano ad avere una proprietà fondiaria, neanche quella
feudale? Io credo che la ragione risieda soprattutto nel clima, assieme con
le condizioni del suolo.l'irrigazione artificiale è la prima condizione dell'agricoltura,
e questa è cosa o dei comuni o delle province o del governo centrale e Marx
a sua volta osserva:
"Ciò che spiega completamente il carattere stazionario di questa parte dell'Asia.sono
le due condizioni che si sostengono a vicenda: 1) i public works come cosa
del governo centrale; 2) accanto ad essi tutto l'impero, escluse le poche
città maggiori, dissolte in villages, che possedevano una completa
organizzazione a sé e costituivano un piccolo mondo a sé"
I tratti fondamentali del modo di produzione asiatico sono già delineati in
questo scambio. Ma successivamente, del modo di produzione asiatico si parlò
poco. Engels non lo discusse ne l'origine della famiglia, Plechanov ne negò
l'esistenza. Il concetto di modo di produzione asiatico "passò di moda" dopo
la morte di Marx soprattutto per ragioni politiche. Ai teorici della Seconda
internazionale, filocolonialisti, faceva comodo asserire che tutti i paesi
si dovevano sviluppare come l'Inghilterra. Per molto tempo, la Seconda
internazionale adottò, seppure implicitamente, la famosa politica coloniale
socialista, che era una giustificazione integrale delle politiche
imperialiste europee. Solo dopo aspre battaglie queste posizioni vennero
respinte.
La Terza internazionale, la cui nascita si accompagnò al risveglio delle
masse dei paesi coloniali, si occupò ampiamente del problema. Alcuni
studiosi (Rjazanov, Varga) diedero interessanti contributi sul tema.
Purtroppo, questo, come ogni altro dibattito teorico, si spense con la
stalinizzazione dell'Internazionale. Il concetto di modo di produzione
asiatico cadde in disgrazia per due ragioni: innanzitutto Stalin voleva
giustificare l'alleanza con il Kuomintang (e dunque aveva interesse a che la
Cina fosse equiparata a un paese feudale); in secondo luogo, la discussione
di uno Stato di casta faceva in qualche modo risaltare la natura della
stessa Russia stalinista. Ad esempio nel 1930 Rakovskij, dirigente dell'opposizione
di sinistra, paragonò apertamente la burocrazia sovietica e il funzionariato
asiatico. Da lì in poi i sostenitori del modo di produzione asiatico vennero
identificati con i trotskisti e con ciò bollati di infamia.
In seguito, lo studio del modo di produzione asiatico venne affrontato, come
in origine, in relazione alla stagnazione economica e sociale. Ad esempio in
La formazione del pensiero economico di Marx, Mandel, che confina la
formazione asiatica all'India e della Cina, lo caratterizza con lo
strapotere dello Stato che impedisce lo sviluppo del capitalismo. Seppure in
questa società vi sono delle classi ("accanto ai contadini esistono non solo
i funzionari pubblici ma anche dei proprietari fondiari che s'appropriano
illegalmente della proprietà del suolo, dei mercanti e dei banchieri")
queste classi sono troppo deboli di fronte allo Stato per permettere uno
sviluppo indipendente.
La sintesi del dibattito sul modo di produzione asiatico è dunque: perché
questa formazione resiste per millenni ad oriente mentre in Grecia e a Roma
entra ben presto in crisi? La risposta è connessa allo sviluppo delle forze
produttive: in Attica e nel Lazio, l'esplosione demografica condusse
rapidamente alla proprietà privata delle terre. E una volta che in una zona
il modo di produzione asiatico è stato superato, non può più tornare. Così,
quando i barbari eliminano la carcassa dell'impero romano ormai agonizzante
non si ricrea un modo di produzione asiatico perché i capi guerrieri anziché
rioccupare i palazzi si dividono le terre vincolandovi i contadini. Il genio
del valore di scambio e del denaro, una volta uscito dalla bottiglia dei
rapporti interpersonali di divisione del lavoro, non vi tornerà più. La
proprietà feudale è esercitata da una classe che ha ancora alcuni caratteri
della casta (il cavaliere "vince" la terra grazie al sovrano), ma nel
complesso è proprietaria dei mezzi di produzione (i contadini e la terra);
il modo di produzione asiatico è finito per sempre.
Le caratteristiche essenziali del modo di produzione asiatico, già delineate
da Marx, possono riassumersi come segue:
a) esiste un sovrano assoluto la cui autorità promana direttamente dal
cielo. È il capo dell'esercito e della burocrazia. Esercita la giustizia,
nomina i governatori, tramanda il potere ai propri eredi. Per certi versi è
proprietario dei mezzi di produzione (il che significa, della terra), ma
solo nel senso che incarna il vertice della casta che collettivamente se ne
è appropriata;
b) le classi sono appena all'inizio: "le caste, embrione di una
differenziazione in classi, sono il prodotto delle antiche funzioni
pubbliche esercitate da alcune persone mantenute a carico di tutta la
comunità". La casta dominante sorge dunque dal seno della proprietà
fondiaria collettiva, tende a divenire una classe, ma non lo è ancora. Trae
il suo dominio economico dal potere politico. I funzionari sono numerosi e
onnipotenti. Hanno due compiti fondamentali: sono sacerdoti e scribi. In
quanto sacerdoti, attendono ai culti di Stato, interpretano i voleri degli
dei e così via. In quanto scribi sono i depositari del sapere
(essenzialmente astronomico e matematico) che gli consente di gestire la
produzione e lo Stato. Al loro interno vi è una gerarchia necessaria anche
per i culti (la gerarchia celeste è lo specchio della gerarchia terrestre).
Gli scribi gestiscono la proprietà fondiaria sia direttamente (le terre dei
templi) che indirettamente. A volte, il re è il capo degli scribi. Altre
volte, questi hanno una relativa indipendenza. Si può anzi affermare che
soprattutto i governatori tendono inesorabilmente a distaccarsi dal potere
centrale e per questo vanno cambiati spesso. La classe dominante del modo di
produzione asiatico si formerà partendo dalla casta dei sacerdoti piuttosto
che dai capi militari perché i sacerdoti hanno accumulato le conoscenze
decisive: astronomiche e matematiche, per prevedere lo sviluppo delle piene
e per costruire i canali, due prerequisiti chiave per la produzione. La
casta sacerdotale è poi depositaria dell'ideologia dominante;
c) la gran massa della popolazione vive in villaggi indipendenti ed
autarchici, in cui vi è una piena fusione di agricoltura e industria, dove
non si conosce la proprietà fondiaria individuale e vi permane la proprietà
comune tribale. Così, tutta la terra è formalmente del re, dello Stato, ma è
posseduta in concreto dalle comunità di villaggio. Per sopravvivere questa
produzione abbisogna di imponenti lavori idraulici, forniti centralmente;
d) in cambio di questi lavori, lo Stato si appropria di tutto il surplus
creato dalle comunità di villaggio e lo concentra al vertice per opere
tecnicamente improduttive, ma essenziali per la persistenza della società
(come piramidi, valli difensivi, ecc.);
e) il surplus accumulato non è capitale se non accidentalmente, poiché la
produzione rimane orientata ai valori d'uso, il mercato e la moneta
sussistono ai margini della società;
f) ai confini degli Stati "asiatici" vi sono territori di conquista abitati
da nomadi o popolazioni neolitiche che a volte, sospinte da modificazioni
ambientali o da invasioni, si avvicinano minacciosamente (si tratta pur
sempre di tribù guerriere). Spesso queste tribù vengono gradualmente
inglobate, arrivando addirittura al vertice dell'apparato statale. Altre
volte sono distrutte. Altre ancora, approfittando della crisi di un regno,
calano dalle montagne e mettono a ferro e fuoco la città;
g) vi è una distinzione tra classi politiche e classi in senso economico.
Mentre nel capitalismo la sovrapposizione è di norma totale, nel modo di
produzione asiatico la classe produttivamente dominante (la comunità di
villaggio) politicamente non ha neppure un'esistenza vera e propria.
2.1. Alcuni casi specifici di modo di produzione asiatico
I primi Stati asiatici sorgono in Medio Oriente:
"A partire dalla seconda metà del IV millennio sorgono, fra la Mesopotamia e
l'Egitto, le prime società che sembrano richiamarsi alla forma asiatica. I
caratteri essenziali sono la monarchia.l'amministrazione retta da
funzionari, la direzione accentrata dell'economia, l'invenzione della
scrittura."
Nel quadro di queste caratteristiche generali, il modo di produzione
asiatico si sviluppa, come ogni altra formazione sociale, in forme
storicamente specifiche, sulla base di fattori ambientali, dell'interazione
con altri modi di produzione, dello sviluppo diseguale e combinato e così
via.
Alcuni regni (come quello persiano) avevano un più spiccato carattere
feudale, con una casta di veri e propri vassalli (i satrapi), seppure anche
in tal caso vi era un'importanza decisiva delle opere pubbliche.
In India gli Arya invasori imposero la loro struttura: una tribù retta da un
re (rajan) coadiuvato dal consiglio (nobili e "monaci"). Il re era
essenzialmente il capo militare. L'assetto dell'esercito era, come sempre,
fortemente gerarchico: la fanteria appiedata e armata alla leggera, il re e
nobili con i carri da guerra. Poco sappiamo sulla proprietà della terra
anche se sembra che i pascoli fossero comuni. D'altra parte, formalmente,
nella civiltà Mogol indiana il re era l'unico proprietario, come sempre in
ogni modo di produzione asiatico. Nota Rosa Luxemburg:
"L'antichissima organizzazione economica degli indiani - la comunità di
villaggio di tipo comunista - si era conservata per millenni in diverse
forme e aveva compiuto una lunga parabola storica interna nonostante le
tempeste politiche."[17]
Per trasformare l'India in qualcosa di appetibile gli Inglesi "regalarono"
la terra al Gran Mogol e costrinsero alla vendita i campi comunali, dopo di
che se la presero tutta. Così si passò dalla terra collettiva al
latifondismo in pochi anni. Ma a differenza di tutti i conquistatori
precedenti "gli inglesi furono i primi.a mostrare una completa indifferenza
per le opere pubbliche di carattere economico", come è ovvio, per la classe
capitalista. Ne seguirono carestie a non finire, un efficace strumento per
creare un consistente proletariato urbano.
Gli Arya trattarono i popoli preesistenti come iloti, senza mai fondersi con
essi, tanto da dare origine al sistema delle caste che, col passare del
tempo, ebbe carattere sempre più chiuso (endogamia, ecc.). Il potere dei
sacerdoti era enorme e produceva, come ovunque si dia luogo alla separazione
tra lavoro manuale e intellettuale, ad un'ontologia idealista:
"Il sole non sorgerebbe se il sacerdote non offrisse di buon'ora il
sacrificio del fuoco"
La storia di questa casta è analoga a quella di tutti questi gruppi: in
origine il brahamano era lo sciamano della tribù, col tempo viene a far
parte di una casta chiusa (si pensi ai Leviti di cui parla l'Esodo).
Per la Cina sembrerebbe effettivamente esserci un'epoca feudale prima del
sorgere dell'Impero, come dimostrerebbero le continue rivolte contadine
contro i nobili. Il feudalesimo era però combinato con elementi precedenti
(clan gentilizi su base religiosa). Solo gli appartenenti al clan (nobili)
potevano avere proprietà feudale e cariche pubbliche. Questo dimostrerebbe
che il feudalesimo era in realtà una forma estrema di dominazione di tipo
spartano, con gli invasori che soggiogano le popolazioni precedenti
togliendogli la proprietà della terra e costringendoli a lavorare per loro.
I nobili erano anche gli unici cavalieri e aurighi dato che, come sempre, la
struttura militare ricalca quella sociale.
La cosa interessante è che in Cina sembra essersi avuto un passaggio
inverso: dall'essere "veri" feudatari, i nobili diventarono col tempo
semplici funzionari imperiali, gestori del fondo del "principe". Per la
massa della popolazione formata da contadini che lavorano terra di cui hanno
il possesso ma non la proprietà, non mutò nulla di sostanziale. Il potere
centrale cercò di sostenere la classe contadina arginando la concentrazione
fondiaria e impedendo addirittura la compravendita di terra. Ma come in
situazioni analoghe a Roma o in Grecia, senza successo. Allo Stato i
contadini dovevano: varie tasse, il servizio militare, il lavoro coatto in
opere pubbliche. Gli schiavi erano per lo più pubblici (minatori, lavoratori
dei monopoli statali, ma anche impiegati), e costituivano forse l'1-2% della
forza-lavoro. Come per gli imperi mesopotamici o per Roma, vi era un
continuo attrito con le popolazioni nomadi (qui gli Unni) che accelerano la
necessità di un esercito permanente di opere pubbliche, ecc.
Gli Etruschi rappresentano per certi versi una situazione intermedia tra
oriente ed occidente. Anche storicamente essi presentano un misto di
elementi italici con influssi esterni orientali. Creano una struttura di
città Stato aristocratiche, non estranee a continui influssi greci, ma allo
stesso tempo con notevoli residui asiatici.
L'Italia etrusca emerge dall'età del bronzo con la civiltà villanoviana,
villaggi collinari fortificati dominati da una tribù, con una società ancora
gentilizia e la proprietà comune delle terre. Ad essa segue una fase di
dissoluzione dei rapporti tribali con il sorgere del pater familias padrone
di tutto, con gruppi aristocratici che dominano la proprietà fondiaria e
schiere di clientes (quasi servitori, residui di strutture gentilizie). I
palazzi ricchi e maestosi, le tombe opulente sono classiche caratteristiche
"orientali". Così come in città, sul campo di battaglia vediamo elementi
misti. Si usa la tattica oplitica, ma a capo della falange c'è il ricco sul
carro. In sintesi:
"La società arcaica, formatasi lentamente nella "grande Etruria" sulla
distruzione dell'economia di villaggio avviata all'indomani dell'appropriazione
privata della terra tra X e IX secolo a.C., ha trovato già nell'VIII secolo
a.C. nella servitus di larghi strati contadini lo strumento economico e il
rapporto sociale di produzione ideale.l'elemento dominante della produzione
era rappresentato dal lavoro involontario non schiavile: ciò che ha reso
peculiare l'area etrusca è stata la capacità di riproduzione del sistema
fino alla piena età ellenistica, laddove nel resto del Mediterraneo più
civilizzato era da tempo scomparso."[19]
Quanto all'America, quando arrivarono gli spagnoli, il regno azteco
attraversava la fase di declino del modo di produzione asiatico. Gli
Aztechi, come molte altre popolazioni nomadi, giunsero a occupare la terra
di altre popolazioni più evolute e le sottomisero con la forza. Ne emerse un'ideologia
della violenza che in questo caso si incentrava sui sacrifici umani rituali.
Come è normale in queste formazioni, non si dava proprietà privata
fondiaria:
"Nel dominio fondiario, la società azteca non conosce il diritto di
proprietà. Le terre possono appartenere allo Stato che le gestisce sia
direttamente, sia per il tramite di istituzioni pubbliche. Oppure
appartengono a comunità, le città stesse."[20]
Ogni cittadino aveva il diritto-dovere trasmissibile di coltivare un lotto
di terra "naturalmente inalienabile" (l'ager publicus né più né meno). Il
signore, che è un guerriero, veniva premiato dall'imperatore con il diritto
di usufrutto di un dominio imperiale. In questa società si conosceva la
schiavitù di guerra, per debiti, per punizione e anche volontaria (la più
frequente). In pratica un povero si rivolgeva ad un signore, stipulando un
contratto con cui otteneva subito il pagamento del proprio lavoro di una
vita e viveva di quello. Finito di spendere andava a servire il padrone. Se
si mostrava pigro veniva "sacrificato". A dominare lo Stato vi sono le
classiche due figure: guerrieri e sacerdoti:
"Due caste dominanti si spartiscono il terribile compito di governare: i
preti e i guerrieri"]
I guerrieri avevano in realtà un compito non troppo difficile. Le guerre di
conquista erano per lo più battaglie diplomatiche, gli scontri armati si
risolvevano in brevi scaramucce quasi rituali in cui si mirava a catturare
gente da sacrificare. Gli armamenti erano del tutto inefficienti. I preti
gestivano il vero apparato repressivo: la morte rituale sull'altare per
mezzo di pratiche raffinate e spaventose. Il legame tra economia e religione
era qui ancor più organico che in altri casi di società "asiatica":
"Per la classe dirigente, l'economia non può dissociarsi dal servizio
religioso e comunitario; per essa, la vera ricchezza consiste dunque nel
merito e nei vantaggi che dal merito derivano, vale a dire, essenzialmente,
nel diritto d'usufrutto di certe terre."
All'arrivo degli spagnoli il commercio e il denaro erano già presenti,
seppur ancora in posizione secondaria.
Come detto, il sacrificio costituiva un elemento essenziale della vita
pubblica azteca. Si sacrificavano quasi esclusivamente prigionieri di guerra
come monito per tutti gli oppressi. Il prigioniero veniva drogato, ubriacato
e poi spesso fatto faticare fino allo sfinimento e infine ucciso in vari
modi (scuoiato, accoltellato, decapitato, buttato in una pentola ecc.), i
teschi esposti in lugubri monumenti. Sebbene alcuni abbiano voluto vedere in
questo un'usanza "tribale" o legata all'innato sadismo umano, la realtà è
che si trattava di pratiche aventi una ben precisa connotazione sociale:
"La presenza perpetua e pletorica di questi trofei, visi suppliziati ben
presto ridotti allo stato di crani perforati, ispira al popolo un rispetto
misto a terrore.il sacrificio si impone come strumento di dominio; esso
instaura, tramite il superamento che esso stesso promuove, una legge
"soprannaturale" che conferisce potenza al suo detentore."
Questo vale anche per l'antropofagia, che non serviva certo a sfamare:
"l'antropofagia appare chiaramente come una cerimonia di casta: bisogna
essere nobili, militari o negozianti per avere il diritto di mangiare la
carne umana; quanto alla gente comune e ai contadini, essi ne sono privi."
E' l'estremo sacrificio e l'estremo monito: la ribellione conduce all'annientamento,
addirittura all'assorbimento dello schiavo nel ventre del suo padrone. Anche
in questa società gran parte del sovrappiù è sperperata in modi che sembrano
a prima vista improduttivi (le feste sacrificali), che però hanno un ruolo
di primo piano nel mantenere il dominio sociale. Inoltre, si trattava di
società molto repressive anche in materia sessuale. Come al solito, la
repressione sessuale è parte del più generale clima oppressivo all'interno
di una società.
Infine, il modo di produzione asiatico prevaleva anche in Africa, laddove la
società aveva superato il livello gentilizio:
"Quando i francesi conquistarono l'Algeria.dominavano le antichissime
istituzioni sociali ed economiche.se nelle città.dominava la proprietà
privata e, nelle campagne, già grandi estensioni di terra erano state
usurpate come demanio statale dai vassalli turchi, tuttavia, quasi la metà
della terra coltivata continuava ad appartenere in proprietà indivisa alle
tribù arabo-cabile; e qui vigevano ancora secolari, patriarcali costumi"
Cioè dominava una struttura semigentilizia simile alla zadruga slava. I
francesi distrussero questa proprietà collettiva.
Lo stesso fecero gli europei nel Transvaal, dove in più si ebbe lo scontro
tra la la piccola economia schiavile boera e le necessità dell'imperialismo
britannico che condusse alle guerre anglo-boere. Gli inglesi distrussero l'economia
dei Boeri trasformando i capitribù in proprietari terrieri:
"Ciò urtava in pieno con la tradizione e coi rapporti sociali dei negri,
giacché la terra era possesso collettivo delle tribù indigene, e perfino i
capi più crudeli e dispotici.avevano soltanto il diritto e il dovere di
assegnare ad ogni famiglia un appezzamento, che però rimaneva in suo
possesso solo finché effettivamente coltivato."
La stessa situazione si trova in Egitto, dove le terre dei villaggi furono
privatizzate con gravi problemi (a nessuno conveniva più lavorare per il
sistema di irrigazione, le dighe, ecc., che erano comuni).
Le fonti storiche dimostrano dunque che il modo di produzione asiatico lungi
dall'essere confinato in Medio oriente, è la forma storicamente "ordinaria"
in cui viene ad esaurirsi la società gentilizia.
Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche
3. L'origine dello stato nella Grecia classica
Lo Stato ateniese, che ha poi influenzato ogni altra formazione simile nel
Mediterraneo, sarebbe dunque un'eccezione storica e non la regola. È quindi
tanto più opportuno analizzarne le caratteristiche specifiche, delineate
magistralmente da Engels.
In Grecia vediamo la nascita sia della formazione asiatica dello Stato che
di quella "europea". La particolarità è che la prima durò molto poco
rispetto ai paesi vicini (Persia, Egitto, ecc.) a causa delle invasioni.
Infatti, le civiltà cretese e micenea, classici Stati asiatici, vennero
distrutte da una combinazione di invasioni, crisi interne e sconvolgimenti
naturali.
L'epoca asiatica greca, l'età del bronzo, terminò con l'invasione dei Dori,
che portarono con loro l'età del ferro. Ma il fatto che le tribù che
invadevano l'Ellade avessero il ferro non era casuale. Dipendeva dal fatto
che essendo strutture tribali non temevano di armare con mezzi così efficaci
tutto il popolo.
Da un punto di vista sociale l'età del ferro fu un ritorno a strutture
comunitarie di proprietà e di produzione. Questi due fattori, quello
tecnologico (la superiorità del ferro che costa molto meno del bronzo e
rende di più), e quello sociale (gli invasori non avevano classi e dunque
armavano tutti gli uomini, mentre i micenei dovevano tenere disarmata la
maggior parte del popolo), si fondevano e alimentavano a vicenda.
L'età del bronzo rappresenta la fase asiatica della storia greca. La terra è
ancora formalmente di tutti, anche se l'appropriazione dei suoi frutti è
parzialmente individuale e il re (come indica Omero) si considera già il
proprietario dei terreni quale rappresentante della comunità. La schiavitù
era appena all'inizio, come si vede dal fatto che i marinai omerici sono
tutti volontari; i piccoli contadini che coltivano la terra comunitaria
rappresentavano ancora la forma dominante di produzione. Nell'economia
palaziale vi è sì una divisione del lavoro sviluppata, ma solo per quanto
riguarda i funzionari del re o del tempio.
Per diversi secoli, la distruzione del modo di produzione asiatico lasciò la
Grecia in uno stato di stagnazione. Nel tempo, dalle morenti strutture
gentilizie si staccò una aristocrazia che si prese le terre e vi fece
lavorare braccianti liberi e schiavi (i primi diventavano spesso schiavi col
tempo, per debiti ecc.). Quando la Grecia emerse da questo periodo buio, la
struttura gentilizia stava di nuovo lasciando il posto ad altre strutture
sociali, ma non più asiatiche bensì schiavili e per certi versi feudali.
Alle vecchie società asiatiche si sostituirono aristocrazie di nobili
proprietari effettivi della terra. Che questa crisi delle strutture
gentilizie non sia passata inosservata lo dimostra l'osservazione di
Aristotele che, nella Costituzione degli ateniesi, descrive la lotta di
classe tra nobili e popolo trovandone i motivi nell'asservimento economico e
politico del popolo. Ma con lo svilupparsi della civiltà classica le cose
cambiarono. Se la vecchia democrazia gentilizia era ormai morta, le
strutture nobiliari avevano anch'esse fatto il loro tempo. Lo scontro di
classe rischiava di lacerare il tessuto sociale in modo definitivo, come
mostrava il fenomeno della schiavitù per debiti.
Il processo è particolarmente documentato per quanto riguarda Atene. Le
gentes attiche vivevano ormai da tempo in tribù all'interno di un territorio
metropolitano con le loro istituzioni originali (la classica democrazia
militare gentilizia). Ma la stanzialità e la crescita della produzione
cambiarono tutto. Sorse la ricchezza individuale, la proprietà privata. Da
qui la necessità di uno Stato. I membri delle diverse gentes vivevano ormai
mischiati, e c'era un numero crescente di cittadini al di fuori delle trenta
gentes originali.
Cominciò così una guerra di attrito tra la vecchia costituzione gentilizia e
le nuove condizioni materiali che possiamo studiare, ad esempio, attraverso
le tre costituzioni di Atene (tradizionalmente attribuite a Teseo, Solone e
Clistene). Alla fine le gentes vennero fuse in un popolo al cui interno
nacque una forza repressiva. La produzione per lo scambio era ormai almeno
altrettanto importante che quella di valori d'uso: il denaro acquisiva
sempre più peso, con l'usura e il debito. La proprietà privata condusse allo
scambio di merci contro denaro e attraverso questo scambio alla
sottomissione di un numero crescente di persone alla ricchezza dei pochi. Si
concentrava la proprietà fondiaria. Tutto questo portò alla schiavitù su
larga scala.
Perché ad Atene questo processo fu così rapido? Per via della densità della
popolazione e dello sviluppo del commercio.
Lo Stato che scaturì dal declino della gens assicurò dei diritti 'universali',
laddove la gens li garantiva solo ai propri membri. In cambio assicurò il
dominio della ricchezza, la nascita del denaro, dei debiti, della povertà.
Una volta cristallizzati al vertice della società, questi privilegi dovevano
essere difesi. Nacque lo Stato, con la sua polizia (che curiosamente all'inizio
era composta da schiavi: nessun gentile voleva un mestiere tanto
degradante!), come strumento per difendere gli ateniesi dagli schiavi, che
erano ormai la gran parte della popolazione (almeno il 95% con i meteci,
secondo Engels, forse in realtà non oltre il 50-60%). Già nella costituzione
di Clistene, il ruolo delle gentes era definitivamente tramontato: la
popolazione veniva divisa in base al demo di appartenenza e a classe
censuarie-militari (cavalleria, opliti, flotta).
Il sorgere delle classi fu un trauma talmente dirompente che in alcuni
momenti rischiò di lacerare la società. Il caso più chiaro si ebbe ai tempi
di Solone, quando i conflitti sociali tra popolo e nobili portarono a una
situazione rivoluzionaria. Solone si rese conto della insanabilità della
situazione, si schierò con i poveri eliminando la schiavitù per debiti e il
monopolio politico degli aristocratici, fondando la democrazia classica.
Dando al popolo "tanti privilegi quanti bastavano" (Finley) egli permise all'imperialismo
ateniese due tre secoli di sviluppo economico e culturale.
Sebbene la democrazia ateniese fosse lungi dall'essere universale, è
comunque vero che ebbe almeno due punti di forza: la legge scritta e la
rotazione delle cariche, che proteggevano il popolo dagli abusi dei nobili.
Inoltre, si trattò pur sempre di un esempio di democrazia diretta notevole,
con migliaia di persone che si riunivano per discutere. In altri posti, le
vecchie strutture gentilizie si mantennero anche dopo il sorgere dello
Stato, come vediamo nell'apella spartana.
Atene e la Grecia, circondati da nemici assai più forti, non potevano
espandere l'economia schiavile oltre il limitato ambito delle popolazioni
elleniche. Quando la Macedonia unificò il paese e conquistò il regno
persiano, non vi condusse la società schiavile ma ne assunse le
caratteristiche: Alessandro divenne un re persiano.
Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche
4. Roma, l'apogeo della forma statale schiavile
A Roma toccò in sorte di perfezionare e portare alle sue estreme conseguenze
il sistema schiavista del Mediterraneo, sviluppando compiutamente i
contrasti sociali insiti in esso.
Le gentes originali della zona, la cui assemblea si chiamava senato,
divennero poco a poco una minoranza della popolazione (i patrizi), divenendo
una corporazione chiusa separata dai nuovi venuti, la plebe. La proprietà
fondiaria comune della gens (cioè del patriziato) divenne un privilegio di
classe: ci lavoravano i clientes del senatore (il senato era composto dai
capi delle 300 gentes originali, alcune migliaia di persone). Ma le
strutture gentilizie sopravvivevano ancora: l'assemblea del popolo (i
comitia curiata) si svolgeva col popolo raccolto per curie (cioè fratrie) e
approvava o respingeva le proposte a maggioranza assoluta; essa era retta
dal rex, ufficio non ereditario, secondo i classici schemi della democrazia
militare gentilizia. Quando Roma cominciò ad espandersi, le curie non
poterono tenere testa allo sviluppo. Servio Tullio, ispirandosi a Solone,
creò una costituzione censuaria, decretando la fine della democrazia
gentilizia. Si formò così l'assemblea delle centurie, dove la prima classe,
assieme ai cavalieri, aveva la maggioranza assoluta.
La società romana arcaica
Pur nella difficoltà d'interpretare informazioni più mitologiche che reali,
di sicuro possiamo dire che Roma nacque fondendo la struttura sociale tipica
di ogni città etrusca (Ruma è il nome di una famiglia etrusca) alle ancora
forti strutture gentilizie, superando così da subito la formazione asiatica.
La Roma dei re è dunque una città Stato con deboli caratteristiche asiatiche
come si vede dal ruolo dell'ager publicus. I senatori si appropriano dei
frutti delle terre pubbliche di cui però non hanno assolutamente la
proprietà individuale (e per certi versi, nemmeno ancora quella collettiva).
Inoltre, essi sono l'unica classe armata in permanenza (cavalieri con
relativa fanteria di clientes), mentre alla plebe è vietato armarsi; infine,
gestiscono lo Stato tramite il senato e le altre cariche pubbliche.
Si può dire che fino all'Impero questa struttura rimase intatta, con la
differenza che i vecchi senatori dovettero fare spazio ai nuovi ricchi e
spesso addivenire a un accordo con la plebe, costituita fondamentalmente dai
lavoranti dell'ager publicus; si trattava di contadini poveri i quali erano
esclusi dal potere politico e fornivano la base dell'esercito di Roma, e
dunque della sua espansione territoriale. Questa espansione avvantaggiava
quasi esclusivamente i senatori, ma nella misura in cui forniva schiavi e
terreni, consentiva un certo bottino a tutti gli altri. Al tempo, la
schiavitù non era il rapporto di produzione dominante. Gli schiavi erano
quasi tutti romani ed erano parte della famiglia (famiglia deriva dal
termine famulus, schiavo domestico), e seppur senza diritti personali, non
avevano però una vita particolarmente dura. La forma principale di
reclutamento dello strato schiavile era ancora la schiavitù per debiti e per
necessità familiare o la semplice riproduzione degli schiavi. La principale
lotta sociale del tempo era dunque quella tra due ordini liberi e riguardava
il fulcro del processo produttivo: la produzione agricola. Il pluslavoro
estratto da plebei e schiavi veniva ancora principalmente utilizzato per
accrescere i valori d'uso dei senatori anche se non era sconosciuta l'accumulazione
sotto forma di denaro. Peraltro, la circolazione della moneta è strettamente
connessa al commercio di schiavi. Nel 269 a.C. nacque il conio delle monete.
All'epoca la popolazione contava circa 3 milioni di cittadini liberi e 2
milioni di schiavi.
Come detto, l'accordo tra patrizi e plebei fu la carta vincente dell'espansionismo
romano. La pace sociale permise di armare la plebe e dunque superare i
piccoli eserciti di clientes tipici delle città Stato etrusche, andando
verso le formazioni oplitiche della Grecia classica. Naturalmente, in cambio
di un esercito incomparabilmente più ampio ed efficiente dei vicini, il
senato dovette fare numerose concessioni (il tribunato della plebe, ecc.). L'esercito
della Roma che si affaccia al rango di potenza aveva (secondo quanto si
ricava dalle famose 12 tavole): 18 centurie di aristocrazia equestre, 80
centurie della prima classe, ovvero la fanteria pesante (plebei ricchi, la
spina dorsale dell'esercito), 20 centurie ciascuna della seconda, terza e
quarta classe in ordine decrescente di armamento, 30 centurie della quinta
classe, fanteria leggera. Vi erano poi due centurie di artigiani (una sorta
di genio) mentre il proletariato era disarmato e agiva come portaordini,
esploratore ecc.
Questa organizzazione (che implica un esercito di circa 20.000 uomini) era
anche la struttura politica della città. Per quell'epoca un esercito forte
di 20.000 effettivi era inaudito per l'Italia.
La forza dell'esercito riflette la struttura politica che lo crea e che
difende. Mentre gli etruschi e i popoli con strutture sociali analoghe erano
ancora organizzati in famiglie che ricordavano i clan gentilizi, nella
repubblica romana i funzionari e gli ufficiali erano eletti da tutti i
cittadini (patrizi). E' un'idea che funzionerà bene: la selezione dei
dirigenti non è affidata al caso (il figlio del re), ma a una scelta
politica. Nel tempo il ruolo e il peso relativo dei diversi tipi di
funzionari statali cambia, riflettendo plasticamente il conflitto di classe
che riuscirà a incanalare egregiamente. Così sorsero i tribuni della plebe,
rappresentanti della parte più ricca della plebe, già allora in lotta per la
terra. Nel tempo, la plebe assume un peso crescente, come si vede nell'obbligatorietà,
per uno dei consoli, di essere plebeo, la possibilità di accedere a sempre
più cariche ecc. Con lo sviluppo della produzione schiavile, la lotta tra
plebei e patrizi si presenta sempre più come lotta tra due frazioni della
classe dominante non più come lotta tra classe oppressa e classe dominante.
Come detto, ai patres, i vecchi senatori collettivamente proprietari
fondiari, si aggiunse una nuova classe mercantile (soprattutto, per il
commercio di schiavi), che spingeva per una politica espansionistica.
La necessità dell'espansione territoriale mutò i caratteri politici e
sociali di Roma. Innanzitutto, creò un esercito e una casta di ufficiali
permanenti. Ad una struttura ancora fortemente democratica, dove ogni carica
pubblica era elettiva, temporanea e collegiale (ad esempio, il centurione
veniva scelto dagli stessi soldati per meriti di guerra) si sostituì una
casta di militari di professione, laddove nella Grecia classica ciò non era
avvenuto se non con l'invasione macedone. Le esigenze della guerra avevano
dimostrato che la durata annuale delle cariche era inadeguata e spesso si
ricorse alle proroghe. Non solo, ma si accrebbe enormemente il peso de
comandanti militari. In secondo luogo, l'aristocrazia terriera si alleò per
necessità ai propri omologhi dei territori conquistati, concedendogli i
diritti giuridici romani. In questo modo, i nobili di ogni città divenivano
la quinta colonna romana e Roma assimilava di fatto la classe dominante
locale.
Questo processo, inevitabile, fu enormemente accelerato dalle guerre
puniche. La sconfitta di Cartagine segnò una svolta irreversibile. L'urbe
conquistò immense ricchezze, metà del Mediterraneo, con un esercito che era
ormai divenuto permanente. La lotta tra Roma e Cartagine fu una lotta tra
due sistemi inconciliabili. Ma per quanto i due sistemi fossero
incompatibili, rimanevano due sistemi basati sullo sfruttamento. Così quando
nel 241-238 a.C. a Cartagine si sviluppò una lotta rivoluzionaria di
contadini e schiavi (Polibio la definì: "la guerra più crudele e più
selvaggia di tutte le guerre della storia che conosciamo"), Roma e Siracusa,
pur nemiche di Cartagine, consegnarono i prigionieri alla città e si
rifiutarono di aiutare i ribelli, manifestando una chiara solidarietà di
classe che aiutò la spietata repressione.
Ad ogni modo, la sconfitta di Annibale, pose fine alla Roma delle origini.
Espansione e guerre puniche
Ancora nel IV secolo, Roma era una città stato di secondo piano. La terra
conquistata fino al momento era andata ai senatori e la plebe viveva
malissimo. L'invasione dei Galli (387 a.C.) fu decisiva. Come spesso accade,
infatti, la guerra aggrava e rende evidenti le contraddizioni sociali. Ne
seguirono rivolte e sommosse che portarono a una totale revisione dei
rapporti tra patrizi e plebei (le leggi Licinie, del tutto analoghe alla
riforma di Solone). Fra le altre cose, fu vietato a chiunque di avere oltre
500 iugeri di terra pubblica e fu dato molto più peso all'assemblea politica
(quella che ad Atene era la bulè). A quest'epoca i contatti tra Roma ed
Atene erano trascurabili, dunque abbiamo un classico esempio di come le
stesse condizioni oggettive conducano a uno sviluppo delle strutture sociali
pressoché identico. Come si è visto, la riforma diede i suoi frutti: legando
a sé buona parte della plebe, lo Stato romano ebbe una base sufficiente per
aggredire i vicini. In circa un secolo Roma si espanse distruggendo i
Sanniti, gli Etruschi, resistendo a Taranto e Pirro, ai Galli. L'enorme
espansione del territorio fornì le risorse materiali per mantenere l'accordo
tra plebe e senato. Dopo Cartagine, l'aristocrazia romana divenne
definitivamente aggressiva. La pace non pagava più. L'economia schiavista
era in fase di piena ascesa e i tributi dei popoli vinti necessari. Roma si
espanse con la tattica già vista: interveniva nei dissidi interni di un
popolo prendendo le parti della fazione nobiliare in crisi e stroncando ogni
ribellione.
I territori vinti in battaglia andavano ai nobili (proconsolati) e non all'ager
publicus. L'espansione territoriale scavò dunque un fossato tra senatori e
plebe. I primi avevano accumulato enormi patrimoni con cui acquistavano
terre e schiavi, spesso cacciando i contadini con la violenza. La necessità
di giustificare queste brutalità fece sorgere una vera e propria ideologia
del profitto, che si riduceva poi al trattare gli schiavi in modo bestiale.
Dal canto loro, i contadini italici erano stati uccisi a migliaia durante le
guerre (ne erano morti forse addirittura mezzo milione). I terreni lasciati
liberi venivano accorpati ai latifondi (a volte, come detto, anche con la
violenza). Alla fine, tra una guerra e l'altra, a questo strato non rimaneva
che riversarsi in città esercitando una forte pressione politica, ma spesso
anche vendendosi al miglior offerente. Senza più nessun rapporto con il
processo produttivo, la plebe viveva di sussidi statali e acquisì un
interesse diretto all'espansionismo. Così si formò un nuovo contratto
sociale tra senato e plebe, che non si incentrava più sui rapporti di
produzione ma su un'alleanza politica basata sull'estrazione del pluslavoro
dagli schiavi.
Che ormai gli schiavi fossero la base della produzione lo dimostra, ad
esempio, il fatto che nel II secolo a.C., a Delo si vendevano circa 10.000
schiavi al giorno, per lo più destinati all'Italia. In un semestre
arrivavano in Italia l'equivalente della popolazione totale di schiavi che
vi vivevano solo un secolo prima. Peraltro, gli schiavi erano una classe
molto disomogenea. I più sfruttati erano quelli delle miniere (in Spagna c'erano
miniere con 40.000 schiavi) e dei campi. Per il padrone erano parte dei
propri beni mobili e Varrone coniò la famosa definizione di instrumenti
genus vocale. Catone, nel suo famoso "manuale", consigliava ogni brutalità
possibile (come far lavorare gli schiavi legati uno all'altro; uccidere i
vecchi e i malati, frustare crocifiggere i ribelli).
Nel complesso, questa epoca diede le basi per il lungo dominio romano sul
Mediterraneo e, si può dire, sul mondo conosciuto. Ci si potrebbe chiedere:
c'erano al tempo le risorse per una società capitalista? Non si può negare
che alcune precondizioni fossero presenti, in particolare c'era stata un'accumulazione
originaria che prendeva una forma "idonea", cioè monetaria, al suo uso
propulsivo. Ma mancava l'ingrediente fondamentale. Il lavoro schiavile è
intrinsecamente poco produttivo e il profitto che il padrone ne trae si basa
per lo più sull'uso di una massa crescente di fattori (nuovi schiavi e nuove
terre) e non sull'aumento della produttività del lavoro. Come si è già
notato, la società antica non ha un fattore endogeno di sviluppo ma deve
ricorrere all'espansione allargata e per questo si può formulare per essa
una teoria del crollo. Finché i nobili trovavano nuove terre e nuovi schiavi
la società si sviluppava. Non appena il costo della conquista superò i
vantaggi, subentrò una crisi, peraltro assai protratta.
E' interessante notare come, al solito, l'ideologia rimanga indietro
rispetto allo sviluppo della società. Il paternalismo senatoriale funzionava
in un villaggio di contadini ma non serviva a molto in un impero. In realtà,
la Roma potenza di prim'ordine non era tenuta assieme da un'ideologia o da
una religione (che invece assorbiva dall'esterno). Solo la disorganizzazione
degli schiavi e la potenza delle armate romane hanno tenuto assieme per
alcuni secoli la vastità delle colonie.
Ad ogni modo, in circa un secolo e mezzo la potenza romana aveva preso il
Mediterraneo. Nello stesso periodo la ricchezza fondiaria si era enormemente
concentrata nelle mani dei senatori, mentre all'altro estremo sociale si era
creata una classe di sottoproletari mantenuti dallo Stato, ingrossata dai
coltivatori rovinati dalle importazioni. Gli schiavi crescevano e si
moltiplicavano con le guerre e i debiti. Per questo, i due secoli finali
della repubblica furono anche un periodo di tumultuosa crescita della lotta
di classe. Gli schiavi concentrati in Italia erano ormai una quantità
enorme, soprattutto in Sicilia. Così le rivolte degli schiavi vi fiorirono.
Ma sebbene a volte gli schiavi avessero la meglio sotto il profilo militare
(a un certo punto in Sicilia i rivoltosi contavano su 200.000 uomini), dopo
aver "liberato" una zona non avevano nulla con cui sostituire lo schiavismo.
Così, si davano al brigantaggio, cercavano di tornarsene a casa o
costituivano piccole città Stato simili alla Roma delle origini. In alcuni
di questi movimenti vi fu anche la partecipazione, di solito sporadica, di
strati di popolazione libera. Tuttavia, in generale gli enormi problemi
etnici e sociali rendevano difficile la saldatura delle forze tra piccoli
contadini e schiavi, oggettivamente su due fronti diversi.
Anche se la classe dominante era d'accordo sulla necessità di schiacciare i
ribelli, molti circoli della capitale capivano che ci voleva una riforma. Il
movimento dei Gracchi fu proprio questo. La famiglia dei Gracchi, di antica
e nobile origine, si mise alla testa del movimento riformatore che ben
presto si spinse ben più lontano di quanto avrebbero voluto. La lotta contro
la fazione dominante del senato da parlamentare si fece ben presto illegale
e rivoluzionaria. Per circa cinque anni (125-120 a.c.) il senato venne
esautorato e Caio Gracco, come tribuno della plebe, esercitò il potere
democratico con cui portò avanti delle riforme che anche nel periodo della
reazione non vennero seriamente intaccate. Ma si trattò del canto del cigno
della vecchia repubblica. La Roma dei contadini indipendenti era finita. La
conseguenza più importante del conflitto tra i Gracchi e il senato fu il
crescere del peso dell'esercito. La società romana era sempre più chiusa in
una serie di equilibri precari che nessuno poteva risolvere in un senso o
nell'altro. I Gracchi provarono a tornare alla Roma antica e ovviamente
fallirono. Ormai Roma era una potenza schiavista. I condottieri, a partire
da Mario, cominciarono a reclutare le truppe su base volontaria. Da braccio
armato dei piccoli agricoltori l'esercito diveniva la guardia personale del
condottiero, da cui si aspettava il bottino, ma a cui garantiva lealtà anche
contro la stessa Roma. Anche per questo le cariche erano ormai quasi
vitalizie. D'altronde, le diverse fazioni non potevano ormai più comporre
pacificamente i loro dissidi, come dimostravano le selvagge scene di
violenza durante le elezioni. Così le lotte tra i capi militari sostituirono
i 'partiti' dei tempi dei Gracchi e il senato. In questa lunga guerra
civile, più ancora delle opinioni politiche contarono gli strumenti di cui i
dirigenti si servirono. Mario, Silla, Pompeo, Cesare, pur su posizioni
diverse si servirono dell'esercito per conquistare e mantenere il potere. L'esito
era inevitabile. Il "cesarismo", ovvero il bonapartismo schiavile, era ormai
solo questione di tempo.
Cominciò Silla, che arrivò addirittura a marciare sulla città, penetrandovi
come un nemico, per restaurare il potere del senato eliminando l'iniziativa
legislativa dei tribuni. Silla fece un deserto sia delle zone ribelli, come
il Sannio, sia di Roma, con le liste di proscrizione. Egli fu di fatto il
primo imperatore, solo non a vita: si ritirò volontariamente nel '79. Ma
nonostante la spaventosa repressione, Silla non riuscì a consolidare la
struttura del regime. Si assistette alla ribellione di Sertorio in Spagna,
che unendo gli schiavi alle tribù locali e al movimento democratico romano
liberò la Spagna e la resse con giustizia ed equità. Ma il culmine della
crisi venne con la rivolta di Spartaco, che riuscì a sconfiggere l'esercito
romano. A un certo punto, intere regioni italiane erano fuori dal controllo
romano e innumerevoli schiavi si unirono alla rivolta. Ma anche qui si vide
che il dramma delle rivolte schiavili antiche: la mancanza di un'alternativa
sociale. Alla fine, come sempre, la rivolta venne annegata nel sangue. I
romani perdettero decine di migliaia di schiavi e molte zone dell'Italia
erano state devastate. Questo diede un ulteriore impulso all'espansionismo.
Lo si vide con la campagna in Gallia. In dieci anni Cesare conquistò l'attuale
Francia uccidendo un milione di uomini e facendone prigionieri altrettanti.
La storia di Cesare è esemplare di come le tendenze soggettive contino assai
meno degli sviluppi storici obiettivi. Cesare era un democratico e usò il
suo potere per indebolire i privilegi del senato, concedendo riforme
popolari. Ma con che cosa poteva essere sostituito il potere del senato? Con
i vecchi comizi curiati gentilizi? Si trattava di strutture buone per un
paesino tribale, non per un impero. Alla fine, al senato si sostituì una
burocrazia permanente e soprattutto l'esercito dei condottieri. Sebbene
Cesare fosse un democratico e godesse di forti simpatie tra la plebe, il suo
potere si basava sull'esercito, non sulla popolazione romana. La sua azione
politica accelerò nei fatti la fine della vecchia Roma. La repubblica
schiavista aveva fatto il suo tempo, le classi che ne formavano il nerbo
erano scomparse.
La crisi della repubblica
Lo scoppio di conflitti aperti era ora solo questione di tempo. Questi
conflitti avevano diversi piani. Da una parte c'erano rivolte schiavili;
dall'altro sommosse cittadine; infine lotte tra frazioni della nobiltà che,
appoggiandosi a questo o quello strato, cercavano di avvantaggiarsi della
crisi. A tutto ciò si aggiunse la lotta delle colonie contro il dominio
romano e l'intrecciarsi di tutto questo. Iniziamo con gli schiavi.
Le rivolte degli schiavi giunsero inattese per la società romana. Le prime
ebbero luogo in Italia (in Sicilia nel 135-132). Poi si svilupparono nelle
colonie con connotati anche di liberazione nazionale (rivolta di Aristonico
in Asia Minore, ecc.); infine in Italia si ebbero le più vaste con la
seconda guerra civile siciliana e Spartaco.
Per le ragioni spiegate, per quanto eroiche fossero queste rivolte, il loro
destino era segnato. L'enorme pericolo rappresentato da queste rivolte
spinsero a concedere talune riforme (gli schiavi furono trattati più
umanamente, la cittadinanza romana fu estesa a tutti gli italici)
accompagnate comunque da una spietata repressione (che fu la base per la
nascita delle religioni di tipo cristiano).
Questi aspri conflitti posero lo Stato romano in una crisi perenne. La
situazione fu presa in mano, come era inevitabile, dai dirigenti militari.
Qualunque fosse la loro fede politica, i capi militari furono un veicolo
obiettivo di bonapartismo. Per secoli, la repubblica era riuscita a far
fronte ai propri problemi esportandoli e dunque insieme, rinviandoli ed
approfondendoli. A un tratto ciò non fu più possibile.
Nasce così l'impero, ideologicamente innestato nel corpus dei costumi
repubblicani. Augusto attuò un programma di rafforzamento dello schiavismo:
sottomise i liberti e rese molto più difficile liberare gli schiavi, epurò
il senato e l'apparato statale per renderlo consono al nuovo potere. Questo
nuovo potere si reggeva su un esercito che aveva ormai 300.000 effettivi
permanenti.
L'impero, quando Vespasiano ampliò gli strati dominanti con elementi
extraitalici, divenne l'organo del dominio di classe di tutti gli schiavisti
del Mediterraneo. Il suo compito era sottomettere schiavi e colonie
assicurando un afflusso continuo di risorse al centro. Per questo la
politica imperiale era spietata verso chi si ribellava. Nelle guerre contro
gli ebrei, i romani uccisero quasi 600.000 uomini, disperdendo gli altri.
Ma la ferocia delle legioni non poteva supplire al fatto che il lavoro degli
schiavi rendeva sempre meno. Per questo nei meandri della società schiavile,
nei latifondi ormai rovinati, cominciarono a sorgere nuove forme di
produzione (l'economia coloniale frazionata). Ad ogni modo, il costo
irrisorio del lavoro, che per giunta non ricadeva sul singolo aristocratico
ma sullo Stato stesso, impediva ogni avanzamento tecnologico. Di fatto, le
tecniche della coltivazione della terra rimasero immutate per secoli. Gli
aristocratici potevano rimediare alla scarsa produttività semplicemente
ampliando le proprie terre. Addirittura ci fu uno sforzo cosciente in questo
senso; Vespasiano e altri vietarono la diffusione di innovazioni perché
avrebbero distrutto occupazione quando, ancora circa il 90% della
popolazione viveva in campagna. Così, non potendosi aumentare la
produttività (il plusprodotto relativo), l'unico modo per accrescere la
ricchezza era accrescere l'estensione dei propri terreni. Questo apriva la
strada a continue lotte tra nobili. Per esempio, Nerone fece condannare sei
proprietari terrieri così da incamerare le loro terre che comprendevano
circa metà dell'Africa romana. La cultura e l'ideologia del tempo
riflettevano la lenta decadenza. Cinismo, disillusione, mancanza di ogni
ferma convinzione sostituivano le scuole filosofiche del passato.
Nel tardo impero gli schiavi costituivano circa due terzi della popolazione,
ma poiché venivano liberati in massa, occorreva un loro approvvigionamento
altrettanto massiccio. Quando la prospettiva di essere liberati si ridusse,
si svilupparono rivolte. Queste, assieme alla bassa produttività della
formazione schiavile fece sì che questa fosse sostituita in modo crescente
dal colonato. Giuridicamente era una forma ibrida perché si trattava di non
schiavi che però avevano obblighi verso il padrone. Il latifondo non veniva
frazionato perennemente ma solo affittato, come era una volta per l'ager
publicus. Ad ogni modo gli schiavi, sconfitti militarmente e con un
effettivo miglioramento delle proprie condizioni, non si ribellarono più su
larga scala. Dovettero ripiegare sulla liberazione celeste, avendo perso la
battaglia per la liberazione reale. Le rivolte di massa dei provinciali
costituivano invece un grave pericolo.
La crisi dell'impero
Si può dire che l'impero romano sviluppò nei modi visti la società schiavile
più classica mai vista al mondo. Uno stato enormemente complesso risucchiava
risorse a interi continenti. Ma anche se durò secoli, l'impero fu comunque
una forma transitoria di società. In questo senso ha una certa somiglianza
con lo stalinismo. La vittoria nella seconda guerra mondiale nascose il suo
carattere di degenerazione storica per alcuni decenni. Ma alla fine arrivò
il redde rationem. Il peso dell'impero era intollerabile per una società che
non aveva modo di aumentare le forze produttive.
D'altra parte questa stagnazione non consentiva nemmeno l'aumento puramente
estensivo delle risorse perché l'esercito doveva difendere un confine lungo
decine di migliaia di chilometri. Alla fine, come sempre succede, la crisi
scoppiò improvvisa con l'arrivo dei barbari, ma i segni del declino erano
evidenti, a partire da un totale vuoto morale e ideologico in cui si
inserirono facilmente le diverse forme di culti orfici, soprattutto il
cristianesimo. Seppure questa fu all'inizio una ideologia rivoluzionaria,
non essendoci le condizioni sociali per una rivoluzione, divenne presto il
sostegno principale dello Stato schiavile (un po' come successe nel
capitalismo con il socialismo riformista). Si avevano crisi e spaccature al
vertice della società, il declino delle classi "medie", l'aumento dell'uniformità
nello sfruttamento della classe oppressa. Mancava però una teoria che
spiegasse cosa fare, e questo a sua volta dipendeva dall'impossibilità
oggettiva di creare una società senza classi in questo mondo. Non a caso si
diffondevano dottrine che predicavano società senza classi in un mondo
fantastico. L'impossibilità di vincere ovviamente non impedì comunque le
rivolte. Basti pensare agli ebrei (non solo gli Esseni) e alle rivolte sotto
Comodo per la mancanza di grano.
La società tardoromana
Se il modo di produzione non riesce a sviluppare la produttività del lavoro,
per sopravvivere deve ricorrere a risorse esterne. Questo implica la sua
espansione territoriale e l'incontro con altre civiltà. Il modo di
produzione schiavile era talmente improduttivo che nella sua forma più
sviluppata, Roma, si combinava con un mondo in gran parte ancora dominato da
rapporti asiatici o gentilizi. Esso non aveva un motore di sviluppo
propriamente endogeno. Sopravviveva "luxemburghianamente" con l'espansione
territoriale. Non appena finirono le terre da conquistare, iniziò il suo
lungo declino.
La parabola della società romana era già in fase discendente alla nascita
dell'impero. Le province si allontanavano, il trucco di integrare i barbari
nell'esercito non funzionava più. Per tutti, l'impero era un orribile peso
senza nessun senso se non permettere alla cricca imperiale di vivere nel
lusso più sfrenato. Ogni città si rifugiava nei suoi campi accelerando le
spinte centrifughe. In ultima analisi l'impero si reggeva sull'esercito. Fu
solo questione di tempo perché l'esercito subisse sconfitte decisive contro
gli Unni e i Goti. Che la burocrazia imperiale fosse del tutto dominata dall'esercito
lo si vedeva nella nomina dell'imperatore che era semplicemente un generale,
spesso profondamente ignorante di materie amministrative, a volte
analfabeta, ma con un certo seguito nella truppa. Lo sbandamento sociale si
rifletteva nello sbandamento ideologico: la classe dominante non aveva
assolutamente una visione omogenea delle cose, c'erano così pagani,
cristiani divisi in cento sette, agnostici.
Ma questo frazionamento aveva una base oggettiva: non c'era nessuna
possibilità di salvare l'impero d'occidente dalla rovina. L'impero soffocava
a tal punto la società che parti crescenti delle province preferivano vivere
sotto i barbari. Le zone di confine dell'impero erano di fatto una fusione
tra diverse popolazioni barbare, ormai stanziali, con altre nomadi. Per
questo, quando si sviluppò la crisi, alle tribù di Goti, di Vandali, che
puntavano verso Roma non fu difficile passare, poiché la popolazione li
considerava dei liberatori. E così il cerchio si chiuse e i barbari
spazzarono via le rovine della società schiavile senza però portare nulla in
cambio. Ne nacque l'economia basata sui contadini coloni, la diffusione dei
monasteri autosufficienti ecc., in definitiva, nella splendida definizione
di Marx, il declino delle parti in lotta. Così si concluse la parabola della
società antica.
MONARCHIA E REPUBBLICA
La storia di Roma viene suddivisa dagli storici in tre periodi:
monarchia, dalla fondazione (753 a.C.) alla cacciata del re di origine
etrusca Tarquinio il superbo (509 a.C.);
repubblica, sino alla fondazione dell'impero per opera di Augusto (30 a.C.);
impero, sino alla caduta dell'impero d'occidente (476 d.C.).
Roma non ebbe una fondazione precisa. La data del 753 a.C., che non si basa
su alcun documento, fu fissata nel I sec a.C. La città ebbe probabilmente
origine da poche capanne abitate da pastori, che col tempo si raggrupparono
in un villaggio sul colle Palatino, non lontano dal Tevere. Quando Roma
diventò la città più forte e ricca del suo tempo, si pretese che le sue
origini fossero nobiliari: di qui il ricorso ai miti/leggende (Romolo figlio
di Marte, dio della guerra, la madre, Silvia, sacerdotessa della dea Vesta,
discendente dell'eroe troiano, Enea, scampato alla distruzione della sua
città, poi approdato sulle rive del Lazio).
Durante la fase monarchica, i re di Roma -secondo la tradizione
semileggendaria- sarebbero stati sette: Romolo, Numa Pompilio, Tullo
Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il
Superbo. Ad essi la tradizione attribuisce l'organizzazione dello Stato e
dell'esercito, del culto religioso, la fondazione del porto di Ostia, la
costruzione di ponti, acquedotti ecc. Il nome Tarquinio sta ad indicare che
per un certo periodo Roma fu dominata da genti di origine etrusca. Forse
Tarquinio il superbo fu cacciato dalla città perché voleva imporre una
monarchia assoluta ed ereditaria. Dopo di lui i romani proclamarono la
repubblica.
Al tempo della monarchia, il re veniva eletto dal Senato (autorevole
consiglio di anziani). Il re governava ed esercitava il potere politico,
giudiziario, militare e religioso. La religione era politeistica e
naturalistica (divinità dei campi, dei boschi, delle greggi).
Gli abitanti di Roma erano distinti in tre classi (guarda il diagramma della
Costituzione):
patrizi (ricchi e potenti, si consideravano discendenti dei fondatori della
città),
plebei (umili lavoratori, senza diritti politici: non potevano neppure
contrarre matrimoni coi patrizi, né trattare affari);
schiavi (all'origine prigionieri di guerra, di proprietà dei padroni cui
venivano assegnati; si chiamavano liberti se affrancati).
Il primo periodo della repubblica si differenzia da quello monarchico
sostanzialmente per un fatto: invece di un re in carica fino alla morte, il
senato patrizio eleggeva ogni anno due consoli (repubblica aristocratica).
Le prerogative religiose erano affidate a un sacerdote apposito. Il governo,
anche qui, era in mano ai patrizi, i soli che ricoprivano cariche pubbliche
e che erano membri di diritto del senato. Solo loro potevano fare le leggi.
I plebei, pur essendo costretti a partecipare alle guerre, con grave danno
per i loro campi e per l'attività artigiana, non avevano il diritto di
partecipare alla spartizione dei territori occupati. Sicché, ad ogni guerra
il divario tra patrizi e plebei invece di diminuire, aumentava: il rischio
maggiore era che, indebitandosi, i plebei finissero tra le fila degli
schiavi.
La pretesa parificazione dei diritti con i patrizi, portò i plebei a
condurre dure lotte sociali, civili e politiche. Alla fine i patrizi furono
costretti a riconoscere due magistrati (tribuni della plebe) come
rappresentanti dei plebei in senato. Essi potevano opporre il loro veto alle
leggi ritenute anti-plebee.
Ma la più grande conquista dei plebei furono le Leggi delle XII tavole
(incise nel 450 a.C. su tavole di bronzo ed esposte nel Foro, la piazza più
importante della città). Esse segnano il passaggio dal diritto orale a
quello scritto: affermano il principio dell'uguaglianza davanti alla legge e
la sovranità del popolo. Tuttavia, solo dopo circa un secolo e mezzo fu
riconosciuto ai plebei il diritto di accedere a tutte le cariche pubbliche.
La concessione dei diritti ai plebei portò le classi e i ceti più agiati a
scatenare diverse guerre di conquista contro i popoli vicini, per
"recuperare", per così dire, i privilegi perduti. Roma così poté affermare
il suo predominio su Etruschi, Volsci, Equi, Sanniti... (Italia centrale),
dopodiché si volse verso sud, impegnandosi nella guerra contro Taranto e
altre colonie greche. Tra il V e il III sec a.C. praticamente i romani
occuparono tutta la penisola. I popoli conquistati non vennero schiavizzati,
ma furono costretti ad accettare le leggi romane, il latino come lingua,
alcune divinità religiose ecc.
Fra il III e il II sec. a.C. i romani contadini e guerrieri, com'erano
sempre stati, cominciarono ad interessarsi anche di commercio e di
navigazione, soprattutto perché, conquistando le città etrusche e greche,
erano venuti a contatto con civiltà che per molti aspetti erano superiori
alla loro.
L'interesse per gli scambi commerciali portò Roma al conflitto con Cartagine
(città fondata dai Fenici), che allora dominava tutto il Mediterraneo. Le
"guerre puniche" (fenicie) durarono un secolo e mezzo. Roma rischiò di
essere distrutta dalla memorabile impresa del generale Annibale, che dalla
Spagna era giunto in Italia passando le Alpi. Tuttavia, Roma non solo occupò
la Spagna e altre colonie cartaginesi, ma, non volendo alcun rivale nel
Mediterraneo, rase al suolo la città di Cartagine, trasformandola in
provincia romana. Nello stesso anno (146 a.C.), anche la Grecia divenne
provincia romana.
Le idee direttive dell'organizzazione politico-amministrativa delle
province:
nessuna uguaglianza di diritti tra romani e popoli assoggettati;
formale rispetto delle tradizioni locali;
diversità di trattamento (divide et impera).
L'egemonia sul Mediterraneo concentrò nelle mani di poche classi agiate
enormi ricchezze: in particolare i latifondisti acquistavano grandi
proprietà che poi trasformavano in pascoli o che facevano lavorare
gratuitamente dagli schiavi comperati a poco prezzo. I proprietari dei
piccoli poderi, che coltivavano la terra direttamente, non potevano
sostenere sul mercato la concorrenza dei latifondisti. Di qui la necessità
di vendere i poderi, di lavorare come braccianti nei poderi altrui,
d'indebitarsi, di emigrare...
Fu così che nacquero nuove lotte sociali tra patrizi e plebei. Fra i molti
tribuni della plebe che cercarono di difendere gli interessi delle classi
meno abbienti, spiccano i nomi di Tiberio e Caio Gracco, la cui riforma
agraria prevedeva il frazionamento del latifondo e la distribuzione dei
lotti a coloro che s'impegnavano a coltivarli direttamente. Tuttavia i
latifondisti seppero opporre un'efficace resistenza.
La lotta sociale tra patrizi e plebei assunse, sul piano politico, la
fisionomia di una lotta tra due partiti avversi: democratico (Caio Mario) e
aristocratico (Cornelio Silla). Mario si era procurato il favore del popolo
per aver immesso nell'esercito anche i cittadini sprovvisti di censo,
trasformando l'esercito da cittadino in mercenario. Silla era invece
appoggiato dal senato e, dopo aver sconfitto Mario (che non si arrischiò di
fare delle riforme "troppo democratiche"), si proclamò dittatore a vita. Il
gesto era senza precedenti, poiché la legge romana concedeva il titolo solo
in caso di guerra e per non più di sei mesi. Silla tuttavia, due anni dopo,
lascerà volontariamente il potere ritirandosi a vita privata, salvaguardando
così l'autorità del senato.
Non molti anni dopo, a causa del riaccendersi delle ostilità fra i due
partiti e per evitare lo scontro armato, si propose di affidare il potere a
un triumvirato: Pompeo (per il prestigio militare), Crasso (per la
ricchezza), Cesare (perché capo del partito democratico).
La pace ebbe breve durata a causa delle rivalità tra Cesare e Pompeo. La
lotta politica si trasformò in guerra civile e Pompeo ebbe la peggio. La
morte di Crasso nella guerra contro i Parti permise a Cesare di farsi
conferire dal senato: potestà tribunizia (sua persona sacra e inviolabile,
con potere di veto verso le delibere senatoriali), pontificato massimo
(suprema carica religiosa), dittatura a vita (tutti i poteri civili e
militari).
Cesare segnò il tramonto della potenza del senato e l'inizio del trapasso
dalla repubblica all'impero (monarchia militare assoluta e divina). Egli
aveva in mente un vasto piano di riforme (ad es. concedere alle province la
cittadinanza per romanizzare l'impero), ma non poté realizzarle perché morì
in una congiura organizzata dai pompeiani (44 a.C.).
Gli stadi evolutivi essenziali della storia sociale romana sono tre e
coincidono, all'incirca, con le sue tre macro-fasi istituzionali: la
Monarchia, la Repubblica e l'Impero.
Se la prima (di cui in realtà sappiamo molto poco) rappresenta la fase
arcaica di Roma, la seconda costituisce invece un momento nella formazione
di quell'organizzazione socio-economica il cui esito finale culminerà nella
nascita dell'Impero (costituendo perciò il lungo periodo di transizione
dall'epoca arcaica a quella - più matura - pienamente imperiale).
L'Impero, infine, conoscerà dapprima un momento di evoluzione positiva, al
quale farà seguito uno di crisi e di recessione economica, il cui culmine
sarà costituito dalla caduta dell'Impero d'Occidente.
Principali fasi - sociali e economiche - della storia romana:
A - FASE MONARCHICA : è quella delle caste e del capitalismo fondiario,
nella quale i ricchi proprietari diventano sempre più ricchi, mentre i
piccoli (proprio a causa della loro povertà) sono sempre più vincolati ai
primi dai debiti: una civiltà caratterizzata, quindi, dal fenomeno del
patronato o del clientelismo.
B - FASE REPUBBLICANA : è caratterizzata dalla prima espansione militare,
nonché dalla nascita dei primi commerci e dei primi eserciti di
professione - tutte attività che aiutano la plebe ad accrescere la propria
ricchezza e il proprio prestigio politico e sociale: si passa quindi da una
società chiusa, fondata sulle caste (nella quale conta essenzialmente la
nascita), ad una più aperta, in quanto basata sulle classi (in cui anche la
ricchezza, frutto del lavoro e dell'iniziativa privata, diviene una fonte di
potere).
C - FASE IMPERIALE : è il periodo - che si estende dalla tarda Repubblica
fino al'Impero - in cui sorge e si afferma una concezione globale dello
stato: lo stato inteso come complesso di regioni che intrattengono tra loro
degli scambi commerciali (secondo una modalità capitalistica di tipo
distributivo) e culturali.
In essa il latifondo diviene sempre più una - ma non la sola - fonte di
ricchezza, poiché gli scambi commerciali costituiscono il complemento della
ricchezza puramente agraria: essi pongono infatti in circolazione i prodotti
della terra.
Pur fondamentali e potenti, i latifondisti non sono più la sola classe
egemone: si affiancano a essi le classi affaristiche e finanziarie
(equestri) ma anche la plebe agiata, che vive di commerci o svolgendo
mansioni amministrative per l'Impero o infine arruolandosi negli eserciti.
[Si ricordi a tale proposito la relazione di reciproco sostegno tra Stato e
ceti medi, ovvero tra burocrazia ed eserciti e classi commerciali].
In questi anni si sviluppa un sistema integrato, nel quale le varie classi
(fondiarie, finanziarie, commerciali e burocratiche-militari) collaborano al
benessere collettivo, mantenendo inoltre i ceti più poveri (essenzialmente
la plebe urbana) con le eccedenze della loro ricchezza.
Al vertice di una tale organizzazione, si trovano l'Imperatore e la sua
corte - il centro direttivo di questo vastissimo e complesso organismo
politico (l'Imperatore è inoltre affiancato dalle più antiche istituzioni
repubblicane, portatrici essenzialmente degli interessi della nobiltà e dei
ceti più ricchi).
Tale situazione 'idilliaca' però (che si protrae approssimativamente dalla
nascita dell'Impero fino al periodo di Traiano e Antonino Pio) si
interromperà nel terzo secolo, quando una serie di fattori - riconducibili a
un abbassamento della produttività (forse per la carenza di schiavi e per la
crisi conseguente del sistema produttivo dei latifondi) e all'inizio delle
invasioni barbariche su tutti o quasi i confini - determineranno una rottura
della precedente situazione di armonia sociale.
A questo punto, quell'alleanza tra i ceti che aveva caratterizzato e
sostenuto il rigoglio dell'Impero comincia a vacillare: meno produttività
significa infatti meno commercio, quindi più povertà, quindi ampliamento dei
latifondi (divenuti il più sicuro rifugio alla miseria); mentre maggiori
difese militari significano maggiori spese statali e maggiori tasse (quindi,
di nuovo, un incremento della povertà.).
Inizia così una fase involutiva, nella quale i latifondi tendono a divenire
realtà economiche autonome, isolate dal resto della società e
tendenzialmente indipendenti rispetto al resto dello Stato; mentre
quest'ultimo tende a considerare tali forze degli ostacoli per il proprio
dominio (il che implica la rottura del precedente equilibrio tra città e
campagne, elemento fondamentale per la stabilità e il benessere
dell'Impero).
Ma, soprattutto, lo Stato è costretto sempre più spesso a difendere i propri
confini dai barbari, e per fare ciò deve affidarsi 'anima e corpo' agli
eserciti, aumentando inoltre il carico fiscale a danno dei privati
cittadini.
Inizia a questo punto una fase ulteriore, segnata dallo strapotere dei
soldati e delle truppe insediate stabilmente nelle varie regioni imperiali,
nonché di conseguenza dalla tendenza di queste ultime al separatismo e
all'irredentismo.
A una tale tendenza, Roma reagirà rafforzando il predominio istituzionale
dell'autorità centrale dell'Imperatore, rinnegando tuttavia in tal modo
anche quelle antiche tradizioni istituzionali, democratiche e pluralistiche,
che avevano caratterizzato i periodi più felici della sua storia.
In questi anni l'Impero romano finisce perciò per perdere quei connotati che
aveva avuto sin dalla propria nascita (con Ottaviano Augusto), cominciando
ad assomigliare da un punto di vista politico al suo più tradizionale
nemico: l'impero persiano.
Rafforzando l'autorità assoluta dell'Imperatore, lo Stato cerca di mantenere
il controllo sui tanti particolarismi locali di carattere militare da cui è
oramai minato. Tuttavia appare chiaro come una tale situazione in futuro sia
destinata a degenerare, essendo le esigenze di difesa militare in costante
crescita (e assieme a esse anche i poteri degli eserciti).
Inizia allora un'ultima fase - il cui esito finale sarà costituito dalla
nascita dell'economia feudale - in cui lo Stato, indebolito e debilitato
dalle contraddizioni che lo minano internamente (essenzialmente la crescita
dei latifondi a spese delle città e una militarizzazione esasperata), si
alleerà con la nascente Chiesa cristiana, la quale costituirà - soprattutto
attraverso le proprie opere di assistenza sociale - un valido complemento e
un aiuto per la sua missione civilizzatrice.
La Chiesa guiderà così l'Impero verso una nuova era: un'era che per la parte
occidentale ed europea sarà di totale dissoluzione (con la nascita dei regni
barbarici), mentre per quella asiatica sarà piuttosto di ristrutturazione,
nel segno comunque di un'economia fondamentalmente agraria - seppure
caratterizzata, rispetto a quella occidentale, da un numero maggiore di
scambi commerciali e culturali.
1. La monarchia (VIII - VI secolo), ovvero il periodo gentilizio-arcaico
dello Stato romano
Nel primo assetto dello Stato romano è il Sovrano ad essere al vertice della
gerarchia sociale; al di sotto di questi si trova la grande proprietà
terriera, costituita esclusivamente dai nobili, rappresentati politicamente
dal Senato. La classe senatoria-nobiliare si pone come una casta chiusa,
impermeabile a qualsiasi cambiamento e come tale immobile.
Al di sotto della nobiltà si trova il resto della popolazione, ovvero quella
che potremmo definire la plebe, anche se in realtà quella tra plebei e
patrizi è una contrapposizione molto posteriore. Per ora sarebbe quindi più
corretto parlare, anziché di plebei, di popolo o di ceti subalterni.
Anche la struttura sociale conferma poi la natura arcaica del primissimo
Stato romano: la popolazione si divide per gentes (ovvero per ceppi
familiari differenti), all'interno dei quali si trovano i patroni (i nobili)
e i loro clientes (essenzialmente pastori e contadini).
Questo tipo di rapporto implica che il cliente si impegni a rendere
nell'arco di tutta la sua vita dei servizi al proprio patrono, ricevendone
in cambio protezione; e implica inoltre per il primo il dovere di aiutare il
secondo nel caso che questi cada in disgrazia. Questo fatto ci fa ben capire
come la società arcaica si basi su rapporti sociali estremamente rigidi, di
casta, e non preveda (almeno in linea di massima) alcuna possibilità di
mobilità sociale.
L'altra struttura portante della società romana è la familia, l'unità che
sta alla base della gens stessa: ogni gens è infatti rappresentata in senato
dagli esponenti delle proprie famiglie più autorevoli.
Anche dentro la famiglia i rapporti di potere sono fortemente gerarchizzati:
al di sopra di tutti si trova infatti il pater familias, la cui autorità è
quasi assoluta.
2. Evoluzione della Monarchia romana
Il Lazio diviene presto una zona d'influenza politica economica e culturale
etrusca. Non è un caso quindi se alcuni dei sovrani romani (i Tarquini) sono
di origine etrusca.
Tale influenza, però, non passa solo attraverso gli aspetti politici e
istituzionali (bisogna notare anzi come l'influenza etrusca non si trasformi
mai in un vero e proprio dominio), ma riguarda al contrario tutti gli
aspetti della società romana.
Essa da l'avvio (essendo causa di forti trasformazioni sociali) ad una
considerevole evoluzione interna, determinando molto probabilmente
l'insorgere dei primi rivolgimenti sociali, di quelli cioè che possiamo
considerare come i primi segni della lotta di classe in Roma.
Sotto l'influenza etrusca si crea una classe di ricchi di origine plebea
(fatto che all'inizio comporta un semplice ampliamento della classe
senatoria), mentre sul piano amministrativo si inventa una nuova forma di
ripartizione della popolazione: ovvero quella basata sulle curie
(alternativa a quella per gentes), il cui criterio è di natura territoriale.
In questo periodo ha così inizio una lunga lotta tra due opposte concezioni
della gestione dello Stato:
a - la concezione arcaica dei senatori (legata, come si sarà capito, alla
difesa dei privilegi di 'casta'),
b - e una concezione più moderna (che potremmo definire 'classista')
tendente invece a una società in cui sia presente anche una certa mobilità
sociale (e opposta chiaramente alla concezione basata sulla divisione per
caste).
La lotta tra esse avrà, tra gli altri suoi effetti, anche il passaggio dalla
monarchia alla repubblica.
Intanto, sul piano internazionale, Roma comincia a divenire una potenza nel
Lazio, pur non essendo l'unica. Una tale situazione di competizione la
porterà a scontrarsi con altre città, e al tempo stesso darà inizio al lungo
processo di ingigantimento territoriale.
3. Innovazioni sociali e politiche sotto Servio Tullio
Dei sette (mitici) re di Roma, quello che merita una menzione particolare è
senza dubbio Servio Tullio.
Si deve a lui una prima trasformazione della società romana in senso
decisamente democratico (come attesta anche la tradizione delle sue umili
origini).
Fondamentalmente egli opera due riforme, peraltro strettamente
interconnesse: quella dell'ordinamento della popolazione e quella
dell'esercito.
In entrambe detiene un ruolo fondamentale l'aspetto censuario, ovvero il
criterio della ricchezza individuale, che sostituisce - o meglio integra -
quello di casta.
a - Riguardo alla riforma dell'ordinamento la popolazione viene divisa in
centurie, cioè secondo il diverso censo dei cittadini.
b - Una cosa simile avviene anche all'interno dell'esercito. Ai cavalieri
(di origine nobiliare) si aggiungono infatti gli opliti [notare l'influenza
della cultura militare greca], divisi a loro volta in base al censo.
Per capire l'importanza di una simile riforma bisogna tenere presenti le
implicazioni che essa non può non avere all'interno della società antica.
La possibilità di appartenere in modo stabile (e non solo come 'recluta' in
tempo di guerra) all'esercito dello Stato comporta infatti un alto grado di
riconoscimento sociale (si tenga presente che l'esercito è il principale
strumento di offesa e soprattutto di difesa dello Stato), avendo quindi per
conseguenza dei risvolti politici enormi.
L'introduzione di vasti strati sociali nell'esercito permanente rappresenta
perciò una grandissima conquista politica e sociale per il popolo, che si
vede ora partecipe di una parte almeno del prestigio e del potere direttivo
delle classi nobiliari.
Nel periodo finale della monarchia, quindi, la società romana comincia ad
uscire dalla sua fase arcaica, nella quale il potere era assegnato
essenzialmente in base a criteri di nascita e di privilegio, e inizia un
lungo percorso di 'ammodernamento' in cui il censo (cioè la ricchezza, anche
se di un tipo non ancora monetario) detiene un ruolo essenziale
nell'inserimento sociale dei cittadini: da una struttura per caste dello
Stato si passa così a una struttura per classi.
Fu la contesa tra allevatori e contadini che fece nascere tra i romani la
monarchia, e la leggenda di Romolo e Remo ne è la ricostruzione mitologica.
Come tutte le monarchie antiche, arcaiche, l'agricoltura, ovvero la
popolazione stanziale, ebbe la meglio sull'allevamento, ovvero la
popolazione nomade. Come ciò sia potuto accadere è difficile dirlo: non
possono essere stati fenomeni meramente quantitativi, come p.es. l'aumento
della popolazione, a determinare una svolta così radicale. Ovvero
all'accrescere dei fenomeni quantitativi ad un certo punto deve aver fatto
seguito una decisione qualitativa che s'è posta in maniera drammatica, in
aperta violazione di consuetudini condivise dalla comunità di villaggio (la
leggenda suddetta non è molto diversa, sotto questo aspetto, da quella di
Caino e Abele).
Si possono fare alcune ipotesi: gli allevatori erano divenuti un elemento di
freno allo sviluppo del villaggio; la parte più debole tra gli allevatori
decise di diventare stanziale; la scoperta dell'agricoltura portò il
villaggio a sottovalutare l'importanza dell'allevamento.
Si può inoltre dire che le popolazioni stanziali, per avere la meglio su
quelle nomadi anche sul piano culturale, ebbero bisogno di darsi delle
motivazioni ideologiche, o meglio mitologiche, con cui spiegare il loro
atteggiamento prevaricatore. Di qui le leggende sulla discendenza troiana
dei romani, anzi dei latini, o sulle origini semidivine del fondatore
Romolo.
Il fatto che molti re romani siano stati di origine etrusca si può forse
spiegare pensando che gli etruschi erano allora la popolazione italica più
forte e Roma dovette scendere a patti con loro. Ma è anche possibile
accettare l'ipotesi che furono proprio le popolazioni stanziali ad aver
bisogno degli etruschi per potersi imporre su quelle nomadi, dedite
all'allevamento e contrarie alla privatizzazione della terra, salvo poi
sbarazzarsi degli stessi etruschi a vittoria ottenuta e consolidata.
La nascita e lo sviluppo della monarchia, che durò due secoli e mezzo
(753-509 a.C.), comportò l'espansione progressiva dei romani a danno delle
popolazioni limitrofe, senza che per questo si riuscì a risolvere il
principale conflitto sociale interno, quello tra le classi abbienti, i
patrizi, e le classi proletarie, i plebei.
Il più importante dei cosiddetti "sette re" fu senza dubbio Servio Tullio,
che divise la popolazione in cinque classi di reddito, al fine di assicurare
allo Stato delle entrate sicure, che non dipendessero unicamente dalle
conquiste militari.
I nullatenenti erano destinati a rimanere tali, poiché erano esclusi da
qualunque diritto e persino dalla possibilità di arruolarsi nell'esercito.
Quest'ultimo, a sua volta, era organizzato su base classista: nella
spartizione del bottino i cavalieri ottenevano di più rispetto ai fanti con
armatura pesante, e questi di più rispetto a quelli con armatura leggera.
Il passaggio dalla monarchia alla repubblica aristocratica fu determinato
dall'ampliarsi del potere economico di quelle classi che non potevano
vantare una discendenza di alto rango. Il potere era semplicemente
determinato dal possesso fondiario. Oppure fu determinato dal fatto che le
classi aristocratiche, divenute molto potenti sul piano economico, volevano
sbarazzarsi della tutela politica degli etruschi.
Molto probabilmente gli etruschi poterono essere cacciati solo dopo che le
classi abbienti promisero ai plebei il riconoscimento di taluni diritti o
privilegi. Forse da qui è nato il fenomeno del clientelismo: se il plebeo
aiutava il patrizio a rivendicare i propri diritti, questi poteva
ricompensarlo con forme di assistenza o riconoscendogli la facoltà di
esercitare alcuni diritti.
Per "plebeo" non bisogna ovviamente intendere lo "schiavo", ma semplicemente
il lavoratore privo di proprietà terriera, quella che appunto faceva la
differenza tra le classi. Plebeo poteva essere l'artigiano, il piccolo
commerciante, così come il piccolo coltivatore.
Probabilmente la monarchia fu abbattuta dalle classi plebee politicamente
organizzate dalle classi patrizie di nuova ricchezza, che non potevano
vantare una sicura discendenza nobiliare.
L'accordo tra patrizi e plebei in funzione anti-etrusca e forse anche in
contrasto coi poteri forti delle classi più agiate e conservatrici, durò
circa una ventina d'anni: già nel 486 a.C. i plebei non avevano più alcuna
possibilità di essere eletti come consoli. Non è un caso che dopo la fine
della monarchia il governo venisse affidato a due consoli: con questa forma
di governo le classi patrizie potevano dimostrare la propria democraticità
agli occhi di quelle plebee.
Tuttavia, ogni rivoluzione politica viene presto tradita se non si risolvono
le contraddizioni sociali. Ai plebei occorse più di un secolo (leggi
Licinie-Sestie del 367 a.C.) prima di essere riammessi alle maggiori cariche
pubbliche. Per ottenere ciò essi dovettero organizzarsi politicamente e
lottare in maniera unita.
Le conquiste principali furono le Dodici Tavole (leggi scritte),
l'istituzione del Tribunato (una sorta di sindacato con funzioni politiche),
il diritto alla secessione (una sorta di rifiuto di combattere contro un
nemico comune ed esterno), il diritto ai matrimoni misti (interclassisti).
Il difetto principale dell'amministrazione del governo repubblicano stava
nel carattere delegato della democrazia e nel fatto che le classi più povere
restavano comunque escluse dall'esercizio di qualunque forma di potere
istituzionale. P.es. nell'assemblea più allargata (i Comizi centuriati)
erano assenti tutti coloro che non avevano un reddito sufficiente a
garantirsi un equipaggiamento militare.
I Comizi centuriati, nonostante questa forte limitazione nella base sociale,
avrebbero potuto garantire maggiore democrazia alle istituzioni rispetto a
quanto avrebbe potuto fare il Senato, dove la carica era a vita e dove
poteva accedere solo chi aveva svolto funzioni pubbliche (magistrato ecc.).
Di fatto però i Comizi centuriati avevano un potere piuttosto formale, in
quanto mentre il Senato serviva per garantire e ampliare un potere già
acquisito sul piano economico, i Comizi centuriati avrebbero dovuto servire
per contrastare tale potere o per permettere alle classi meno agiate di
conquistarlo o di vederselo aumentare. Il che non avvenne. Nella democrazia
qualunque forma di delega della rappresentanza riduce di fatto il livello di
partecipazione del cittadino nel contesto locale in cui opera.
Il fallimento politico dei Comizi centuriati rispetto alle prerogative del
Senato porterà allo svuotamento progressivo del concetto di democrazia e
all'involuzione verso la dittatura imperiale.
Peraltro, i Comizi centuriati avevano anche un difetto politico congenito,
che impediva un'equa rappresentanza democratica: tutto il popolo romano era
stato suddiviso in base al censo in 193 centurie, ciascuna delle quali
poteva esprimere solo un voto. Le classi più ricche disponevano di 98 voti e
quindi della maggioranza assoluta.
Si può in un certo senso dire che il fallimento politico dei Comizi
centuriati portò Roma a trasformarsi in un soggetto imperialistico nei
confronti delle popolazioni limitrofe.
Questa dinamica politico-militare si ripeterà nei secoli futuri a livelli
sempre più elevati, cioè con gradi più marcati o forme più acute, sino al
punto in cui oltre un certo limite non sarà più possibile andare.
Che questa democrazia non funzionasse è dimostrato anche dal fatto che in
politica estera fu proprio in questo periodo che Roma scatenò l'offensiva
più forte contro le popolazioni italiche (150 anni per occupare tutto il
Lazio, dal 509 al 350 a.C.: un tempo così lungo perché in concomitanza
scoppiarono dure lotte intestine tra patrizi e plebei).
E comunque la storia di Roma è stata continuamente contrassegnata dal fatto
che proprio nel momento in cui sembrava essere più garantita la democrazia,
quello invece era il momento in cui s'imponevano dinamiche totalitarie. E
queste sono tanto meno cruente in politica interna quanto più possono
esserlo in politica estera.
Quando si dice che la repubblica ha conosciuto delle forme di democrazia
superiori a quelle del periodo monarchico e imperiale, non bisogna mai
dimenticare di sottolineare che la democrazia ivi presente aveva non solo i
limiti delle democrazie parlamentari e delegate, ma anche quelli relativi
alle discriminazioni sociali basate sul reddito e soprattutto sulla
proprietà. Proprio le leggi delle Tavole autorizzavano a schiavizzare il
debitore insolvente o persino a eliminarlo fisicamente se nessuno voleva
pagare per lui.
Già nel III sec. a.C. Roma dominava tutta l'Italia, con esclusione della
parte nord e delle isole. Le concessioni che i patrizi fecero ai plebei
servirono anche per assicurarsi l'appoggio di quest'ultimi nelle conquiste
militari contro le popolazioni italiche. E' interessante notare, in questo
senso, che quanto più le popolazioni italiche reagivano all'invasione
romana, tanto più i patrizi erano disposti a concedere i diritti rivendicati
dai plebei: sarà questa la strategia vincente contro i cartaginesi di
Annibale.
Le conquiste territoriali dei romani furono così grandi in tutto il periodo
repubblicano che la Roma imperiale praticamente pensò di poter vivere di
rendita per i secoli futuri. La più grande illusione fu proprio quella di
credere che le popolazioni sottomesse avrebbero accettato il dominio romano
solo perché questo presumeva di mostrare la propria superiorità con
l'esercizio del diritto, con l'esperienza bellica, con le capacità di
costruzioni edilizie, ecc.
In realtà la persistenza delle contraddizioni socio-economiche porterà le
popolazioni sottomesse (specie quelle di confine) a parteggiare per i popoli
invasori.
Roma si illuse enormemente nel credere che le cosiddette "popolazioni
barbariche", una volta sottomesse o cacciate dai loro territori, avrebbero
accettato con rassegnazione la loro sorte. Sarebbe interessante verificare
quanto il lato "barbaro" di tali popolazioni fosse una caratteristica ad
esse endogena o non anche una conseguenza dei secoli di terrore causato
dallo strapotere di Roma. Le invasioni in epoca medievale furono certamente
terrificanti, ma non meno dell'oppressione che Roma esercitò su queste
popolazioni per almeno mezzo millennio.
Roma cercò di accattivarsi le simpatie di tali popolazioni concedendo
diritti sempre maggiori, reclutandole nelle file degli eserciti,
riconoscendo qualunque culto religioso, ma tutto ciò servì solo a rallentare
l'inevitabile crollo.
E' sicuramente sbagliato sostenere che la causa principale del crollo fu
dovuta alle invasioni barbariche. Il motivo principale furono le interne
contraddizioni, di tipo sociale ed economico, la mancata soluzione delle
quali comportò l'indebolimento generale dell'impero nei confronti della
pressione esterna.
Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che le invasioni barbariche furono
una risposta alla mancata soluzione di quelle contraddizioni: non la
risposta più adeguata ma certamente una nuova risposta a quelle
contraddizioni.
I barbari aumentarono il tasso di democrazia della società romana o comunque
diedero una forma sociale a un concetto di democrazia che al massimo si
esprimeva in forme giuridiche e solo parzialmente politiche.
La redistribuzione della proprietà permetterà la trasformazione della
schiavitù in servaggio e permetterà anche un certo progresso tecnologico
nella lavorazione della terra.
Si può forse dire che dopo le guerre puniche, che pur furono le più
importanti per i destini dell'impero, Roma aveva praticamente segnato il
proprio destino. Queste guerre, infatti, invece di servire ad allargare la
base sociale del futuro impero, la restrinsero enormemente, a tutto
vantaggio e dei proprietari terrieri, che divennero grandi latifondisti, e
dei grandi mercanti (l'ordine equestre).
Le province furono considerate come terra di conquista di grado inferiore a
quelle italiche, una sorta di proprietà esclusiva delle classi più agiate.
Si arrivò a questo proprio perché dette classi volevano recuperare nei
territori più lontani (o per loro mezzo) ciò che erano state costrette a
cedere nella madrepatria, a causa delle lotte sociali.
L'enormità dei latifondi, che si trovavano anche in Italia, determinò la
fine dei piccoli proprietari terrieri, la loro trasformazione in operai
salariati se non in schiavi, in mercenari o, peggio, in delinquenti.
L'ultima chance che Roma ebbe di ripensare la politica favorevole al
latifondo fu quella offerta dai tentativi di riforma agraria dei fratelli
Gracco, ma l'opposizione fu netta.
E' indicativo di quanto dovette essere esteso il latifondo il limite massimo
di proprietà che i Gracchi posero ai senatori: 125 ettari, che potevano
tranquillamente raddoppiare se esisteva prole.
Significativo altresì il fatto che quando l'ultimo Gracco cercò di allargare
la base sociale dell'impero concedendo la cittadinanza romana a tutti gli
italici (coi privilegi annessi), persino la plebe di Roma gli si rivoltò
contro. Questo a testimonianza dei rapporti clientelari che i grandi
proprietari di beni e di terre erano già riusciti a creare nel corso delle
conquiste imperiali.
La cittadinanza fu concessa solo in occasione della guerra sociale (90-88 a.
C.), ma a condizione di salvaguardare intatto il patrimonio terriero: un
potere che per essere conservato avrà sempre più bisogno di una dittatura
politica, la quale, per imporsi, avrà bisogno di apparire solo formalmente a
favore della plebe e contraria allo strapotere del Senato, ma che nella
sostanza continuerà a fare gli interessi dei possidenti di beni mobili e
immobili, vecchi e nuovi.
Di particolare rilievo il fatto che la gestione dell'impero assumerà sempre
più sul piano politico una veste militare, permettendo così ai ceti senza
proprietà di potersi emancipare.
Il capo dell'impero era da un lato il rappresentante della classe senatoria,
che a sua volta rappresentava i ceti più agiati, ma nel contempo era anche
il rappresentante di quelle esigenze che per via militare ambivano a
riconoscimenti politici ed economici.
Le guerre civili inaugurate da Mario e Silla andarono oltre la contesa
politica tradizionale e sconfinarono sul terreno più difficile da gestire
del conflitto politico-militare e istituzionale. I leaders politici dei
partiti avversi erano diventati anche capi militari.
Questo comportava una svolta nei rapporti di forza istituzionali, poiché
l'esercito, da organo meramente esecutivo al servizio del Senato, cioè dello
Stato, si stava trasformando in un organo esecutivo parallelo allo Stato,
quindi con potere decisionale autonomo, in grado addirittura d'interferire
nella strategia della leadership politica imperiale.
L'esercito non tutelava soltanto gli interessi dei proprietari fondiari, ma
anche quelli dei cavalieri (equites), i "nuovi ricchi" i cui interessi
imprenditoriali spesso configgevano con quelli agrari dei latifondisti.
L'esercito non aveva solo lo scopo di assicurare la gestione imperiale delle
colonie, difendendone i confini dalle popolazioni cosiddette "barbariche" e
sedando i tumulti interni, ma anche quello di controllare che le
discriminazioni sociali a danno di plebe e schiavi non sfociassero in aperta
ribellione (o non finissero coll'incentivare le rivolte degli stessi
schiavi, come quella capeggiata da Spartaco).
Con Mario l'esercito diventa un mezzo di emancipazione economica dei ceti
marginali e sono proprio questi ceti che, paradossalmente, difendono le
istituzioni e le classi agiate. Questi paradossi sono tipici di quelle
civiltà che vogliono risolvere le contraddizioni sociali, giunte a un grado
estremo di acutezza, con gli stessi mezzi generati dalle medesime
contraddizioni.
L'esercito subì una trasformazione radicale, in quanto già alla fine della
repubblica, si trovava ad essere più legato al profitto ricavato dalle
guerre, dai saccheggi, ecc. che non al concetto di difesa della patria o di
difesa di alcune categorie sociali.
L'esercito stava per diventare una miriade di eserciti, ognuno dei quali si
sentiva autorizzato ad agire in relativa autonomia. E questo proprio nel
momento in cui il diritto romano si stava universalizzando e la concessione
della cittadinanza romana a tutti i cittadini dell'impero di fatto rendeva
instabile ogni privilegio della capitale.
La progressiva militarizzazione dell'impero non era solo in funzione della
pressione "barbarica" lungo il limes, ma era dettata anche da esigenze di
politica interna.
Interessante fu il fatto che a partire da Costantino la sfera
politico-militare capì che per continuare a tutelare gli interessi dei ceti
più abbienti occorreva darsi una veste anche culturale e religiosa che
apparisse quanto più possibile democratica: di qui la scelta per il
cristianesimo.
Senza volerlo l'impero aveva posto una delle basi istituzionali dei futuri
regni barbarici, e cioè l'alleanza di Stato e cristianesimo.
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