|
|
|
|
L'EVOLUZIONE
SOCIOPOLITICA DI ROMA ANTICA
|
|
|
LO SCHIAVISMO - LA RIVOLTA DI SPARTACO |
|
EVOLUZIONE SOCIALE E POLITICA DI ROMA ANTICA
Sul finire del periodo monarchico si va affermando in Roma una nuova classe
di ricchi, d'origine plebea, che si affianca nella direzione dello Stato
alla più antica casta/classe patrizia.
Questa classe di "uomini nuovi" emerge socialmente sfruttando la più vasta
lotta popolare, ovvero la lotta della plebe nel suo complesso per la
conquista del potere politico. Come esempio di tale lotta possiamo portare
le molteplici ritirate sull'Aventino, con cui la plebe favorisce e accelera
molte delle proprie conquiste sociali e istituzionali (si veda ad esempio la
nascita del tribunato).
Nonostante l'ottenimento di alcuni traguardi (quali i tribuni della plebe,
il codice delle dodici tavole, ecc.) riguardi indiscutibilmente l'intera
popolazione, i risultati delle lotte popolari giovano soprattutto ai plebei
ricchi. Essi difatti riescono - anche, ma non solo attraverso tali lotte -
ad affiancarsi ai nobili nella guida dello Stato.
Col tempo si crea quindi una classe dirigente mista, ovvero patrizio-plebea
(per la verità ancora abbastanza omogenea sul piano ideale e degli
interessi), che detiene - attraverso i consoli e le maggiori cariche
istituzionali - le principali leve decisionali di Roma (peraltro divenuta
ormai un complesso organismo politico e una vera e propria potenza
internazionale).
- Ampliamenti territoriali
Un secondo aspetto che caratterizza questi anni è l'impressionante crescita
territoriale: tra il VI e il III secolo la città-stato di Roma estende il
proprio dominio, sia diretto, sia indiretto (ossia coloniale), dalla sola
zona del Lazio a quasi tutta la penisola italiana.
Essa diviene dapprima la massima potenza della Lega latina, arrivando poi a
scioglierla; successivamente conquista (con le tre guerre sannitiche) la
supremazia su gran parte della Campania; e giunge infine ad oscurare il
dominio greco sull'Italia meridionale.
Ma bisogna anche notare come tali guerre, il cui effetto è l'estensione
territoriale del dominio romano, non siano guerre aggressive e
intenzionalmente di conquista, bensì guerre difensive volte a consolidare il
proprio dominio contro possibili aggressori esterni.
Soltanto quando la potenza di Roma si sarà scontrata, vincendola, con la
potenza cartaginese, solo allora si darà inizio ad una vera e propria fase
'imperialistica', finalizzata cioè all'estensione dei domini.
- I plebei e la colonizzazione italica
Ma oltre alla crescita di prestigio di cui si è parlato, i plebei conoscono
in questi anni anche un'opposta parabola sociale: ai plebei ricchi infatti
si affiancano quelli poveri.
I poveri della nuova Roma sono essenzialmente coloro che rimangono esclusi
dai privilegi economici legati alle annessioni territoriali:
fondamentalmente ex-contadini decaduti e divenuti proletari urbani, dopo
esser stati depauperati dalle numerose guerre (che hanno danneggiato i loro
campi, e li hanno inoltre tenuti lontani da essi) e da una distribuzione
delle ricchezze alquanto ineguale (poiché gestita da una classe dirigente
aristocratica, di vecchia e di nuova leva).
Gradualmente la plebe si trasforma così da fenomeno contadino e agrario in
un fenomeno cittadino - segno questo dei mutamenti che stanno avvenendo
all'interno dello Stato romano: non più un semplice 'stato di contadini e di
guerrieri', bensì potenza ormai cittadina (poiché la città convoglia i nuovi
strati sociali, e diviene al contempo il centro direzionale dell'apparato
statale complessivo) e internazionale.
La crescente disparità tra ricchi e poveri poi, crea un antagonismo
alternativo a quello tra plebei e patrizi, determinando nuove e più forti
tensioni sociali.
Il rischio chiaramente avvertito dall'establishment romano è che una tale
situazione comprometta le strutture dello Stato mettendo in forse le sue
ricchezze e i suoi privilegi (basati appunto su tali strutture).
La soluzione sta quindi nel trovare un modo per allontanare lo spettro della
ribellione sociale, alleggerendo (ma non rimuovendo) le motivazioni dello
scontento dei ceti più bassi, esclusi oltre che dal potere politico anche da
gran parte della ricchezza.
Tra le strade più praticate ve n'è una che consiste nel riversare parte dei
cittadini più poveri nelle nuove colonie, ossia nei territori di recente
acquisizione, esterni ai confini territoriali della Roma vera e propria.
In questo modo si ottengono due risultati: a) da una parte si restituisce la
terra a coloro che l'hanno perduta; b) dall'altra si allontanano da Roma le
masse degli scontenti, dal momento che essi installandosi nelle nuove
colonie perdono la cittadinanza romana uscendo così dal gioco politico.
E' un segno dei tempi che cambiano: Roma si mantiene in piedi essenzialmente
attraverso un costante gioco d'equilibrio tra gli interessi delle diverse
classi sociali. Il fatto di tenere insieme - cioè di conciliare - i
differenti punti di vista (seppur mantenendo intatti i privilegi dei più
ricchi) impedisce che si creino rotture interne che potrebbero risultare
distruttive per la nascente classe dirigente e per la sua organizzazione di
potere.
Anche l'esercito inoltre modifica il proprio assetto e i propri connotati:
non solo infatti esso muta la propria organizzazione in direzione di un
maggiore dinamismo di manovra; ma si allarga anche quantitativamente,
aprendosi ulteriormente all'apporto dei plebei (sia nei ranghi più alti, sia
in quelli più bassi).
Riguardo infine ai rapporti di Roma con le popolazioni sottomesse, la
strategia utilizzata consiste nel mantenere in uno stato di subalternità la
maggioranza della popolazione, rafforzando di contro il potere detenuto
dalle aristocrazie locali (il cui dominio è spesso in crisi prima
dell'intervento dei romani). I ceti dominanti ricevono così la cittadinanza
romana e assieme a essa vari privilegi, tra i quali quello di far parte
dell'aristocrazia senatoria romana.
In questo modo il potere centrale, in sinergia con quello locale, riuscirà a
mantenere saldo il suo dominio sulle zone di conquista, evitando così uno
sfaldamento della compagine.
2. I principali eventi politici interni
I primi anni della res-publica vedono le lotte popolari per
l'auto-affermazione contro il dominio esclusivo dei patrizi. Sono gli anni
dello "stato plebeo", delle ritirate sull'Aventino e delle ribellioni
popolari. Ma la lotta in favore del popolo non è portata avanti soltanto da
plebei; vi sono infatti anche patrizi 'illuminati' (quali ad esempio Appio
Claudio) a sostenere tali rivendicazioni.
Ai vertici del potere plebeo si trovano, in ogni caso, principalmente plebei
potenti. La classe dominante finisce quindi per uniformarsi creando uno
schieramento piuttosto omogeneo, interessato all'estensione territoriale e
al consolidamento dei confini (e dei propri privilegi). Non si può infatti
ancora parlare di due distinte classi, quella fondiaria e quella
commerciale-burocratica, dato il basso livello di sviluppo
dell'organizzazione economica e sociale.
Le conquiste della plebe consistono essenzialmente in:
. 494: istituzione del tribunato della plebe;
. 493: istituzione degli edili, custodi dell'archivio delle delibere plebee;
. 471: istituzione dei concilii della plebe: assemblee plebee divise non per
censo (come quelle centuriate di origine monarchica) ma per tribù (ovvero
territorialmente) e quindi più democratiche;
. 451: istituzione di un decemvirato (guidato da Appio Claudio) per redigere
un codice di leggi comuni a plebei e patrizi (negando così ai secondi il
diritto - d'origine arcaica - di interpretare secondo il proprio arbitrio le
consuetudini giuridiche); seguita dalla pubblicazione delle dodici tavole,
primo codice scritto di Roma;
. 443: istituzione della censura (voluta dai nobili, per bilanciare i
vantaggi acquisiti dalla plebe con le tavole delle leggi), al fine di
enumerare e registrare i cittadini secondo il loro censo e la loro tribù, e
le cui finalità sono essenzialmente tributarie;
. 376: i tribuni Licinio e Lucio Sestio chiedono che uno dei due consoli sia
obbligatoriamente plebeo, proposta che dopo pochi anni diverrà legge;
istituzione dei pretori, al fine di sgravare i consoli di alcune incombenze
amministrative e giudiziarie.
. 300: la legge Ogulnia permette anche ai plebei l'accesso alle massime
cariche religiose (come ad esempio il pontificato massimo ...), rompendo
così l'antico monopolio patrizio in materia religiosa.
In conclusione, si può dire che gli sviluppi sociali all'interno del mondo
romano siano tali in questi anni da favorire l'avanzamento politico dei
non-nobili, ma che di tale possibilità usufruiscono principalmente i plebei
ricchi, i quali hanno - tra l'altro - più facile accesso alle cariche
stesse.
Roma rimane quindi uno stato fondamentalmente 'aristocratico', anche se più
in senso censuario (di ricchezza posseduta o acquisita) che non di nascita.
3. I principali eventi politici esterni
a) Passaggio dalla Monarchia alla Repubblica
Motivo contingente alla base del passaggio dall'organizzazione monarchica a
quella repubblicana, sarà l'alleanza di Tarquinio il Superbo (l'ultimo
sovrano) con la compagine latina, alleanza che determinerà come reazione
l'intervento del re di Chiusi (città dominante nell'orbita etrusca),
Porsenna. Tale intervento porterà alla caduta della monarchia di Roma e
all'instaurazione di un regime repubblicano (al cui vertice verranno posti
due consoli, inizialmente chiamati pretori).
Nonostante dopo un tale intervento la città di Roma venga ricompresa
nell'orbita dei conquistatori, essa non tarderà molto - anche con l'aiuto
del tiranno magno-greco Aristodemo - a riappropriarsi della propria
autonomia, rientrando a fare parte dell'orbita latina.
Lo stato romano rimarrà tuttavia di tipo repubblicano.
Nei primi anni della Repubblica, la politica romana oscillerà inoltre tra
l'alleanza con i latini (implicante appunto l'emancipazione dal tradizionale
giogo etrusco) e quella con gli Etruschi e i Cartaginesi (due potenze sì
distinte, ma tradizionalmente alleate in funzione anti-ellenica).
b) Le prime campagne di Roma
Le prime guerre condotte dalla nuova Roma repubblicana sono finalizzate a
riaffermare la propria importanza nel seno della Lega latina, e portano
(dopo un conflitto conclusosi nel 493) alla stipulazione di un patto con
quest'ultima (il foedus Cassianum) largamente favorevole a Roma.
Inizia così per Roma la fase 'espansiva': con l'aiuto delle città-stato
latine, di cui si pone a capo, la città difatti si annette nuovi territori,
sconfiggendo i Volsci nel 431 (dando inizio inoltre alla pratica della
deduzione delle colonie, pratica consistente nel trasferire in veste di
coloni alcuni dei propri abitanti - i quali, almeno in questo primo periodo,
non necessariamente sono cittadini disagiati - sui territori occupati).
Dopo la sconfitta dei Volsci (popolazione situata a sud della città) è la
volta di Veio, città etrusca a nord di Roma.
La guerra contro di essa, si conclude con la distruzione della città, nel
387, e con la prima annessione territoriale di Roma. Per la prima volta i
territori conquistati non diventano infatti colonie latine (cioè di tutta la
compagine), ma territori esclusivamente romani. E ciò perché Roma ha qui
agito da sola, non essendo la guerra contro Veio e contro le città
confinanti d'interesse per le altre città che compongono la Lega.
La pratica dell'annessione prenderà d'ora in avanti sempre più piede,
trasformando col tempo lo Stato romano nella massima potenza italica, e
permettendo ad esso tra l'altro di sciogliere la stessa Lega latina.
Successivi alla conquista dei territori etruschi saranno l'invasione e il
saccheggio gallico di Roma del 390.
Da questo tragico episodio la città romana uscirà tuttavia con una nuova
alleata, la vicina Cere, col cui aiuto essa riuscirà a frenare l'avanzata
gallica (383). Cere invece otterrà in cambio dei legami più stretti con
Roma, come ad esempio il diritto di ospitalità.
In questi anni Roma continua dunque a crescere (sia a nord che a sud), tanto
sul piano dei territori quanto su quello delle zone d'influenza.
Conclusa la guerra per fermare l'avanzata dei Galli, Roma si scontra con i
popoli Sannitici, abitanti delle zone montuose della Campania. Il dominio di
questi popoli estremamente violenti e bellicosi sulle aree limitrofe
determina da parte dagli abitanti di queste ultime più di una richiesta di
aiuto alla potenza romano-latina.
Ma, molto probabilmente, alla base di tale scontro vi sono anche i
differenti interessi economici e una notevole diversità culturale.
Roma dunque, rispondendo alle richieste d'aiuto dei Sidicini e di Capua,
interviene in difesa delle popolazioni campane dando vita alla prima guerra
sannitica (conclusasi nel 341), al termine della quale scioglie - dopo un
breve conflitto - la stessa Lega latina, la quale ormai entra apertamente in
contrasto con la sua potenza. Roma difatti, che ormai non è più una semplice
città ma il centro di un vero e proprio Stato territoriale, non può
tollerare di spartire il proprio potere con altre città-stato.
Essa diviene insomma una vera e propria città egemone, mentre i territori
latini diventano rispetto a essa delle semplici province.
Alla prima seguono le altre due guerre sannitiche (326-304; 298-290), nel
corso delle quali la città di Napoli (Neapolis) nonchè in generale la
regione campana entrano a fare parte dell'orbita degli interessi romani.
La politica di alleanza - in funzione anti-servile e anti-democratica - con
le elitès locali sarà poi una delle basi dell'insediamento romano in queste
regioni. Attraverso tale politica, i romani raggiungeranno infatti in pochi
anni un pieno controllo sulle zone precedentemente conquistate, zone nelle
quali inoltre essi fonderanno parecchi insediamenti colonici.
c) Lo scontro con le colonie della Magna Grecia
Logica conclusione di queste guerre è infine lo scontro con le città
magno-greche del sud d'Italia.
Anche qui è la richiesta d'aiuto di Turi (una città magno-greca governata da
un'oligarchia in crisi, in quanto minata dalla presenza di movimenti
democratici) la molla che porta alla guerra contro l'intera compagine greca.
Lo stesso sovrano dell'Epiro, Pirro, interverrà in difesa delle città
magno-greche, subendo però (dopo un conflitto lungo e logorante) una
sconfitta che lo costringerà a tornare in patria (275).
Così, per la prima volta, Roma si farà sentire anche oltre gli angusti
confini del mare Adriatico, e la sua fama giungerà fin nei territori della
compagine ellenistica, la quale da parte sua riconoscerà finalmente in Roma
una grande potenza internazionale!
Ed è in questi anni, molto probabilmente, che Roma inizia una propria
attività di monetazione, smettendo di utilizzare per le proprie transazioni
commerciali le monete di altri paesi: un altro segno della sua crescente
importanza e della sua apertura ad un più ampio orizzonte economico e
culturale.
LO SCHIAVISMO:
Le cause
Lo schiavo è una cosa, una res vivente, uno "strumento o animale parlante".
Lo è dal IV millennio a.C., a partire dalle civiltà egizie e sumera.
In latino schiavo si dice servus, ma gli storici, per distinguere il
feudalesimo dallo schiavismo, usano "schiavo" per l'economia schiavile
rivolta al mercato, e "servo" per indicare l'economia di sussistenza basata
sul servaggio o servitù della gleba. Finito il feudalesimo, la parola
"servo" stava ad indicare una qualunque persona libera che prestava un
servizio.
Nella civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più
generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo
alla donna, il padre al figlio.
Si diventava schiavi sostanzialmente per due motivi:
sconfitta militare: i prigionieri di guerra, caduti in proprietà dello
Stato, venivano venduti al miglior offerente;
indebitamento: chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del
creditore, dopo il relativo periodo di prigionia, oppure veniva venduto sui
mercati di Trastevere.
Ma lo si poteva diventare anche a seguito di un naufragio o di una pena che
comportasse la perdita della libertà personale (p.es. l'assassinio o la
renitenza alla leva o l'evasione fiscale), a meno che non si accettasse
l'esilio. La gente povera spesso finiva schiava anche per reati minimi, se
non poteva pagare una pena pecuniaria.
E non si devono dimenticare le persone rapite dai pirati o dai briganti per
essere poi vendute, né i bambini che venivano abbandonati (perché non
riconosciuti dal padre) o venduti dalle famiglie povere.
Poteva anche darsi il caso di esiliati politici che emigravano a Roma per
porsi in servitù, o quelle tribù nordiche che facevano la stessa cosa,
spinte dalla fame o dalla carestia.
Da ultimo non si può non considerare che un commercio estero,
internazionale, di schiavi esisteva anche prima che i romani diventassero
una grande potenza.
Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità riuscì mai a scalfire questa
diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui.
La compravendita
Gli schiavi venivano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro, sotto
la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti
statali.
Generalmente stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che
indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli
provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco e i
soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano
mostrati in sale chiuse a ingresso controllato.
I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza,
cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di
suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200-2.500 sesterzi
(a fine repubblica un sesterzio equivaleva a circa 2 euro).
Anche ai romani di mezzi modesti piaceva avere uno schiavo al proprio
servizio, perché non averne neppure uno era indizio di degradante miseria.
Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi.
I romani più ricchi potevano anche acquistare stare per rivenderli o cederli
a grosse imprese in cambio di un affitto. Sotto questo aspetto alcuni
arrivarono persino ad allevarli.
Le mansioni
Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare
il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i
rematori nelle navi da guerra o di commercio), cave e miniere (soprattutto
per l'estrazione dei metalli pregiati).
La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini,
gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il
loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla
famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A
capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie.
In città invece venivano impiegati per attività artigianali: vasai,
decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio, o industriali
(fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori
e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla
costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far
girare in catene la ruota del mulino, che sicuramente svolgevano lavori
molto più duri.
Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio
domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla
cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e della
suppellettile, degli indumenti, gli amanuensi e postini), nonché quelle che
aiutavano il padrone nelle attività commerciali (tesoriere, contabile,
addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali
pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari, senza tralasciare gli addetti a
scuderie e cavalli.
In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a
funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o
artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro
colleghi italici, germanici, iberici.
I diritti
Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità
penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare
qualcosa non poteva però disporre come fosse di sua proprietà. Se aveva
moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema.
Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un
padrone.
Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a
permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il
prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale.
Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tendevano a permettere
a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. E' altresì noto
che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa.
Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in
Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni
puniti. Gli veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al
massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro.
Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva a una sanzione
penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria
corrispondente al valore dello schiavo.
La legge Giulia aveva altresì stabilito che non poteva esservi adulterio o
stupro se non tra persone libere. Molti giovani schiavi venivano usati a
scopi sessuali.
Però la lex Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle
belve senza una sentenza del giudice.
Il diritto romano non riconosceva agli schiavi un culto religioso proprio,
ma gli si consentiva di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari.
Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna:
potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo...
A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si
accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in
tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le
vedove dei caduti di guerra.
Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha
diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto
nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere
l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario.
Gli schiavi, veri e propri "strumenti di produzione", quando la vecchiaia,
gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, dato che difficilmente il
padrone trovava un compratore, venivano abbandonati a se stessi e lasciati
lentamente morire. A meno che non fossero in grado di riscattarsi diventando
liberti. Claudio ordinò l'emancipazione degli schiavi malati abbandonati dal
padrone.
Evoluzione
Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel
sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo
stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi
erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun
diritto.
All'inizio del II sec. a.C. raramente le famiglie romane possedevano più di
uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine
delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente
aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone.
Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali
più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri
avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande
mercato venne organizzato nell'isola di Delo, dove nei tempi più proficui si
potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno.
L'estendersi dell'economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la
popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma
anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo
dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di
uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero
privo di proprietà.
Nel II sec. d.C. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non ne
compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano
molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era di otto.
Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e
la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla
quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es.,
era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si
presentava in tribunale.
Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta
ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100
nel suo testamento.
Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Canina, dell'8 a.C.,
era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti.
Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita
e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l'assassinio
del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi
uccideva il padre.
Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi suoi
risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli
permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone,
spontaneamente, a liberarlo.
Provenienza geografica
Durante il periodo della conquista romana dei paesi del Mediterraneo (264-31
a.C.) furono condotti schiavi a Roma e in Italia:
30.000 abitanti di Taranto nel 209
un gran numero di Sardi nel 176
150.000 abitanti dell'Epiro nel 167
50.000 Cartaginesi nel 146
50.000 Corinzi nel 146
intere popolazioni della Spagna tra il 150 e il 100
150.000 Cimbri e Teutoni verso il 102-101
centinaia di migliaia di asiatici dalle guerre di Pompeo nel 66-62: Ponto,
Siria, Palestina
un milione di Galli dalle guerre di Cesare nel 58-50
Durante il periodo della pax romana (31 a.C. - 192 d.C.)
sotto Augusto proseguono le conquiste e affluiscono a Roma sempre nuovi
schiavi a basso prezzo,
Tiberio rinuncia a conquistare la Germania, perché diventa più vantaggioso
allevare schiavi,
Vespasiano e Tito distruggono Gerusalemme nel 70 d.C. e portano a Roma
decine di migliaia di schiavi ebrei,
Traiano occupa la Dacia e l'Armenia: nuovo arrivo di schiavi in massa (circa
50.000). L'ultima grandiosa tratta e vendita all'incanto di schiavi si ebbe
appunto con Traiano.
Ma in complesso il numero degli schiavi diminuisce.
Nel periodo della crisi dell'impero (192 - 476 d.C.), con l'anarchia
militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in schiavitù, ma
nel complesso il numero degli schiavi tende a diminuire, non solo perché ha
termine l'espansione dell'impero, ma anche perché si cerca di trasformare la
schiavitù in colonato o in servaggio, sulla base di un contratto.
A Roma, su una popolazione che poteva andare da mezzo milione a 1,5 milione
di abitanti, gli schiavi erano da 100.000 (II sec. a.C.) a mezzo milione (II
sec. d.C.). Quando la capienza di Roma fu massima, circa 400.000 persone
libere di nascita vivevano con l'assistenza della pubblica annona e solo
100.000 capifamiglia erano in grado di provvedere alle necessità della
famiglia con rendite proprie.
Difficile dire il numero dei liberti, degli stranieri, dei militari, della
classe media. Si pensa che nella Roma imperiale almeno l'80% della
popolazione provenisse da origine servile più o meno remota.
L'ordine senatoriale comprendeva circa 600 famiglie, mentre quello equestre
circa 5.000, quindi in tutto le persone più influenti o più ricche che
disponeva del maggior numero di schiavi erano circa 20-25.000. La domus di
un consolare romano del tempo di Nerone poteva ospitare anche 400 schiavi.
Un imperatore poteva disporre anche di 20.000 schiavi.
Forme di riscatto
L'emancipazione dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme
previste dal diritto civile (vedi scheda ppt-zip):
manumissio per vindictam: davanti a un magistrato, il padrone metteva una
mano sulla testa dello schiavo (manumissus), pronunciando una determinata
formula giuridica, dopodiché un littore del magistrato toccava lo schiavo su
una spalla con una verghetta (vindicta), simbolo di potere, e lo dichiarava
libero;
manumissio censu: il padrone, dopo cinque anni, faceva iscrivere lo schiavo
come cittadino romano nelle liste dei cittadini, dietro consenso popolare o
per suo diretto intervento, e lo schiavo era automaticamente libero.
L'iscrizione veniva fatta dal censor, cioè dal funzionario addetto ai ruoli
delle imposte e alla registrazione del censo;
manumissio testamento: il padrone nel suo testamento dichiarava libero uno o
più schiavi; l'esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima che il
padrone morisse e comportava la successiva iscrizione nelle liste del censo.
Col tempo s'imposero forme più semplici:
manumissio inter amicos: il padrone dichiarava in presenza degli amici di
voler dare la libertà allo schiavo;
manumissio per mensam: il padrone invitava lo schiavo a mangiare insieme
agli ospiti; con la manumissio per convivii adhibitionem il padrone lo
liberava semplicemente considerandolo un proprio commensale;
manumissio per epistulam: il padrone comunicava per lettera allo schiavo
l'intenzione di liberarlo.
La situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge Iunia
Norbana del 19 a.C., in base alla quale essi potevano disporre di beni
propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché i loro beni
tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà tolta dall'imperatore
Giustiniano.
Dopo la manumissio il padrone (dominus) diventava patronus, cioè protettore
del liberto. Il nuovo vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti,
l'obbligo di prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre
cose che in sostanza si presentavano come anticamera dei medievali rapporti
di servaggio.
Lo Stato comunque temeva un'eccessiva liberazione di schiavi, perché sapeva
bene ch'essi avrebbero ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento
gravava sulla pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale
posseduto, nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il
divieto di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori
impedirono più volte, con la cancellazione dei debiti, che masse di debitori
cadessero in schiavitù per insolvenza.
I liberti
Uno schiavo affrancato era detto "liberto". E l'età adatta a riscattarsi si
aggirava sui 30 anni.
Poteva infatti accadere che quando i cittadini liberi erano impegnati nelle
guerre di conquista, gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni
di una certa responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività
economica, di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva
concedere spontaneamente la condizione di "liberto", oppure lo schiavo
poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare presso
il padrone sulla base di un contratto.
D'altra parte i senatori, non potendo fare commerci in senso proprio,
avevano necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e
persino il commercio di schiavi.
Il liberto poteva anche svolgere un'attività economica indipendente, ma il
padrone esigeva sempre delle corvées sui suoi terreni o nella sua
abitazione, oppure pretendeva dei doni in occasione di festività.
Generalmente i liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale.
I liberti venivano ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti
vari, denaro.
I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi (p.es. erano
esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di cittadinanza.
Tuttavia i suoi discendenti, alla terza generazione, diventavano cittadini
romani con la pienezza di tutti i diritti.
Qui si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare i
diritti politici, ma potevano essere condannati a morte solo da un'assemblea
cittadina e non da un qualunque magistrato, come accadeva a chi non era
romano. Inoltre non potevano essere sottoposti a tortura fisica e
fustigazione. I funzionari e gli amministratori imperiali dovevano essere
romani: per gli appartenenti alle classi più elevate dei territori
conquistati, la cittadinanza era la sola via per far parte dei gruppi
dirigenti.
Gli stessi imperatori, diffidando delle classi al potere, già corruttrici
della repubblica, diedero loro incarichi di fiducia (spesso connessi al
fisco). Il che poteva aiutare gli imperatori a dimostrare il carattere
democratico delle istituzioni. L'ufficio politico dell'imperatore Claudio
era composto esclusivamente di schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte,
furono sostituiti da liberti, molti dei quali si erano arricchiti
notevolmente sin dal tempo delle guerre civili sillane.
Quando, nel 40 d.C., l'imperatore Claudio propose di dare ad alcuni galli la
possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne
che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo.
Tuttavia, la tesi che prevalse, riportata da Tacito, fu la seguente: "A
qualche altra causa si deve la rovina degli spartani e degli ateniesi,
nonostante il loro valore bellico, se non alla loro ostinazione a tenere in
disparte gli stranieri?. Al contrario, Romolo, che fondò il nostro impero,
fu abbastanza saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli
da nemici e da cittadini. Degli stranieri hanno regnato su di noi, i figli
di liberti possono diventare magistrati, e questa non è una novità, come si
ha il torto di credere: l'antica Roma ne ha dato molti esempi".
Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio
diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si
arruolassero nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro
risparmi avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero
impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei
forni.
Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni
nel 13 a.C., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8
a.C. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che
ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante
furono arbitri di molte carriere militari e politiche.
Le punizioni
Posto che la "bontà" verso gli schiavi doveva essere considerata un
sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del
giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a
quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino
alla crocifissione.
Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile
flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa,
fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo
incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo
(strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture).
Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col
marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL
(kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla
cattura cessava di essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto.
Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè
l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa flagellazione. Ma
molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo
o bruciati vivi.
Moltissimi schiavi, per punizione, finivano per fare i gladiatori. La
gladiatura fu introdotta nel 264 a.C. e ufficializzata nel 105 a.C.: in essa
si realizzava il concetto di virile coraggio. Il primo edificio utilizzato
appositamente per questi duelli fu del 53 a.C. Il più famoso è il Colosseo,
che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi. I gladiatori venivano
reclutati, di solito, tra i prigionieri di guerra, i disertori e gli
incendiari, ma anche tra i cittadini liberi condannati a morte. Era comunque
facile passare dall'esercito alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva
per guadagnare dei soldi.
Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo sangue furono
molto pochi. Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio
non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per 10 anni l'anfiteatro
di Pompei. Solo nel IV sec. d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano
saliti a dieci l'anno.
Le rivolte
La prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel 137
a.C. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla Cilicia, e
mandati a lavorare nei campi e nelle miniere.
I primi a insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno,
di origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna. Contemporaneamente
insorsero anche gli schiavi di Agrigento che sotto la guida dello schiavo
Cleone andarono a ingrossare le schiere di Euno. In tutto i rivoltosi
arrivarono a 200.000.
Elessero re Euno il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.C., poi
distrutto dal console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio,
delle città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in carcere.
Circa 20.000 schiavi furono giustiziati.
Poterono resistere ben cinque anni perché rispettavano i contadini,
infierendo solo contro i latifondisti.
Negli stessi anni un'altra grande rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia
Minore da Aristonico, nella città di Pergamo. Ai romani occorsero ben tre
anni prima di avere la meglio.
Altre insurrezioni, tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle
città di Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in
Grecia nelle miniere dell'Attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il
più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea.
In Sicilia si ebbe una seconda rivolta nel 104 a.C., nei pressi di Eraclea,
con la sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna,
dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito di
20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che prese il
nome di Trifone.
A questi schiavi se ne unirono altri 10.000 raccolti da Atenione nella città
di Lilibeo. Insieme fortificarono la città di Triocala. Riuscirono a
resistere alle legioni dei pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del
console Aquilio che nel 101 ebbe la meglio.
La più grande rivolta di schiavi fu quella di Spartaco. Gli ultimi movimenti
di rilievo dei ceti servili, furono quello detto dei Bagaudi, in Gallia,
verso la fine del regno di Gallieno e di Postumo. Agli insorti si unirono i
piccoli artigiani di Augustodunum (Autun) e gli schiavi impiegati nelle
fabbriche di armi della stessa città.
Poi quello degli Isauri in Asia Minore, e dei Mauri in Africa. Ormai siamo
alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si dissolve e la rivolta
servile diventa una vera rivolta contadina.
Fonti
U. Fasanella, La schiavitù dai ceppi dei sumeri alle catene di montaggio,
ed. AMZ, Milano 1975
E. M. Staerman - M. K. Trofimova, La schiavitù nell'Italia imperiale,
Editori Riuniti, Roma 1982
Iza Biezunska-Malowist, La schiavitù nell'Egitto greco-romano, Editori
Riuniti, Roma 1984
V. I. Kuziscin, La grande proprietà agraria nell'Italia romana, Editori
Riuniti, Roma 1984
F. Reduzzi Merola, "Servo parere". Studi sulla condizione giuridica degli
schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana,
ed. Jovene, Napoli 1990
F. De Poli, Gli schiavi nel mondo antico, ed. Radar, Padova 1971
G. Del Gaudio, Il problema della schiavitù, ed. Morano, Napoli
Giuffrè, La repressione criminale nell'esperienza romana. Profili, ed.
Jovene, Napoli 1997
E. Ghersi, La schiavitù, Padova 1945
G. Abignente, La schiavitù nei suoi rapporti con la chiesa e col laicato,
Torino 1890
A. D'Amia, Schiavitù romana e servitù medievale, Milano 1931
E. Ciccotti, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, Udine 1940
L. Muratori, Dissertazione sopra i servi e i liberti antichi, 1747
LA RIVOLTA DI SPARTACO
In origine Spartaco fu un pastore della Tracia, una regione balcanica tra il
Mar Nero e il Mar Egeo. Forse perché costretto dalla miseria, aveva
accettato di arruolarsi in un corpo ausiliario della milizia romana, dal
quale però fuggì ben presto.
Dichiarato disertore, venne cercato e trovato da "squadre speciali", che lo
ridussero in schiavitù (la quale veniva sempre imposta ai disertori, ai
prigionieri di guerra, e più in generale ai cosiddetti "barbari"). Dopodiché
fu trasformato in gladiatore e venduto a Lentulo, un organizzatore di
spettacoli di Capua.
Ma Spartaco nel 73 a.C. riuscì a fuggire anche da qui, trascinando con sé
circa 200 gladiatori di cui solo una settantina riuscirono a rifugiarsi
presso il Vesuvio, da dove ebbero la meglio contro i primi inviati romani,
guidati dai pretori Caio Clodio e P. Vatinio.
Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio
Varinio e i suoi luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei
cavalli e dei simboli littori dell'esercito. Da questa posizione
saccheggiavano la ricca regione campana.
Altri schiavi, braccianti, contadini poveri, pastori dei territori
circostanti cominciarono ad aderire alla rivolta. Sicché la linea di blocco
posta intorno al Vesuvio fu spezzata e più divisioni romane furono sconfitte
in Campania.
Spartaco condusse gli schiavi nella parte sud della penisola, dove si
aggregarono altre bande. Nell'inverno 73-72 a.C. l'esercito dei ribelli fu
armato regolarmente.
I consoli del 72, Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo, scesero in campo con
due legioni ciascuno. Una divisione di 20.000 schiavi celti e germani,
comandata dal celta Crisso, fu vinta in Puglia, sul Gargano, dal propretore
di Gellio, Quinto Avio, che uccise lo stesso Crisso.
Ma il grosso dell'esercito, che ormai era arrivato alle 100-120.000 unità,
guidato da Spartaco, vinse l'armata romana e si aprì a forza il passaggio
verso il nord d'Italia, fino a Modena.
Era praticamente aperta la via per le Alpi e quindi per il rimpatrio nei
paesi celtici, germanici e nel territorio balcanico.
Tuttavia una parte degli schiavi vittoriosi (soprattutto i contadini
meridionali) volle restare in Italia o tutt'al più marciare contro Roma,
approfittando del momento di debolezza dell'esercito romano.
Spartaco avrebbe preferito continuare le battaglie in Gallia, con l'appoggio
sicuro della popolazione locale, ben sapendo che i romani si sarebbero
presto ripresi. Però si piegò al volere della maggioranza, ottenendo
soltanto che non si muovesse subito contro Roma ma si cercassero al sud
altri alleati. E così condusse il suo esercito fino in Lucania.
Roma cominciava a impensierirsi e alla fine del 72 chiese di sostituire i
consoli al comando supremo col pretore Marco Licinio Crasso, in quel momento
il miglior stratega militare della capitale. Gli fu affidato un esercito di
otto legioni, le stesse che bastarono a Cesare per conquistare la Gallia!
Crasso intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente,
Mummio, incaricato di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli
ordini e attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta
sconfitte e Spartaco poté dirigersi nel Bruzio (Calabria), presso Turi. Qui,
molti mercanti si erano radunati per commerciare il bottino dei beni
raccolti dagli schiavi, ma Spartaco proibì che ricevessero in cambio oro e
argento: i suoi uomini dovevano accettare solo ferro e rame, necessari per
forgiare nuove armi.
Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia attraverso
lo stretto, in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai
completamente sopita. Non vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che
si misero probabilmente d'accordo con Verre, governatore della Sicilia,
rifiutando a Spartaco le navi dopo aver ricevuto il compenso pattuito,
mentre già le coste della Sicilia erano presidiate.
Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di
sfruttare la conformazione del Bruzio per confinare nella regione i nemici:
egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella
Tirrenica, lungo 300 stadi (55 km), per impedire qualunque forma di
rifornimento.
Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio,
Spartaco riuscì a passare il vallo presso Petilia e le selve silane, in una
notte di tempesta.
A questo punto Crasso chiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli
doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla
rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe
accorso Marco Licinio Lucullo.
Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, il quale decise di dirigersi
verso Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico. A
questo punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati
da Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito. I
due capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse.
Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro
e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Nei pressi del fiume
Sele, in Lucania, si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali
Spartaco, morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I
romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri, che Crasso fece
crocifiggere lungo la via Appia (che porta da Capua a Roma).
Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga
verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così la
rivolta di Spartaco.
Purtroppo di questa rivolta conosciamo assai poco, poiché le principali
fonti che ne parlano sono andate perdute: il IV libro delle Historiae di
Sallustio e i libri XCV-XCVII di Livio. Le uniche fonti rimaste, per lo più
contraddittorie, sono le vite plutarchee di Crasso e Pompeo, le Guerre
civili di Appiano, gli Excerpta Liviani di Floro, di Eutropio, di Orosio.
Sappiamo che Cicerone e il poeta Lucano usano il nome di Spartaco in senso
negativo, invece Floro e Sallustio gli riconoscono la dignità di vero
comandante.
Quanto alle idee di Spartaco e alla sua personalità, sappiamo che aveva
vietato alle sue truppe di maneggiare oro e argento e che pretendeva di
dividere in parti eque ogni bottino conquistato.
Si sforzava di mantenere uniti i suoi seguaci cercando alleanze tra la
popolazione locale.
Era capace di condurre una lunga guerra di logoramento, a differenza di
altri suoi luogotenenti, come Crisso, Enomao, Gannico, Casto, più avvezzi a
colpi di mano e improvvisazioni.
Da notare che Pompeo e Crasso, infierendo così duramente su questi schiavi,
indebolirono ulteriormente le sorti già precarie della repubblica, al punto
che quando Cesare pose in essere le fondamenta dell'impero, nulla poterono
fare.
LA RIVOLTA DI VELZNA
Velzna, l'antica Orvieto di origine etrusca, conobbe una rivolta di schiavi
circa 270 anni prima della nascita di Cristo.
Schiavi, liberti (per buona parte greco-orientali) e plebei della città, cui
ben presto si unirono quelli di origine etrusca, umbra, sabina e sannita, si
opposero al nuovo modello economico che Roma, soprattutto dopo aver
sconfitto gli etruschi, voleva imporre a tutta la penisola: grandi latifondi
posseduti da poche famiglie di aristocratici, lavorati da migliaia di
schiavi in condizioni miserevoli.
I rivoltosi prendono possesso delle terre coltivate, dei boschi e delle
industrie del bronzo. Si attribuiscono cariche pubbliche, sostituendo tutti
i funzionari in carica.
Il governo della città-stato emana nuove leggi: i latifondisti devono
lasciare le terre in eredità ai liberti, le terre vanno redistribuite fra
gli schiavi che le lavorano, vanno legalizzati i matrimoni tra persone di
classe sociale diversa, va concessa maggiore libertà (anche sessuale) alle
donne, vanno amnistiati i reati contro il pudore.
Nelle assemblee popolari tutti hanno uguali diritti: donne e uomini, poveri
e benestanti, etruschi e stranieri.
Gli aristocratici rifiutano ovviamente la rivolta e inviano propri
ambasciatori segreti a Roma per un incontro notturno col senato. Implorano
l'intervento militare accampando falsi pretesti: i rivoltosi stuprano le
donne nobili, impediscono di punire i colpevoli...
Nella primavera del 265 a.C. un grande esercito, guidato dal console Quinto
Fabio Massimo, risale la valle del Tevere da Roma al corso del fiume Paglia,
accingendosi a "liberare" Velzna dai rivoltosi.
Gli scontri sono durissimi: i romani riescono a distruggere l'armata di
Velzna, ma il console Fabio ci rimette la vita.
I sopravvissuti si rinchiudono nella città, che viene assediata per molti
mesi. Privata di viveri, di acqua, sconvolta dalle epidemie, dagli incendi,
dalle distruzioni causate dalle macchine da guerra romane, la città di
arrende nel 264 a.C.
Il nuovo console Marco Fulvio Flacco fa trucidare tutti i capi
rivoluzionari, incendia le campagne, rade al suolo la città, trascina parte
degli abitanti a Roma per venderli come schiavi o farli morire in carcere.
I superstiti vengono deportati nella Nuova Velzna (Volsinii Novi, l'antica
Bolsena), fondata dai vincitori sulle rive del lago.
Duemila statue bronzee vengono rubate dai romani nel tempio principale della
città distrutta.
Schiavitù delle civiltà antiche ed in epoca romana:
Nella fase delle civiltà più antiche ha dominato la schiavitù, in forme
diverse, poiché la schiavitù dei contadini egizi o assiro-babilonesi non era
uguale alla schiavitù sotto i greci e, soprattutto, sotto i romani, che
raggiunsero praticamente il vertice nell'organizzazione socio-economica
basata sullo sfruttamento della manodopera schiavizzata.
In 4.000 anni di storia si è passati da una sorta di schiavitù implicita, in
cui il contrassegno era l'obbligo del tributo, che se non veniva pagato
poteva portare il contribuente a una schiavitù esplicita, a una vera e
propria schiavitù diretta, immediata, senza soluzione di continuità:
un'esistenza in cui tutta la persona dello schiavo, con tutta la sua vita
quotidiana, era un "tributo" al suo padrone.
Nel mondo greco poté esserci un'attenuazione della schiavitù solo con
l'emigrazione verso le colonie, nel senso che i coloni, tra di loro,
cercarono di vivere nelle colonie una maggiore democrazia rispetto a quella
della madrepatria.
Nel mondo romano i conflitti sociali furono enormemente superiori a quelli
del mondo greco e la trasformazione dello schiavo in colono fu solo la
conseguenza della irreversibile decadenza dell'impero, incapace di
fronteggiare i nemici esterni e la crisi interna.
Forse si può dire che nello schiavismo implicito (quello egizio) la
rappresentazione della forza si serviva di preferenza della proprietà
agricola, nel senso che quante più terre si possedevano tanto più si era
forti. Tuttavia, l'idea stessa di poter misurare la propria forza in
rapporto alla quantità di terre possedute deve essere stata successiva
all'idea di poter misurare la propria superiorità in virtù della pura e
semplice forza fisica.
Quindi all'inizio della proprietà privata deve esserci stato un conflitto di
tipo personale, in cui i "Caino" e gli "Abele" della storia si sono misurati
sul piano fisico, col risultato che ha prevalso quello che ha adottato i
metodi più violenti, ma anche più subdoli, che risultarono inaspettati alla
collettività. Poi, là dove la comunità ha reagito, il violento è stato
emarginato o espulso; là dove invece la reazione non è stata adeguata, col
tempo, in maniera progressiva, si è imposto un rivolgimento di valori.
In altre parole, mentre sotto lo schiavismo implicito il più forte poteva
servirsi della proprietà della terra per imporre la propria forza, senza
dover necessariamente ricorrere alla forza fisica o militare, e questo
presuppone ch'egli fosse già nel passato ricorso a tale forza e che ora non
ne avesse più bisogno come prima, viceversa nell'epoca dello schiavismo
esplicito la rappresentazione della forza aveva soprattutto bisogno della
componente militare, con la differenza che la giustificazione di tale
componente aveva bisogno di una legittimazione teorica più sofisticata, come
p. es. il diritto.
L'Egitto classico sperimentò il passaggio ai due tipi di schiavismo, ma
quando entrò nella fase del secondo, accentuando di molto gli aspetti
militaristici, incontrò degli avversari - in primis i romani - che sul piano
specifico dell'organizzazione militare e della legittimazione teorica erano
molto più evoluti.
I romani avevano questa particolare caratteristica: il principio della forza
militare veniva mistificato dalla finzione del diritto. Cioè nel passaggio
dal dominio della terra al dominio militare, con cui viene difeso il
possesso privato della terra e che separa peraltro il passaggio dalla
repubblica all'impero, si ha un'accentuazione degli aspetti che in apparenza
avrebbero dovuto essere antimilitaristici, come appunto il diritto, e che
invece serviranno proprio per giustificare l'uso della forza più cieca.
Questo non sarebbe mai stato possibile se all'origine dell'affermazione
della terra come proprietà privata non ci fosse stato l'uso personale della
forza fisica come criterio per risolvere le controversie sociali.
In Egitto in luogo del diritto vi fu uno sviluppo eccezionale della
religione, e solo nel momento in cui si cercò di realizzare il passaggio
allo schiavismo esplicito si operò un tentativo di riforma, poi abortito, in
direzione del monoteismo assoluto (tentativo poi portato avanti da Mosè e
altri sacerdoti egizi insieme al popolo ebraico, che mal sopportava
l'acuirsi dello schiavismo). Il fallimento di questa riforma contribuirà
decisamente al crollo della civiltà egizia.
In ogni caso anche da queste cose si comprende il motivo per cui la civiltà
egizia sia durata più di quella romana, anche se questa ha lasciato nella
storia delle civiltà un segno maggiore.
Al tempo dello schiavismo non esistevano vere e proprie ideologie, se non
miti di tipo religioso, formule sacre da ripetere per la propria o altrui
salvezza. Ciò che non si metteva mai in discussione era il primato della
forza, che in quel momento veniva espresso dal monarca e dai suoi più
stretti collaboratori e funzionari.
L'ideologia invece è subentrata nel momento stesso in cui il concetto di
forza aveva bisogno di una giustificazione teorica per poter continuare a
sopravvivere in forme e modi diversi.
Sia il sacro romano impero che l'impero bizantino sono stati il tentativo di
giustificare lo schiavismo (poi attenuato nella forma del servaggio)
realizzando una fusione ideologica tra diritto romano e religione
ebraico-cristiana, ed è così che è nata la teologia, che è la prima vera
ideologia delle civiltà antagonistiche del mondo occidentale.
Oggi l'illusione di un diritto contrapposto alla forza è di molto superiore
all'illusione che nelle civiltà antiche si aveva di mitigare l'eccesso della
forza con le formule e i riti religiosi.
Le civiltà sono state la più grande disgrazia dell'umanità e sarà possibile
liberarsene solo quando si porrà fine alla proprietà privata e, di
conseguenza, alle sovrastrutture che la difendono: apparati politici,
militari, burocratici, fiscali ecc.
* * *
Bisognerebbe tracciare una linea evolutiva delle civiltà antiche in modo da
dimostrare che l'impero romano si configura come l'organizzazione migliore
nella gestione dello schiavismo. "Migliore" nel senso della capacità di
sfruttare gratuitamente il lavoro altrui.
Quali sono state le caratteristiche salienti dell'impero romano che
nell'insieme lo hanno reso "migliore" rispetto a tutte le altre formazioni
sociali schiavistiche?
La centralizzazione dei poteri, prima intorno alla città di Roma,
rappresentata dal senato, poi nelle mani dell'imperatore: significativo è
stato il passaggio dal particolarismo e localismo del concetto di polis
all'universalismo del concetto di stato e di impero, rappresentato
dall'imperatore. I grandi imperi di Alessandro il Macedone e di Gengis Khan
non hanno avuto la stessa influenza nella storia, la stessa capacità
organizzativa, perché probabilmente erano basati su un concetto di forza o
troppo diretto o troppo individualistico o comunque troppo semplicistico per
poter durare a lungo, mentre quello romano aveva la caratteristica molto
singolare per quei tempi, e quindi anche molto moderna, di dare all'uso
della forza una copertura ideologica che ne mistificasse la forma.
La militarizzazione dell'economia, nel senso che le basi dell'economia
imperiale erano la conquista militare e la conseguente colonizzazione. La
ricchezza di Roma non dipese tanto da una particolare abilità nello
sfruttare le risorse interne (come p.es. si verificò in quella egizia o
babilonese, o in quelle pre-colombiane), ma dipese per buona parte dallo
sfruttamento esoso di risorse esterne. Quanto più si allargava l'impero,
quanto più aumentava lo sfruttamento economico delle sue risorse (che spesso
va di pari passo col riconoscimento dei diritti civili e politici, perché
anche in questa ambivalenza sta la grandezza di Roma), tanto più i romani si
concentravano nello svolgere attività economiche improduttive, connesse
all'esigenza di vivere una vita lussuosa, dispendiosa, futile: di qui le
grandi costruzioni di ville, monumenti, bagni pubblici, strutture ludiche...
che avevano anche lo scopo di favorire il consenso politico. Di qui anche il
rifiuto, a un certo punto, di partecipare alla vita militare, con la
conseguente necessità di arruolare i cosiddetti "barbari" nelle legioni.
La copertura ideologica del diritto, che svolse una funzione di tutela
pseudo-democratica della proprietà.
La strumentalizzazione della religione a fini politici.
La progressiva accentuazione di tutti questi aspetti, che ha avuto uno
sviluppo impetuoso soprattutto dopo la morte di Cesare e la trasformazione
della repubblica in impero, determinò una progressiva rinuncia alle lotte di
liberazione, di cui l'ultimo significativo esempio è stato quello ebraico,
anticipato un secolo prima da quello degli schiavi guidati da Spartaco.
Una lotta di liberazione viziata dalla componente religiosa venne portata
avanti dai cristiani, ma quando l'impero fu invaso dalle popolazioni
cosiddette "barbariche" non si realizzò un vero superamento dell'ideologia e
della prassi schiavistica, ma solo una trasformazione che ne attenuasse le
asprezze: di qui la nascita del servaggio.
E per altri mille anni il feudalesimo ha conosciuto conflitti di ogni sorta
intorno ai concetti di proprietà e di libertà.
* * *
Bisognerebbe dimostrare che il mancato passaggio dallo schiavismo al
capitalismo è dipeso non tanto o non solo da questioni tecniche o economiche
(cioè di tipo quantitativo), ma anche e soprattutto da questioni culturali,
nel senso che il rifiuto di considerare lo schiavo una persona (questione
introdotta per la prima volta dal cristianesimo) ha impedito di realizzare
un rapporto giuridico formalmente libero e quindi di indurre lo schiavista a
trasformarsi in imprenditore, cioè a puntare l'attenzione sulla tecnologia
per poter sfruttare come prima e meglio di prima una manodopera formalmente
umana e non animalesca. Il mondo romano avrebbe potuto passare dallo
schiavismo al capitalismo, saltando la fase del servaggio feudale, a
condizione che l'accettazione e il rifiuto del cristianesimo avvenissero in
tempi molto brevi.
Tuttavia considerare lo schiavo una persona implicava un'altra cosa, che si
considerasse il lavoro una forma emancipativa e non una condanna. E questo
per tutta l'epoca classica, incluso il Medioevo, non s'è mai verificato.
Ecco perché il capitalismo non è nato nel feudalesimo, dove pur esisteva il
concetto di persona, per quanto limitato dal servaggio.
Per far nascere il capitalismo ci voleva l'uomo formalmente libero e l'idea
che col lavoro è possibile emanciparsi dalla schiavitù-servitù e
contemporaneamente dal proprio passato, dalle tradizioni condivise, dalla
comunità di villaggio, dalla chiesa... Per tutto il Medioevo non si è mai
stati capaci di porre il lavoro al centro dell'emancipazione politica e
sociale.
Infatti il lavoro nell'accezione moderna (borghese) viene visto come
occasione di affermazione del singolo contro la comunità (in Italia
addirittura già intorno al Mille il borghese cominciava a guardare con
disprezzo chi non lavorava, quindi non solo i feudatari e il clero ma anche
i poveri).
La borghesia ha ereditato dal cristianesimo il concetto di persona e ha
fatto del lavoro non una dimensione degna dell'uomo ma un'occasione prima di
emancipazione individualistica (nel commercio c'è il furto, l'inganno ai
danni della collettività) e poi un'occasione di sfruttamento di chi è solo
formalmente libero ma materialmente nullatenente.
Se guardiamo il momento in cui in Italia sono rinati i commerci, intorno al
Mille, noteremo subito che ciò avvenne mentre contestualmente nelle
Università si stava teorizzando la fine del cattolicesimo tradizionale
(papocentrico, gerarchico, integralistico ecc.), a tutto vantaggio della
riscoperta dell'aristotelismo, del nominalismo, del relativismo dei valori,
dell'affermazione dei valori borghesi, che in Italia andavano imponendosi, a
livello di società civile, in ambito comunale, signorile.
La nascita della borghesia europea è contestuale alla critica del
cattolicesimo romano. Poteva avvenire una cosa del genere nel mondo romano?
Le eresie sono state tantissime nel mondo romano-cristiano (dopo
l'ufficializzazione
di Teodosio), ma sono state tutte duramente represse, e il pensiero si è per
così dire fossilizzato.
La teologia agostiniana rimarrà in auge per tutto l'Alto Medioevo e verrà
decisamente superata solo dal Tomismo, che aprirà le porte a un'esperienza
della fede basata sulla razionalità, cioè su un atteggiamento che è
l'anticamera
del modo di porsi borghese, tant'è che il tomismo è ancora oggi la teologia
dominante per il cristianesimo-borghese. E non a caso Wojtyla ha cercato,
vanamente, di superarlo accentuando gli aspetti dell'integralismo
preconciliare (operazione che poteva andar bene nella Polonia preborghese,
in funzione anticomunista, ma che nell'Europa occidentale non ha avuto alcun
seguito).
Questo insomma per dire che se lo schiavismo non s'è trasformato in
capitalismo non è stato perché mancavano delle basi strutturali, ma perché
mancavano basi di tipo culturale, le quali, se fossero state poste,
avrebbero generato le necessarie strutture. Il capitalismo infatti non
sarebbe stato possibile senza un'esperienza alienata del cristianesimo, cioè
senza la convinzione che l'ideologia cristiana, ai fini della giustizia
sociale, sarebbe stata una clamorosa illusione. Ma perché maturasse questa
convinzione occorreva del tempo: dalla fine dell'impero romano alla nascita
del capitalismo sono occorsi praticamente mille anni.
Dunque senza cristianesimo non avrebbe mai potuto esserci il capitalismo, e
il cristianesimo che ha permesso la nascita del capitalismo è stato quello
che ha tradito se stesso, i suoi principi, cioè anzitutto il
cattolicesimo-romano, che ha tradito se stesso sul piano politico, con
l'affermazione della monarchia pontificia, e successivamente il
protestantesimo, che ha portato alle estreme conseguenze il tradimento
cattolico, estendendolo a livello sociale: sotto il protestantesimo la
corruzione non si pone solo a livello di istituzioni, gerarchia, papato, ma
si estende a livello di società civile, di rapporti sociali quotidiani:
tutti sono nemici di tutti. E questo in nome del dio cristiano, stravolto
nei suoi contenuti originari. Il cattolicesimo ha posto delle premesse
politiche a favore del capitalismo che il protestantesimo ha sviluppato a
livello sociale.
LA RIVOLTA DEL GLADIATORE SPARTACO
Mentre Roma era impegnata a fronteggiare la ribellione di Quinto Sertorio
nelle province spagnole, un grave pericolo si concretizzò nella penisola
italica, un pericolo inizialmente sottovalutato, ma che richiese
successivamente un grande sforzo militare per disinnescarlo: la rivolta di
un gruppo di gladiatori che si trasformò in una grande guerra al potere di
Roma e alle sue ingiustizie sociali.
Una guerra che passerà alla storia con il nome di "bellum servile".
Spartaco
A guidare i rivoltosi, uno di loro, un trace di nome Spartaco, che diventò
un simbolo immortale delle lotte degli oppressi contro gli oppressori, tanto
che ancora nel 1918, in Germania nasceva un movimento socialista il cui nome
fu proprio quello di "movimento spartachista".
Spartaco era quindi un gladiatore originario della Tracia, una regione
balcanica ta il Mar Nero e il Mar Egeo. Prima di diventare gladiatore era
stato un soldato dell'esercito Romano, ma accusato di diserzione era stato
ridotto in schiavitù e venduto ad un lanista, un addestratore di gladiatori.
La rivolta dei gladiatori
Nel 73 a.C., Spartaco si trovava a Capua in una scuola per gladiatori
(ludus), di proprietà di un certo Gneo Lentulo Batiato.
Fu proprio da questa scuola che partì la rivolta, originata dalle pessime
condizioni di vita a cui erano sottoposti i suoi 200 gladiatori. Su questi
gladiatori Spartaco aveva un particolare ascendente, alimentato dalle
profezie della sua concubina, una donna iniziata ai riti dionisiaci.
Si erano tutti organizzati per fuggire, ma poi a causa di una delazione 80
di loro furono costretti ad accelerare i tempi; la rivolta scoppiò
improvvisa e i gladiatori ebbero ragione dei loro carcerieri pur non
disponendo di armi ma solo di strumenti da cucina. Le armi le trovarono
all'esterno della scuola, saccheggiando prima un convoglio destinato ad un
altra scuola e assalendo successivamente la guarnigione militare di Capua.
Male armati, ma molto determinati i fuggitivi si rifugiarono sulle falde del
Vesuvio, dove si riposarono in attesa di decidere una strategia.
A fianco di Spartaco, altri due gladiatori, di origine celtica, spiccavano
sul resto del gruppo, tanto da diventare una sorta di luogotenenti del
guerriero trace: Crisso ed Enomao.
Le prime facili vittorie
Sottovalutando il pericolo, il propretore Claudio Glabro si recò sul Vesuvio
alla guida di 3000 soldati, convinto inizialmente di sistemare la questione
senza eccessive difficoltà. Ma una volta arrivato sul posto forse comprese
che la situazione era più complicata di quello che aveva immaginato e così
si limitò ad assediare i ribelli in attesa di rinforzi. Ma i ribelli
trovarono una via per fuggire all'assedio: utilizzando rami di vite
costruirono delle scale con cui discesero i ripidi costoni del Vesuvio e,
dopo aver girato intorno ai loro assedianti, riuscirono a ribaltare i ruoli,
piombando improvvisamente sull'accampamento dei soldati.
La vittoria dei gladiatori fu netta e accese un lume di speranza in tutti
gli schiavi e i disperati della zona che continuavano ad ingrossare le fila
di questo esercito improvvisato.
La situazione era grave, ma ancora una volta la minaccia venne sottovalutata
da chi era incaricato di soffocare la rivolta. Anche il pretore Varinio,
affrontò i ribelli con pochi uomini e con una tattica improvvisata. Le sue
truppe, divise in due distaccamenti di 2000 uomini ciascuno, furono
annientate con facilità dagli uomini di Spartaco. Lo stesso pretore rischiò
la vita, ma poi riuscì a sfuggire al nemico per rifugiarsi a Cuma, da dove
mandò un messaggio al Senato di Roma, evidenziando la gravità della
situazione.
I successi conseguiti da Spartaco, assumevano dei contorni leggendari sugli
schiavi e sui disperati che vivevano sia nelle città sia nelle campagne, i
quali si sentivano attratti da questo vento di libertà e di riscatto. Le
fila di questo esercito improvvisato si ingrandivano a dismisura e per
Spartaco e i suoi legati le priorità diventavano quelle di sfamare questa
moltitudine e di prepararla alle battaglie imminenti.
Il viaggio verso le Alpi
Approfittando dell'effetto sorpresa, Spartaco, con il suo esercito,
abbandonò le falde del Vesuvio per cominciare un percorso con cui intendeva
risalire la penisola per poi valicare le Alpi e tornare in quelle terre da
cui proveniva. Spartaco sapeva che restando in Italia prima o poi sarebbe
stato sconfitto da un esercito romano: l'effetto sorpresa non sarebbe durato
a lungo.
Durante il percorso questo esercito irregolare attaccava città come Nola e
Nocera, ma nello stesso tempo saccheggiava le campagne e le borgate isolate.
Spartaco non riusciva a controllare tutti gli uomini che si muovevano con
lui, alcuni dei quali si erano organizzati in bande dedite alla violenza e
al saccheggio; per questo motivo tentava di rendere più veloce il suo
progetto di abbandonare la penisola.
In effetti il Senato di Roma si stava organizzando per fare fronte a questa
minaccia, conferendo ai consoli dell'anno, Gellio Publicola e Cornelio
Lentulo Clodiano, l'incarico di reprimere la rivolta.
I consoli avevano l'occasione per approfittare delle divisioni che si
stavano creando tra i rivoltosi: il progetto di Spartaco non era gradito
alla componente celtica del suo esercito e ai suoi luogotenenti Crisso e
Enomao. Loro preferivano restare nella penisola, continuando a saccheggiare
campagne e a conquistare città.
Così Spartaco alla guida di 30.000 uomini si mise in marcia verso le Alpi,
mentre Crisso ed Enomao, insieme a 10.000 uomini prevalentemente di origine
celtica, puntarono a sud, verso l'Apulia.
La sconfitta di Crisso e Enoma
Il console Publicola, insieme al pretore Arrio, ebbe vita facile contro il
gruppo celtico e in poco tempo li annientarono, uccidendo Enomao in un primo
combattimento e Crisso in uno successivo.
A quel punto i due vincitori si mossero in aiuto del console Clodiano che
stava per attaccare Spartaco e i suoi uomini, che intanto erano cresciuti
ancora di numero.
L'obiettivo era quello di attaccare i rivoltosi con una mossa a tenaglia, ma
il piano fallì e Spartaco riuscì a sbaragliare entrambi gli eserciti Romani
per poi riprendere il suo viaggio verso Nord.
La sua marcia sembrava inarrestabile, anche il propretore della Gallia
Cisalpina, Cassio Longino, dovette recedere dal proposito di bloccare
l'avanzata di Spartaco, dopo aver perso in una prima battaglia ben 10.000
soldati.
Spartaco volle commemorare in modo particolare la morte del suo compagno
d'avventura Crisso, morto sotto i colpi dell'esercito Romano. Lo fece
attuando una vendetta che aveva un significato particolarmente simbolico e
cioè costringendo ben 300 prigionieri Romani ad affrontarsi in una grande
sfida gladiatoria all'ultimo sangue.
Spartaco inarrestabile
Ora con l'ex-gladiatore erano schierati ben 100.000 uomini, una massa
difficile da controllare e da gestire. Il problema del cibo era sempre più
evidente e Spartaco che , nonostante le facili vittorie, era sempre più
preoccupato della situazione.
Arrivato a Modena, di fronte alle sue mura ben difese e alle sue porte
sbarrate, Spartaco, senza una spiegazione evidente, rinunciò alla sua idea,
e decise di tornare verso sud.
Questo cambio di direzione sconcertò i Romani che temevano un attacco alla
città. Temevano sopratutto che i tanti schiavi presenti in città potessero
unirsi alla rivolta, creando un pericoloso fronte interno che avrebbe
indubbiamente favorito l'attacco dall'esterno, altrimenti impossibile.
Ma Spartaco sapeva bene che la conquista di Roma sarebbe stata un'impresa
impossibile e quindi si mantenne lontano dall'Urbe, ridiscendendo la
penisola sul versante Adriatico. La sua marcia, anche se in senso inverso,
continuava ad essere inarrestabile e ogni tentativo di bloccarla si
dimostrava vano.
I consoli dell'anno (72 a.C.) si dimostrarono inadeguati, subendo ripetute
sconfitte, e così per fronteggiare la situazione di emergenza, Roma ricorse
ancora alla soluzione dell'uomo forte, l'uomo a cui veniva concesso un
imperium assoluto.
La Repubblica Romana, per salvare se stessa, adottava una soluzione che la
spingeva sempre più velocemente verso la sua estinzione.
Marco Licinio Crasso
Mentre Pompeo esercitava il suo imperium in Spagna, al pretore Marco Licinio
Crasso veniva concesso il comando assoluto della lotta contro Spartaco;
Crasso era un ricco aristocratico che, nella guerra civile, aveva combattuto
al fianco di Lucio Cornelio Silla e che ora cercava di cogliere questa
occasione per accrescere il suo prestigio personale.
Crasso, nella nuova carica di proconsole, si impegnò nella guerra servile
schierando ben 10 legioni, di cui 6 arruolate personalmente da lui.
Ne mandò subito 2 a controllare i movimenti del nemico, ma le stesse,
sfidate dall'orda nemica, si smembrarono, evidenziando un'estrema fragilità.
Molti dei legionari si diedero alla fuga, provocando la dura reazione di
Crasso. Il proconsole volle dare un forte segnale che richiamava i suoi
soldati al rispetto di quelle caratteristiche di disciplina e coraggio che
da sempre avevano contraddistinto l'esercito Romano. Sottopose così le due
legioni, accusate di tradimento, ad un provvedimento punitivo ormai in
disuso: la decimazione. Gli uomini venivano divisi in gruppi di dieci e per
ogni gruppo un solo uomo veniva condannato a morte. La selezione veniva
effettuata per sorteggio, ma la cosa peggiore era che la condanna doveva
essere eseguita dai 9 compagni più fortunati. Con la decimazione si punivano
duramente le legioni riducendo al minimo i danni: infatti le legioni punite
restavano integre e operative perdendo in fondo solo un decimo dei loro
effettivi.
Nel frattempo Spartaco, che aveva definitivamente rinunciato ad attaccare
Roma, continuava a spingersi a Sud. Non potendo mantenere compatto un gruppo
troppo numeroso, divise la sua armata in gruppi più piccoli. Uno di questi,
composto da 10.000 uomini, finì sotto le grinfie delle legioni di Crasso e
venne annientato.
Spartaco si era spinto fino all'estremità della penisola, a Reggio Calabria,
con l'intenzione di imbarcarsi per la Sicilia. Ma i pirati della Cilicia che
avrebbero dovuto trasportare lui e i suoi uomini sull'isola vennero meno al
loro impegno.
L'accerchiamento in Calabria
Così Spartaco, si trovò in una situazione molto difficile, chiuso come era
in un lembo di terra circondato per tre quarti dal mare. Si rifugiò nelle
montagne dell'Aspromonte, impotente di fronte all'opera di accerchiamento
che gli uomini di Crasso andavano costituendo. Un accerchiamento sostenuto
da un grande sforzo di ingegneria che permise di costruire in poco tempo,
una lunga palizzata in legno e un ampio fossato: due opere, lunghe 55
chilometri, che isolavano di fatto la punta, dal resto dello stivale; di
fronte a Spartaco e ai suoi uomini la prospettiva di una morte lenta per
mancanza di cibo.
I tentativi di fuga risultavano vani, in uno di essi morirono 12.000 uomini,
mentre la negoziazione veniva rifiutata in modo deciso da Crasso che ormai
sentiva la vittoria imminente.
Ma una notte una parte dei ribelli riuscì ad aprirsi un varco e a fuggire.
Crasso per evitare di trovarsi accerchiato dovette abbandonare l'assedio,
lasciando a Spartaco e al resto dei rivoltosi la possibilità di abbandonare
quella trappola mortale. Spartaco prese la via di Brindisi, dove forse
sperava di imbarcarsi per la Tracia.
Colto dalla disperazione, Crasso chiese aiuto al Senato, il quale richiamò
sia le truppe di stanza in Macedonia, agli ordini di Marco Terenzio Varrone
Lucullo, sia Pompeo Magno con il suo esercito, che nel frattempo aveva
portato a termine vittoriosamente la campagna iberica contro l'altro grande
ribelle del tempo: Quinto Sertorio.
Crasso si pentì amaramente della sua richiesta di aiuto, che aveva provocato
il ritorno in patria di Pompeo. I due uomini si odiavano a vicenda, divisi
da una grande rivalità fomentata dalla grande ambizione di potere.
Del resto Crasso, coadiuvato da Lucullo, aveva tutte le risorse necessarie
per combattere quello che era in fondo un gruppo di disperati male armati e
alla ricerca disperata di cibo.
Il proconsole pensò quindi di rendere più pressante la sua strategia
militare e di chiudere il conto con Spartaco prima che Pompeo potesse
tornare in patria per prendere parte alla guerra.
La sua tattica fu premiata da alcuni successi importanti, come la vittoria
contro un gruppo di celti guidati da Giannico e Casto. In questa battaglia
le truppe Romane recuperarono 5 aquile, simbolo della forza delle legioni
Romane, ingenerando in questo modo nuovo entusiasmo e vigore tra i legionari
che assegnavano grande valore alle loro insegne.
La morte di Spartaco
Spartaco sotto la spinta delle legioni di Crasso e di quelle di Lucullo fu
costretto a ripiegare nel Bruzio e dopo, qualche schermaglia con sorti
alterne, non poté evitare l'impeto delle legioni Romane.
In una grande battaglia svoltasi in Lucania, sulle rive del Sele, le legioni
Romane riuscirono finalmente ad annientare le orde nemiche. Lo stesso
Spartaco, nonostante la sua furia, cadde sotto i colpi del nemico, anche se
il suo corpo non fu mai ritrovato, alimentando così ulteriormente la
leggenda che aleggiava intorno alla sua figura di grande combattente.
Il suo comportamento coraggioso nella battaglia finale, gli viene
riconosciuto da tutti gli storici della Roma Antica, anche quelli che più
ostili alla sua figura.
Nella primavera dell'anno 71 a.C., finiva un incubo che aveva sconvolto le
notti dei Romani per un anno e mezzo. Questo uomo, che aveva messo sotto
scacco per così lungo tempo Roma e il suo esercito, aveva invece
rappresentato un dolce sogno di libertà per tutti quegli uomini che vivevano
in regime di schiavitù.
Crasso anche in questo caso, come nel caso della decimazione, adottò una
punizione esemplare per i prigionieri che erano sopravvissuti alla battaglia
decisiva. Ben 6000 croci vennero erette lungo la via Appia, nel tratto che
collegava Roma con Capua. 6000 ribelli persero quindi la vita in questo
orribile modo, fornendo a detta di Crasso, un valido esempio per tutti gli
schiavi che non si erano ribellati, ma che si erano sentiti moralmente
vicini all'azione di Spartaco. Un esempio della grande potenza di Roma.
Il colpo decisivo di Pompeo
Crasso era pronto per il trionfo, un trionfo da grande condottiero, ma la
sfortuna volle che un gruppo composto da 5000 schiavi, sfuggiti al grande
massacro, si scontrasse in Etruria con le le truppe di Pompeo che
discendevano la penisola. I 5000 fuggiaschi furono massacrati dalle truppe
pompeiane, dando così modo al generale piceno di accaparrarsi una parte dei
meriti connessi con la fine della rivolta.
Lo stesso Pompeo, mandando un messaggio al Senato dichiarava: "Se Crasso ha
vinto il male, io ne ho estirpato le radici".
Due generali alle porte di Roma
Entrambi i generali si mossero quindi verso Roma, senza smobilitare i loro
eserciti, richiedendo a gran voce il meritato trionfo e la possibilità di
candidarsi al consolato per l'anno successivo. Quest'ultima era una
richiesta assolutamente incostituzionale, considerato che nessuno di loro
aveva le carte in regola per potersi candidare, ma in quegli anni, la
costituzione repubblicana era diventata così vulnerabile da non
rappresentare più una garanzia contro l'ambizione di alcuni uomini
particolarmente potenti.
E così il Senato in difficoltà, con due eserciti minacciosi ancora
mobilitati, concesse il trionfo a Pompeo e una semplice ovazione a Crasso e
poi diede il benestare alla loro candidatura al consolato.
<- Indietro -
Continua ->
|
|
|
|
|
|
| |