EVOLUZIONE ECONOMICA E SOCIALE DELL'ANTICA ROMA
Per inquadrare i cambiamenti socio-economici avvenuti nel corso della storia
romana - in particolare in riferimento al periodo del passaggio dalla
Repubblica all'Impero - dobbiamo tenere conto dell'esistenza di due distinte
fasi a livello produttivo e sociale: a) quella 'agricola' e b) quella
'imperialista'.
A) FASE AGRICOLA
Nel corso della fase che chiamiamo agricola (e che molto schematicamente
possiamo dire giungere fino al termine della seconda guerra punica, nel 202)
si ha, all'interno della società romana, un netto predominio
dell'aristocrazia terriera.
Al di sotto di questa, si trova la plebe (composta sia da piccoli
proprietari che da semplici lavoratori - per la maggior parte giuridicamente
liberi - della terra).
Questa aristocrazia rurale è di tipo capitalistico, tende difatti a
arricchirsi a spese dei proprietari più piccoli: ovvero a ingrandire i
propri possedimenti inglobando quelli di questi ultimi [si noti poi che
quello della distribuzione delle terre - detto questione agraria - è un
problema estremamente diffuso in tutto il mondo antico, come dimostra la
vicenda della Grecia sia classica che pre-classica!].
L'opera di ampliamento dei propri territori non può certo essere inoltre
estremamente difficoltosa per la classe aristocratica, dal momento che essa
si colloca in una posizione nettamente dominante sia da un punto di vista
economico che (attraverso il Senato) da un punto di vista politico.
Quasi certamente, durante il periodo dell'egemonia e dell'influenza
etrusche, si sviluppa una prima forma di vita industriale (in senso
ovviamente non moderno, prima di tutto da un punto di vista tecnologico) e
commerciale; ma un tale fenomeno resta comunque estremamente circoscritto,
non andando in sostanza al di là di un tipo di produzione d'ambito
familiare.
Non vi è dunque, in questo primo periodo, alcuna classe che contrasti
seriamente il predominio politico e economico nobiliare, predominio il cui
fondamento è di natura essenzialmente terriera.
La società arcaica si basa dunque su un forte divario tra i ceti ricchi e
quelli poveri, divario coincidente grosso modo con quello di natura sociale
tra patrizi e plebei (questi ultimi sia piccoli proprietari, sia proletari
rurali e cittadini).
Il patriziato inoltre esercita - in virtù del proprio predominio politico e
istituzionale - un patronato diffuso su tutta la plebe: ogni famiglia nobile
ha insomma le proprie clientele private (formate da coloro che sono in
debito verso di lei e che quindi le restano legate a vita) che rinsaldano il
suo dominio in un certo ambito territoriale.
Un primo segno di mutamento di tale situazione sarà costituito dalle riforme
poste in atto dal sovrano Servio Tullio, il quale dividerà la popolazione in
base a criteri censuari, anziché di nascita o di casta. Questa nuova
distinzione, indipendente dai criteri di 'casta' e di appartenenza
familiare, tiene conto della ricchezza personale dei cittadini ed è il
prodotto di un'evoluzione di carattere economico: l'arricchimento cioè di
una parte della plebe.
Pochi anni dopo le riforme di Servio Tullio inoltre, si avrà - e non a
caso - la creazione delle Assemblee centuriate.
B) FASE IMPERIALISTA
Ma la vera e propria svolta nella storia romana si ha - secondo l'opinione
concorde degli storici - al termine della seconda guerra punica (202 a.C.),
quando Roma diviene 'padrona' delle regioni del Mediterraneo occidentale,
dopo avere in sostanza eliminato la sua rivale, la potenza cartaginese,
unico serio ostacolo alle proprie mire espansionistiche nelle zone del
bacino mediterraneo occidentale.
Inizia così per Roma una fase del tutto nuova: quella imperialistica.
E per la società romana si aprono nuove prospettive sia di arricchimento che
di trasformazione sociale, legate più o meno tutte al predominio militare e
politico che essa esercita sui territori sottomessi.
Se il patriziato, attraverso il protettorato di Roma su tali zone,
acquisisce nuove terre e nuove ricchezze; la plebe vede invece ampliarsi
enormemente gli orizzonti della propria azione: accanto al lavoro agricolo o
all'esistenza strettamente urbana, si profilano difatti per lei possibilità
quali l'arruolamento nell'esercito (che gradualmente si professionalizza) o
il commercio.
I nuovi orizzonti commerciali e finanziari, che il patriziato (per ragioni
di prestigio sociale, legate a pregiudizi culturali di natura essenzialmente
"anti-economica") tende a non sfruttare, diverranno difatti col tempo sempre
più attività esclusiva della plebe, la quale si sobbarcherà appunto il
compito di portare avanti - assieme ad altri ceti subalterni - questo tipo
di iniziative.
Ai plebei romani e italici si aggiungono poi quelli delle province, le quali
a loro volta entrano a fare parte dei quadri dirigenti dell'impero.
Un fenomeno essenziale, connesso a questa trasformazione, è quello per cui
le antiche clientele dell'aristocrazia romana (risalenti ancora al periodo
arcaico) perdono gradualmente il loro antico predominio sociale, a causa del
ridimensionamento dovuto alle nuove forme di patronato create dai quei
grandi condottieri che accentrano su di sé dei poteri vastissimi, che
percorrono tutte le regioni imperiali da occidente a oriente.
Le clientele nobiliari romano-italiche finiscono così per venire inglobate -
almeno tendenzialmente - all'interno di quelle più giovani ma anche
estremamente più ampie dei condottieri e dei principi, e nemmeno spesso come
le parti più rilevanti di esse!
E' la corte imperiale infatti, la vera "clientela" del principe, dal momento
che in essa risiede l'insieme dei suoi uomini, ovvero dei tutori del suo
predominio politico (i quali però, hanno anche notevoli possibilità di
condizionarlo): un predominio cui debbono oramai sottomettersi - è
gioco-forza - anche i patronati più antichi, quelli romano-italici e
nobiliari.
Non bisogna tuttavia credere che non vi siano, all'interno dei territori
imperiali, anche altri centri di potere oltre alla corte, che mantengono una
forte indipendenza da essa, poteri di natura economica o legati al
persistere di poteri territoriali molto remoti.
E neanche che in Roma l'aristocrazia non cerchi di contrastare l'egemonia
politica del principe e degli apparati imperiali, facendosi forte delle sue
antiche tradizioni clientelari e del loro radicamento nei territori
cittadini e peninsulari - ne è una prova ad esempio la Lex Valeria-Cornelia
del cinque (e il suo aggiornamento nel 19 d.C.), con la quale Augusto e il
Senato si spartiscono a spese delle Assemblee popolari i poteri elettorali
sulle magistrature.
Schematicamente, le componenti sociali che, all'interno dei territori
imperiali, possiamo considerare come 'clientes' dei poteri del princeps sono
dunque:
- quelle provinciali (i gruppi di potere locali debbono infatti appoggiarsi,
al fine di dare risonanza a livello globale ai propri interessi,
all'autorità politica del principe e alla sua corte);
- quelle militari (il principe infatti, erede della lunga tradizione dei
condottieri romani - come Cesare o Mario - è anche il capo dell'esercito, e
da lui dipende il buono stato di quest'ultimo, il quale inoltre - vista la
sua importanza - può esercitare su di lui una forte pressione a livello
decisionale);
- le classi subalterne (ad esempio la plebe urbana e gli schiavi) e quelle
commerciali (ad esempio, i plebei ricchi o gli equestri, e i liberti) le
quali spesso si appoggiano a lui, e in generale al nascente Stato imperiale,
per raggiungere un rango sociale e un livello economico più elevato.
L'apparato imperiale dunque, trae gran parte della propria forza
dall'alleanza con questi ceti non aristocratici.
Infatti, se da una parte esso dà voce ai loro interessi, dall'altra li
colloca in un quadro complessivo (quello imperiale appunto) che,
consolidandone la funzione e il prestigio sociale, rafforza al contempo
anche se stesso.
Entrando a fare parte dell'esercito infatti, o divenendo funzionari
dell'immenso apparato imperiale, o costituendosi parte della classe
affaristica, commerciale e/o industriale (spesso bisognosa di aiuti da parte
dello Stato: sia sul piano militare, ad esempio con missioni di polizia sui
territori, sia su quello finanziario attraverso provvedimenti pubblici.),
queste classi finiscono quantomeno tendenzialmente per dipendere
dall'autorità del principe, il quale a sua volta si pone al vertice di
quella vasta piramide di poteri che gestiscono questi aspetto della vita
sociale dell'Impero.
Si vede quindi chiaramente come egli, favorendo lo sviluppo di queste
classi, consolidi al tempo stesso sia l'Impero sia la propria autorità
politica e istituzionale: due realtà che, per ragioni politiche e culturali,
tendono a porsi in contrasto con le prerogative e i valori della più antica
aristocrazia terriera.
Da Augusto in avanti, si può dunque parlare di una vera e propria politica
delle classi medie, portata avanti consapevolmente dall'Imperatore (e dal
suo seguito) al fine di rafforzare la propria creatura politica!
Egli infatti, avendo compreso come la realtà imperiale trovi la sua solidità
e il suo elemento connettivo essenzialmente negli interessi commerciali che
accomunano le differenti regioni, favorisce lo sviluppo di una vasta classe
agiata - definibile, anche se con termine improprio, come "classe medio
borghese" - la quale, con le proprie attività commerciali, burocratiche e
militari, contribuisce all'esistenza dell'Impero, traendone
contemporaneamente dei benefici personali in termini di benessere economico
e di considerazione sociale.
Anche la condizione schiavile risente poi di queste trasformazioni.
Mentre la maggior parte degli schiavi vede peggiorare, rispetto al periodo
prettamente agricolo e arcaico della società romana, le proprie condizioni
di vita (divenendo lo strumento fondamentale di un sistema produttivo sempre
più esigente ed opulento), vi è una piccola minoranza invece che assurge a
una nuova dignità.
Sono coloro che si occupano - con successo - di questioni finanziarie e
commerciali, e che contribuiscono in tal modo all'arricchimento e alla
crescita capitalistica dei propri padroni (si ricordi a tale proposito il
memorabile personaggio del "Satyricon" di Petronio: il liberto, ovvero lo
schiavo liberato, Trimalcione).
Essi inoltre, dopo essere stati affrancati dai propri proprietari (magari in
punto di morte), continuano di solito a portare avanti in proprio le
attività commerciali, divenendo in tal modo un elemento non secondario del
dinamismo economico e mercantile dell'Impero.
In conclusione possiamo dire che la società romana si trasforma, nel corso
della sua evoluzione, da una realtà fondata su due piani contrastanti
(basata cioè su una rigida divisione tra ricchi e poveri, coincidente in
gran parte con la distinzione sociale - di casta - tra patrizi e plebei) in
una fondata su più piani: i ricchi (l'aristocrazia terriera, ma anche i
plebei abbienti o cavalieri, e molto spesso i liberti), i ceti medi (ovvero
una vastissima classe di individui che hanno raggiunto o aspirano a
raggiungere un certo benessere) e i ceti parassitari o marginali (quali il
proletariato urbano, gli schiavi, ecc.)
Ed è proprio tra i ceti medi (nonché in generale tra quelli commerciali e
finanziari) che l'Impero trova il proprio principale elemento di forza:
questi ultimi infatti vedono nella crescita dell'Impero la loro stessa
crescita! E perciò ne sostengono a vari livelli e in diversi modi - e fino a
un certo momento fondamentalmente con successo - lo sviluppo.
Nonostante i conflitti interni alla compagine imperiale (conflitti legati
soprattutto ai differenti interessi a livello regionale) quest'ultimo
riuscirà, come tutti sanno, a sopravvivere ancora per parecchi secoli dopo
la morte di Ottaviano Augusto.
Evidentemente, la sua forza starà nel saper calibrare bene il rapporto tra
le proprie risorse militari e coercitive (vaste, anche se non illimitate) e
gli interessi particolaristici delle zone che lo compongono.
Un tale capacità di mediazione e di compromesso manterrà questa immensa
entità politica e militare relativamente compatta ancora per svariati
decenni.
I punti di forza che ne consolidano l'integrità territoriale, contribuendo
al tempo stesso al benessere di una gran parte dei propri cittadini, sono:
- la capacità di fare circolare le merci e la ricchezza al proprio interno
(si parla a tale proposito di capitalismo distributivo)
- la capacità di garantire la sicurezza interna attraverso azioni militari
contro la pirateria, piuttosto che contro le spinte centrifughe interne, e
in generale contro i nemici dell'Impero.
Col tempo inoltre, la città di Roma diventerà sempre di più la capitale solo
nominale dell'Impero, perdendo quel ruolo di effettiva preminenza sugli
altri territori che aveva avuto ancora nei secoli della Respublica, e
divenendo più semplicemente il centro dirigenziale di esso, ovvero la sede
ufficiale per ragioni storiche e di tradizione dell'Imperatore - il quale
assieme alla corte costituirà invece il vero centro dello Stato.
Ciò perché gli interessi in gioco diventeranno gradualmente troppo vasti per
poter coincidere con le istanze politiche della capitale, e per poter
trovare quindi in esse un effettivo riscontro.
1. Le tre fasi dell'economia romana
Nella sua lunga evoluzione da città-stato a Impero, Roma ha attraversato
differenti fasi non solo di carattere geografico e politico, ma anche di
carattere produttivo: è passata cioè attraverso diverse forme o stadi
produttivi.
Molto schematicamente possiamo dire, riguardo a quest'ultimo punto, che si
siano susseguite le seguenti modalità:
A - quella 'capitalistica-agraria',
B - quella capitalistica in senso commerciale e mercantile,
C - infine quella agricola o 'pre-feudale'.
A - Nella prima di tali fasi, la grande proprietà tende a accrescersi a
spese di quella media e piccola, la quale rimane spesso soffocata dai debiti
contratti con la prima e - di conseguenza - anche imprigionata nei vincoli
di gratitudine e di asservimento che questa le impone.
Si può perciò parlare di una sorta di "capitalismo" (nel senso di un impulso
o di una tendenza costante verso l'accrescimento o la capitalizzazione della
ricchezza), ma con la precisazione che si tratta di un capitalismo ancora
eminentemente agrario, cioè privo (o quasi) di quelle basi commerciali e
monetarie che lo caratterizzano nei suoi sviluppi più maturi e nella sua
forma più pura.
C - Nell'ultima fase - che prelude peraltro al feudalesimo (ovvero a quel
sistema che diverrà, nel Medioevo, la principale forma di organizzazione
sociale ed economica) - si afferma un tipo di economia che possiamo definire
di autosussistenza, nella quale ogni centro di produzione locale, detto
villa, tende a costituirsi come una realtà sociale e produttiva autonoma.
Tanto la prima quanto l'ultima fase - pur con le dovute e profondissime
differenze - sono caratterizzate dalla prevalenza pressoché incondizionata
del momento della produzione (legata essenzialmente all'agricoltura e
all'allevamento) su quello della distribuzione e dello smistamento dei
prodotti.
In esse dunque, secondario se non assente è il fattore commerciale, con
tutto ciò che questo comporta (bassa specializzazione a livello della
produzione locale, sottosviluppo delle città.)
La differenza più evidente tra esse consiste invece nel fatto che la prima,
col suo tipo di organizzazione sociale ed economica, preceda e in un certo
grado prepari i futuri sviluppi della società romana: sviluppi di carattere
commerciale e - pur con tutti i limiti che un tale termine assume in questo
contesto - industriale; l'ultima, al contrario, sorge dal ripiegamento e dal
collasso di questo secondo tipo - più avanzato - di organizzazione
economica, che sfocerà in un sistema produttivo essenzialmente agricolo:
quello feudale.
Oggetto dei prossimi paragrafi saranno fondamentalmente gli aspetti di base
del secondo stadio produttivo (B), di quello cioè che potremmo definire
capitalistico in un senso più moderno, poiché comprendente tra l'altro:
l'uso della moneta, il commercio su larga - e larghissima - scala, nonché un
tipo di produzione di carattere 'proto-industriale' (finalizzata cioè alla
fabbricazione dei beni in grande quantità!)
Si tenterà, qui di seguito, di delineare il funzionamento del capitalismo
romano 'maturo', utilizzando - a mo' di raffronto - i concetti e le
categorie sottese all'analisi dell'economia moderna (di quella realtà
storica cioè, il cui primissimo inizio si colloca con la rinascita cittadina
del XIII sec.)
E' ovvio che la diversità tra "capitalismo moderno" e "capitalismo antico"
non può non essere abissale. Per tale ragione si cercherà di mettere sempre
in luce - pure nell'affinità di fondo tra i due sistemi - anche le profonde
differenze tra essi. insomma si utilizzeranno effettivamente le categorie
dell'economia moderna, ma in un modo - si spera - critico ed estremamente
prudente.
In ogni caso, il tentativo sarà quello di interpretare il sistema
socio-economico della Roma imperiale (e, più in generale, di quella
'imperialista') attraverso categorie 'moderne', utilizzate tanto in senso
positivo (mostrandone cioè la sostanziale adattabilità al mondo antico), sia
in senso negativo (mostrando anche, cioè, il profondo divario che intercorre
tra i due sistemi).
2. Caratteri del capitalismo romano (e in generale di quello antico)
Per comodità, si è deciso di dividere l'argomento in tre differenti
paragrafi, corrispondenti a tre diversi livelli del discorso, tra loro
strettamente interrelati: quello produttivo (inerente cioè alla produzione:
al suo modo di esistere e alla sua redditività, ma anche - più in generale -
all'organizzazione delle attività economiche); quello organizzativo
(riguardante la ricchezza, nelle sue diverse forme e nel modo in cui esse si
articolano); ed infine quello sociale, politico e culturale.
Come si è già detto, si utilizzeranno - ma a mo' di raffronto e non certo in
senso univoco - categorie sociali ed economiche moderne, ragion per cui ogni
argomento (produzione, commercio, Stato, ecc.) verrà sempre posto in
relazione con il suo più giovane - e da noi quindi anche meglio conosciuto -
corrispettivo.
A) Caratteristiche produttive
Non può non balzare all'occhio - e non essere al tempo stesso il punto
d'avvio del nostro discorso - l'enorme differenza che esiste, sul piano
della produttività, tra la società romana (e più in generale antica) e la
moderna società industriale.
E' ovvio poi come il minor livello produttivo della prima comporti per essa
anche minori eccedenze da reinvestire, in qualità di merci, in attività di
tipo 'capitalistico'.
Già da queste brevissime osservazioni si può intuire l'intrinseca debolezza
del capitalismo antico [ove col termine "capitalismo" si intenda una pratica
economica fondata sul commercio e sul reinvestimento degli utili ricavati
attraverso esso in altre attività economicamente redditizie, al fine di una
crescita idealmente illimitata della ricchezza] rispetto a quello moderno,
dotato tra l'altro di risorse produttive infinitamente superiori. Una
debolezza caratterizzante peraltro, sebbene in differenti gradi, tutti i
momenti evolutivi (compresi quelli di maggiore splendore) della civiltà
romana, e in generale di quella antica.
Né è necessario ricordare come l'economia di quest'ultima sia di tipo
fondamentalmente agrario (legata peraltro non solo ai latifondi, ma anche
alle medie e piccole proprietà - pur essendo queste ultime molto più
indirizzate, rispetto ai primi, verso un'economia d'autosussistenza) o
artigianale (praticata sia nella campagne che nei centri cittadini), priva
quindi di una vera e propria produzione di carattere industriale, cioè su
larghissima scala.
Ma, nonostante la presenza dei fattori appena menzionati (i quali, limitando
come si è detto la quantità di merci disponibili sui mercati, influenzano in
un senso decisamente sfavorevole lo svolgimento delle attività commerciali)
si deve anche ricordare come, inversamente, la crescita e il consolidamento
del dominio internazionale di Roma favorisca lo sviluppo o il consolidamento
di rotte di carattere commerciale che collegano da parte a parte le diverse
aree dell'Impero, e che spingono inoltre la produzione locale in direzione
della specializzazione produttiva.
In tal modo quindi, ogni area tende a fornire alle altre una gamma di
prodotti - di cui è naturalmente più ricca - ricevendone in compenso degli
altri di cui è sguarnita, o che comunque sarebbe in grado da sola di
produrre in quantità decisamente minore: un meccanismo che presenta evidenti
vantaggi per tutte le regioni dell'Impero e attraverso cui si configura un
sistema economico e commerciale 'globale'.
E' poi interessante notare come un simile processo di specializzazione si
possa paragonare - seppure molto alla lontana - alla moderna produzione
industriale, in quanto finalizzato evidentemente a un tipo di produzione su
'larga scala'.
Un altro elemento distintivo dell'economia romana - anche nei suoi stadi più
avanzati - rispetto a quella moderna è il differente rapporto tra città e
campagne.
Mentre infatti le città moderne tendono a svilupparsi in opposizione o
comunque in un rapporto di notevole autonomia rispetto alle campagne
limitrofe, le città antiche mantengono al contrario con esse un rapporto
molto più stretto, quasi simbiotico.
E ciò sia perché, rispetto alle prime, la quantità di prodotti che ricevono
dalle zone agricole è inevitabilmente molto inferiore (ragion per cui non
riescono a sviluppare una eccessiva indipendenza da esse), sia a causa di
uno sviluppo molto più basso delle attività commerciali e finanziarie, sia
infine per l'assenza di quelle attività industriali che si svolgono oggi -
almeno prevalentemente - all'interno delle città o nelle loro periferie.
In conclusione, possiamo dire che tanto il sottosviluppo produttivo del
mondo agrario romano - e più in generale di quello antico -, quanto quello
(in gran parte conseguenza del primo) delle città e delle attività che in
esse hanno luogo, portano come risultato una netta prevalenza delle attività
di tipo produttivo (fondamentalmente rurali) rispetto a quelle di tipo
capitalistico (legate ai traffici e, in modo complementare, al
reinvestimento della ricchezza): ovvero in buona sostanza a una netta
prevalenza, in termini sociali ed economici, delle campagne sulle città!
B) Caratteristiche economiche
Oltre alla differenze di tipo produttivo (appena analizzate), vi sono poi
quelle riguardanti più specificamente la sfera economica, legate cioè al
modo di organizzazione delle attività non specificamente rurali.
Approfondendo tali aspetti, ci si accorge di come - oltre alle già
menzionate deficienze di carattere produttivo - ve ne siano altre di tipo
finanziario e commerciale.
Prima di tutto, bisogna ricordare come nel mondo antico l'uso della moneta -
soprattutto se paragonato a quello che, secoli dopo, se ne farà in quello
moderno - risulti estremamente ridotto. Un dato che non può non comportare
gravi difficoltà nelle transazioni commerciali [anche se, in senso opposto,
possiamo già rilevare la presenza di monete 'internazionali', quali quelle
romane del periodo imperiale o - ancora prima - delle 'civette' ateniesi].
In altri termini, la carenza di danaro liquido - e la sua cronica
instabilità - finirà per rendere molto più difficoltosi e complicati gli
scambi commerciali, costituendo un notevole impedimento - quasi una
zavorra - per il loro svolgimento!
Di ciò è prova anche il fatto che la pratica del baratto e quella delle
prestazioni in natura, rimangano sempre molto diffuse nell'arco di tutta la
storia romana.
Ma il mondo antico è caratterizzato anche da altre deficienze sul piano
dell'organizzazione economica, deficienze che riguardano l'assenza - o
quasi - di veri e propri strumenti di organizzazione del credito (quali per
esempio le moderne banche) che favoriscano il reinvestimento della ricchezza
acquisita (piuttosto che posseduta per ragioni d'eredità) in nuove imprese
commerciali o finanziarie, secondo un processo - capitalistico appunto - di
crescita continua dei profitti.
La carenza insomma tanto di danaro liquido, quanto di veri ed efficienti
strumenti di tipo finanziario sarà, nel mondo antico, una delle ragioni alla
base della difficoltà di decollo dell'economia propriamente capitalistica,
costituendo una pesante (seppure inconsapevole) ipoteca non solo per le
attività economiche di carattere commerciale, ma anche per lo sviluppo di
una mentalità capitalistica in senso propriamente moderno.
L'estrema debolezza e 'inconsistenza' della ricchezza mobile rispetto a
quella immobile, infatti, porterà come conseguenza il fatto che i cittadini
più ricchi preferiscano in linea di massima (almeno una volta consolidato il
proprio patrimonio) gli investimenti di tipo agrario (legati essenzialmente
all'acquisto di terre) a quelli di tipo più propriamente capitalistico,
volti cioè a rimettere in gioco il proprio capitale attraverso attività di
carattere commerciale e finanziario.
E ciò sia perché questo tipo di investimenti è, all'interno di tale sistema,
ancora più rischioso di quanto non lo sia nelle civiltà moderne; sia per
ragioni di carattere più propriamente culturale o "di mentalità", essendo le
attività commerciali ritenute tendenzialmente dequalificanti per gli
individui, e comunque meno prestigiose di un'esistenza di tipo 'agreste'
(come si vedrà meglio più avanti).
Un altro elemento sintomatico della debolezza delle attività capitalistiche
nel mondo antico è la schiacciante superiorità dello Stato in fatto di
ricchezza rispetto ai privati cittadini: nel periodo imperiale infatti è
l'Imperatore - e di gran lunga - il più ricco e il più potente capitalista,
con possedimenti (e monopoli) che attraversano tutti i territori dell'Impero
stesso, e che gli consentono non solo di sostenere finanziariamente gli
apparati statali, ma anche di fungere da 'motore' e da sostegno nei
confronti di tutta l'economia interna.
A tali attività poi - non estranee ovviamente neanche agli stati moderni -
si aggiungano quelle legate al mantenimento dell'ordine e della pace
sociale, della sicurezza sulle frontiere, nonchè infine alla manutenzione e
promozione di molteplici opere pubbliche: tutti fattori essenziali per il
consolidamento dell'economia stessa - e anch'esse non estranee, anzi
basilari, per l'economia degli stati moderni.
C) Aspetti politici, sociali e culturali
- Aspetti politici
Un possibile fraintendimento della storia romana - anche di quella più
avanzata - consiste nell'applicare a essa, sul piano delle scelte politiche,
dei criteri eccessivamente moderni (secondo un tipo di lettura che si suole
definire 'modernista').
Seguendo una tale linea interpretativa si considereranno le decisioni della
classe dirigente come funzione, in tutto o in buona parte, di obiettivi di
natura economica e capitalistica, cioè come finalizzate all'estensione dei
mercati piuttosto che ad altre finalità di carattere 'capitalistico'.
Se tuttavia un tale criterio può essere considerato valido per ciò che
riguarda gli stati moderni (i cui sviluppi, sia tecnologici che ideologici,
hanno portato a un'incontestabile centralità di tali fattori, anche in sede
politica), lo stesso non si può dire per gli stati antichi - compresa
l'antica Roma!
E' altresì vero che i conflitti internazionali abbiano comportato per essa,
nell'arco di tutta la sua lunga storia (soprattutto nella fase ascendente),
una notevole estensione non solo dei territori o delle sfere di influenza,
ma anche delle rotte commerciali, dei mercati e delle attività
capitalistiche, e tuttavia ciò non significa automaticamente che tali
conflitti siano stati provocati e intrapresi per motivazioni di carattere
capitalistico!
Piuttosto, possiamo dire che alla base delle campagne militari e delle
guerre vi siano spesso, oltre a motivazioni di carattere difensivo, le
seguenti aspirazioni:
a) aspirazioni di carattere ideologico o comunque non legate alla ricchezza
(ad esempio ragioni di prestigio, come l'affermazione a livello
internazionale della potenza romana; oppure la ricerca di sicurezza: difesa
da potenziali nemici, volontà di civilizzare aree culturalmente ostili. -
due fattori questi che spesso, oggi come allora, si mescolano e si
confondono tra loro!);
b) prospettive di arricchimento 'a breve termine' (si consideri il fatto che
la guerra porta sempre bottini, ragion per cui può anche essere combattuta
per se stessa, essendo inoltre convinzione comune che essa debba
auto-finanziarsi, ovvero riassorbire le proprie spese attraverso i guadagni
immediati dovuti alle battaglie e alle rapine di guerra, o alla riduzione di
buona parte dei nemici in schiavitù);
c) possibilità di sfruttamento delle risorse - naturali piuttosto che
umane - delle zone oggetto di conquista (una guerra può essere combattuta ad
esempio, qualora tali regioni siano ricche d'oro piuttosto che di materie
prime, o più semplicemente di manodopera schiavile. in potenza!).
Si può poi ricordare, di nuovo, il ruolo che lo Stato - come autorità
politico-militare e come 'maggior capitalista' - esercita solitamente in
difesa delle attività economiche nonché della ricchezza interna dell'Impero!
A tale proposito può essere utile ricordare anche come, in tutti gli Stati
antichi, siano il sovrano e la sua corte la fonte principale (almeno nei
primi periodi di sviluppo dello Stato) delle attività commerciali.
Attraverso la loro ricchezza difatti, essi finiscono per esercitare una
preziosa funzione di stimolo nei confronti di tali attività, ponendosi così
all'origine dei futuri - seppure spesso esigui - sviluppi capitalistici
della società. [Ciò vale per esempio per la civiltà egiziana e per quella
micenea e minoica, per le quali si parla di solito di "Economia di
palazzo".]
- Aspetti sociali
Anche sul piano dell'attribuzione dei ruoli sociali (ovvero del ceto di
appartenenza) ai singoli cittadini, vi sono profonde differenze tra il mondo
moderno e quello antico romano.
E anch'esse appaiono - ad un'attenta analisi - allo stesso tempo causa ed
effetto della relativa marginalità delle attività capitalistiche all'interno
di quest'ultimo. Mentre infatti, nella società moderna censo e ceto tendono
a corrispondere, in quella antica ciò non è molto spesso vero.
In primo luogo, vediamo come i senatori - gli appartenenti alla classe
nobiliare, cioè i cittadini più ricchi in assoluto - non siano autorizzati
per legge a esercitare attività di carattere commerciale, o comunque legate
in qualsiasi modo ad attività finanziarie o speculative.
Le loro occupazioni pubbliche non possono che essere quindi di carattere
politico o militare, mentre l'unica loro fonte di reddito sono i vastissimi
possedimenti fondiari.
Anche se è vero che i prodotti della terra sono alla base dei traffici che
percorrono in lungo e in largo l'Impero, ciò non deve indurre a credere che
i latifondisti esercitino anche attività commerciali in proprio. A seguito
di una legge risalente ancora ai primi secoli della Respublica, essi sono
difatti costretti a delegare queste ultime ad altri soggetti sociali, per i
quali esse sono spesso cospicua fonte di ricchezza.
Al di sotto della nobilitas, troviamo poi la classe degli equestri
(cavalieri). Anche a essa si accede a partire da un altissimo livello
patrimoniale (anche se, ovviamente, più basso rispetto a quello della classe
precedente).
Ai componenti di quest'ultima non è proibito l'esercizio - oltre che delle
attività politiche - dei commerci e delle attività finanziarie, ad esempio
quelle legate agli appalti pubblici (dominio dei 'publicani') tra i quali
compaiono la riscossione delle imposte, il finanziamento delle guerre,
quello delle opere pubbliche, ecc. Il fatto che possano impegnarsi in tali
attività però, non significa che lo facciano sempre: molti infatti investono
i loro guadagni in possedimenti fondiari, come del resto i nobili.
Più in alto ci si eleva nella scala sociale, insomma, più difficile (e quasi
disdicevole) diviene 'sporcarsi le mani' col danaro: e ciò anche se esso è,
in realtà, alla base dell'ascesa sociale di moltissimi plebei e - come si
vedrà subito qui avanti - non solo di essi!
Un discorso analogo a quello fatto per la nobiltà vale infatti, anche se da
un punto di vista diametralmente opposto, anche per i ceti di origine più
umile: cioè per i liberti, ovvero gli schiavi liberati.
Mentre coloro che appartengono alle classi più alte, quelle nobiliari, non
possono (fondamentalmente) esercitare attività di carattere capitalistico,
coloro i quali - pur divenuti ricchissimi attraverso i traffici! -
appartengono alla classe degli ex-schiavi, non possono entrare a fare
parte - come invece gli altri cittadini liberi - di un ceto corrispondente
alla propria effettiva rendita personale.
In questo modo, i ceti socialmente più prestigiosi (i nobili e gli equestri)
costituiscono, per coloro la cui provenienza sociale sia d'origine schiavile
(e anche se ricchi), una sorta di casta chiusa e inaccessibile.
Si è già detto altrove, come i liberti costituiscano un elemento
fondamentale del dinamismo sociale ed economico (in senso capitalistico)
della società romana, dal momento che - privi come sono in partenza di mezzi
propri, in quanto ex-schiavi - possono accrescere la loro ricchezza soltanto
attraverso attività di carattere affaristico finanziario.
Ma il fatto che ad essi sia proibito l'accesso alle classi sociali superiori
mostra molto bene come i promotori di tali attività godano di una
considerazione sociale non certo eccessivamente alta - e inferiore di molto,
in ogni caso, a quella dei nobili latifondisti -, e prova inoltre
l'esistenza di notevoli pregiudizi (peraltro abbastanza ovvi) nei confronti
di individui la cui condizione di partenza sia stata la più infima!
Entrambe queste limitazioni giuridiche (sia quelle inerenti ai nobili, che
quelle inerenti ai liberti) sono una chiara manifestazione del perdurare di
una mentalità anti-economica - ovvero di casta - all'interno della società
romana; una mentalità che - come già si è detto - ostacola il decollo di
un'economia capitalistica, essendo poi al tempo stesso manifestazione e
prodotto dell'instabilità e della precarietà congenita di quest'ultima.
- Aspetti culturali
Si è appena visto, nel precedente paragrafo, come le limitazioni sociali di
carattere giuridico siano espressione di una perdurante mentalità
anti-economica (ostile all'idea di un'ascesa sociale individuale per meriti
di tipo personale), le cui origini storiche affondano ancora in quel periodo
arcaico in cui Roma era divisa in caste fondamentalmente chiuse, e le cui
ragioni immanenti si radicano invece nella maggior debolezza della ricchezza
monetaria rispetto a quella immobiliare e fondiaria.
Qui avanti cercheremmo di delineare a grandi linee le coordinate di
quell'ideale agrario e 'bucolico', che si pone a base della mentalità
anti-affaristica del mondo romano e latino; e successivamente di mostrare
come e quando una tale mentalità sia stata (almeno in parte) superata o
revocata da quelle stesse classi, nobiliari o comunque ricche, che ne sono
anche l'incarnazione sociale più pura.
Per quanto riguarda l'ideale agrario, possiamo dire che esso rimanga,
nell'arco di tutta la storia romana, un'idea-guida e una fonte d'ispirazione
per i comportamenti sociali di molti cittadini (non solo ricchi o nobili)
attraverso le proprie scelte di vita.
Esso si fonda sul principio del bastare a se stessi, del condurre cioè
un'esistenza autonoma - almeno potenzialmente - rispetto al resto della
società e delle attività che in essa si svolgono, per mezzo ovviamente dei
frutti ricavati dalla propria terra.
Un tale ideale è inoltre espressione di una mentalità molto più propensa
all'accumulazione della ricchezza (peraltro fondamentalmente agraria, e non
certo monetaria) che al suo reinvestimento.
A un tale astratto proposito (astratto poiché ovviamente mai realizzato
nella sua interezza!) corrispondono poi gli ideali dell'otium e della
libertas: valori tipicamente nobiliari e aristocratici, secondo i quali sono
da considerarsi neglette tutte le attività pratiche e manuali, e che
prediligono invece quelle inerenti al comando militare o alla politica
E' inoltre superfluo sottolineare come tali idealità trovino una piena
realizzazione soltanto nella vita dei nobili o, comunque, dei ricchi, pur
informando di sé in un certo grado un po' tutta la società.
Ed è infatti proprio sulla base di tali valori (e dei comportamenti che ne
conseguono) che le classi nobiliari si opporranno allo strapotere politico e
ideologico detenuto, all'interno dello Stato, dal princeps e dai suoi
apparati di potere!
Da una parte quindi, troviamo le più antiche istituzioni repubblicane,
legate ai valori oligarchici e agrari, mentre dall'altra troviamo la nuova
società imperiale e internazionale, basata in gran parte su scambi di natura
economica e culturale (che concorrono a creare una realtà 'globale') e su
valori di segno almeno tendenzialmente opposto a quelli della prima.
Un'inconciliabilità questa, non soltanto culturale ma anche economica
(essendo a essa sottese due visioni estremamente differenti e in buona parte
incompatibili dell'organizzazione produttiva della società), che si porrà a
fondamento della latente - e a volte anche esplicita - ostilità tra Impero e
Senato: una rivalità che percorrerà tutta la storia di Roma, a partire da
Ottaviano (e, in certo senso, anche da prima) fino al crollo del quinto
secolo.
Certo accanto alla tendenza verso la disunione e la conflittualità, ve ne
sarà un'altra - definita 'concordia' - in direzione dell'integrazione e
dell'accordo tra queste entità (insieme politiche economiche e culturali),
la quale sarà celebrata soprattutto nel cosiddetto 'periodo aureo'
dell'Impero.
E tuttavia essa sarà solo una disposizione di fondo (peraltro opposta e
complementare alla prima), i cui momenti più felici si situano per l'Impero
nella fase di maggiore splendore delle attività economiche e commerciali,
ovvero essenzialmente nei primi due secoli dopo Cristo.
Sempre molto forte sarà, insomma, sia prima che dopo che durante il
cosiddetto periodo d'Oro della storia imperiale, la rivalità tra i poteri (e
gli apparati) imperiali e quelli nobiliari senatorii: troppo spesso
influenzati da valori e da obiettivi politici tra loro profondamente
divergenti!
IN CONCLUSIONEPossiamo dire dunque, che nell'arco di tutta la storia romana
(nonché in generale di quella antica) sia la forma produttiva agraria (e
'cumulativa') a prevalere nettamente su quella più propriamente commerciale
e capitalistica (basata invece sul reinvestimento delle ricchezze).
E' anche vero, d'altra parte, che nel corso della sua lunga fase espansiva e
imperialista, Roma svilupperà forme di organizzazione economica di tipo
anche commerciale, che svolgeranno peraltro un ruolo essenziale all'interno
della sua vita sociale e culturale.
Tuttavia, l'intrinseca debolezza di una tale dimensione è provata
chiaramente - tra l'altro - dal fatto che essa, in soli due secoli, finisca
per cedere nuovamente il passo a un tipo di società fondamentalmente
agraria: quella feudale.
In altri termini, il capitalismo antico può essere visto come una sorta di
'isola felice', in un mondo in cui le forme produttive largamente dominanti
sono (per ragioni intrinseche e strutturali) di tipo agricolo - forme che
sia prima sia dopo il cosiddetto 'periodo aureo' finiscono per prevalere
totalmente nell'organizzazione economica della società.
ECONOMIA DI CONSUMO E DI SCAMBIO NELL'ANTICA ROMA
Le origini agrarie di Roma - Sviluppi territoriali e sviluppi commerciali
- L'affermarsi di un'economia 'mista' - Il declino dei commerci
1. Fase arcaica: le origini agrarie di Roma
Nella fase arcaica (quella gentilizia), coincidente all'incirca con il
periodo monarchico e con i primi secoli della Repubblica, non sono
presenti - quantomeno in misura sensibile - attività di carattere
commerciale.
L'economia e la produttività sono quasi esclusivamente agricole (pure con
qualche sporadica attività di tipo artigianale, sia nelle città che nelle
campagne).
2. Sviluppi territoriali e sviluppi commerciali
E' il processo di crescita dei territori - dovuto allo scontro, spesso non
volontario, con altri popoli o con altre potenze, quale quella mediterranea
cartaginese - ad innescare, assieme ad altri aspetti, anche la crescita
delle attività commerciali e mercantili.
Ed è il ceto alto-plebeo o equestre a farsi promotore di molte delle nuove
attività economiche, connesse peraltro all'accrescimento territoriale di
Roma, ovvero al nuovo assetto sociale determinato da una tale situazione.
Tali ceti, assieme ai liberti, assumono almeno tendenzialmente il controllo
delle attività finanziarie, commerciali, degli appalti pubblici (legati alle
opere pubbliche e al finanziamento delle guerre di conquista). ma anche, in
buona parte, di altri aspetti della vita sociale romana, quali quelli
giuridici e politici.
D'altra parte - in contrapposizione a questi ceti e alle loro attività - le
classi patrizie o nobiliari rimarranno maggiormente attaccate alle attività
agricole e alle proprietà fondiarie: fonte primaria (anche a livello
ufficiale) delle loro ricchezze.
3. L'affermarsi di un'economia 'mista'
Ma l'estensione dei commerci e dei mercati non può non costituire un potente
richiamo (date le facili prospettive di arricchimento che fornisce) anche
per i ceti agrari e latifondistici, ovvero per la nobilitas senatoria.
A partire soprattutto dagli anni della tarda Repubblica e in quelli
successivi dell'Impero (soprattutto nei momenti di maggiore fioritura
economica), si assiste così a un'evoluzione delle proprietà fondiarie (dette
"villae") in vere e proprie 'industrie capitalistiche', finalizzate a un
incremento della produttività - a sua volta finalizzata al commercio -, sia
attraverso una notevole specializzazione produttiva che con
un'intensificazione delle colture.
Fenomeno interessante, però, è anche il fatto che in esse permangano anche
delle attività produttive finalizzate al mero consumo, il cui fine è cioè il
semplice mantenimento della stessa proprietà fondiaria e dei suoi abitanti
(la nobiltas e i suoi 'familii').
Accanto a una produzione di carattere industriale (se così si può dire) e a
sfondo capitalistico, rimane dunque in vigore anche un altro tipo di
produzione, di natura decisamente più arcaica, il cui fine da una parte è
l'autoconsumo e dall'altra la conservazione di una 'via d'uscita' potenziale
dalle eventuali strettoie dei commerci.
Ma, oltre a essere uno strumento di tutela sul piano economico per i
latifondi e i loro possessori (si ricordi a tale riguardo l'estrema
instabilità delle attività commerciali antiche, instabilità le cui cause
risiedono in una miriade di fattori: da quelli monetari alle incerte vie di
traffico.), una tale conduzione di natura "autarchica" è anche il prodotto
del perdurare di un tipo di mentalità che vede nel "bastare a se stessi" -
possibile proprio soltanto attraverso una rendita fondiaria - la linea di
demarcazione tra nobili e plebei, tra ceti alti e non.
Si parla, a tale proposito, di una "economia a doppia strategia", nella
quale, accanto e nonostante gli investimenti di natura commerciale, è
lasciata aperta una porta anche a un'economia di natura autarchica, secondo
un modello di vita più antico (incentrato sui valori nobiliari dell'otium e
della libertas - ovvero del vivere senza lavorare, ma soprattutto senza
preoccupazioni di carattere economico).
Ma anche i ceti economicamente e socialmente emergenti, ovvero gli equestri
e i liberti, pur molto legati all'Impero e alle attività che in esso si
svolgono - che stanno peraltro alla base della loro stessa ricchezza -,
hanno la tendenza a investire i propri patrimoni monetari in capitali di
tipo immobiliare, ovvero nelle terre, e a vivere - secondo uno stile
aristocratico - dei proventi di queste ultime: un doppio movimento, insomma,
dal latifondo (ovvero da un'economia 'di consumo') verso il commercio e gli
affari, e da questi verso il latifondo!
Si può quindi dire che, tutto sommato, le attività capitalistiche - almeno
nel pieno del fiorire delle attività commerciali e dello sviluppo delle vie
di comunicazione - si diffondano in senso "trasversale", coinvolgendo così
un po' tutti i ceti (non solo quelli più abbienti) della società romana.
D'altra parte, però, l'insicurezza congenita di un tale tipo di attività,
porterà anche a un movimento inverso: un po' tutti coloro che abbiano soldi
da investire, infatti, tenderanno a cercare un rifugio economico più solido
nel possedimento di terre e di beni immobili.
Nei periodi di maggiore splendore dell'Impero, quindi (ma anche in quelli
immediatamente precedenti e seguenti) la tendenza dominante sarà quella
verso un'economia mista, rivolta in parte ai commerci e in parte, al
contrario, all'autoconsumo - secondo l'antico mito dell'autarchia tipico
delle classi alte.
4. Il declino dei traffici
Con il declinare dei traffici - parallelo, peraltro, a quello degli stessi
apparati imperiali - si verificherà un'inversione di tendenza sul piano
della produttività e dell'economia.
Le classi tipicamente agrarie difatti - tanto quella senatoria (ovvero
quella non solo più ricca, ma anche maggiormente vincolata alla terra)
quanto gli altri proprietari fondiari (essenzialmente i cavalieri e i
liberti) - ripiegheranno sempre di più verso la pratica di un'economia di
autoconsumo, e ciò ovviamente a scapito ulteriore dei traffici e delle
attività di scambio.
Se i primi poi (de sempre - per tradizione politica e culturale
consolidata - ostili o comunque critici nei confronti delle forze e degli
apparati dell'Impero) avranno buon gioco a prendere le distanze dallo Stato
imperiale, oramai in evidente declino, e a rifugiarsi all'interno dei loro
stessi domini fondiari (divenenti sempre più veri e propri centri di
autosussistenza, estranei alla vita che si svolge al loro esterno), gli
altri (molto più legati agli apparati dell'Impero, a partire dai quali hanno
costruito gran parte della loro ricchezza e della loro fortuna) subiranno
invece le conseguenze di una tale situazione, rimanendo imprigionati in
quelle stesse maglie di potere che li avevano precedentemente sostenuti e
aiutati a emergere socialmente.
In ogni caso, la tendenza economica dominante di questo periodo sarà quella
a chiudersi all'interno dei propri possedimenti, quella cioè verso
l'autosussistenza (o comunque la tesaurizzazione delle proprie ricchezze) -
non certo quella verso il commercio e il reinvestimento dei beni.
D'altra parte, un'economia di scambio quale quella antica (che poggia su
basi produttive - schiavili e agrarie -, finanziarie - si pensi solo alla
costante carenza di moneta circolante e alle banche - e su un sistema di
trasporti - come per esempio le antiche vie di transito - estremamente
fragili) non potrà resistere a lungo ad alcuni fattori critici, quali le
invasioni di popoli ostili o il calo improvviso della produttività (dovuto
in gran parte alla mancanza di manodopera schiavile), che difatti ne
decreteranno la fine praticamente in soli due o tre secoli.
Concludendo, possiamo dire che la parabola dell'economia romana antica inizi
sotto il segno della produzione finalizzata al consumo e si concluda di
nuovo sotto di essa, conoscendo però - nei periodo di maggior splendore
dell'Impero - una parentesi 'mista', basata tanto sui commerci quanto
sull'autoconsumo.
L'AGRICOLTURA DI ROMA ANTICA
Quando i romani iniziarono a sottomettere le popolazioni italiche definirono
le terre conquistate col termine di "agro pubblico".
Una parte di questi terreni veniva divisa in centurie, cioè in rettangoli
più o meno equivalenti, destinati ad essere assegnati ai coloni-soldati, che
di mestiere facevano i contadini e che su questi lotti praticavano
sostanzialmente un'agricoltura di sussistenza.
Altri terreni potevano essere affittati a cittadini privati, che quindi li
gestivano, anche potendo trasmetterli in via ereditaria, senza averne la
proprietà, che restava statale.
La parte del leone toccò sempre ai comandanti militari, membri
dell'aristocrazia senatoria, forniti di poteri quasi illimitati, che
potevano far lavorare sulle loro terre coloni e schiavi.
I processi di colonizzazione spesso coincidevano con migrazioni interne
quasi bibliche, in quanto i romani cacciavano gli esuberi relativi alle
popolazioni autoctone: p.es. 40.000 liguri apuani, appena vinti, furono
trasferiti nelle campagne attorno a Benevento.
Fu soprattutto dopo le guerre puniche che alcuni ceti (i patrizi) si
arricchirono enormemente, trasformando il demanio pubblico in proprietà
privata. Gli investimenti erano prevalentemente indirizzati all'acquisto di
terre, in quanto i senatori, secondo una legge del 218 a.C. che voleva
tenere separati l'attività politica da quella commerciale in senso stretto,
non potevano disporre di navi di grossa stazza.
Viceversa, i senatori riuscirono ad aggirare abbastanza facilmente un'altra
legge antica (legge Sextia del IV sec. a.C.) che vietava di occupare più di
500 iugeri (100 ettari) di agro pubblico.
Il processo di concentrazione terriera nelle mani di pochi privilegiati non
trovò ostacoli neppure con le vicende dei Gracchi e praticamente determinò
la crisi irreversibile della piccola proprietà contadina libera.
In questo quadro s'inserisce il primo trattato di agricoltura (De re
rustica) di Catone, scritto tra il 164 e il 154 a.C. e indirizzato al ricco
proprietario che vive in città e affida la gestione della villa di campagna
(l'azienda agricola) a un fattore, di condizione servile, riservandosi di
ispezionarla personalmente di tanto in tanto.
Generalmente la villa era divisa in due parti: la parte urbana, destinata ad
ospitare il padrone, e quella rustica, destinata agli alloggi degli schiavi,
e adibita come attrezzaia.
Catone indubbiamente conosceva l'enciclopedia agricola del cartaginese
Magone, che evidenziava i grandi livelli produttivi e scientifici
dell'agricoltura punica. Infatti fu proprio Catone che diede all'agricoltura
romana, fino a quel momento dominata dalla monocoltura cerealicola, una
svolta verso gli impianti di ulivi e di vigne. Al punto che si vietò alle
genti transalpine di piantare colture analoghe.
Nella graduatoria stilata da Catone, il vigneto, per importanza, deteneva,
nell'azienda agricola, il primo posto, seguito da orto irriguo, saliceto,
uliveto, prato, seminativo, bosco ceduo, terreni ed arbusti, bosco a
ghiande.
La manodopera schiavile doveva essere rigorosamente schiavile, organizzata
in squadre controllate da due villici, maschio e femmina, che, pur essendo
schiavi, svolgevano la funzione responsabile di un fattore. Le mansioni di
tutti questi lavoratori e il modo di sfruttare al massimo la loro
forza-lavoro vengono descritti sin nei minimi particolari.
Tuttavia il calcolo economico era molto rudimentale, praticamente si
riduceva al principio: "vendere molto e comprare poco". Anche la tecnologia
era piuttosto primitiva. In tutta la storia di Roma l'idea di profitto non è
mai stata legata alla terra, ma solo ai commerci e soprattutto all'usura.
Alla terra si legava l'idea di rendita.
Il vigneto-tipo doveva essere di circa 100 iugeri (20 ettari), lavorati da
16 schiavi, cioè dai due fattori, dieci braccianti, un aratore o bifolco, un
asinaio, un addetto al saliceto (o legatore di viti) e un porcaro.
L'uliveto-tipo doveva invece essere sui 240 iugeri (48 ettari), lavorato da
13 schiavi.
L'azienda doveva essere chiaramente orientata al mercato, per cui si
dovevano specializzare le colture (specie il vino e l'olio) ed evitare
l'autarchia.
Prima della pubblicazione, un secolo dopo, dei tre importanti libri di
agricoltura di Varrone, una legge agraria del 111 a.C. sanciva la
trasformazione ad uso privato dell'agro pubblico, mostrando quindi la
necessità di ampliare i contratti di locazione coi coloni.
Varrone venne incontro all'esigenza di ricchissimi latifondisti che
praticamente avevano come unico scopo di vita quello di campare di rendita,
senza preoccuparsi eccessivamente della conduzione agricola di un'azienda,
che sempre più si trasformava in una tenuta sfarzosa.
Molti senatori, convinti che il frumento poteva anche essere importato
dall'Africa o dalla Sardegna, e il vino dalla Grecia, cominciarono ad
acquistare ingenti mandrie o greggi da affidare a schiavi-pastori, che le
guidassero nella transumanza verso l'Adriatico o il Tirreno. Ma investivano
anche nell'allevamento del pesce in piscine artificiali, o dei volatili
nelle voliere, o in conigli e pollame.
Cesare stabilì addirittura che 1/3 dei pastori doveva essere libero. Queste
figure di lavoratori favorivano sempre più forme contrattuali molto
vantaggiose.
L'agronomo Columella, contemporaneo di Seneca, scrisse un nuovo trattato di
agricoltura in cui fa chiaramente capire che la pratica dell'affitto può
dare ottimi risultati. Catone infatti non aveva assolutamente prevista la
possibilità di affidare a coloni dei lotti adiacenti alla villa, in cambio
di un canone in denaro.
I coloni, che sfruttavano alcune strutture presenti nella villa, come il
forno e il mulino, si potevano rendere disponibili nei periodi dell'anno in
cui era necessario l'impiego di manodopera supplementare, p.es. nella
stagione della vendemmia.
Queste forme contrattuali di lavoro si rendevano particolarmente indicate là
dove le proprietà erano troppo lontane per poter essere ispezionate
frequentemente, oppure per quelle terre che si trovavano in zone insalubri,
dove i latifondisti preferivano mettere a repentaglio la vita dei coloni che
non quella degli schiavi comprati sui mercati.
Il passaggio dalla schiavitù al servaggio (che in questo momento si chiama
"colonato") caratterizzerà la nascita della formazione feudale.
Bibliografia
AA.VV., Vita quotidiana nell'Italia antica, Ed. Mondadori (a cura di S.
Moscati)
M. I. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, ed. La Nuova
Italia, Firenze 1980
M. I. Finley, L'economia degli antichi e dei moderni, ed. Laterza, Roma-Bari
1977
F. De Martino, Storia economica di Roma antica, ed. La Nuova Italia, Firenze
1979
L. Capogrossi - Colognesi (a cura di), L'agricoltura romana. Guida storia e
critica, ed. Laterza, Roma-Bari 1980
A. Carandini, Gli schiavi in Italia, ed. Nis, Roma 1988
H. Mielsch, La villa romana. Architettura e forma di vita, ed. Giunti,
Firenze 1999
R. Turcan, Vivere alla corte dei Cesari, Firenze, Giunti 1991
I SINDACATI DELL'EPOCA E LE CATEGORIE DELL'ANTICA ROMA
I "collegi" e i "sodalizi" della Roma antica, formati da persone associate
da comune funzioni, arti o mestieri, a difesa dei propri interessi, sotto la
protezione d'una divinità tutelare, erano una sorta di corporazione o, se si
preferisce, di sindacato.
Ma mentre i magistrati e i sacerdoti di ogni livello erano raggruppati in
collegi ch'erano veri e propri uffici statali e non persone giuridiche, le
associazioni più numerose e movimentate furono invece quelle di mestiere:
tessitori, medici, maestri, scultori e pittori, letterati e attori,
flautisti, orefici, carpentieri, tintori, cuoiai, conciatori, fabbrivasai,
fornai, mercanti, battellieri, mulattieri e tanti altri.
Ogni tipo di associazione civile o religiosa, sottoposta alla sorveglianza
dei censori e tenuta al mutuo soccorso, nominava i propri amministratori,
teneva una cassa comune, alimentata dalle quote dei soci e regolata da
apposite leggi romane, e aveva una propria sede dove riunirsi a consiglio,
specialmente in periodo elettorale.
Queste associazioni cominciano ad avere vita difficile quando le
contraddizioni sociali della Repubblica diventano acute, determinando ad un
certo punto la necessità di una svolta autoritaria di tipo "imperiale".
Nei primi 225 anni della Repubblica vi furono cinque grandi manifestazioni
popolari che scossero le fondamenta del sistema antagonistico romano, senza
però pervenire a una soluzione veramente democratica.
In origine le proteste della plebe per la negata soluzione dei problemi
socio-economici presero il nome di "secessione": un autentico sciopero
generale consistente in un ritiro in massa dalla città, accompagnato da un
giuramento di reciproco aiuto per tutta la durata della protesta.
Con la prima "secessio" del 494 a.C. fu ottenuta la creazione di un piccolo
numero di magistrati popolari: i "tribuni difensori della plebe", che
discutevano provvedimenti da presentare in senato. Poco dopo l'istituzione
fu soppressa.
Le forze al potere avevano fatto in modo di vanificare l'opera dei tribuni,
in quanto gli organi elettivi davano ai cittadini ricchi un potere
elettorale assai superiore a quello dei non abbienti. Gli stessi candidati
al consolato venivano scelti nelle proprie file dai senatori che
esercitavano il controllo sui voti e promuovevano, con grosse somme,
corruzione elettorale e clientelismo.
Da notare che nonostante le leggi delle XII Tavole consentissero ai
"collegi" di darsi dei regolamenti che non contenessero norme in contrasto
col diritto dello Stato, la classe al potere attuò comunque arbitrarie e
sanguinose repressioni.
Peraltro, il popolo, costretto a combattere tutte le guerre, in patria era
oppresso e ridotto in schiavitù a causa dei debiti contratti dalle famiglie
per vivere; debiti gravati dall'usura, grossa fonte di reddito per
l'aristocrazia senatoria e i cavalieri.
Non solo, ma esistevano anche enormi sproporzioni tra i compensi che i
generali elargivano agli alti ufficiali e ai soldati semplici. Dopo la
campagna di Pompeo in Asia, agli alti gradi andarono 4 milioni di sesterzi a
testa (qualcosa come 8 milioni di euro), mentre ai soldati soltanto 6.000
sesterzi (cioè circa 12.000 euro). (1) Il sacrificio dei soldati era
praticamente divorato dai debiti contratti dai parenti rimasti in patria.
Dal III secolo a.C. ogni guerra serviva esclusivamente ad arricchire le
classi al potere e i generali, i quali infatti, non tenuti a rendiconto,
potevano anche vendere i prigionieri ai mercanti di schiavi.
Questo costante afflusso di manodopera a buon mercato fu un'altra delle
cause che mandò in rovina operai, artigiani e contadini.
Le proteste popolari venivano generalmente soffocate nel sangue. Silla,
generale arricchito e senza scrupoli, marciò su Roma e procedette a un
massacro senza precedenti, segnando praticamente la fine virtuale della
Repubblica (non a caso eliminò subito il tribunato della plebe) e riesumando
la dittatura sine die.
Contro i difensori della forza-lavoro si imbastirono trame di ogni tipo,
infangando la loro moralità e quella delle loro famiglie, considerandoli
veri e propri nemici pubblici della patria, della religione, della libertà e
della proprietà privata.
Nel 58 a.C. il tribuno della plebe, Clodio, ristabilì i "collegi", lottò a
favore della libertà di associazione e di decisione popolare, chiese leggi
frumentarie democratiche. Quando mise sotto controllo la pratica religiosa
che dall'osservazione del cielo rilevava presagi funesti per le assemblee
popolari, secondo i desideri del potere che sfruttava la superstizione
popolare, fu subito tentato contro di lui un attacco per sacrilegio,
argomento questo di forte suggestione sulle masse.
Ma la plebe gli restò fedele (per "plebe" bisogna intendere gli artigiani,
gli operai specializzati, i bottegai, i piccoli commercianti). Clodio riuscì
a far passare una legge che condannava all'esilio chiunque avesse fatto
uccidere un cittadino romano senza la regolare sanzione del popolo. Ne fece
le spese Cicerone, che aveva fatto trucidare i seguaci di Catilina.
Ma già un anno dopo per decreto dei comizi Cicerone poté rientrare in
patria, pronunciando quattro discorsi contro i clodiani. Poi, con l'aiuto di
Catone Minore, fece in modo che il tribuno Milone, in una rissa sulla via
Appia, uccidesse a tradimento Clodio e sterminasse altri suoi parenti. Nel
52 Cicerone assunse la difesa di Milone, ma inutilmente, perché la folla lo
costrinse a fuggire.
L'astuto Giulio Cesare si renderà ben presto conto che sarebbe stato
impossibile trasformare la Repubblica in un Impero dittatoriale senza
l'appoggio delle masse. Ecco perché costrinse i ricchi ad assumere una certa
percentuale di uomini liberi, in luogo degli schiavi, e inviando veterani e
civili disoccupati in nuove colonie occidentali e orientali.
Lo stesso Cesare e poi Augusto riorganizzeranno i "collegi" restringendone
il numero. Marco Aurelio consentirà alle associazioni l'accettazione di
lasciti, e Alessandro Severo darà un certo impulso alle corporazioni. Con
Diocleziano e Costantino i "collegi" diverranno addirittura obbligatori e
saranno trasformati in caste senza uscita.
====================================
IL SISTEMA TRIBUTARIO DELL'ANTICA ROMA
Il sistema tributario dell'antica Roma
1. Il fisco in epoca romana: funzionamento ed evoluzione - 2.
L'amministrazione del denaro pubblico: i soggetti e le problematiche
connesse alla loro individuazione - 3. Generalità sul sistema tributario
romano - 4. Il tributum e le altre forme di imposizione diretta - 5. Il
vectigal: le imposte indirette - 6. Prospetto riassuntivo del bilancio di
Roma imperiale
1. Il fisco in epoca romana: funzionamento ed evoluzione
L'analisi dei complessi fenomeni che, visti nel loro insieme, ci danno
l'immagine di un popolo, degli usi e costumi, in una parola della
"mentalità" di esso, non potrebbe dirsi completa senza lo studio della sua
produzione giuridica. Infatti il panorama delle leggi vigenti nell'ambito di
una comunità in un determinato periodo storico è lo specchio fedele degli
orientamenti e delle scelte da questa compiute nei vari settori della vita
sociale.
A maggior ragione si ritiene che non possa prescindersi da siffatta indagine
"storico-giuridica" se il nostro interesse è rivolto ai popoli
dell'antichità, dal momento che molto spesso la traccia più evidente che
testimonia dell'esistenza di un popolo è proprio il sistema legislativo da
questi introdotto ed in molti casi lasciato in eredità ai posteri.
I Paesi di area culturale latina, il nostro in maniera particolare, ne sono
eloquente esempio: la struttura del diritto privato moderno in Italia come
in Francia, in Spagna e nei Paesi latino americani (1), ha un enorme debito
di riconoscenza con i corrispondenti istituti del diritto privato romano.
Ugualmente importante per una corretta visione d'insieme è lo studio dei
fenomeni di natura economica, ovvero l'osservazione dei fatti economici
relativi alla produzione, alla circolazione ed al consumo dei beni, nonché
alle scelte economiche operate dai soggetti nell'ambito di una certa
comunità: per cui non può non essere considerato il risultato
dell'intervento dei pubblici poteri nei fatti economici della collettività,
inteso come attività finanziaria rivolta al prelievo di ricchezza dalle
private economie per il soddisfacimento dei pubblici bisogni.
Siccome poi lo studio delle istituzioni economiche deve essere anzitutto e
particolarmente uno studio di fenomeni giuridici, si comprende come
solamente attraverso la storia giuridica possa ricostruirsi una storia
economica, nel particolare contesto degli ordinamenti statali
dell'antichità, che è poi l'oggetto della nostra indagine (2). Questo alla
luce del fatto che la storia del diritto insegna appunto a chiarire il
contenuto di alcune nozioni, riuscendo a mettere in evidenza il nesso che
collega il fatto finanziario ad altre ricerche di natura sociologica. Anzi,
l'esame delle origini e dello sviluppo dei fatti finanziari serve anche per
spiegare alcuni importanti aspetti della storia dei popoli, non sempre messi
altrimenti in luce opportuna (3).
Non deve sembrare argomentazione di pura dottrina o vana pretesa avente
finalità di sola cultura, il voler ricostruire l'ordinamento tributario dei
popoli antichi: fin dai tempi più remoti la storia ha saputo guadagnarsi il
ruolo di vera e propria scienza (4), il cui apporto è sempre stato ritenuto
fondamentale per comprendere i fenomeni del presente attraverso lo studio
del passato.
Anche l'analisi degli ordinamenti positivi vigenti nei Paesi come il nostro,
nei quali l'esperienza del passato giuoca un ruolo di primo piano, non può
prescindere dalla storia remota e recente delle medesime istituzioni: anche
perché nella ricerca dei fatti e delle idee del passato spesso si trovano le
idee per l'avvenire. Per questa ragione la conoscenza degli eventi storici
della finanza costituisce una preziosa fonte per la ricerca scientifica,
dalla quale potrebbero trarre notevole giovamento numerosi problemi di
teoria e pratica finanziaria. A sostegno di ciò valga la considerazione che
all'assetto odierno del sistema impositivo ed al concetto stesso di tributo
come oggi lo intendiamo si è giunti attraverso un lento cammino, le cui
tappe rappresentano momenti fondamentali per l'evoluzione dell'ordinamento
statuale nel suo complesso: per questo motivo lo studio delle origini e
delle fasi rudimentali che hanno segnato lo sviluppo del sistema tributario
e delle istituzioni finanziarie risulta assai vantaggioso anche per la
comprensione di tutto il diritto pubblico dell'antichità (5).
Ancora oggi è possibile individuare in quasi tutte le legislazioni vigenti
l'esistenza di istituti finanziari che prendono spunto da istituti omologhi
introdotti nell'antichità, trasformati ed adeguati ai mutamenti delle
condizioni socio-economiche avvenuti nel corso dei secoli, magari
dimenticati per lunghissimi periodi, poi riscoperti e ripristinati con pochi
aggiornamenti tecnici, che ne lasciano sostanzialmente immutata l'originaria
struttura economico-giuridica.
A maggior ragione in un Paese come il nostro, dalle grandi tradizioni nel
campo della produzione giuridica in generale ed in cui molta attenzione
viene dedicata a tutte le sfaccettature del diritto tributario in
particolare, può risultare oltremodo interessante una rilettura delle
diverse vicende dell'ordinamento statuale attraverso la storia finanziaria,
mostrando le connessioni che legano situazioni di prosperità e di difficoltà
economica alle alterne vicende di politica tributaria.
In buona sostanza la ricerca delle condizioni economiche e finanziarie in
cui vissero i popoli antichi può rivelarci alcuni aspetti della loro vita
che altrimenti rimarrebbero nascosti e farci conoscere le cause prime e
determinanti della loro grandezza e della loro decadenza. Inoltre i fatti
finanziari, visti alla luce delle leggi e degli ordinamenti, sono
intimamente connessi alla storia sociologica dei popoli, allo stato attuale
ancora tutta da scrivere.
2. L'amministrazione del denaro pubblico: i soggetti e le problematiche
connesse alla loro individuazione
Volendo trattare in maniera sistematica gli aspetti salienti della
struttura amministrativa di Roma antica, in modo particolare con riferimento
all'ambito che più ci interessa, quello dell'amministrazione delle pubbliche
finanze, non può prescindersi da una dettagliata analisi dei soggetti
preposti alla gestione del denaro pubblico attraverso le varie epoche della
storia romana.
Nel periodo della monarchia l'amministrazione finanziaria dovette senza
dubbio seguire le stesse norme del diritto in generale che conferivano al re
tutti i poteri, nella sua qualità di capo dello stato e dell'esercito, tra
cui il diritto di imporre tassazioni e di gestire i fondi riscossi (6).
Ebbene, tale gestione era stata affidata dal re a due funzionari chiamati
"questori", la cui origine è antichissima e precede la nomina di tutti gli
altri magistrati: essi avevano il compito di raccogliere il pubblico denaro,
di conservarlo e di erogarlo secondo gli ordini ricevuti (7).
In questa fase della storia romana il pubblico tesoro si divideva in due
sezioni: la prima conservava il patrimonio dello stato e vi confluivano i
proventi delle terre concesse da Numitore a Romolo e da questi ai cittadini,
cui si aggiunsero in seguito i proventi delle terre conquistate con le prime
guerre; la seconda sezione comprendeva i beni privati del re, quelli che nel
diritto moderno sono considerati "beni della corona", ovvero il complesso
della proprietà privata del sovrano ed i beni a lui spettanti per effetto
della spartizione del bottino di guerra, nella sua qualità di comandante in
capo delle truppe.
In epoca repubblicana il luogo dove era custodito il denaro pubblico veniva
chiamato aerarium (8) e si trovava presso il tempio di Saturno.
La cassa era ripartita in tre sezioni. Nella prima fu accumulato tutto l'oro
destinato alle spese per l'imminente guerra che la repubblica si preparava a
fronteggiare contro i Galli: la raccolta ebbe inizio sin dal tempo in cui
questi ultimi incendiarono Roma, in segno di promessa agli dei che la grave
onta sarebbe stata lavata, anche a costo di esaurire tutto l'oro posseduto
dai cittadini. La seconda sezione era destinata a ricevere le somme riscosse
in applicazione della vicesima manumissionum (9), mentre la terza
raccoglieva i proventi delle imposte annue riscosse su tutto il territorio
della repubblica e nelle province. Quest'ultima sezione svolgeva funzioni di
vera e propria tesoreria, amministrando il denaro necessario a fronteggiare
le spese dell'esercito e le esigenze di tutti gli altri servizi pubblici:
l'erogazione di fondi aveva luogo su ordine del Senato e, in epoca
successiva, su designazione del popolo, cui fu concessa tale prerogativa sul
finire dell'era repubblicana, per effetto di una legge del tribuno Clodio
(10).
Il denaro amministrato dalle prime due sezioni raramente veniva speso,
ragione per la quale esse erano chiamate sanctiora aeraria; la terza
sezione, che viceversa aveva tutte le caratteristiche di dinamicità di una
moderna tesoreria dello stato, finì col dare origine a pesanti deficit di
bilancio, cui si dovette far fronte con mezzi straordinari di entrata.
Il problema storico relativo all'ordinamento finanziario del periodo
imperiale è intimamente connesso a quello riguardante le innovazioni di
natura giuridica introdotte da Augusto con l'avvento del principato:
questioni alle quali sono state fornite varie soluzioni interpretative ad
opera degli studiosi.
È noto come il passaggio dalle istituzioni repubblicane al principato sia
avvenuto sul piano costituzionale senza apparenti rotture nette: obiettivo
di Augusto era quello di mantenere, almeno formalmente, il rispetto per la
tradizione repubblicana, intervenendo però nella gestione dei pubblici
affari col preciso intento di imporre la definitiva affermazione di un
regime autoritario ed il successivo avvento della monarchia assoluta.
Una dimostrazione di questa politica sono gli accordi raggiunti col Senato
nel 27 a.C., in base ai quali il territorio dell'impero veniva diviso in
province senatorie ed imperiali: il patto forniva un elemento territoriale
alla supremazia militare del principe, giustificando il suo imperium, ma
sanciva al tempo stesso la posizione di inferiorità del Senato e la sua
subalternità rispetto alle iniziative politiche del princeps.
L'assetto così definito costituirà la base dell'ordinamento amministrativo
degli anni successivi: il principio sul quale si fondava la divisione
consisteva nel fatto che il principe assumeva il controllo delle province
che necessitavano di una difesa militare, mentre rimanevano sotto il
controllo del Senato i territori che non avevano bisogno di stanziamenti
legionari. L'evoluzione in senso monarchico del regime è sottolineata dalla
tendenza ad estendere sempre più l'amministrazione diretta dell'imperatore
sul territorio, visto che le province via via conquistate passavano
automaticamente sotto il controllo del principe (11).
La politica augustea di lento ma graduale passaggio verso una forma di
governo assoluto si manifesta, anche e soprattutto, nell'evoluzione degli
organi dell'amministrazione finanziaria interessata da innovazioni non di
poco conto.
L'aerarium populi Romani, che durante la repubblica costituiva in pratica la
cassa centrale dell'ordinamento finanziario, continua a svolgere una
funzione abbastanza importante perché nella sua prospettiva legalitaria
Augusto, che anche in questo campo si ispira al principio del rispetto
formale per la tradizione della repubblica e del Senato, lo considera come
una struttura che andava mantenuta proprio in segno di continuità con le
istituzioni repubblicane (12). Ma la conquista del potere si manifesta anche
con la creazione di un ordinamento finanziario parallelo imperniato sulla
figura del principe, nonché col ridimensionamento del ruolo e dell'autonomia
delle istituzioni ereditate dal periodo precedente. Da questo punto di vista
anche l'aerarium, pur senatoriale, andava controllato e progressivamente
ridimensionato a favore dell'organizzazione finanziaria incentrata sul
princeps.
L'imperatore si riserva quindi un potere di controllo sull'aerarium, che
effettivamente esercita sia con interventi diretti, sia attraverso il
richiamo allo ius referendi, vale a dire la facoltà di pronunciarsi in
Senato su questioni di politica finanziaria; col passare del tempo, gli
imperatori più attenti ai problemi dell'amministrazione cercarono di
accentuare il controllo della burocrazia imperiale sull'aerarium: in questa
direzione operarono Claudio, Nerone, Vespasiano, Settimio Severo.
Un'innovazione determinata dalle circostanze si presenta la creazione
dell'aerarium militare, una risposta dell'imperatore all'annoso problema dei
veterani. Infatti la sistemazione dei soldati per mezzo di assegnazioni
coloniarie, mentre da un lato rischiava continuamente di sconvolgere
l'assetto agrario dell'Italia, dall'altro mostrava tutti i suoi limiti, se
si considera la scarsa propensione dei militari stessi all'idea di finire i
propri giorni lavorando la terra in regioni lontane ed incolte. Fu lo stesso
Augusto, verso il 13 a.C., a proporre al Senato di sistemare i veterani in
congedo non più con assegnazioni di terre, bensì con la corresponsione di
premi in denaro: obiettivo che egli raggiunse nel 6 d.C., proprio con
l'istituzione di tale cassa autonoma, alimentata non solo grazie ai proventi
di nuovi tributi (13), ma anche in virtù di elargizioni dirette
dell'imperatore stesso.
Alla direzione erano preposti tre praefecti di rango pretorio, scelti
tramite sorteggio e formalmente indipendenti sia dal Senato che dal
principe: ma è fuor di dubbio che questi, pur non avendo alle sue dirette
dipendenze tali funzionari responsabili della gestione della nuova cassa,
potesse comunque disporre dei fondi ad essa relativi, nella sua qualità di
comandante in capo dell'esercito cui queste somme erano destinate. È la
conferma di una tendenza ben precisa della politica imperiale, rivolta, da
un lato ad accrescere il potere del principe ed il controllo di fatto su
ogni aspetto della vita pubblica, dall'altro ad evitare sul piano del
diritto un brusco capovolgimento dell'assetto istituzionale consolidatosi
dopo secoli di esperienza repubblicana (14).
Per ciò che riguarda la creazione ad opera di Augusto di una amministrazione
finanziaria centrale gestita direttamente dall'imperatore e contrapposta
all'aerarium, controllato dal Senato, si manifestano problemi interpretativi
non di poco conto, perché le fonti non testimoniano in modo chiaro quale fu
il momento di origine degli organi imperiali e quali i loro progressivi
poteri.
La tradizione letteraria ottocentesca avalla un rapido passaggio ad un nuovo
ordinamento fiscale fin dai primi periodi dell'impero, individuando un
fiscus considerato come emanazione dell'amministrazione centrale
dell'imperatore, attivo fin dall'inizio del principato e contrapposto
all'amministrazione tradizionale delle finanze controllata dall'aerarium, di
influenza senatoria (15).
Studi più recenti (16) propendono per una soluzione "graduale", secondo la
quale anche nel campo dell'organizzazione fiscale il passaggio dalle
istituzioni di origine repubblicana al nuovo ordinamento introdotto da
Augusto sarebbe stato lento, per cui gli organi tradizionali avrebbero
convissuto a lungo con quelli imperiali, per finire progressivamente
svuotati dei loro primitivi compiti ad opera di questi ultimi. In effetti le
risultanze delle fonti in nostro possesso, nella fattispecie le stesse
parole di Augusto (17), menzionano accanto all'aerarium il solo aerarium
militare ed il patrimonium meum; inoltre Svetonio (18) parla delle singole
casse delle province (fisci), ma non accenna all'esistenza di una cassa
centrale unitaria.
Tali testimonianze mettono in luce il punto focale della questione in tutta
la sua problematicità e lasciano ritenere che non si possa parlare della
creazione, sotto il principato augusteo, di una struttura centrale
dell'amministrazione finanziaria, per quanto debba riconoscersi almeno la
presenza di tutti i presupposti necessari a tale scopo (19) dovuti
all'esigenza di elaborazione e di aggiornamento del rationarium imperii,
sorta di bilancio generale dell'impero, di cui ancora Svetonio (20)
testimonia l'esistenza già al tempo di Augusto. Da qui la conclusione che
l'evoluzione di tale processo di sviluppo dell'organizzazione burocratica
sia presumibilmente maturata già sotto Tiberio o comunque sotto gli
imperatori della dinastia Giulio-Claudia: è quanto viene desunto dall'uso
del termine fiscus da parte di Seneca (21) e Plinio (22).
Altro problema che merita di essere discusso e di cui sono state fornite
soluzioni contrastanti, riguarda la natura giuridica delle istituzioni della
finanza imperiale, i rapporti con gli organi dell'amministrazione senatoria
e l'inquadramento delle situazioni di diritto privato riferibili
all'imperatore.
La tesi tradizionale, fatta propria dalla letteratura classica, considera il
fiscus come proprietà privata del principe e colloca i rapporti di diritto
pubblico a lui facenti capo sullo stesso piano dei suoi affari privati (23).
La letteratura più recente (24) analizza la questione sotto un diverso punto
di vista: infatti, stante la frammentarietà e la scarsa precisione delle
fonti in nostro possesso, l'apparente commistione delle situazioni
giuridiche di diritto pubblico con gli affari privati dell'imperatore viene
valutata nel contesto della progressiva sostituzione del princeps al popolus
come centro di riferimento delle situazioni di diritto pubblico, concetto
che richiedeva inevitabilmente la fusione delle entrate personali
dell'imperatore con le altre e la pressoché identica tenuta delle spese,
vista la necessità di un controllo continuo da parte di Augusto dei cespiti
di entrata ai fini dell'attuazione pratica della sua politica (25).
In effetti la natura giuridica del patrimonium del principe, del quale
Augusto tiene a sottolineare l'origine e verosimilmente anche il carattere
privatistico, presenta complessi e delicati problemi, riconducibili ad una
struttura burocratica consolidatasi col tempo e da ritenersi pienamente
realizzata solo a partire dall'inizio del II secolo. Si può quindi
concludere che la posizione del principe rispetto al fiscus non possa essere
assimilata in maniera superficiale all'alternativa "pubblico-privato": vale
a dire che la semplice applicazione delle categorie giuridiche a noi
familiari, in epoche in cui queste erano ben lungi dall'essere elaborate,
può risultare comodo, ma non proficuo.
In epoca tardo-imperiale l'assetto dell'amministrazione finanziaria appare
ormai consolidato: l'originaria contrapposizione tra organi della finanza
senatoria ed istituti dell'amministrazione imperiale, corrispondente alla
divisione dei territori dell'impero in sfere di influenza, viene
progressivamente svuotata di significato in connessione con l'accentramento
nelle mani del principe di tutta la gestione della cosa pubblica. Di
conseguenza, una volta unificata l'amministrazione delle province per
effetto di un processo di assimilazione che può ritenersi compiuto con
Alessandro Severo, unico fu pure il tesoro dello "Stato", ed in esso
confluivano i cespiti di entrata di qualunque natura, riscossi in ogni parte
dell'impero.
Iniziava così un processo di burocratizzazione dell'amministrazione
finanziaria che raggiunge il suo apice sotto Costantino, il quale istituisce
il Comes sacrarum largitionum, un organo che aveva funzioni ed attribuzioni
di un moderno Ministro delle Finanze: infatti la sua attività era rivolta
alla regolamentazione ed all'esecuzione delle varie norme che disciplinavano
la riscossione dei tributi nelle diverse parti dell'impero (26).
La descrizione degli organi della finanza dell'antica Roma, per quanto
sintetica ed essenziale, mostra l'indissolubile legame degli istituti
dell'amministrazione finanziaria con le vicende politico-economiche della
civiltà romana, viste nella loro evoluzione dai primordi dello Stato
monarchico fino ai fasti dell'organizzazione imperiale, ed offre la
dimostrazione di come anche nel settore delle pubbliche finanze Roma abbia
rappresentato la più alta espressione del pensiero giuridico dell'antichità.
3. Generalità sul sistema tributario romano
Secondo le moderne concezioni dottrinarie, le imposte dirette colpiscono una
manifestazione immediata di capacità contributiva, ovvero il patrimonio o il
reddito delle persone soggette alla potestà finanziaria dello Stato;
viceversa quelle indirette colpiscono una manifestazione mediata di capacità
contributiva, come lo scambio delle ricchezze od il consumo (27).
Orbene, i Romani conoscevano due grandi categorie di imposte: il tributum ed
il vectigal; la prima colpiva i cittadini sulla base di liste (census),
adoperate anche per scopi elettorali e come ruoli d'imposta per la
riscossione (28), la seconda raggruppava tutte le rimanenti entrate dello
Stato, comprese quelle demaniali (29).
Pertanto solo idealmente e per comodità di trattazione è possibile stabilire
una distinzione tra i due generi di imposizione con riferimento al periodo
romano: tanto è vero che con il termine vectigal venivano spesso indicati
tributi che secondo le moderne classificazioni rientrerebbero tra le imposte
dirette (30).
Quindi nell'ambito dei vectigalia vengono annoverate diverse contribuzioni
versate all'erario a vario titolo, che possono essere analizzate solo se
adoperiamo come metro di valutazione le moderne concezioni finanziarie.
4. Il tributum e le altre forme di imposizione diretta
Nel periodo più antico della storia di Roma, al tempo della monarchia,
l'imposizione diretta si basava su una prestazione personale che veniva
corrisposta pro capite, e quindi finiva col gravare più pesantemente sui
meno abbienti.
Le origini del tributum vanno fatte risalire all'istituzione del censo ad
opera del re Servio Tullio, il quale conosciute così le possidenze dei
cittadini impose il pagamento di una somma proporzionata alle sostanze
dichiarate, da pagarsi nelle contingenze di guerra: la quota era fissata dal
Senato in ragione della spesa necessaria (31). Servio Tullio, istituendo il
tributo per censo sulla base del catasto, introducendo quindi il criterio
della proporzionalità dell'imposta dovuta sulla base della ricchezza
posseduta, diede avvio ad una vera e propria rivoluzione in ambito
socio-economico (32).
In effetti agli albori della storia di Roma la richiesta di contribuzioni di
questo genere era legata ad eventi di carattere straordinario, come appunto
le necessità connesse ai conflitti.
La trasformazione del tributum in imposizione ordinaria si realizza
progressivamente prima del 167 a.C. (33), anno della vittoria di Roma sulla
Macedonia: il prelievo assume i caratteri innegabili di un'imposta diretta
in senso moderno, avente cioè il presupposto nell'esistenza stessa della
persona, nel patrimonio o nel reddito.
Per quanto riguarda i soggetti obbligati, in un primo periodo il tributum
gravò sulle colonie romane, sulle civitates sine suffragio e sui municipia;
erano esentati gli abitanti della città di Roma, i Latini che possedevano
immobili in Roma e gli alleati che fornivano contribuzioni volontarie (34).
Questa distinzione di natura territoriale, in base alla quale i cives erano
privilegiati rispetto agli abitanti delle province via via conquistate,
riveste non poca importanza nel successivo sviluppo dell'ordinamento
amministrativo romano, con particolare riferimento all'ambito di studio che
ci interessa. Infatti nel periodo della repubblica le province erano divise
in stipendiariae e tributariae, comprendendo nella prima categoria quelle
assoggettate al pagamento dello stipendium, vale a dire un'imposta costante
per ogni anno e, nella seconda categoria quelle che pagavano la decima,
ovvero un'imposta pari al dieci per cento del valore dei prodotti del suolo.
Quando poi fu abolita la riscossione della decima, la contribuzione
fondiaria fu detta indifferentemente tributo o stipendio e venne a cadere,
di conseguenza, la distinzione delle terre in stipendiarie e tributarie. Da
quel momento in poi ogni forma di contributo in denaro, nonché l'imposta
pagata in natura dai proprietari delle miniere, venne ricompresa nella
categoria del tributum; viceversa si disse "annona" la contribuzione
effettuata in natura dagli altri proprietari. Il tributo e l'annona venivano
compresi anche nella generica espressione di indictio.
Tecnicamente, il meccanismo impositivo funzionava in maniera abbastanza
semplice: ciascun cittadino pagava il tributum in base al patrimonio
risultante dal census, che considerava come base imponibile il reddito
agrario, il reddito dei fabbricati ed alcuni elementi accessori ritenuti
indicatori di ricchezza (pertinenze dell'immobile, schiavi, animali,
attrezzi da lavoro, ecc.).
L'imposta gravava in ragione di una percentuale compresa tra l'uno ed il tre
per mille dell'imponibile (tributum simplex, duplex, triplex) (35); la
riscossione era affidata ai tribuni aerarii nel periodo più antico,
successivamente ai questori sulla base di titoli esecutivi (36).
Nel 184 a.C. Catone il Censore decuplicò la stima degli oggetti di lusso e
degli schiavi aventi un valore superiore a diecimila assi, fissando tuttavia
il tributum al tre per mille (37); i patrimoni inferiori ai quindicimila
assi furono esentati dal pagamento: coloro che si trovavano al di sotto di
tale soglia si definivano capite censi, vale a dire "censiti solo per la
persona", mentre coloro che vantavano fortune di valore superiore erano
considerati locupletes, ovvero "ricchi".
Dopo la vittoria sulla Macedonia, con l'afflusso di ricchezze nelle casse
dello Stato conseguente alla conquista delle province orientali, il tributum
non fu più richiesto, senza essere tuttavia abolito ufficialmente: sembra
peraltro che l'imposta sia stata ristabilita sotto il consolato di Irzio e
Pansa nel 43 a.C., in maniera transitoria secondo alcuni (38),
definitivamente secondo altri (39).
Una serie di innovazioni radicali interessa l'ordinamento finanziario in
epoca imperiale. Il passaggio dal regime repubblicano a quello imperiale
determinò infatti una generale evoluzione di tutte le strutture
burocratiche, in modo particolare del sistema fiscale. La ristrutturazione
del comparto delle entrate era, peraltro, resa necessaria dalla forte
espansione della spesa pubblica, tendenza evidenziata fin dal principato di
Augusto, al quale, anzi, sarebbe attribuita la paternità delle innovazioni
più importanti: il tributum deve dunque ritenersi abolito in attuazione di
tali cambiamenti, perché questa forma di contribuzione non risulta più
attestata nel periodo imperiale.
Con la revisione del settore delle entrate si introduceva anche il principio
dell'uniformità del diritto tributario nella penisola, con alcune modifiche
al sistema impositivo rivolte a distribuire il carico fiscale in modo da far
sostenere gli oneri maggiori alle province esterne all'Italia. Queste,
infatti, nel primo periodo dell'impero erano prive del diritto di
cittadinanza, privilegio mai esteso ai territori conquistati dalla
repubblica nel loro complesso e concesso soltanto a porzioni limitate del
territorio, proprio in considerazione del fatto che ciò comportava
ripercussioni sensibili nel campo tributario.
L'indirizzo dunque fu quello di scegliere una soluzione intermedia,
estendendo tale diritto per gradi e sempre in occasione di miglioramenti
della situazione del tesoro; il processo può ritenersi concluso solo con la
riforma dell'imperatore Caracalla, che concesse la cittadinanza a tutti gli
uomini liberi dell'impero.
Ma non fu soltanto l'estensione del diritto di cittadinanza a dare impulso
all'enorme sviluppo del sistema tributario che si riscontra nel periodo
imperiale: più in generale anche l'intero comparto delle spese, che aveva
peraltro già segnato una netta ascesa verso la fine della repubblica,
raggiunse sotto l'impero livelli tali da determinare il ricorso
all'individuazione di nuovi cespiti di entrata (40) e conseguentemente
l'allargamento della sfera d'azione della politica tributaria.
Almeno in un primo periodo, gli effetti dell'ondata riformatrice non
toccarono i territori delle province, che rimasero soggette al pagamento
dello stipendio o decima (41): tuttavia in epoca repubblicana esso era
preteso dalle sole terre dei provinciali (42), mentre ne erano del tutto
esentati i cittadini romani e con la crescita delle esigenze pubbliche tale
principio finisce con l'essere disatteso e furono gradualmente tassate anche
le terre dei cittadini romani situate in Italia.
Ciò premesso, giova ricordare che la politica innovatrice promossa da
Augusto immette nel panorama tributario alcuni nuovi cespiti di entrata: la
capitatio terrena, la capitatio humana, la lustralis collatio.
La capitatio terrena, vale a dire una vera e propria imposta fondiaria
introdotta dall'imperatore, non ebbe però una rapida e simultanea
applicazione in Italia e nel resto del territorio imperiale. Essa fu estesa
per gradi partendo dal suolo italico fino alle altre province, anche se, con
riferimento alla tecnica impositiva, non intercorrevano grandi differenze
tra i suoli italici e quelli provinciali, perché il tributo colpiva i
terreni indipendentemente dalla qualità del proprietario: per questo la
situazione non muta con la Costituzione di Caracalla che, come accennato,
concedeva la cittadinanza romana a tutte le province dell'impero, poiché in
virtù di essa fu uguagliata la condizione delle persone e non delle cose, e
quindi le terre continuarono ad essere colpite dall'imposta senza
riferimenti alla qualifica del proprietario.
La capitatio terrena, come ai tempi del re Servio Tullio, aveva come base il
catasto: Augusto si preoccupò di compiere questa opera colossale, che venne
completata in trent'anni con la compilazione materiale del catasto e la
redazione dei relativi regolamenti censuari. Il risultato del lavoro fu
addirittura tradotto visivamente mediante la riproduzione affrescata di una
mappa dei territori conquistati, che l'imperatore fece dipingere sotto il
portico di Ottavia affinché l'estensione e le risorse dell'impero fossero a
tutti note. Inoltre ogni governatore ricevette la descrizione della regione
amministrata, curata in ogni particolare, perché risultasse più facile e
rapida l'applicazione delle norme tributarie via via emanate. Nello stesso
tempo Augusto fece compilare per tutto l'impero il registro delle persone,
come in tempi moderni avviene per l'anagrafe, con l'indicazione dei beni
mobili ed immobili, del bestiame, degli schiavi e dei coloni da ciascuno
posseduti.
Sulla base delle indicazioni fornite dal catasto fu pertanto possibile
stabilire l'intera proprietà fondiaria dell'impero: infatti le terre
venivano misurate e divise in un certo numero di particelle, ognuna delle
quali era assoggettata ad una determinata classe di imposta. Ogni particella
era detta caput, mentre la relativa tassa veniva chiamata capitatio: i
registri che contenevano le liste dei contribuenti erano detti capitastria,
da cui poi il termine catastrum ad indicare il catasto (43). Il catasto
serviva appunto a determinare la base imponibile della capitatio terrena:
l'aliquota non era fissa, ma stabilita di anno in anno tramite un editto
imperiale; tuttavia il tasso raggiungeva spesso livelli così elevati da
costringere i contribuenti ad abbandonare le proprie tenute (44), anche
perché non di rado l'imposta principale veniva gravata di centesimi
addizionali.
Soggetto obbligato al pagamento era chiunque avesse il semplice possesso dei
terreni; il versamento andava effettuato nel luogo ove i terreni risultavano
trascritti nel catasto.
Elemento fondamentale dell'imposizione erano le denunce, obbligatorie in
caso di atti traslativi della proprietà o del semplice possesso dei beni, ai
fini delle necessarie variazioni catastali (45). Anche per questo motivo, se
nel corso del periodo finanziario, chiamato indictio, si verificava una
notevole riduzione del reddito, il contribuente poteva fare ricorso al
censitor, funzionario preposto all'esecuzione delle rettifiche, per vedersi
riconoscere una riduzione dell'imposta in ragione della diminuzione del
valore del fondo; procedimento analogo veniva seguito d'ufficio nel caso
opposto di un miglioramento di valore, che dava luogo ad un aumento
dell'aliquota.
Altra imposta assai onerosa fu la capitatio humana, che gravava sui
proprietari terrieri in ragione dei servi rustici e dei coloni da essi
impiegati: questi uomini, per le istituzioni del tempo, erano ritenuti cose
immobili per destinazione e la tassazione può, per certi aspetti, essere
assimilata a quella parte del tributo per censo che, ai tempi di Servio
Tullio, doveva essere pretesa con riferimento ai servi, di cui era
obbligatorio dichiarare il possesso (46).
Nel complesso ed articolato sistema tributario romano era prevista anche
un'imposta mirante a colpire il reddito, impropriamente chiamato "profitto":
tuttavia, come è dato di comprendere dalla panoramica che stiamo tentando di
delineare, in un regime finanziario facente leva essenzialmente
sull'imposizione reale e soprattutto fondiaria, come era appunto quello dei
Romani, un tributo così congegnato ebbe poco successo, anzi fu al centro di
non poche proteste (47).
L'imposta era diretta a colpire i profitti dei mestieri e del commercio e fu
nota con la denominazione di lustralis collatio, dal periodo in cui maturava
il debito verso lo Stato, appunto il lustro. L'ammontare corrispondeva alla
cinquantesima parte dei guadagni realizzati nel quinquennio dal contribuente
ed era dovuta da commercianti, artigiani, facchini e lavoratori in genere,
comprendendo nella categoria tutti coloro che esercitassero un mestiere od
una professione o comunque compissero atti di commercio (48).
Agli effetti della determinazione della base imponibile erano valutati anche
tutti i beni o le attrezzature che il contribuente aveva acquistato nel
corso del quinquennio con i frutti del proprio mestiere, senza esenzioni di
sorta. In ogni provincia ed in ogni città era regolarmente tenuto un
registro dei commercianti e degli artigiani, continuamente aggiornato:
l'imperatore fissava il carico che quella determinata zona era tenuta a
versare, quindi l'onere era ripartito fra tutti i contribuenti.
5. Il vectigal: le imposte indirette
Dal quadro appena tracciato emerge chiaramente come per il periodo più
antico della storia di Roma e durante l'epoca repubblicana il ricorso a
misure di imposizione di carattere diretto fosse dettato da esigenze
finanziarie di natura straordinaria, in modo particolare conseguenti ad
eventi bellici. Risulta allora evidente come il bilancio delle entrate dello
Stato romano facesse leva soprattutto su prelievi di tipo indiretto, che
vengono indicati genericamente come vectigalia.
Il termine vectigal assume diverse accezioni nell'ambito del diritto
pubblico romano.
L'etimologia ne farebbe risalire l'origine al verbo veho (49), dal momento
che la prima applicazione dell'imposta era relativa al trasporto delle merci
e alla conduzione del bestiame al pascolo (vectigal alabarchiae) (50); ciò
non toglie che il termine indicasse anche il prodotto di pagamenti in natura
dovuti dai possessori di ager publicus e, successivamente, dai proprietari
di beni immobili situati nelle province (51).
In seguito vennero designate come vectigalia tutte le entrate provenienti
dal demanio statale, quindi i canoni pagati dai gestori di foreste, miniere,
saline (52), nonché in linea generale le imposte la cui riscossione era
affidata alle societates publicanorum; spesso poi il termine vectigal nella
sua più ampia accezione era usato ad indicare tutte le entrate dello Stato,
ed impropriamente anche nel senso di tributum.
Il panorama delle imposte indirette appare quindi ben più vasto rispetto a
quanto osservato a proposito del tributum e comprende, fra le più importanti
contribuzioni:
- imposizione daziaria;
- centesima rerum venalium;
- quinta et vicesima venalium mancipiorum;
- vicesima manumissionum;
- imposizione mineraria;
- imposte di successione (vicesima hereditatum).
Fin dai tempi più antichi le contribuzioni indirette che garantivano il
gettito maggiore erano i dazi di importazione ed esportazione e il dazio sul
sale.
I dazi doganali, conosciuti sotto il nome di portoria (53), erano applicati
in maniera non molto dissimile da quanto avviene nelle moderne legislazioni:
obiettivo era colpire i prodotti di largo consumo e di speculazione
commerciale, mentre erano previste esenzioni a favore dei prodotti destinati
all'agricoltura, ai privati ed al soddisfacimento dei bisogni della propria
famiglia.
Già durante il periodo della repubblica i dazi trovarono una sempre più
vasta applicazione, in considerazione del crescente volume dei commerci e
dell'ampliamento del territorio sottoposto al controllo dello Stato (54);
tuttavia, come conseguenza del notevole gettito dei tributi provinciali e
del ricavato dei bottini di guerra, la Legge Caecilia, proposta dal pretore
Q. Cecilio Metello nel 60 a.C., promosse la sospensione dell'imposizione
daziaria (55), che però Giulio Cesare fu costretto a ripristinare per
alimentare le risorse dell'erario, che trovò esaurito all'indomani delle
guerre civili (56).
Le frontiere dell'impero furono in un primo tempo circondate da una triplice
linea di dogane. Alcuni prodotti erano assoggettati al veto per
l'esportazione: tra questi in primo luogo il ferro grezzo e lavorato per le
armi, i cereali, l'olio ed il sale, considerati merce preziosa ed
evidentemente strategica; se importati, gli stessi prodotti erano colpiti da
imposte speciali: Roma era infatti importatrice di numerosissimi prodotti,
che davano luogo ad imponenti traffici con tutto il mondo allora conosciuto
(57).
I dazi erano applicati con fortissime aliquote ad valorem calcolate sul
prezzo di acquisto dei beni espresso in una dichiarazione; il tasso era
variabile a seconda della provenienza della merce, dal venti per cento sui
prodotti della Gallia al cinquanta per cento sui prodotti siciliani, con una
media del quaranta per cento.
Esenzioni erano inoltre accordate a favore degli instrumenta itineris, cioè
dei mezzi di trasporto, comprese le bestie da soma, i carri e gli attrezzi
destinati all'agricoltura.
Molto si è discusso sulla questione se il sistema dell'imposizione daziaria
avesse scopi protezionistici oltre che fiscali (58).
Si è obiettato (59) anzitutto che le fonti in nostro possesso non consentono
di avvalorare simili ipotesi; e poi mancherebbe la ragione economica di un
qualsiasi meccanismo di protezione, perché l'impero non poteva annoverare
alcuna attrezzatura od organizzazione, seppure allo stato embrionale, che
possa definirsi come industria nazionale, da difendere dalle mire
espansionistiche di industrie straniere. Si sa per certo che la produzione
industriale non era tenuta in alcuna considerazione dai Romani, che anzi la
riservavano alle fatiche di umili artigiani, i quali peraltro nessuna difesa
avrebbero potuto ottenere per le loro merci contro l'invasione delle
mercanzie estere, in considerazione della loro scarsa posizione sociale e
della assoluta ininfluenza nella gestione del potere governativo. Afferma in
proposito il Di Renzo (60) come "il portorium non fu presso i Romani che una
imposta di circolazione, esso non ebbe altro scopo che fornire entrate
all'erario ed anziché favorire il commercio, con la sua istituzione si
vennero a creare ostacoli, col separare le province le une dalle altre per
la creazione di numerose barriere doganali e con ingombranti posti di blocco
sulle vie, sui ponti e sui canali per la riscossione dei diritti di
pedaggio".
In effetti la politica doganale, che pure conobbe momenti di saggia e
razionale organizzazione attraverso una avveduta e coerente tariffa, fu
esposta, verso gli ultimi secoli, all'arbitrio degli imperatori, provocando
effetti deleteri su tutta la politica commerciale. Difatti la bilancia
commerciale fortemente deficitaria per Roma, fenomeno dovuto all'eccessiva
importazione di generi per lo più voluttuari e costosissimi, non venne
corretta mediante una saggia quanto energica politica di repressione delle
cause del disavanzo, poiché le casse dello Stato non potevano privarsi di
una fonte di entrate cospicua e certa, come i dazi che gravavano sui
prodotti importati.
Lo squilibrio valutario che ne conseguiva aveva come risultato l'avvilimento
delle iniziative economiche e quindi il dilagare di pericolose situazioni di
indigenza, da cui la crescente impossibilità di pagare le tasse proprio nel
momento in cui lo Stato richiedeva i maggiori sacrifici e si affannava nella
ricerca infruttuosa di nuove risorse.
Nell'ambito dell'imposizione indiretta, un posto di primo piano spetta
inoltre alla centesima rerum venalium, in tutto simile alla imposta generale
sulle entrate, in vigore nel nostro Paese fino alla riforma fiscale dei
primi anni Settanta.
Il tributo fu introdotto da Augusto dopo la guerra civile sul modello di
imposizioni analoghe esistenti in Egitto prima della conquista (61). Come il
nome stesso indica, l'imposta gravava nella misura dell'uno per cento del
valore di tutti i prodotti venduti al mercato (62).
Durante il principato di Tiberio, il popolo chiese con insistenza
l'abolizione della centesima, istanza negata dall'imperatore poiché i
relativi introiti rappresentavano il maggior sostegno dell'aerarium
militare. Successivamente, sulla scorta della conquista della Cappadocia,
ridotta a provincia nell'anno 17, si consentì ad una riduzione dell'aliquota
pari a mezzo punto percentuale (63); Caligola nell'anno 38 l'abolì
completamente, ma i suoi successori la ripristinarono ben presto e rimase in
vigore per tutta la durata dell'impero.
Una variante dell'imposta appena descritta colpiva il commercio degli
schiavi e prendeva il nome di quinta et vicesima venalium mancipiorum,
corrisposta da chi acquistava lo schiavo. Ciò fino all'avvento
dell'imperatore Nerone, il quale dispose che passasse a carico del
venditore.
Osserva Tacito (64) che il peso del tributo finiva comunque per ricadere sul
compratore, visto che il venditore non mancava di tenere conto del carico
impositivo in sede di determinazione del prezzo della transazione.
Al tempo di Augusto, l'aliquota era fissata nella misura del due per cento
del valore dello schiavo, ma Nerone la fece elevare al quattro per cento;
successivamente si mantenne attorno a valori medi del tre per cento.
Altra imposta indiretta sugli schiavi fu la vicesima manumissionum (65),
introdotta fin dal 357 a.C. e destinata all'aerarium sanctius come riserva
annua per le esigenze straordinarie: dell'applicazione di tale tributo si
rinviene traccia sino a Macrino, mentre scompare ogni testimonianza dopo il
218.
L'importanza strategica delle miniere venne compresa appieno e valorizzata
da Augusto: sua cura principale fu quella di ripristinare non solo
l'escavazione delle miniere abbandonate, ma anche di incentivare in ogni
modo qualsiasi nuova iniziativa nel settore.
In un primo momento i proprietari delle miniere e gli imprenditori degli
scavi erano assoggettati ad una contribuzione diretta sulla proprietà o
sull'attività mineraria, secondo il medesimo regime fiscale che regolava la
proprietà fondiaria, in virtù del principio secondo il quale il proprietario
della superficie lo era anche del sottosuolo, usque ad profundum. I
contribuenti erano tenuti anzitutto al pagamento in natura (vectigal
metallorum) che, a discrezione dello Stato, poteva essere convertito in un
pagamento in denaro secondo una valutazione sulla base del prezzo di mercato
del prodotto. Viceversa, nei momenti in cui il governo aveva forti necessità
di minerale metallico, in modo particolare per usi bellici, il proprietario
era obbligato a cedere l'intera produzione.
Tuttavia non appena l'industria privata ebbe consolidato la propria
organizzazione produttiva, si svegliarono gli appetiti degli imperatori, che
si decisero a stabilire il monopolio dello Stato sulle miniere, se non
legalmente, nella maggior parte dei casi almeno nei fatti, costringendo i
produttori a vendere il minerale al governo. In un modo o nell'altro, gli
imperatori finirono pertanto con il concentrare nelle loro mani il possesso
di quasi tutte le miniere, di cui cedevano l'esercizio a privati
imprenditori (conductores metallorum) dietro il pagamento di un canone,
oppure le facevano gestire in economia dallo Stato a mezzo di speciali
procuratori (productores metallorum), operazione che risultava però sempre
più onerosa per le casse pubbliche rispetto alla gestione dei privati.
Sottolinea il Bouchè Leclerq (66) come nell'ultimo periodo dell'impero lo
Stato finì per abbandonare anche il regime di monopolio, ricorrendo ad un
mezzo di sfruttamento più comodo, ovvero accordando ai procuratori la
facoltà di cedere sul posto al miglior offerente il diritto di escavazione
delle miniere per un periodo variabile da cinque a dieci anni, dietro la
corresponsione di un canone fisso.
L'attività mineraria dei Romani proseguì fervidamente fino a quando le
ricchissime miniere della Spagna e della Grecia produssero immensi tesori
senza richiedere troppi sacrifici, ma quando le vene metalliche troppo
vicine alla superficie si esaurirono essi, non essendo in possesso delle
tecnologie per scendere più a fondo nel sottosuolo, abbandonarono cospicue
ricchezze considerando esauriti cicli che forse erano appena
all'inizio."Sicché l'industria mineraria chiuse ben presto le sue fertili
bocche, proprio nel momento in cui maggiore era il bisogno per lo Stato di
nuove e maggiori fonti di ricchezza (...), concorrendo non poco alla
decadenza dell'economia romana (67)".
Nel campo delle imposte di successione Augusto introdusse profondi e
radicali mutamenti all'ordinamento esistente, regolando la materia per mezzo
della Lex vicesima hereditatum et legatorum.
Il tentativo di introdurre un'imposta del cinque per cento sulle
successioni, appunto vicesima hereditatum, era stato compiuto dallo stesso
Augusto insieme ad Antonio nel 40 a.C., ma la forte opposizione del Senato
fece fallire il progetto. Dopo la vittoria ottenuta nelle guerre civili e
sotto l'assillo della necessità di nuove entrate per le accresciute esigenze
dello Stato, Augusto riuscì nell'intento, non senza la difficoltà di nuove
resistenze e sotto la minaccia dell'introduzione di altri e più gravosi
tributi.
La legge stabiliva il principio dell'intervento del diritto fiscale
nell'arricchimento di un cittadino per effetto della morte di un altro
cittadino ed in seguito in ogni accrescimento di ricchezza dovuto comunque a
cause indipendenti dal soggetto beneficiario.
Osserva il Di Renzo (68) che "il decadimento del senso di attaccamento alla
famiglia e la rilassatezza dei costumi portarono i Romani nel vezzo di
nominare loro eredi, più che i congiunti, liberti e cortigiane. La legge,
perciò, prevedeva molte agevolazioni nel caso di successione legittima,
mentre era quasi confiscatrice per le successioni testamentarie".
Le norme di esecuzione della legge sulle successioni furono emanate con la
Lex Papia Poppea, che non ci è pervenuta nel suo testo originale, ma di cui
conosciamo le disposizioni grazie allo studio dei giureconsulti che la
commentarono. Stabiliva la legge che in caso di morte dell'erede o del
legatario quando il testatore era ancora in vita e dopo la formazione del
testamento, la disposizione testamentaria doveva ritenersi "caduca" e la
quota dei beni che ne formava il contenuto doveva essere devoluta alle casse
pubbliche; stesse conseguenze derivavano in caso di morte o perdita dei
diritti civili dell'erede o del legatario, dopo la morte del testatore ma
prima che venisse aperto il testamento. Inoltre, se ad un celibe venivano
assegnati nel testamento beni in misura superiore a quanto fissato dalla
legge, la parte eccedente il limite veniva incamerata dallo Stato, così come
qualunque legato o quota ereditaria devoluta a favore di persona indegna.
In alcuni periodi i proventi relativi a questa imposta arrivarono a
rappresentare il venti per cento delle entrate totali del tesoro: fra i
motivi che indussero l'imperatore Caracalla ad estendere la cittadinanza
romana a tutti i sudditi dell'impero vi fu certamente quello di incrementare
gli introiti derivanti dalle successioni.
6. Prospetto riassuntivo del bilancio di Roma imperiale (69)
Le entrate:
Come è dato di comprendere, la moderna pretesa del pensiero scientifico
moderno di procedere alla classificazione rigida delle forme impositive in
vigore nell'ordinamento tributario dell'antica Roma incontra non poche
resistenze quando ci si trova di fronte ad entrate che è difficile inserire
in qualcuna delle ripartizioni moderne.
La distinzione a suo tempo fatta per comodità di trattazione tra vectigal e
tributum trova in ultima analisi il suo logico fondamento unicamente nella
maniera di percezione dell'imposta: quella di tipo diretto sulla base di
liste riportanti il nome e l'età del civis romanus sui iuris, nonché
l'ammontare delle sue sostanze; quella di tipo indiretto in occasione dello
scambio o del consumo della ricchezza.
Nella seconda parte passeremo ad esaminare più dettagliatamente una delle
imposte su cui faceva perno l'intero ordinamento tributario romano.
Col. t.SFP Dott. Ernesto Nardo
Ten. Dott. Diego Falciani
Note
(1) Cfr. Schipani S., La codificazione del diritto romano comune,
Giappichelli, Torino, 1996: esiste una continuità del sistema romanistico
con il diritto moderno, e l'autore individua le linee guida del fenomeno
attraverso lo studio dei rapporti tra il Code Napoleon e la codificazione
successiva in Europa e nei Paesi latino-americani, da cui risulta sempre
presente il patrimonio della tradizione.
(2) Cfr. Di Renzo F., La finanza antica, Giuffrè, Milano, 1955.
(3) Cfr. Alessi G., Appunti intorno all'importanza della storia del diritto
per l'indagine finanziaria, in Studi dedicati ed offerti a F. Schupfler ,
Bocca, Torino, 1898.
(4) Dobbiamo ai grandi storiografi dell'antica Grecia, Erodoto e Tucidide,
la concezione della storia come scienza da cui trarre gli insegnamenti
necessari per il futuro attraverso lo studio degli avvenimenti del passato e
degli errori commessi nelle circostanze più diverse: il complesso delle
vicende umane appare agli occhi dello storico sotto forma di un ciclo
continuo, in cui determinati fatti tornano certamente a ripetersi nella loro
struttura essenziale, per cui la conoscenza del passato risulta
indispensabile per poter adeguare le scelte future.
(5) Cfr. Ciccotti E., Lineamenti dell'evoluzione tributaria del mondo
antico, introduzione al V volume della biblioteca di storia economica,
Milano, 1921.
(6) V. Di Renzo F., Il sistema tributario romano, Napoli, 1949, p. 37.
(7) I questori svolgevano anche altre mansioni, come quella di vendere
all'asta le spoglie del nemico, di conservare i senatoconsulti e le insegne
militari per consegnarle alle milizie in caso di guerra, nonché di fornire
alloggio agli ambasciatori. Il re Servio Tullio, nella riforma apportata
all'ordinamento finanziario, non trascurò di affidare a questi funzionari
anche compiti di rilevamento statistico: sull'argomento, vedasi Di Renzo F.,
op. ult. citata, p. 182.
(8) Il termine deriverebbe da aes, ovvero la moneta di bronzo usata in quei
tempi, che indicava per traslazione anche il denaro versato nelle casse
pubbliche (Di Renzo F., op. ult. citata, p. 182).
(9) Trattasi di forma di imposizione di tipo indiretto di cui si tratterà
più avanti, parlando del bilancio complessivo dello stato.
(10) V. Di Renzo F., op. ult. citata, p. 183.
(11) Sull'argomento, vedasi De Martino F., Storia della costituzione romana,
IV, Napoli, 1974, p. 487 ss.; AA.VV., sotto la direzione di Talamanca M.,
Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, p. 475 ss.; Tondo S.,
Profilo di storia costituzionale romana, IV, Milano, 1993, p. 201 ss.; Crifò
G., Lezioni di storia del diritto romano, II, Bologna, 1996, p. 57 ss.
(12) Augusto non tralascia l'aerarium, ma anzi compie sforzi di notevole
entità per migliorarne il funzionamento, istituendo i praefecti aerarii
scelti dall'ordine senatorio; tra i suoi successori, Tiberio nomina
commissioni senatorie per la gestione della cassa, mentre Claudio ritorna ai
questori, da lui stesso nominati ed in carica per tre anni; solo Nerone è in
grado di proporre una soluzione che durò a lungo, istituendo due praefecti
aerarii Saturni, di nomina imperiale, provenienti da coloro che avevano
ricoperto l'incarico di pretore.
(13) Si tratta della vicesima hereditatum, l'imposta sulle eredità e della
centesima rerum venalium, l'imposta sulle vendite pubbliche che sono parte
della riforma impositiva voluta da Augusto, per cui vedasi il capitolo
successivo.
(14) Vedi Mommsen T., Römisches Staatsrecht, II, Leipzig, 1887, nella
traduzione francese Droit public romain, vol. 5, p. 306: l'autore
sottolinea, tra l'altro, l'elasticità della gestione di questa cassa secondo
il volere dell'imperatore, che di fatto poteva disporne: "Les sommes versées
à la caisse militaire devaient servir en première ligne à récompenser les
vétérans sortant de l'armée; mais il est plus que vraisemblable qu'il n'y
avait aucun contrôle à ce point de vue et que les "praefecti" tenaient
purement et simplement les fonds mis sous leur administration à la
disposition de l'autorité militaire, c'est à dire du prince. Ce second
trésor central de l'empire était donc en fait une sucursale du fisc
impérial".
(15) Si tratta della tesi elaborata da Marquardt J., De l'organisation
financière chez les Romains, in Manuel des antiquités romaines, traduzione
francese di Albert Vigié, Paris, 1888, p. 388 ss.: "De même que le populus
est considéré comme le représentant légal de l'aerarium, le représentant
legal du fiscus est l'empereur" (...). Lo studioso attribuisce proprio ad
Augusto la creazione di due casse distinte, una facente capo al Senato,
l'Aerarium Saturni, e l'altra all'imperatore, il fiscus, in coerenza con la
corrispondente suddivisione dei territori dell'impero in "sfere di
influenza" senatoria ed imperiale.
(16) Vedasi nella fattispecie la prospettiva di Masi e Mazza, in AA.VV.
sotto la direzione di Talamanca M., op. cit., p. 493 ss.
(17) Res gestae.
(18) Vita Augusti, 101, 6.
(19) Vedi supra, n. 22.
(20) Vita Augusti, 28.
(21) Sen., 4, 39, 3.
(22) Naturalis Historia, 18, 11, 114. Comunque, anche dubitando di tali
conclusioni, Masi e Mazza propugnano la tesi dell'esistenza di un
ordinamento finanziario imperiale centralizzato almeno per l'epoca
successiva alla fine della dinastia Flavia, suffragandola con prove certe,
che testimoniano come parallelamente allo sviluppo del fiscus venga
accentuata l'attribuzione ad esso di entrate in precedenza pertinenti
all'aerarium:
- Tacito (Annales, 2, 48) afferma che i bona vacantia spettano al fisco,
presumibilmente già sotto Tiberio;
- Marco Aurelio e Lucio Vero (D, 49. 13. 3. 19) riconoscono l'attribuzione
al fisco della metà del tesoro non solo se rinvenuto in luogo di proprietà
del fisco stesso, ma anche in qualsiasi altro luogo che non appartenga allo
scopritore o ad altro soggetto privato;
- Gaio (2, 285) testimonia la corresponsione dei caduca al fisco, con
particolare riferimento ai fidecommessi disposti a favore di peregrini, già
per l'età di Adriano, poi generalizzata da una Costituzione di Caracalla, in
Ulp. Tit., 17, 2; lo stesso fenomeno si osserva riguardo ai bona damnatorum,
all'applicazione delle pene pecuniarie, alle entrate relative ai dazi
doganali ed alle stesse entrate relative alle province senatorie.
Una visione sostanzialmente concorde è quella del De Martino, op cit., p.
909 ss. La linea di sviluppo dell'ordinamento finanziario imperiale
tracciata dall'autore trae le premesse dalla sottrazione al Senato della
disponibilità delle risorse provenienti dalle province imperiali, che inizia
con l'età augustea e pone le prime basi per un nuovo ordinamento della
finanza. Opponendosi tuttavia alla definizione di una data certa cui far
risalire l'assetto delle istituzioni imperiali, l'autore prudentemente
afferma, stante la scarsa precisione delle fonti, che il processo storico di
formazione del concetto unitario del fiscus era in corso fin dai primi
imperatori della casa Giulio-Claudia e verosimilmente si concluse sotto i
Flavi, risultando interamente compiuto alla fine della loro dinastia; nel
corso di questo processo di formazione del fiscus, l'assetto dei poteri
facenti capo al principe andò via via aumentando, pur essendo definito nella
sua fisionomia generale già sotto Augusto. Circa il problema dell'esistenza
di una amministrazione finanziaria di livello centrale, il De Martino non si
sente di stabilire se fin dall'inizio vi fossero uffici centrali di
contabilità o di coordinamento dei conti dell'impero. Esistono tuttavia
indizi positivi: il fatto stesso che Augusto abbia lasciato il "breviarium
imperii" induce a ritenere che potesse disporre di "rationales", uffici di
cui risulta l'esistenza già sotto Tiberio, con maggiore sicurezza al tempo
di Claudio. Sotto tali imperatori e poi sotto i Flavi, mentre continua il
processo di sottrazione all'erario di alcuni suoi proventi per trasferirli
all'amministrazione imperiale, sorgono casse speciali in Roma destinate a
raccogliere le entrate di province importanti. Il De Martino considera
quindi pressoché certa l'esistenza di una amministrazione fiscale unitaria
sotto i Flavi, anche se rimane dubbio se sia stata anche allora costituita
una cassa centrale unica ovvero solo in epoca successiva. Il problema della
natura giuridica del fiscus è risolto nel senso di conferire ad esso il
significato di organo dell'ordinamento imperiale, individuato come complesso
unitario delle finanze imperiali, con il medesimo ruolo rivestito
dall'aerarium nell'ordinamento repubblicano: così come ai tempi della
repubblica titolare del diritto è lo "Stato", mentre i magistrati ed il
principe, nelle loro rispettive sfere di competenza, hanno un mero potere di
disposizione dei beni.
(23) Un'interpretazione dell'organizzazione fiscale imperiale che considera
il fisco proprietà privata dell'imperatore è quella del Mommsen: "la caisse
impériale, le fiscus Caesaris, ou, selon le langage devenu plus tard usuel,
le fiscus tout court, est la propriété privée du prince" (Mommsen T., op.
cit., p. 293 ss.). L'autore si basa fondamentalmente su un passo di Ulpiano,
contenuto in D, 43, 8, 2, 4, in cui si dice che "res fiscales quasi propriae
et privatae sunt", e sulla Historia Augusta, dove allo stesso modo si parla
di fiscus privatus e dei debitori del fisco come privati debitores
(Scriptores Historiae Augustae, Vita Hadriani, 7). Secondo l'opinione dello
studioso tedesco, i beni privati del principe ed i beni dello Stato messi a
sua disposizione non tanto si confondono, quanto piuttosto si considerano
facenti parte di un tutto unico sul piano dei diritti patrimoniali e dei
diritti di successione: l'esistenza di tale indissolubilità è dimostrata
anzitutto dall'impossibilità pratica di distinguere la successione nei beni
dalla successione al trono. Quanto poi allo studio del carattere e del
funzionamento del fisco imperiale, Mommsen osserva che gli affari pubblici e
gli affari puramente privati del principe sono collocati in linea di diritto
sullo stesso piano: se è vero che il patrimonium principis rimane distinto,
dal punto di vista della gestione amministrativa, dal resto delle res
familiares (e non poteva essere altrimenti, visto che la fortuna ereditaria
del principe non poteva adattarsi al modello di amministrazione a
dipartimenti di entrate tipico dei beni pubblici), è altrettanto vero che la
contrapposizione tra patrimonium e res privata principis, da una parte, e
fiscus, dall'altra, fa riferimento al solo titolo di acquisizione ed alla
modalità di amministrazione, non anche all'individuazione del soggetto di
diritto.
Ancora prima il Marquardt, op. cit., p. 392 ss., facendo risalire ad Augusto
l'origine del patrimonium Caesaris, afferma che già sotto questo imperatore
tale cassa aveva assunto la fisionomia giuridica di patrimonio privato del
principe, mentre il fiscus, che appare ugualmente nella sua diretta
disponibilità, si distingueva per la sua natura pubblica: a parte questa
differenza, si può concludere a giudizio dell'autore che le due casse
risultassero indistinte nella pratica, essendo entrambe a disposizione
dell'imperatore.
(24) Tra gli studi recenti spicca la visione del De Martino, op. cit., p.
909 ss., che non giudica convincenti le testimonianze addotte dal Mommsen
per i seguenti motivi:
- il testo di Ulpiano, ammesso che sia genuino, risale all'epoca dei
Severi, quando si era accentuato il carattere monarchico del regime, e non
afferma che il fisco è res privata, ma che le res fiscales "quasi propriae
et privatae sunt", allo scopo di giustificare l'esclusione dell'interdetto
"ne quid in loco publico vel itinere fiat" ed ammettere la competenza in via
esclusivamente amministrativa dei prefetti a decidere le eventuali
controversie;
- il testo della Vita Hadriani non definisce i debitori del fisco privati
debitori del principe, ma usa il termine nel senso di privati contribuenti;
è un testo tardo, non giuridico, e non può assurgere al valore di una
definizione di carattere tecnico;
- Tacito, parlando dei bona damnatorum, non considera il fisco un bene
privato, ma semplicemente contrappone il fisco all'erario; negli altri testi
si riferisce all'amministrazione di res suae o familiares.
Per ciò che riguarda la trasmissibilità ereditaria, nulla autorizza a
credere che gli imperatori nei loro testamenti disponessero anche delle res
fiscales: il fatto che essi usassero trasmettere i loro beni privati ai
discendenti, ricorda il De Martino, non dimostra che tali beni si unissero
con quelli fiscali, come invece vuole il Mommsen.
(25) Tra le diverse prospettive, la soluzione fornita da Orestano alla
questione dei rapporti tra fiscus ed aerarium e tra fiscus e princeps, che
abbiamo visto essere ampiamente dibattuta, merita di essere riportata. Egli
analizza il problema della personalità giuridica del fiscus in relazione
alla personalità dello "Stato", per cui il riversarsi nel fiscus di
competenze e di cespiti prima spettanti all'aerarium rappresenta il profilo
concreto del progressivo sostituirsi del princeps al popolus come centro di
riferimento di relazioni pubbliche. L'autore pone in connessione le esigenze
che provocarono, o almeno favorirono, la formazione del fiscus con il novus
ordo instaurato da Augusto e con la conseguente necessità che egli aveva del
controllo di entrate e cespiti che gli garantissero la prosecuzione della
sua politica: ciò comportava inevitabilmente la fusione delle sue entrate
personali con le altre e la pressoché identica tenuta delle spese. Da qui la
commistione tra patrimonio privato del princeps e risorse pubbliche. L'esame
delle fonti non si rivela tuttavia sufficiente a fugare tutti i dubbi.
Svetonio, nel citare le ultime volontà di Augusto, precisa che nel
breviarium totius imperii era indicato, oltre al numero ed alla dislocazione
degli uomini e delle armi, anche quantum pecuniae in aerario et fiscis et
vectigaliorum residuis esset (Aug. 101, 6). Ciò conduce Orestano ad
affermare che, se anche la dialettica interna dell'età imperiale esclude che
certe riforme dell'organizzazione romana possano essere attribuite alla
volontà di un solo principe, comunque è altrettanto arbitrario negare
all'età augustea l'inizio della trasformazione finanziaria. L'errore, a
giudizio dello studioso, è tentare di risolvere questioni come la
soggettività o la personalità giuridica del fisco utilizzando prospettive
dogmatiche ignote all'esperienza romana, affermazione che racchiude
l'importantissimo contributo fornito dall'autore. Comunque, l'impiego del
termine fiscus con significato unitario da parte di autori come Seneca e
Plinio il Vecchio (Sen. de ben. 4, 39, 3: sponsum descendam, quia promisi;
sed non, si spondere me, in incertum iubebis, si fisco obligabis (...); 7,
6, 3, Caesar omnia habet, fiscus eius privata tantum ac sua, et universa in
imperio eius sunt, in patrimonio propria; Plinius, Naturalis Historia, 6,
22, 84: Anni Ploclami, qui maris Rubri vectigal a fisco redemerat, libertus;
12, 25, 113: seritque nunc eum - scil. balsamum - fiscus) fa ritenere che
già intorno alla metà del sec. I d.C. la coscienza sociale si fosse resa
consapevole della contrapposizione sostanziale, anche se non ancora
dichiarata formalmente, tra le due istituzioni. Così come non è dato di
cogliere i particolari cronologici dell'istituzionalizzazione del fiscus
quale ufficio finanziario dell'ordinamento imperiale, al pari si ignorano i
momenti precisi in cui determinati cespiti siano passati dall'aerarium al
fiscus: mentre si sa che i caduca in certi casi venivano attribuiti al fisco
già sotto Adriano, è incerto se l'attribuzione al fisco dei bona vacantia,
dei tesori, dei bona damnatorum, delle pene pecuniarie e dei proventi
dell'ager publicus risalga a prima dei Severi o sia stata attuata da questa
dinastia. Certamente a quel punto l'istituto appare sufficientemente
consolidato, come attestano gli scritti di alcuni giuristi, primi fra tutti
Paolo e Callistrato. Sul problema della natura giuridica del fiscus e sui
rapporti col patrimonium e la res privata, in contrapposizione con le
opinioni espresse da altri studiosi, rivolte all'applicazione di rigidi
schemi logici, capaci di soddisfare le aspettative di un giurista moderno,
ma poco aderenti alle categorie di pensiero del mondo dell'antichità romana,
Orestano intende cogliere il cuore del problema nel lento svolgersi di un
processo di assestamento che toccava nel vivo ogni fibra della società,
legandola sempre di più alla persona prima che alla figura del princeps: il
centro di riferimento di relazioni giuridiche di interesse generale è
individuato nel passaggio dal popolus romanus al princeps, che l'autore
segnala come tratto fondamentale per comprendere la portata del sistema
istituzionale introdotto da Augusto. Orestano riconosce al Mommsen il merito
di aver interpretato le fonti senza svalutarne il senso, ma fallendo nel
tentativo di sistemarle giuridicamente: lo studioso tedesco, a suo parere,
costruisce la sua visione in maniera troppo rigida sulle categorie del
diritto privato. Le numerose testimonianze da cui risulta che il princeps in
quanto persona era titolare del fiscus sono presenti durante tutto l'arco
del regime imperiale e su questa considerazione si fonda il convincimento di
Orestano: Augusto nelle res gestae non ha mai distinto i suoi averi
personali da quelli di cui disponeva in quanto princeps, per cui acquistano
valore le testimonianze posteriori (Plinio il Vecchio e Svetonio) che usano
il termine fiscus per riferirsi alla sostanza privata di Augusto. La chiave
è nel sottile gioco di termini per cui il princeps è al tempo stesso la res
publica e res publica egli stesso, parte del bene comune: fatto che
giustifica anche la titolarità dei beni man mano sottratti all'aerarium e
ricompresi nel fiscus, senza più distinzione tra essi e quelli provenienti
dalla fortuna personale dell'imperatore. Questa prospettiva conduce l'autore
a ritenere che il rapporto interno princeps-fiscus era al di fuori
dell'alternativa pubblico-privato, a dispetto degli sforzi di coloro che
hanno inteso ricondurre i poteri del princeps sul fiscus alle tradizionali
categorie privatistiche del dominium. In questo senso l'affermazione
ulpianea, Contenuta in D.3.6.1.3, che le res fiscales quasi propriae et
privatae sunt ha il suo accento logico nel quasi, che ha dunque valore
chiaramente equiparativo, di perinde ac si, non quello dell'avverbio
italiano "quasi": non si tratta di una qualificazione giuridica impropria,
di cui il quasi sottolineerebbe il carattere approssimativo, ma di
equiparazione delle res fiscales alle privatae, quindi non di completa
assimilazione, allo stesso modo per cui il princeps, quantunque il suo
potere sia personale, non è un privatus qualsiasi. L'equiparazione tra
fiscus e patrimonium principis dimostra che la contrapposizione si risolveva
in una mera distinzione di partite contabili (Orestano R. Il problema delle
persone giuridiche nel diritto romano, Torino, 1968, p. 232-262).
Altri studiosi sono invece convinti dell'esistenza di autonomi rapporti di
natura privatistica riconducibili all'imperatore e distinti dall'esercizio
del potere di natura pubblica. In particolare Masi e Mazza, op. cit., p. 496
ss., analizzano la posizione del principe rispetto al fisco, emblematica
perché da quanto finora detto la titolarità dei rapporti ad esso
riconducibili deve necessariamente imputarsi al principe in quanto tale.
Ebbene, la conclusione nega che il binomio principe-fisco possa essere
assimilato all'alternativa pubblico-privato: ad esempio, i luoghi
appartenenti al fisco (in fisci patrimonio) non si possono classificare come
pubblici a detta di Ulpiano (D.43.8.2.4), poiché "res fiscales (...) quasi
propriae et privatae principis sunt". Si badi bene: quasi propriae et
privatae, affermazione da cui sembra doversi desumere che le res fiscales
non soltanto non vengono considerate res publicae, ma pur essendo equiparate
alle cose propriae et privatae, queste ultime sono una categoria ancora
diversa. Allora, secondo gli autori, la distinzione tra i rapporti
riferibili al principe in quanto tale ed i rapporti a lui pertinenti sotto
un profilo esclusivamente privatistico è anche ammissibile, ma rileva
solamente su un piano formale, ed è materialmente impossibile trasferirne
gli effetti in una prospettiva sostanziale: "la caratterizzazione della
"ratio" in questione come "privata" (ovvero anche come "propria e privata")
non ha tuttavia, a quanto è dato ritenere, implicato per i beni che vi
rientrano un regime differenziato, rispetto a quelli riferiti invece al
"fiscus" o al "patrimonium". E questo è vero se si pensa che le
caratteristiche dell'alienabilità e della illimitata disponibilità da parte
del principe sui beni appartenenti alla ratio privata, non si possono certo
negare alle res fiscales; e comunque, se anche dimostriamo la tendenza ad
isolare un complesso dei beni dei quali il principe potesse disporre senza
limitazioni, e soprattutto senza intaccare il fiscus (il che non esclude,
come ampiamente dibattuto, la sua legittimazione a disporre in modo
pressoché assoluto anche dei beni riferibili a tale branca
dell'amministrazione finanziaria), d'altro canto, non si riesce a
distinguere sul piano pratico un settore privatistico da uno invece
pubblicistico nei rapporti facenti capo all'imperatore.
(26) Vedasi in proposito Di Renzo F., op. ult. cit., p. 196 ss: "Il grado di
perfezione e di organizzazione razionale che raggiunse il Comes sacrarum
largitionum, un vero ministero delle finanze e del tesoro, non aveva nulla
da invidiare alla moderna organizzazione delle amministrazioni finanziarie.
Le attribuzioni, infatti, affidate agli undici dipartimenti finanziari, in
cui si divideva il Comitato, hanno molti punti di analogia con le funzioni e
le attribuzioni demandate alle diverse direzioni generali dei nostri moderni
ministeri delle finanze e del tesoro. Così lo "scrinium canonum" svolgeva
funzioni che corrispondevano, presso a poco, a quelle esercitate dalla
Direzione generale delle Imposte Dirette; lo "scrinium tabolarium" al
servizio proprio del tesoro; lo "scrinium numerariorum" ai controlli sulle
spese pubbliche esercitate, nella moderna legislazione, dalla Ragioneria
Generale dello Stato e dalla Corte dei Conti; lo "scrinium aureae" al
servizio che esplica la nostra Zecca. Per quanto riguardava l'organizzazione
periferica dei servizi finanziari, in ciascuna comunità era istituito un
apposito ufficio, nel quale si tenevano i ruoli di tutti i fondi esistenti
nel territorio. La tenuta di questi ruoli era scrupolosa e rispecchiava
fedelmente la situazione economica del contribuente e l'effettivo stato di
consisitenza dei beni. In essi erano infatti indicati i nomi dei fondi,
l'ubicazione, i fondi confinanti, l'estenzione, il numero e la natura delle
piante (...), il numero dei servi ed infine l'indicazione del valore del
fondo, secondo l'ultima dichiarazione fatta dal proprietario. L'imperatore,
tenendo presente il ruolo generale delle proprietà, determinava ogni
quinquennio il piano delle contribuzioni in generi ed in denaro, da doversi
pagare in tutto il territorio dell'impero nel quinquennio successivo. Dal
piano generale gli ufficiali del pretorio facevano i piani parziali per
ciascuna provincia. Tali piani venivano poi pubblicati nei centri più
importanti delle province stesse, quattro mesi prima dello scadere del
termine per il pagamento della prima rata. Alla pubblicazione dei ruoli
nelle province, seguiva la ripartizione delle contribuzioni per ciascuna
città e, finalmente, tra i singoli proprietari (...)".
(27) Sull'argomento, vedasi tra gli altri Graziani, Isitituzioni di scienza
delle finanze, Torino, 1929, p. 345; Ranelletti, Natura giuridica delle
imposte, in Le imposte dirette, 1898, p. 196; Vitta, Diritto amministrativo,
Torino, 1954, p. 240; Tesoro, Classificazione giuridica delle entrate dello
Stato, in Rivista politica ed economica, 1937, p. 32;
(28) Vedasi Beloch J., Per la storia della popolazione nell'antichità, in
Biblioteca di storia economica diretta da Vilfredo Pareto, p. 298.
(29) Per una descrizione approfondita del sistema impositivo romano, vedasi
anche Cagnat R., Ètudes sur les impôts indirects chez les Romaines, Parigi,
1882, p. V.
(30) Basti pensare al vectigal alabarchiae, che essendo percepito in base
alla scriptura del numero e della qualità dei capi di bestiame ammessi al
pascolo, riveste l'indubbia forma dell'imposta fondiaria.
(31) Attestazioni in LIV. 23, 31; 29, 15, 9; 39, 7, 4.
(32) Il re Servio Tullio viene ricordato per l'importanza delle riforme da
lui concepite nel campo del diritto tributario, la cui portata è
paragonabile alle innovazioni introdotte da Augusto. Sull'argomento, vedasi
Di Renzo F., Il sistema tributario romano, Napoli, 1949, p. 78; Guarini L.,
La finanza del popolo romano, Napoli, 1842; Lecrivain C., in Darenberg e
Saglio, Dictionnair del antiquités grecs et romaines..
(33) V. Luzzatto G. I., La riscossione dei tributi in Roma e l'ipotesi della
proprietà sovrana, atti del congresso di diritto romano di Verona, 1948.
(34) Attestazioni in LIV, 22, 32, 2.
(35) Attestazioni in LIV, 29, 15, 9; 39, 7, 4; 23, 31.
(36) Sull'argomento vedasi, tra gli altri, Marquardt J., De l'organisation
financière chez les Romaines, Paris, 1888, p. 221.
(37) Plut, Cato Mai., 18.
(38) Tra cui il Savigny, Romische Steuerverfassung, 1882.
(39) Di questo parere il Rodbertus, Per la storia delle imposte romane da
Augusto in poi, Jena, 1869.
(40) Il Mommsen, pur non essendo in grado di stabilire l'esatta proporzione
tra le entrate nella diretta disponibilità dell'imperatore e le spese da
questi assunte in prima persona, è tuttavia convinto che Augusto abbia
destinato alle pubbliche esigenze più denaro di quanto non ne abbia ricavato
dall'amministrazione delle finanze: l'autore giunge a questa conclusione
muovendo le premesse dal testamento di Augusto riportato in Svetonio, Vita
di Augusto, 191, e da un passo degli Annales di Tacito, 14, 18 (Mommsen,
Droit public romain, Parigi, 1888, p. 303).
(41) Attestato da AUR. VIT., De Caesaribus, Cap. XXXIX.
(42) Sull'argomento vedi anche: Burmann, Vectigalia populi romani, Leida,
1734; Di Renzo F., La finanza antica, Napoli, 1955; Grelle F., Stipendium
vel tributum: l'imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II-III
secolo, Napoli, 1963.
(43) V.Di Renzo F., op. ult. cit., n. 3, p. 159.
(44) Su questo punto vedi ancora Di Renzo, op. ult. cit., n. 3, p. 160: "Ad
onta dei deleteri effetti di tale irrazionale politica tributaria, più volte
incontriamo in tale periodo il manifestarsi di simili avvenimenti, che
scuotevano profondamente gli elementari princìpi economici della proprietà e
della ricchezza dei privati".
(45) Severissime pene erano comminate a carico di coloro che omettevano le
denunzie o le rendevano inesatte: nei casi più gravi, erano applicate
persino la pena di morte e la confisca dei beni (vedi Di Renzo F., op. ult.
cit., n. 3, g. 161).
(46) Secondo il racconto di Livio, il catasto ordinato da Servio doveva
contenere il nominativo di ogni cittadino e dei componenti della sua
famiglia, il numero degli schiavi e degli animali che ognuna aveva presso di
sé e la quantità di oro e di argento e degli oggetti preziosi posseduti
(vedi Di Renzo F., op. ult. cit., n. 1, p. 78).
(47) Il suo apparire provocò tali vivaci reazioni e tale impopolarità da
indurre l'imperatore Onorio, nell'anno 395, ad abolirla come "vectigal
miserabile prorsus, deoque invisum et barbaris ipsis indignum" (Di Renzo F.,
op. ult. cit., n. 1, p. 169).
(48) Caligola non risparmiò da tale imposta nemmeno le meretrici ed i
lenoni, facendoli rientrare latu sensu nella categoria dei commercianti (da
Suet., Caligola, cap. XL).
(49) Isid. Orig., 16, 18, 8.
(50) Bonelli G., Le imposte indirette di Roma antica, in Studi e documenti
di storia e diritto, 1900, p. 37.
(51) Ampia disamina in Burmann, op. cit., p. 3 ss.; Marquardt J., op. cit..,
p. 205; Cagnat R., voce portorium in Daremberg e Saglio.
(52) Rif. D., 4, 16, 17.
(53) Anche la parola portus è qualche volta usata come sinonimo di
portorium, e non solo per indicare il tributo imposto in occasione del
transito delle merci in un porto, come si potrebbe credere, ma allo stesso
modo la si incontra nei possedimenti romani dell'interno dell'Africa (tratto
da Di Renzo F., op. cit., n. 5, p. 120).
(54) Già nel II sec. a.C. si ha notizia di portoria applicati a Capua,
Pozzuoli ed alle foci del Volturno; barriere daziarie sorsero più tardi un
po' ovunque, fornendo cospicue fonti di entrata alle casse dello Stato
(LIV., II, 9; VELL. PAT., II, 6).
(55) CIC. Ad Qu. Fr. I, 1, 11.
(56) Suet. Caes., 43.
(57) La bilancia commerciale di Roma era fortemente sbilanciata verso
l'esterno: la città era destinataria di immensi traffici, che avevano ad
oggetto l'approvvigionamento del grano (Tacito narra negli Annali come gli
imperatori abbiano sempre avuto una costante preoccupazione per il controllo
dell'Egitto, che poteva sempre affamare Roma), il commercio del vino, delle
manifatture di lana (testimonianze arrivano dalla Historia Naturalis di
Plinio), del papiro, del vetro, del lino, ed altre merci preziose per
l'epoca. I traffici con le province erano quasi sempre passivi per Roma:
quando il prezzo dei beni acquistati non poteva essere pareggiato dalle
somme rimesse dai provinciali a titolo di tributi, si dava origine a forti
trasferimenti di denaro verso le province, indispensabili per favorire gli
investimenti in regioni lontane, ma anche per creare disponibilità monetarie
destinate a ritornare a Roma sotto forma di tributi. È appena il caso di
menzionare i vantaggi di cui le casse dello Stato godevano, per effetto di
questi traffici, anche con riferimento all'applicazione dei dazi doganali
(Di Renzo F., op. ult. cit., nota n. 5, p. 200 ss.).
(58) Di questo parere il Marquardt, op. cit.
(59) Da parte del Cagnat, Studio storico delle imposte indirette presso i
Romani, Parigi, 1883 (traduzione italiana nel V volume della biblioteca di
storia economica diretta da Vilfredo Pareto, p. 491 ss.).
(60) V.Di Renzo F., op. ult. cit., n. 5, p. 119.
(61) Dal sistema fiscale egiziano Augusto prese "a prestito" anche lo schema
della riforma delle imposte di successione da lui varata e di cui vedasi
infra.
(62) Tac. Ann., 1, 78.
(63) Tac. Ann. 2, 42.
(64) Tac. Ann. 13, 31.
(65) È noto che lo schiavo poteva essere liberato dal padrone per mezzo di
una procedura detta manumissio, che poteva essere compiuta per atto pubblico
o privato. A sua volta, la manomissione per atto pubblico poteva essere:
- per vindictam, quando il padrone dichiarava solennemente innanzi al
magistrato di concedere la libertà allo schiavo, secondo le formule previste
dal diritto romano;
- censu, ovvero facendo iscrivere a cura del censore il nome dello schiavo
nella lista dei contribuenti ai fini dell'imposizione fondiaria, nel qual
caso spettava al padrone garantire l'adempimento dell'obbligazione
tributaria;
- testamento, quando il padrone dichiarava libero lo schiavo nel proprio
testamento.
La manomissione per atto privato avveniva per mensam, ossia invitando lo
schiavo a sedere alla mensa del padrone oppure inter amicos, quando alla
presenza di cinque testimoni il padrone dichiarava di volere rendere libero
lo schiavo.
Sul punto, vedi anche: Burdese A., op. cit., p. 151 ss.; Palazzi e
Untersteiner, La civiltà romana, Milano, 1931, p. 163 ss.
(66) V. BouchÈ Leclerq, Manuel des institutions romaines, Parigi, 1886.
(67) V. Di Renzo F., op. ult. cit., n. 5, p. 196; sul punto anche Rostovzev,
Storia economica e sociale dell'impero romano, Firenze, 1953.
(68) V. Di Renzo F., Op. ult. citata, n. 5, p. 184.
(69) Con riferimento al periodo augusteo: vedasi Garzetti A., Aerarium e
fiscus sotto Augusto: storia di una questione in parte di nomi, in
Athenaeum, studi periodici di letteratura e storia dell'antichità,
Università di Pavia, 1953, dal quale è stato tratto il prospetto
riassuntivo.
(70) Ove attestato dalle fonti.
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