LA NUOVA ROMA IMPERIALE
Introduzione
La nuova Roma, la nascente potenza internazionale che attorno al 270 ha
ormai conquistato l'Italia peninsulare sia a nord (pur con il limite del
nord Italia, ancora celtico) sia a sud (fino allo stretto di Messina, dopo
le guerre contro i magno-greci), non ha ancora aspirazioni di carattere
imperialistico: non segue infatti progetti organici d'espansione, ma si
impegna piuttosto in azioni di mero consolidamento territoriale.
Si può certamente parlare, dopo la vittoria su Pirro, di una maggiore
sicurezza nei rapporti internazionali e di una maggiore aggressività
militare, ma non ancora di imperialismo.
La storia dei decenni seguenti - che vedono la nascita di Roma come
principale potenza del Mediterraneo occidentale - è caratterizzata da una
politica internazionale che potremmo definire impulsiva, e che la trascina
in imprese belliche molto rischiose da cui non potrà che uscire o fortemente
ridimensionata (ovvero annientata come potenza internazionale) oppure - come
effettivamente accadrà - ulteriormente ingrandita, aperta a una nuova
dimensione mondiale e con un diverso assetto sociale.
E' difficile non vedere come la trasformazione interna di Roma, sia in
questi che nei prossimi anni, sia in massima parte funzione delle sue
conquiste e della sua espansione verso l'esterno, attraverso i mutamenti che
tali fattori generano sulla struttura socio-politica e sui rapporti con gli
alleati e le colonie.
Tale evoluzione può essere delineata attraverso i seguenti punti:
a) da una parte vi è un allargamento del proletariato urbano, causato
dall'inasprimento (dovuto alle guerre) della crisi agraria;
b) in secondo luogo si sviluppa nella classe plebea ricca, che vive di
commerci e di appalti pubblici (spesso legati alle guerre, al loro
finanziamento), la tendenza ad avanzare autonomi progetti a livello
politico, in opposizione a quelli del Senato o di parte di esso;
c) infine la classe nobiliare o patrizia, che va sempre più distinguendosi
da quella alto-plebea (detta dei cavalieri), rinsalda ulteriormente la
propria autorità sul piano politico e militare, divenendo così la vera
classe dirigente di Roma, cui spetta l'onere politico delle decisioni per
tutto ciò che riguarda lo Stato.
Ciò creerà profondi attriti, dato che gli interessi nobiliari non sempre
coincidono (come si è appena visto) con quelli del resto della popolazione!
d) In risposta a tale squilibrio nasce allora la figura del 'capo popolare',
ovvero di un uomo che facendosi carico degli interessi della plebe
(soprattutto di quella media, oppressa dalla fame di terre, ma anche di
quella più ricca) riscuote molti consensi, divenendo una pedina importante
nello scacchiere politico. A esempio di tale figura si può portare Gaio
Flaminio, i cui provvedimenti verranno visti più avanti.
Perciò, anche se Roma non è ancora un impero, è comunque già avviata in tale
direzione.
Si possono difatti scorgere di già i primi segni della futura evoluzione
imperiale: quelle contraddizioni e quegli squilibri (costituiti dalle grandi
masse proletarie - o sulla via per diventarlo -, dalle prime lotte interne
per il potere, dai primi conflitti tra "borghesia" commerciale e finanziaria
plebea e aristocrazia patrizia legata al possesso della terra) che
sfoceranno successivamente nella rivoluzione politica di Ottaviano.
Storia romana nel periodo delle guerre puniche (264-146)
E' parso opportuno, qui di seguito, dividere il capitolo in tre distinte
fasi (corrispondenti all'incirca alla prima, alla seconda e alla terza
guerra punica) trattando sempre prima gli eventi della storia esterna,
segnata essenzialmente dalle guerre di espansione mediterranea, e solo
successivamente gli eventi interni. Ciò dal momento che questi ultimi - come
si è già detto - si spiegano in massima parte come risultati - seppure
indiretti - dei successi militari e delle lotte sostenute per ottenerli,
sulla struttura sociale e politica dello Stato romano.
1) La prima guerra punica e le guerre italiche e illiriche
a) La prima guerra punica
La guerra contro la potenza cartaginese, il più antico impero del
Mediterraneo occidentale (nato dalla separazione di Cartagine nell'VIII
secolo dalla città fenicia di Tiro, del cui impero commerciale costituiva la
principale colonia), non è causata - come si potrebbe pensare - dalle
ambizioni espansionistiche di Roma, né da quelle della sua rivale.
Come in altre situazioni, anche qui è la richiesta d'aiuto di una città
(Messina) la molla scatenante di un conflitto lunghissimo e di certo non
preventivato, un conflitto sfuggito di mano ai suoi stessi artefici,
divenuto in poco tempo una lotta per la sopravvivenza tra due opposte
super-potenze.
Questi gli eventi essenziali della prima guerra punica (264-241):
· I Mamertini chiamano in aiuto i romani contro il protettorato sulla loro
città dei Cartaginesi (265); essendo lo stretto di Messina di grande
importanza strategica per Roma (il cui dominio come si è visto giunge fino
alla città di Reggio, situata sulla sponda opposta dello stretto) si decide
per l'intervento.
· 264: il console Appio Claudio si reca a Messina, anche se la situazione è
in via di risoluzione: l'ambizione romana infatti molto probabilmente è
quella di estendere le proprie influenze politiche anche in Sicilia: si fa
perciò di tutto per fare precipitare la situazione e far esplodere un
conflitto, anche se di certo non è preventivato uno scontro diretto con la
potenza cartaginese. Gerone, tiranno greco di Siracusa, si allea con Roma in
funzione anticartaginese.
Come si vede è iniziata per Roma una fase militarmente più audace ed
aggressiva, alla cui base però non c'è una strategia precisa e organica di
espansione. A spingere in questa direzione sono in gran parte i nobili
campani, entrati (come si è visto) a fare parte del Senato romano e
favorevoli da sempre a una politica aggressiva verso il sud Italia.
· 261: Roma si arma della sua prima flotta da guerra e affronta la sua
avversaria sul mare: celebre vittoria di Milazzo (260) ma anche molte
sconfitte: la guerra comincia a pesare a Roma e a perdere consensi (sia tra
il popolo, che come si è visto è la vittima principale dei conflitti di
lunga durata, sia tra i senatori, non tutti favorevoli a essa sin
dall'inizio - segno questo dei differenti indirizzi politici che stanno
prendendo la classe nobiliare e quella dei plebei ricchi). Resta, in ogni
caso, l'entusiasmo romano per i successi ottenuti sul mare.
· 256: riprendendo il sogno di Pirro e di molti tiranni siracusani, Atilio
Regolo (della famiglia campana degli Atili), si reca in Africa nella
speranza di portare a termine la guerra e di sconfiggere il nemico sul suo
stesso terreno. L'impresa sarà un insuccesso e, pur nella sua audacia,
un'azione insensata che causerà ingenti perdite ai romani.
Oramai non si può più tornare indietro, dopo tanti anni di guerra la posta
in giuoco non può più essere solo la Sicilia: in base alle spese sostenute
da ambo le parti, la guerra deve concludersi con una vittoria definitiva di
una potenza sull'altra. Ciò in base al principio antico, secondo il quale la
guerra deve autofinanziarsi, ovvero coprire le proprie spese, attraverso i
suoi stessi successi militari! Inizia perciò in questi anni a delinearsi la
prospettiva di un conflitto 'totale' tra le due potenze.
L'episodio di Regolo è indicativo inoltre di una certa immaturità della
classe dirigente romana nell'affrontare problemi e conflitti più vasti, più
ad ampio raggio rispetto a quelli del passato.
· La guerra si sposta di nuovo in Sicilia, proseguendo fino al 241; la
fortuna di Roma è che le alleanze greche in Sicilia reggono nel corso di
tutto il conflitto; in patria invece, dopo tanti anni di guerra, la
situazione è molto più critica. Per alcuni anni si ricorre anche a una
dittatura (Atilio Catalino); nel 241 si ha la definitiva vittoria romana,
nella battaglia contro Annone delle isole Egadi: Roma ottiene una notevole
indennità di guerra, la Sicilia e la restituzione degli ostaggi. Nonostante
la vittoria però, questa impresa le è costata molto in termini di risorse
economiche.
La pace che segue è quindi chiaramente da intendersi come una tregua: le due
potenze sono pronte infatti a fronteggiarsi nuovamente, anche se dopo un
periodo di riassestamento.
b) Le guerre in Italia
Dopo essere stata impegnata sul fronte mediterraneo, Roma si concentra ora
su quello italiano, pensando a consolidare i suoi confini contro i molti
nemici interni.
Nel 238 attacca i Cartaginesi in Sardegna, ottenendo la cessione dell'isola
assieme alla Corsica.
Successivamente si sposta nel nord della penisola, dove i Celti
costituiscono ancora una minaccia per i territori settentrionali, liberando
le regioni attorno alla valle Padana e iniziando una vasta opera di
romanizzazione di quelle zone.
Una delle ragioni per cui riesce tanto facile a Roma la conquista delle
isole occidentali è il fatto che i Cartaginesi, dopo la prima guerra punica,
cercano di espandersi nei territori iberici piuttosto che su quelli
italiani. In questo modo, oltre a limitare l'estensione romana in quelle
zone, essi riescono a ridare nuova linfa al proprio Impero e a prepararsi a
sferrare un nuovo attacco contro Roma! Ciò conferma come inevitabilmente il
conflitto tra le due potenze rimanga aperto, pronto a esplodere nuovamente
negli anni futuri.
c) Le guerre illiriche
Roma tuttavia non intraprende missioni militari soltanto all'interno della
penisola italiana. Assolve anche a una missione di pulizia dei mari
adriatici dalle orde dei pirati illirici (per favorire gli interessi
economici di alcune città-stato italiche, appartenenti alla sua coalizione),
che la porta a scontrarsi militarmente con il regno Illirico (nella zona
balcanica), dal momento che esso vive essenzialmente di pirateria.
Si deve poi tener conto del fatto che tale regno gravita nell'orbita della
Macedonia, e che quindi Roma attaccandolo, distruggendone la flotta e
creando (228) un principato formalmente autonomo ma gravitante in realtà
nella sua sfera d'influenza, va a intaccare gli interessi macedoni,
creandosi così un nuovo potenziale nemico.
Si pongono quindi in questi anni i presupposti del conflitto macedone, che
porterà un ulteriore sviluppo romano verso est!
Come si può facilmente vedere, dunque, vengono poste in questo periodo -
attraverso le imprese belliche di cui abbiamo parlato - le basi stesse del
futuro imperialismo romano, anche se ciò avviene in un modo che potremmo
definire inconsapevole e involontario.
Per tentare di esemplificare tale processo possiamo utilizzare questo
schema:
1° - GUERRE DI DIFESA DEI TERRITORI ->
2° - ESTENSIONE DEI CONFLITTI ATTRAVERSO IL COINVOLGIMENTO DI ALTRE POTENZE
(dovuto all'intromissione di Roma nella sfera dei loro interessi) ->
3° - NUOVE GUERRE E CONSEGUENTE ACQUISIZIONE DI NUOVI TERRITORI
2) Come cambia Roma (264-228)
Abbiamo già visto la trasformazione sociale d'insieme. Ora vediamola più in
dettaglio, nella sua relazione con gli eventi specifici di questi anni.
- La decisione della guerra
L'entrata in guerra contro i cartaginesi è oggetto di discussione (265) sia
all'interno del Senato - diviso tra i favorevoli e i contrari - sia tra la
plebe.
A spingere decisamente per la guerra sono i consoli, espressione della plebe
ricca, e per convincere i comizi popolari a partecipare ad essa le
prospettano lauti e facili guadagni. (Si noti che la plebe in questi anni
non ha ancora individuato nell'ampliamento territoriale e nelle ricchezze
derivanti da esso la strada per supplire alla condizione di depauperamento
che la affligge: essa perciò non è ancora - come spesso invece sarà negli
anni futuri - incondizionatamente favorevole alle campagne militari).
Anche parte del Senato non si esprime a favore della guerra, e ciò mostra
come le due strade politiche, quella della plebe (cavalieri) e quella del
patriziato, comincino a divergere.
Tuttavia Appio Claudio fa di tutto per far esplodere il conflitto e,
innescando un processo a cui difficilmente si può sfuggire, costringe i
romani a combattere una guerra che non trova tutti concordi.
- Roma alla fine di queste guerre
Alla fine del conflitto con Cartagine Roma è stremata: ed è la plebe la
principale vittima di questa lotta, che l'ha costretta a trascurare le sue
terre e i suoi profitti, e a sacrificare parte dei propri prodotti per il
sostentamento dell'esercito.
Depauperamento significa poi ampliamento dei confini cittadini e
inasprimento del problema sociale.
Il Senato, da parte sua, è spaventato dalla massa sempre crescente di plebei
che popolano Roma, rendendola tra l'altro sempre più ingovernabile
attraverso le istituzioni tradizionali.
Non è poi un caso il fatto che, proprio in questi anni, si collochi una
riforma in senso democratico dei Comizi centuriati, attraverso la quale si
rende meno influente il voto delle fasce più ricche della popolazione.
Ma, nonostante tali misure, la fame di terre rimane e rende inquiete le
masse, che si appoggiano per le proprie rivendicazioni a figure politiche
che, come nel caso di Gaio Flaminio, fanno delle esigenze popolari il
proprio cavallo di battaglia.
Queste la azioni politiche più rilevanti di Gaio Flaminio:
· propone, senza successo, di estendere il territorio romano alla zona del
Piceno (già colonia romana) al fine di distribuirne alla plebe le terre,
come risarcimento per i danni subiti dalla guerra.
(Dopo un simile provvedimento, la situazione diventerebbe ancora più
ingovernabile per il Senato: un ulteriore ampliamento dei territori che
cadono sotto la diretta giurisdizione di Roma e un aumento di potere del
'popolo minuto' minerebbero difatti il suo predominio politico!
L'opposizione senatoria quindi, contesta la proposta facendola cadere).
· Nel 218 appoggia una proposta di legge che proibisce ai senatori di
possedere grandi navi da trasporto, favorendo e sanzionando la nascita di
una classe di grandi commercianti plebei (i 'cavalieri') in opposizione - ma
anche complementare - rispetto al ceto agrario nobiliare.
· Inoltre, nobile e senatore come Appio Claudio, egi guida come console le
guerre contro i Celti e fa costruire una grande strada (via Flaminia), che
favorisca la mobilità delle persone e delle merci.
3) La seconda guerra punica (219-202) e la guerra macedone (200-188)
La seconda guerra punica è caratterizzata, rispetto alla prima, da uno
spostamento del conflitto verso la Spagna e l'Italia settentrionale (e anche
verso quella meridionale).
Rispetto ad essa inoltre, è più chiaro che l'intento dei due avversari è
oramai la distruzione reciproca.
Questa guerra si concluderà con la sconfitta definitiva di Cartagine,
ridotta ormai rispetto a quella romana a una potenza subordinata.
Ma questo conflitto risveglia anche i vecchi attriti tra Roma e l'impero
Macedone di Filippo V, il quale - non a caso - si alleerà con Cartagine in
funzione anti-romana.
Roma risponderà a tale alleanza prendendo le difese delle città greche, che
lottano per preservare la propria indipendenza da Filippo V. Aiutando
l'insurrezione greca, Roma ottiene inoltre il vantaggio di impegnare la
Macedonia su un altro fronte e di renderla innocua su quello Mediterraneo.
Subito dopo la fine del conflitto contro Cartagine (202), il senato romano
decide di attaccare (200) la Macedonia, coinvolgendo in questa nuova guerra
tutta la compagine dei regni ellenistici.
Al termine di questa seconda impresa, Roma si troverà a essere così
'padrona' anche sull'Oriente, diventando un Impero a tutti gli effetti.
a) Gli eventi della seconda guerra punica
· Nel 219, Annibale (generale cartaginese) pone l'assedio a Sagunto, città
sotto il protettorato di Roma, determinando così il casus belli; anche nel
caso di questo conflitto però, non tutti a Roma sono favorevoli.
Il piano di Annibale e di Cartagine è quello di portare la guerra in Italia
attraverso le Alpi (come effettivamente farà), e lì di scardinare la
compagine romana (cosa che sui tempi lunghi riuscirà in parte a fare) per
limitare la potenza di Roma sul piano internazionale, riacquisendo il ruolo
di potenza egemone.
Roma invece imposta la guerra su due fronti: in Spagna e in Italia. Suo
obiettivo è di tagliare le gambe al nemico sul territorio iberico (da dove
provengono tutte le sue risorse militari) e fare quadrato di fronte alle
invasioni italiche.
Col tempo Annibale arriverà fino nel sud d'Italia, ma la guerra in Spagna
sarà fondamentale per vincere il conflitto!
· Annibale in Italia: sconfitta del 217 dei Romani sul lago Trasimeno e
dilagare del nemico nella penisola.
A Roma viene instaurata la dittatura di Fabio Massimo (senatore di parte
aristocratica), il quale elabora e mette in atto la strategia bellica che
sarà utilizzata sul fronte italico, strategia consistente - più che in
scontri frontali col nemico - in lunghe manovre di logoramento. Tale
strategia verrà seguita nel corso di tutto il conflitto in Italia.
In questo periodo inoltre il Senato, approfittando della situazione
particolarmente difficile, riuscirà a prendere in mano le redini della
guerra, ponendo così i presupposti del suo futuro monopolio
politico-militare.
A questo punto però, le risorse dello Stato già non bastano più a finanziare
la guerra, e si è perciò costretti a ricorrere ai finanziamenti di alcuni
privati cittadini particolarmente ricchi, ovvero di alcuni esponenti della
prima classe di censo: inizia così, in questi anni, l'affermazione a livello
finanziario della classe dei cavalieri, i quali col tempo acquisiranno
pressoché totalmente il monopolio sugli appalti statali.
· 215: Viene stipulata un'alleanza tra l'Impero cartaginese e la Macedonia
di Filippo V in funzione anti-romana. Filippo attacca i territori balcanici
(l'Illiria) di Roma, mentre quest'ultima reagisce alleandosi con la lega
Etolica, in rivolta da tempo contro la dominazione politica macedone.
Roma dunque combatte ora addirittura su due fronti. In tal modo tuttavia,
essa allontana il pericolo di un attacco congiunto di Cartaginesi e
Macedoni.
Nel frattempo in Spagna i due Scipioni portano avanti un'opera di
indebolimento del fronte cartaginese. Verranno uccisi entrambi dal nemico
nel 211.
· 211: Sulla scia dell'indignazione popolare viene eletto proconsole della
Spagna Publio Cornelio Scipione, che presto diverrà (dopo l'ormai
vecchissimo Fabio Massimo) il nuovo leader della guerra, portandola a
compimento in favore di Roma. In pochi anni il giovane generale risolverà la
situazione in Spagna, mettendo i nemici con le spalle al muro.
· 205: Roma stipula una pace con la Macedonia.
· 204: Publio C. Scipione detto Africano porta la guerra fino in Africa,
dove nel 202 porta a termine la guerra, decretando inoltre la fine di
Cartagine come stato autonomo e il ridimensionamento drastico dei suoi
territori.
Quella portata avanti dagli Scipioni - come quella di Appio Claudio o di
Gaio Flaminio prima di loro - è e sarà sempre una politica aperta e protesa
verso il futuro, disposta ad assecondare i cambiamenti strutturali, sociali
e culturali in atto (celebre ad esempio è la diffusione, dovuta agli
ambienti degli Scipioni, della cultura greca in Roma). Ma come tale essa
sarà anche fortemente invisa ai senatori.
Così gli Scipioni, pur guadagnandosi il plauso generale della plebe,
accumuleranno nei propri confronti anche l'ostilità degli ambienti nobiliari
più tradizionalisti, un'ostilità che esploderà alla fine della guerra
macedone. Vedremo tra poco più in dettaglio questo episodio, assieme a ciò
che esso nasconde.
b) Gli eventi della guerra macedone
La guerra macedone è il primo vero atto imperialistico di Roma: essa non
nasce difatti solo da necessità di difesa e consolidamento dei propri
territori, trovando la propria origine e la propria giustificazione anche
nelle ambizioni di natura espansionistica della classe dirigente romana.
Vedremo meglio più avanti quali siano le ragioni della scelta espansiva
sistematica di Roma.
Questi i fatti essenziali della guerra contro Filippo V:
· 200: il Senato decide di attaccare la Macedonia. La ragione di tale
decisione sta, oltre che nelle nuove ambizioni territoriali romane, anche in
un rimescolamento delle sfere d'influenza tra gli stati ellenistici,
rimescolamento dovuto a una temporanea debolezza dell'Egitto dopo la morte
del sovrano. Con ogni probabilità, si teme un crollo di quel sistema di
alleanze che è stato favorito con la pace del 205, e sul quale dovrebbe
fondarsi la sicurezza dei possedimenti orientali di Roma.
Gaio Quinzio Flaminino sarà il protagonista della politica orientale di
questi anni. Imbevuto di cultura greca, il suo obiettivo è quello di
tutelare l'indipendenza delle città-stato greche, esercitando però allo
stesso tempo un protettorato romano sull'area interessata, ricavandone
ovviamente anche dei vantaggi di carattere economico-politico!
Flaminino rappresenta, al pari di Scipione, la Roma 'nuova' dei cavalieri,
interessati fondamentalmente a sviluppare e a estendere una vasta rete
commerciale e favorevoli a instaurare dei rapporti di collaborazione con gli
altri Stati: insomma una Roma aperta al nuovo e propensa più a una politica
basata su equilibri e mediazioni, che non su un imperio di tipo
tradizionale.
Una tale politica, seppure basata anche su considerazioni di natura
pragmatica, non è comunque scevra di un certo idealismo di fondo, legato
soprattutto al fascino esercitato su Roma dalla più antica e superiore
cultura greco-orientale. Forte è dunque, come già si diceva prima,
l'affinità tra Flaminio e il circolo degli Scipioni.
Ma Roma ha anche, nella Macedonia, un grande nemico, il quale tende a
ostacolare i suoi interessi espansionistici in quelle zone, mostrandosi
riluttante a piegarsi al suo predominio.
· 196: Flaminino sconfigge l'esercito macedone nella battaglia di
Cinoscefale, costringendo Filippo a rispettare l'indipendenza greca. Una
tale azione è un chiaro esempio del tipo di progetto che Flaminino vuole
portare avanti, progetto che coniuga le istanze autonomistiche greche con
quelle di dominio e di protettorato di Roma sulle regioni orientali.
Ma i veri problemi per Roma iniziano proprio a partire da tale successo
militare. Per essere coerente con il suo programma, infatti, Flaminio vuole
una Grecia libera, guidata diplomaticamente da Roma, senza che alcun
esercito si insedi sul suo territorio.
Attraverso questo piano però (pur per certi versi economicamente molto
vantaggioso) non sarà possibile tenere la situazione realmente sotto
controllo.
· Il 194 dimostra la precarietà della situazione orientale: la lega Etolica
chiama Antioco (re di Siria) in aiuto contro quella Achea.
A sedare quest'ennesima rivolta verrà mandato perciò non più Flaminino ma
Scipione l'Africano, nelle cui capacità tutti ripongono fiducia. Questi, con
una campagna militare conclusa nel 188, ridimensiona la potenza siriaca
trovando in Rodi e Pergamo (due piccoli regni ellenistici) gli alleati della
propria politica d'espansione.
Egli avrà inoltre un'idea di dominio un po' diversa rispetto a quella di
Flaminino: il suo progetto infatti non consisterà tanto nel sorvegliare e
controllare l'intera compagine ellenistica esercitando un semplice
protettorato sulle città greche. Egli sceglierà piuttosto di intrattenere
dei rapporti diretti e quasi personali con i regni orientali [si vedrà, nei
prossimi anni, come i poteri personalistici e clientelari trovino, anche al
livello dei rapporti internazionali, un grande rigoglio e un notevole
ampliamento], sviluppando in tal modo un complesso sistema di alleanze
internazionali.
Tuttavia, pochi anni dopo quest'ennesimo successo politico e militare e il
successivo glorioso ritorno in patria, Publio Scipione Africano verrà
destituito dal Senato: un evento questo apparentemente inspiegabile, le cui
ragioni sono in realtà da ricercare - come si vedrà qui di seguito -
nell'inizio di un nuovo tipo di politica da parte di quest'ultimo, tutta
tesa ad accentrare attorno a sè i poteri dello Stato.
4) Sviluppi interni: il monopolio politico del Senato
La trasformazione di Roma da semplice città-stato egemone in vero e proprio
impero mondiale comporta inevitabilmente tutta una serie di stravolgimenti
all'interno della sua struttura sociale, stravolgimenti che cercheremo di
delineare qui avanti.
Diciamo subito che tali cambiamenti rendono sempre più obsolete le antiche
concezioni politiche dei 'patres', e con esse il Senato come istituzione
guida di Roma. Ma notiamo anche come proprio in questi anni si consolidi la
supremazia e diremmo anche l'egemonia senatoria su Roma, e ciò ovviamente a
prezzo di un inevitabile scollamento tra le forze politiche e il resto della
popolazione.
Vediamo ora di riassumere per punti tali interne trasformazioni sociali:
- ingigantirsi del ruolo del commercio (in gran parte schiavile), dovuto
alle guerre;
- importanza dei ceti alto-plebei (cavalieri) come sostegno finanziario
dello Stato nelle guerre;
- tendenza verso la trasformazione dell'esercito da realtà cittadina
(diritto/dovere comune) a realtà professionale (non è infatti possibile
essere buoni cittadini e contemporaneamente affrontare guerre che durano
magari degli anni lontano da casa);
- nuovo rapporto tra masse e potere: non si può più governare in modo
diretto l'intera cittadinanza romana (sia interna che esterna), dal momento
che il suo numero è divenuto ormai enorme;
- crescita dei poveri e dei diseredati, ovvero di un problema che trova una
risposta solo nelle ricchezze provenienti dalle conquiste esterne.
Riguardo a quest'ultimo punto, sta proprio qui la ragione della crescita
imperialistica a oltranza: nel fatto che questa sia l'unica possibile
soluzione per far fronte al problema del costante aumento delle masse dei
poveri, aumento dovuto tra l'altro alle molte guerre e a una distribuzione
alquanto diseguale delle ricchezze!
Anche il reclutamento nell'esercito sarà poi uno strumento di impiego per le
masse degli emarginati.
Ma la crescita territoriale e quella finanziaria concorrono anche a creare
una realtà più mobile e più dinamica, che mal si adatta alle concezioni
oligarchiche patrizie.
E da una tale trasformazione si deve partire per capire la reazione
'anti-borghese' del Senato romano, che lo porta ad azioni eclatanti come le
accuse di immoralità e di frode fiscale ai danni dello Stato rivolte contro
l'Africano, accuse in seguito alle quali quest'ultimo sceglierà di ritirarsi
a vita privata abbandonando la politica attiva (184).
Se, insomma, questi anni vedono una espansione territoriale verso l'esterno
davvero impressionante, vedono anche all'interno dello Stato l'accentramento
dei poteri politici attorno al Senato. Un ripiegamento questo, che ci
ricorda l'originaria condizione di quest'ultimo di casta al di sopra di ogni
potere particolaristico che possa metterla in discussione. (Un tale
strapotere senatorio non tarderà ad avere poi delle ripercussioni anche
sulla politica estera, come vedremo nel prossimo paragrafo).
Oltre all'azione giudiziaria contro gli Scipioni - nonchè implicitamente
contro tutta la classe politica alto-plebea - avranno luogo in questi anni:
- un provvedimento per immoralità contro i culti dionisiaci (colpevoli in
realtà di esprimere e dare sfogo allo scontento delle classi povere e di
essere quindi pericolosi focolai di rivolta sociale), banditi e repressi per
legge;
- la legge Bebia (179) che concilia l'esigenza di avere una costituzione
maggiormente articolata (in particolare per governare le nuove
regioni-province: Spagna [divisa in due parti], Sardegna e Sicilia) con
quella senatoria di accentramento del potere, attraverso il principio della
rotazione delle cariche.
In conclusione, possiamo dunque riassumere come segue l'evoluzione interna
di Roma dopo la vittoria contro la Macedonia di Filippo V:
· Si assiste in questi anni a una prima forma di imperialismo consapevole di
Roma, dettata dalla volontà di estendere il proprio potere e i propri
territori: un proposito che trova origine nella "volontà di potenza romana"
(esaltata dalle recenti vittorie) ma anche nel bisogno di rispondere alla
crisi sociale, e negli interessi economici delle classi alte, soprattutto in
quelli della classe commerciale dei cavalieri.
· La classe patrizia diviene egemone in politica (ne è esempio il modo in
cui essa si disfa di Scipione Africano), pur non rispecchiando più al tempo
stesso da sola tutti gli interessi e le pulsioni della società romana: in
questi anni avviene sì il suo trionfo, ma vi sono anche i primi segni di un
suo scollamento politico dal tessuto sociale!
Il Senato resterà dunque un'indiscussa autorità politica che, arroccata sui
suoi privilegi, governerà con pugno di ferro sia Roma che le sue province.
Sarà la nascita dell'Impero sotto Ottaviano a segnare la sconfitta di questo
tipo di politica e dei suoi ideali, oramai palesemente inadatti a gestire la
nuova situazione, caratterizzata da un numero sempre maggiore di territori e
di persone da amministrare, da una maggiore mobilità a livello commerciale.
dall'impossibilità insomma di un dominio - in stile nobiliare-arcaico - a
senso unico e senza mediazioni (adatto invece a governare una regione più
piccola e con un'economia fondamentalmente agricola).
5) L'oriente secondo il Senato, la guerra conclusiva contro Cartagine (146)
- Il dominio diretto del senato sulle colonie-regioni
Abbiamo già visto la linea 'morbida' di governatorato usata dai romani, al
tempo di Flaminino e Scipione, sulle regioni conquistate.
In Africa ci si appoggia al re di Numidia Massinissa: 'gendarme' della
potenza cartaginese per conto di quella italica.
In Asia invece Scipione ha posto le basi per un governatorato indiretto,
fondato essenzialmente sulle alleanze e sull'influenza esercitata dai
generali romani sui vari regni ellenistici.
Ma questi metodi 'aperti' non si confanno alla mentalità senatoria, poco
incline alle novità o ai patteggiamenti e diffidente nei confronti delle
altre culture (una delle principali ragioni di ostilità verso gli Scipioni è
infatti la corruzione dei costumi antichi, il fascino 'esterofilo' e
filo-greco che essi esercitano).
Per questa ragione, la fine di Scipione Africano come leader asiatico
decreterà anche una decisa svolta a livello di politica estera.
Inizierà così una fase politica alquanto reazionaria, basata sulla spietata
repressione militare dei territori conquistati e sulla pratica antica
dell'alleanza del governo di Roma con le classi nobiliari locali, in
funzione ovviamente anti-popolare e anti-democratica; ed infine, sullo
sfruttamento economico e politico delle colonie.
Una tale politica autoritaria del 'pugno di ferro' si esplicherà poi in
tutte le direzioni:
- a nord, verso le zone incolte dei Celti (che verranno forzatamente
urbanizzate e romanizzate);
- a sud, in Africa, dove la città di Cartagine nel 146 verrà bruciata
distrutta e maledetta;
- a est, dove nel 171 i tentativi di ribellione della Macedonia verranno
stroncati da Emilio Paolo, e quest'ultima successivamente ridotta prima a
potenza autonoma ma divisa in quattro regioni indipendenti, poi ricompresa
sotto il dominio diretto di Roma.
- Infine, come atto conclusivo, anche la Grecia riceverà il suo
avvertimento: sempre nel 146, la città ribelle di Corinto sarà assediata e
distrutta dalle truppe imperiali, un chiaro segnale lanciato ai
particolarismi e alla varie Leghe che si contendono la Grecia.
CONCLUSIONI
A seguito della poderosa estensione territoriale e delle trasformazioni
sociali che ne derivano, si sviluppano in questi anni delle nuove forze
sociali, alternative ai tradizionali ceti di governo nobiliari
(politicamente rappresentati dal Senato). Parliamo ovviamente dei ceti
commerciali e finanziari, oltre che di quelli militari.
Tali forze - i cui interessi si distinguono sempre di più da quelli del
Senato e della nobiltà terriera (pur senza entrare ancora con essi in un
rapporto di vera e propria contrapposizione) e che trasformano lo Stato
arcaico 'di contadini e di guerrieri' in una struttura socialmente più
complessa e stratificata (comprendente ad esempio i ceti medi e bassi, il
proletariato urbano e quello rurale.) - finiscono inevitabilmente per minare
quell'assoluto predominio nobiliare che aveva caratterizzato i decenni
precedenti.
L'insorgere di nuovi problemi, di nuovi risvolti sociali e di nuove tendenze
culturali e politiche, che cadono al di fuori degli orizzonti dei ceti di
potere più tradizionali, tende difatti ad offuscare l'egemonia politica ed
istituzionale di questi ultimi.
Tale tendenza sarà alla base della reazione posta in atto dal Senato -
soprattutto negli anni che seguiranno la fine della seconda guerra punica -
attraverso l'accentramento dei poteri dello Stato a scapito delle forze
sociali emergenti.
Assistiamo inoltre, in questo periodo, all'affermarsi di nuove attitudini in
campo politico, che si contrappongono evidentemente a quelle proprie
dell'oligarchia senatoria, e che rispecchiano una visione decisamente più
aperta, favorevole cioè - oltre che all'esercizio di un dominio a senso
unico nei confronti dei territori assoggettati e alleati - anche al
consolidamento dei poteri attraverso l'instaurazione di alleanze e di
equilibri politici.
Anche questo secondo aspetto, di carattere anzitutto culturale, costituirà
un elemento di tensione e di contrasto all'interno della società romana.
Basil Liddell Hart, Scipione Africano, ed. BUR, Milano 2002
G.P. Baker, Annibale, Dall'Oglio Editore, Milano 1968
B.H. Warmington, Storia di Cartagine, Torino 1968
A. Momigliano, Annibale politico, in Quinto contributo alla storia degli
studi classici e del mondo antico, I, Roma 1975
G. Brizzi, Studi di storia annibalica, Faenza 1984
S. Moscati, Il tramonto di Cartagine, ed SEI, Torino
L'OLIGARCHIA SENATORIALE ED IL SUO TRAMONTO
Introduzione
Il periodo di storia romana trattato in questo paragrafo si estende dagli
anni delle riforme graccane fino ai primi imperi personalistici di Mario e
di Silla, arrivando a toccare l'inizio del consolato di Pompeo.
A differenza del periodo delle guerre puniche esso ruota essenzialmente
attorno agli eventi interni, dal momento che - come si vedrà - un'importanza
solo marginale vi rivestono le guerre contro i nemici esterni.
Roma è impegnata in un gigantesco sforzo di riassestamento organizzativo, di
ridefinizione delle proprie strutture politiche, come conseguenza dei
profondi mutamenti sociali e strutturali introdotti dall'ampliamento
territoriale dei decenni precedenti.
Non a caso, secondo gli storici, il secondo secolo è quello in cui giunge a
compimento la trasformazione di Roma da semplice città-stato a Impero a
tutti gli effetti, sia a livello territoriale sia a livello economico
giuridico e politico.
Mentre gli anni compresi tra le guerre contro Cartagine (culminanti nella
distruzione di questa nel 146) sono infatti caratterizzati da un enorme
incremento territoriale, quelli seguenti (culminanti nella rivoluzione di
Ottaviano) sono segnati dalla lotta per il potere tra due opposte fazioni
politiche: quella oligarchica senatoria e quella popolare.
Ogni trasformazione, non solo sociale, implica un tramonto e un'alba,
qualcosa che muore e qualcosa che sorge. In questo periodo di profondi
cambiamenti, assistiamo dunque al declino dell'oligarchia senatoria e,
contemporaneamente, all'affermazione progressiva di poteri di tipo
personalistico ad essa antagonistici.
Cominciamo con il fare il punto sul Senato. Le trasformazioni interne e
esterne hanno determinato esigenze profondamente nuove nella gestione dello
Stato.
Il Senato (o meglio la parte più illuminata di esso) tenta in qualche modo
di 'aggiornarsi' rispetto alla nuova situazione, per arginare il dilagare
delle forze antagonistiche e rimanere quindi l'istituzione centrale.
Tuttavia appare evidente l'impossibilità di tale cambiamento. Esso infatti,
nella sua radicalità, finirebbe per snaturare la sostanza stessa di una
istituzione che, in quanto oligarchica e nobiliare, si basa sul principio di
eguaglianza tra pari (residuo, proprio delle caste, dell'antico spirito
gentilizio) e sul dominio, esercitato da questi in modo unidirezionale, nei
confronti della società.
Questo sforzo, in gran parte contraddittorio, di conservazione e di
rinnovamento appare evidente in tutta la sua complessità nella figura di
Silla, ultimo esponente di spicco dell'oligarchia senatoria (anche se tale
sforzo rimane incompreso: Silla verrà infatti guardato con sospetto dai suoi
stessi colleghi, i senatori).
Nonostante il Senato, all'inizio di questo periodo, sia ancora l'autorità
politica suprema in Roma (essendo riuscito tra l'altro, attraverso strategie
politico istituzionali, ad ampliare ulteriormente il raggio della propria
influenza sul sistema delle cariche istituzionali e di governo) esso
apparirà già con Pompeo un'istituzione in profonda crisi, la cui
supremazia - non più indiscussa - è minata da nuove forze politiche che
premono sotto la cenere.
Analizziamo ora i grandi mutamenti, in gran parte interconnessi, che stanno
minando il predominio politico di un tale istituto. Sul piano sociale questi
appaiono i fattori più rilevanti:
a) la tendenza all'aggravamento della questione agraria;
b) i conflitti sempre più evidenti tra gli interessi senatori e quelli degli
equestri (= cavalieri);
c) le aspirazioni sociali e economiche, ormai indipendenti da quelle della
classe dominante, delle masse popolari;
d) le rivendicazioni politiche dei popoli alleati a Roma (genericamente gli
Italici);
e) la trasformazione graduale dell'esercito in esercito di professionisti;
f) il notevole incremento degli schiavi (dovuto in gran parte alle recenti
guerre puniche e orientali), e il conseguente sviluppo di un'economia
schiavile: soprattutto per il lavoro nei campi.
Sul piano politico, invece, si afferma la tendenza (che verrà
successivamente sanzionata da Ottaviano, con la trasformazione di Roma in
Impero) verso l'affermazione di poteri personalistici. (Non a caso, la
storia di questi anni è, dall'inizio alla fine, caratterizzata da conflitti
e lotte per il potere tra singoli individui).
E' questo tipo di politica a minare l'autorità senatoria, e a decretarne più
tardi la fine.
Storia di Roma dai Gracchi fino al consolato di Pompeo e Crasso
1- Il riformismo dei Gracchi
1-1 La situazione socio-politica
Per comprendere l'azione riformistica dei Gracchi è necessario conoscere più
in dettaglio il contesto politico e sociale in cui essa si sviluppa.
Sul piano politico, assistiamo in questi anni ad un ulteriore chiusura in se
stessa della classe senatoria. E' sempre più difficile, per gli esterni,
entrare a fare parte del Senato: ad esso accedono soltanto gli appartenenti
a famiglie nobili, ovvero a quelle famiglie che già annoverano almeno un
magistrato al proprio interno.
Inoltre la struttura politica e istituzionale di Roma è delineata in modo
tale che le singole magistrature siano essenzialmente delle tappe di un più
ampio cursus honorum, culminante con l'assunzione nel Senato.
Se a questo si aggiunge che quest'ultimo è l'unico elemento di stabilità
all'interno di una costituzione basata sull'annualità e la non iteratività
delle cariche, è facile capire come esso eserciti - in concreto -
un'autorità pressoché assoluta su Roma.
Le Assemblee plebee inoltre, da sempre voce del popolo, perdono gradualmente
la loro antica carica rivoluzionaria.
Le guerre infatti allontanano gran parte della plebe rurale da Roma, e ciò
fa sì che soltanto la plebe cittadina abbia la possibilità di partecipare ai
comizi.
Tuttavia - come noto - nelle città molto è estremamente diffusa la pratica
clientelare. Il proletariato cittadino, essenzialmente una classe che vive
alle spese dei potenti, diventa dunque per questi uno strumento di potere
attraverso la pratica del voto concordato.
La plebe dunque, smettendo di affermare i propri interessi peculiari, decade
a mero strumento politico nelle mani dei suoi patroni, i quali (come si è
appena detto) dipendono a loro volta dal Senato per il proprio cursus
honorum.
Mentre istituzionalmente si assiste al consolidamento delle più antiche
strutture, a livello sociale si verifica un consistente cambiamento su tutti
fronti:
- le guerre hanno depauperato molti cittadini medi e moltissimi piccoli
contadini;
- l'afflusso continuo di schiavi (il cui utilizzo si diffonde per altro a
tutti i livelli sociali!) rende sempre meno necessario il lavoro libero nei
campi [è l'inizio dell'economia schiavile, in special modo di quella
agricola];
- quest'ultimo fattore alimenta ovviamente il divario fra poveri e ricchi,
quindi la crescita del latifondismo e il fenomeno concomitante
dell'inurbamento della plebe contadina, oppure il suo impiego nell'esercito;
- la plebe stessa tende a dividersi in due realtà differenti, nonchè
latentemente antagonistiche: quella rurale e quella urbana;
- i cavalieri, che vivono di commercio e di appalti pubblici, sono sempre
più spesso in dissidio con i senatori, più favorevoli di solito a politiche
di carattere conservativo anziché a politiche espansive;
- infine, le popolazioni alleate, gli Italici, sempre più vessati dal
governo centrale, rivendicano una maggiore possibilità di partecipazione a
livello politico (contro l'esclusivismo della classe dirigente di Roma).
E' in questo contesto che si inserisce la lotta, operata dai Gracchi e dal
loro partito, in favore dei diritti dei ceti più svantaggiati.
1-2 L'azione dei Gracchi (133-122)
a) Introduzione
Come noto, quelle dei Gracchi sono tra le figure più discusse e controverse
dell'intera storia romana. Non è facile esprimere un giudizio definitivo su
personaggi così complessi, né è possibile farlo in poche righe di testo.
Tentando un bilancio delle loro vicende politiche, si può dire tuttavia che
essi, con grande lungimiranza, abbiano individuato i limiti strutturali e
profondi della società romana, e cercato di porvi rimedio attraverso nuove
leggi.
Nessuno dei due riesce a far approvare i propri progetti e a vederne la
definitiva affermazione, ma ciò non deve stupire: il Senato infatti, sebbene
sia già entrato in crisi, non è comunque sufficientemente indebolito da
permettere ai suoi avversari di minare seriamente il proprio predominio.
Le loro intuizioni però - soprattutto quelle del secondo - diverranno dopo
la loro morte temi fondanti della politica repubblicana, pur essendo sempre
contaminate da intenzioni demagogiche, né venendo inserite mai più in un
programma di riforma organica della società romana.
b) Tiberio Gracco
Esponente di quella nobiltà 'illuminata' che è consapevole della necessità
di un cambiamento strutturale, il giovane tribuno Tiberio Gracco propone nel
133 una riforma finalizzata a una ridistribuzione più equa delle terre
dell'ager publicus.
Tale proposta, subito osteggiata dal Senato, in realtà non ha in sé nulla di
rivoluzionario: è anzi ispirata al periodo arcaico della storia romana, nel
quale non si era ancora creato un eccessivo divario tra i piccoli e i grandi
proprietari.
Tiberio vuole che le terre pubbliche (ovvero le terre confiscate dai romani
ai loro alleati e divenute di proprietà dello Stato, e da esso affittate a
singoli cittadini) vengano ridistribuite in base a criteri di maggiore
equità: egli stabilisce a 125 ettari il limite massimo di terreni
assegnabili al singolo individuo, e propone di ridistribuire le eccedenze in
lotti di circa otto ettari ai proletari urbani che abbiano perduto le loro
terre (e in seconda istanza anche ai proletari rurali).
Egli inoltre, come risarcimento per gli espropriati, propone che questi
divengano proprietari a tutti gli effetti (cioè senza il dovere di pagare
l'imposta dell'affitto allo Stato) dei territori occupati.
Il Senato tuttavia, mostrando tutti i limiti di una classe abituata a
esercitare il proprio imperio senza compromessi, rifiuta la proposta
facendola cadere con l'aiuto del secondo tribuno, Ottavio.
E' a questo punto che l'azione di Tiberio subisce effettivamente una svolta
rivoluzionaria, che fornirà ai suoi nemici un valido pretesto per
distruggerlo.
Tiberio accusa Ottavio di aver tradito il suo mandato nei confronti del
popolo, non riflettendone più gli interessi, e propone (sulla base di un
principio non costituzionale) di sospenderne il mandato politico. Una simile
proposta però non può non suonare come una sfida al Senato, anche per la sua
incostituzionalità.
Assieme a essa poi, egli avanza un'altra proposta. Avendo Roma ereditato
recentemente, dopo la morte del re Attalo, il regno di Pergamo (il quale,
come si è visto, ruota attorno all'orbita d'interessi romani), chiede che la
gestione delle terre acquisite sia affidata al popolo. Anche questo si
scontra con le consuetudini dello Stato romano, fatto che il Senato non
manca di rilevare al fine di delegittimare Tiberio.
Tiberio viene abbandonato difatti dai suoi alleati moderati, spaventati
dall'idea di un attentato contro lo Stato. E' la sua fine: ormai rimasto
senza sufficienti appoggi politici per proseguire la sua azione, e giunto
alla fine del suo mandato - che non può rinnovare (non essendo consentita in
Roma l'iteratività delle cariche) - si trova del tutto isolato.
Verrà ucciso poco dopo da una congiura senatoria (capeggiata da un suo
stesso cugino, Scipione Nasica) nel 133.
Nonostante la sua parabola politica duri complessivamente meno di un anno,
egli è riuscito ugualmente in così poco tempo a rivoluzionare la strategia
politica anti-senatoria romana.
c) Gaio Gracco
Nel 125 un esponente del partito graccano, il console Fulvio Flacco, avanza
un'altra proposta rivoluzionaria, la concessione della cittadinanza romana
agli italici.
La proposta cade nel vuoto, non incontrando i favori del Senato, mentre la
città di Flegelle viene addirittura distrutta per essersi ribellata.
La stessa proposta tuttavia verrà ripresa pochi anni dopo da Gaio Gracco,
fratello di Tiberio e suo principale erede politico.
Rispetto a Tiberio, l'azione di Gaio Gracco si inquadra in un piano molto
più vasto, che coinvolge non soltanto la plebe, ma tutti gli strati sociali
i cui interessi siano almeno potenzialmente ostili alla classe dei senatori.
Tra di essi troviamo: il ceto dei cavalieri romani, e in genere quello
commerciale non solo romano, i proletari rurali assieme alla plebe
cittadina, e gli Italici.
L'orizzonte del suo intervento si allarga dunque a tutto il mondo italico (e
oltre, come vedremo), uscendo così dai limiti ormai angusti dei territori
romani.
La sua azione politica si estende poi su un arco di due anni, avendo
ottenuto il tribunato il principio dell'iteratività delle cariche. Ciò lo
renderà più temibile del fratello.
Le fasi salienti della vicenda politica di Gaio sono:
- 123: Gaio avvicina a sé il ceto equestre, con una legge che ne favorisce
la libera iniziativa nelle colonie orientali, minando il predominio politico
dei senatori. Propone inoltre una legge frumentaria, per accattivarsi le
simpatie delle masse cittadine.
E' l'inizio di una nuova stagione politica, basata sull'alleanza tra il
proletariato e la classe equestre in funzione anti-senatoria, politica i cui
esiti saranno però sempre incerti, data la facilità della seconda nel
cambiare partito schierandosi con i senatori.
Gaio ha tuttavia intuito le potenzialità di questa strategia, che rimarrà
anche in futuro una costante della politica repubblicana.
Sempre nel 123 egli propone di dare l'avvio a una nuova stagione di
deduzione (ovvero di fondazione) di colonie sia in Italia sia fuori, in
particolare a Cartagine. Il suo progetto è quello di fare della città
fenicia non solo la residenza di cittadini romani depauperati, ma anche uno
scalo marittimo che ravvii l'economia dei ceti commerciali romani e italici.
E' importante osservare come, accanto al tradizionale programma di
collocamento dei romani espropriati delle terre, vi sia qui una nuova
attenzione sia verso gli interessi commerciali dei cavalieri, sia verso le
nuove prospettive internazionali e globali di Roma.
Per tutti questi motivi, la proposta di Gaio non può essere ben accetta ai
senatori, favorevoli - coerentemente con quelle stesse tradizioni da cui
essi traggono il proprio mandato politico - a conservare Roma come una
città-stato, e molti restii a fare propria una prospettiva
"internazionalistica". Questo episodio mostra chiaramente come il Senato,
rimasto ancorato a una dimensione di tipo locale e regionale, segni oramai
il passo rispetto ai tempi nuovi.
Il trasferimento di cittadini con diritti romani non solo fuori dal
territorio di Roma ma anche fuori dall'Italia, significherebbe infatti
ampliare immensamente il territorio che cade sotto la giurisdizione
dell'Urbe. E significherebbe inoltre togliere a essi il diritto di esprimere
le proprie preferenze politiche, rendendoli così in pratica cittadini solo
formalmente.
Nonostante alcuni risvolti negativi del proprio progetto politico, Gaio
dimostra qui una notevolissima lungimiranza. Egli difatti intuisce e
prefigura con esso quella che entro pochi decenni sarà la dimensione
politica dell'Impero romano: cioè una dimensione addirittura mondiale.
Il merito dei Gracchi, del resto, come già si è detto, è proprio la capacità
di cogliere i punti di debolezza strutturali del vecchio sistema, e
individuarne al tempo stesso delle possibili soluzioni!
- 122: Essendo stato rieletto tribuno, Gaio ripropone - anche se
modificandola lievemente - la legge sull'estensione della cittadinanza agli
Italici proposta da Fulvio Flacco nel 125, e assieme ad essa un nuovo
sistema di votazione nei comizi tributi che alleggerisce il peso delle
classi di censo più alte.
E' chiara l'intenzione di ridimensionare il potere dei senatori e delle
istituzioni tradizionali (sia attraverso la legge sulla cittadinanza, sia
con quella elettorale).
Il Senato reagisce usando le stesse armi di Gaio: ovvero facendo ricorso, in
modo demagogico, alla voce del popolo. Agitando alla plebe urbana lo spettro
della condivisione dei privilegi agrari con quella rurale e con le
popolazioni italiche, riesce a far perdere consensi a Gaio. Per riparare
alla penuria di terre rilancia poi l'idea della deduzione delle colonie: ben
12, ma nella sola penisola italiana.
Usando armi simili a quelle del tribuno, dunque, esso riesce a togliere
terreno alla sua politica.
Gaio non verrà rieletto tribuno nel 121 e, trovandosi completamente solo,
sarà perciò costretto a rifugiarsi sull'Aventino. Lì si farà uccidere da un
servo, per sfuggire alla persecuzione del Senato, che - attraverso una
speciale misura repressiva - lo ha dichiarato sovvertitore dell'ordine dello
Stato e equiparato quindi ad un fuorilegge.
Nonostante anche la parabola politica di Gaio (come, prima di lui, quella di
Tiberio) sia di breve durata, essa avrà un'influenza forse ancora maggiore
rispetto a quella del fratello sulle strategie politiche popolari degli anni
successivi. Ciò per aver egli intuito sia le potenzialità politiche
dell'alleanza tra i plebei ricchi (equestri) e a plebe urbana, sia per aver
compreso e favorito la nuova dimensione globale di Roma - laddove Tiberio
invece si era limitato a proporre una ridistribuzione delle terre demaniali,
ispirata in gran parte al periodo arcaico.
CHI ERA TIBERIO SEMPRONIO GRACCO
Tiberio Sempronio Gracco era figlio di un buon plebeo e nipote del grande
Scipione l'Africano, noto per le sue idee democratiche. Quando venne eletto
tribuno della plebe, nel 133 a.C., non aveva comprato neanche un voto, e si
era già distinto nell'assedio di Cartagine e nella guerra in Spagna, ed era
stato un irreprensibile questore. (1)
Tornato in Italia, Tiberio Gracco si rende conto che il paese era
socialmente allo sfascio, in quanto i nobili si erano impadroniti
illegalmente di immensi terreni dell'agro pubblico, approfittando delle
lunghe assenze in patria dei contadini-soldati.
Anticamente lo Stato suddivideva i campi conquistati tra i soldati, ma le
continue guerre avevano finito con l'arricchire solo chi era già ricco,
facendolo diventare un grande latifondista. Erano i debiti a rovinare i
piccoli proprietari.
Roma si era riempita di ex proprietari rifugiatisi in città per vivere di
espedienti o di clientelismo; restando in campagna sarebbero divenuti coloni
di un ricco proprietario che al massimo li avrebbe pagati con l'ottava parte
del raccolto. Oppure avrebbero fatto la vita del bracciante, il che era
peggio che fare lo schiavo, in quanto non si aveva alcuna garanzia sul vitto
e l'alloggio.
Influenzato dalle idee di due filosofi stoici, Diofane di Mitilene e Blossio
di Cuma, Tiberio Gracco progetta una riforma di legge che non permetta di
possedere più di 250 ettari di terra, dimodoché il surplus avrebbe dovuto
essere ridistribuito in lotti inalienabili di sette ettari ciascuno, il
minimo per far sopravvivere una famiglia.
La riforma agraria viene approvata dal popolo con uno storico plebiscito. Ma
un collega di Gracco, il tribuno Marco Ottavio, latifondista e "uomo di
paglia" degli aristocratici, gli pone il veto, che è vincolante.
La plebe non ci sta e, pur essendo il tribuno inviolabile per legge, cioè
inamovibile finché in carica, rifà le votazioni e lo depone. E' un atto
illegale e i latifondisti ne approfittano accusando Tiberio Gracco di
demagogia e di autoritarismo.
Gracco tuttavia non si preoccupa e chiede che tutte le ricchezze derivanti
da nuove conquiste siano destinate al finanziamento dei nuovi piccoli
proprietari.
Anzi, decide addirittura di ricandidarsi al tribunato della plebe l'anno
successivo, cosa che avrebbe potuto fare solo dopo dieci anni.
Ora i nobili lo accusano esplicitamente di aspirare alla corona, di voler
eliminare tutti i tribuni, di aver dato molte terre ai suoi parenti: un suo
amico muore avvelenato.
I nobili tramano un colpo di mano e i partigiani di Tiberio si armano alla
meglio. La sproporzione delle forze in campo è troppo sfavorevole al
tribuno, che viene linciato insieme ad altri 300 seguaci.
Lo Stato vieta il lutto e perseguita i "complici" del tribuno ancora vivi:
Diofane è chiuso in un otre con le vipere; Blossio va in oriente, dove
morirà tentando una rivoluzione.
Dodici anni dopo Caio Gracco, fratello di Tiberio, riprenderà la stessa
riforma agraria e farà la stessa fine.
Saranno anche queste mancate riforme a determinare il passaggio dalla
repubblica all'impero.
[1] Ovviamente qui bisogna dare per scontato che il senso della democrazia
(sociale, politica ecc.) che poteva avere un romano non era mai visto in
contrasto con le mire imperiali della propria civiltà.
MARIO, L'UOMO NUOVO
IL TRAMONTO DELL'OLIGARCHIA SENATORIA
a) Introduzione
Erede immediato della politica dei Gracchi e del loro partito è Gaio Mario,
un uomo la cui figura pubblica è indissolubilmente legata a quella
dell'esercito.
La sua vicenda politica è densa di incoerenze. Egli è infatti
fondamentalmente un demagogo, un uomo che 'si è fatto da sé' (da cui
l'espressione, che lo stigmatizza, di 'homo novus'), sfruttando ogni
occasione buona per elevarsi, attraverso i propri meriti militari, fino al
rango senatorio e diventare - lui, che pure proviene da una famiglia
equestre - il politico più in vista di Roma.
Rispetto ai Gracchi (figure di impronta rivoluzionaria e idealista) egli ci
appare decisamente più pragmatico e realista.
D'altronde il suo rapporto con le masse popolari è più che altro
strumentale, come dimostra il fatto che quando avrà bisogno di farlo, non
tarderà a tradire la loro causa!
Nonostante ciò, Mario è comunque un uomo ostile al Senato e alle vecchie
istituzioni politiche, che come tale darà un grosso contributo al loro
indebolimento.
Per questa ragione può essere considerato un democratico, erede della linea
ideologica e politica dei Gracchi.
b) La guerra numidica e la conquista del potere
La carriera politica di Mario ha inizio nel 107, quando egli viene eletto
console e trasferito in Numidia, per portare avanti la guerra contro
Giugurta, al posto del patrizio Metello.
Giugurta è il re della Numidia, lo stato a cui Roma, alla fine della guerra
contro Cartagine, aveva assegnato il compito di presidiare le sue nuove
conquiste africane, ed è figlio di Massinissa, il precedente sovrano.
Appare necessario ora riassumere brevemente gli eventi che precedono
l'azione di Mario.
Le ragioni della ritrosia del Senato a impegnarsi direttamente in Africa
stanno probabilmente nella decisa volontà senatoria di non ampliare i
confini territoriali dell'impero, volontà la cui origine sta nella paura di
perdere il controllo della situazione a vantaggio delle nuove forze sociali
emergenti, quali ad esempio i ceti finanziari e borghesi.
Pur essendo Roma difatti 'padrona' di tali territori, ha preferito affidarne
la difesa a Giugurta, uomo di cui si fida (anche per una precedente
partecipazione alle campagne romane in Spagna, accanto a Scipione Africano).
Tuttavia nel 112 il sovrano numidico si ribella alla potenza dominante,
assediando e distruggendo Cirta, una città abitata da cittadini italici e
adibita a scopi commerciali.
A questo punto l'intervento è d'obbligo, anche per la reazione indignata
dell'opinione pubblica di Roma. Nel 111 il Senato manda un suo uomo,
Metello, a condurre il conflitto. Questi ottiene in due anni dei buoni
risultati, ma insufficienti comunque a concludere il conflitto.
Nel 107 l'opposizione anti-senatoria scaglia perciò l'offensiva, proponendo
Mario (uomo di origini equestri, anche se vicino agli ambienti nobiliari)
come console e generale della guerra in Numidia.
La sequenza di vittorie di Mario - per la verità preparate dalla campagna
precedentemente condotta da Metello - è impressionante: in due anni egli
riesce a chiudere favorevolmente il conflitto.
Sarà l'inizio della sua brillante carriera politica, alla cui base stanno
appunto la gloria militare e il prestigio che ne deriva.
E' d'obbligo a questo punto fare alcune osservazioni su Mario e su Roma.
Prima di tutto bisogna osservare quali sono le innovazioni militari
introdotte da Mario, e in secondo luogo le implicazioni di queste sulla
struttura sociale romana.
Sul piano militare, Mario dà inizio a una pratica di arruolamento basata,
anziché sulle classi di censo (in uso sin dai tempi della monarchia, anche
se progressivamente la fascia di censo ammessa nell'esercito si era sempre
più estesa includendo un sempre maggior numero di plebei), sulla leva
volontaria.
Ad entrare nell'esercito sono principalmente i proletari, e soprattutto i
proletari rurali: la maggior parte della plebe urbana infatti sopravvive,
come si è detto, attraverso quei rapporti clientelari che sono attuabili
soltanto in un contesto cittadino!
Ma lo svilupparsi degli eserciti mercenari o professionali ha anche
implicazioni enormi sulla struttura sociale e democratica di Roma.
Se infatti la partecipazione attiva alla guerra era stata salutata dalla
plebe del VI secolo come una grande conquista politica, essendo essa segno
di considerazione sociale e di partecipazione alla vita della collettività,
ora al contrario la riduzione dell'esercito a una mera classe di
volontari/mercenari, interessata più che alle implicazioni politiche del
proprio ruolo alla semplice paga ricevuta per le proprie prestazioni, è
segno (e al tempo stesso determina) di un notevole scollamento di gran parte
della popolazione romana dai problemi riguardanti la gestione dello Stato e
della collettività.
Insomma, il formarsi di eserciti professionali legati - anche
psicologicamente - più al proprio generale che alla collettività, sarà alla
base dei futuri sviluppi autoritari della politica repubblicana, che
diventerà col tempo sempre più scontro tra poteri personalistici armati!
Sono evidenti in questo i segni della fine imminente della Res-publica,
intesa non soltanto come dominio del Senato, ma anche come dimensione
cittadina e democratica, quindi popolare.
c) Le guerre contro Teutoni e Cimbri e la politica di Saturnino
Subito dopo la guerra numidica, che gli ha fruttato moltissimi consensi
politici, Mario è impegnato in un nuovo conflitto in Provenza e nel nord
Italia, per fermare l'avanzata di due popolazioni germaniche: i Teutoni e i
Cimbri.
Questa guerra, durata ben 4 anni (dal 104 al 101), vede un ulteriore
affermazione del condottiero romano (chiamato tra l'altro dal Senato stesso,
vista l'incapacità dei precedenti generali a risolvere la situazione) cui
viene riconfermato il consolato per quattro anni di seguito.
Sulla scia dei successi politico-militari di Mario, il tribuno della plebe
Lucio Saturnino tenta - tra il 103 e il 100 - un attacco contro l'autorità
costituita.
Saturnino propone varie leggi, tutte di matrice popolare e populista, in
funzione anti-senatoria:
· una legge giudiziaria che istituisce un tribunale permanente contro i
crimini di tradimento verso lo Stato;
· una legge frumentaria (per la distribuzione dei viveri nella città) volta
a cattivarsi le simpatie della popolazione cittadina;
· e ben due leggi agrarie (103, 100) per l'assegnazione di terre ai veterani
delle campagne di Mario, nei luoghi dove essi hanno combattuto: in Gallia e
in Numidia.
Si noti come questo progetto richiami la proposta di Gaio Gracco di fondare
colonie romane fuori d'Italia, e costituisca quindi una chiara provocazione
per il Senato.
Ma Saturnino commette errori imperdonabili nel valutare la reale
disponibilità dei suoi alleati a seguirlo.
La plebe urbana difatti, non contenta perché gelosa dei favori dispensati
all'esercito (che si identifica in gran parte con la plebe rurale, spesso
italica), non appoggia con eccessivo calore il progetto di assegnazione
delle colonie.
Il Senato invece - messo in allarme dalla violenza dei tumulti popolari,
alimentati in realtà dallo stesso Saturnino - si affretta a correre ai
ripari con misure repressive.
I cavalieri infine, a loro volta in allarme per il timore di una deriva
rivoluzionaria che sarebbe destabilizzante per lo Stato e per i loro stessi
interessi, abbandonano il partito popolare e si schierano coi senatori.
E sarà proprio Mario - ispiratore della riforma, ma anche figura
profondamente ambigua - ad accettare di guidare, su richiesta del Senato, la
repressione dei moti popolari, eliminando inoltre lo stesso Saturnino e il
suo alleato Glaucia.
d) La questione italica e le guerre sociali
Tuttavia i problemi di Roma non riguardano soltanto la città, ma anche i
rapporti con gli alleati (socii) italici.
L'unità politica e militare della penisola ha infatti favorito con gli anni
uno sviluppo notevole delle forze produttive e di quelle commerciali, grazie
alle guerre ma anche grazie alle opere pubbliche (ad esempio la rete
stradale). Accanto agli equestri romani si sviluppa così un ceto equestre
italico, che ha stretto spesso col primo rapporti affaristici o ha comunque
affinità di vedute e di interessi.
Ma parallelamente cresce anche l'esosità della macchina statale, ovvero le
richieste finanziarie e militari della capitale ai centri municipali
italici.
Roma in più perdura in un atteggiamento di netta superiorità rispetto ai
propri alleati, non concedendo loro - con la sola eccezione della classe
nobiliare, alleata nella gestione dei territori sottomessi - molti diritti
politici, tra cui la cittadinanza e i vari privilegi a essa legati.
Questa situazione crea profondi attriti, rimasti però fino ad ora (con la
sola eccezione di Flegelle, nel 125) ancora inesplosi.
Se il Senato può usare la demagogia nei confronti delle masse romane (le cui
aspirazioni politiche non possono oramai più essere ignorate) per
allontanare la rivolta sociale, sarebbe costretto a fare concessioni anche
alle popolazioni italiche per calmarne gli animi.
Non sempre però vi è tra i senatori una lungimiranza sufficiente per seguire
una tale politica. Ne sono esempio le riforme di Licino e Crasso del 95, che
ostacolano, anziché agevolarlo, l'accesso degli italici alla cittadinanza
romana.
Sulla scia opposta si colloca la riforma di Druso, senatore moderato e
illuminato, favorevole a fare concessioni alle nuove classi al fine di
rafforzare e conservare il potere senatorio.
Druso propone essenzialmente due riforme:
· la concessione della cittadinanza agli italici;
· e l'allargamento del Senato da 300 a 600 membri, con l'inclusione in esso
dei ranghi più alti della classe equestre (quelli la cui politica entra meno
in dissidio con quella del patriziato romano).
Questa proposta verrà tuttavia bocciata, anche per l'opposizione di molti
esponenti della classe dei cavalieri, per nulla favorevoli all'idea di dare
voce soltanto a quelli tra loro che abbiano il censo più alto.
Druso viene assassinato nel 91, l'anno stesso della sua tentata riforma.
Ma le sue proposte non hanno mancato di risvegliare le aspirazioni politiche
degli italici, i quali l'anno seguente (90) si armano contro la potenza di
Roma. E' l'inizio della guerra sociale o guerra italica.
Essa costituisce la terza impresa bellica di Mario, il quale viene chiamato
nel 90 per piegare la Federazione italica.
E anche se la sua vittoria non segna la fine del conflitto, che verrà
portato a termine da Pompeo Strabone (padre del futuro Pompeo Magno), dal
momento che il Senato non gli rinnova l'incarico militare, costituisce
comunque il passo decisivo di Roma verso la vittoria.
Al termine della guerra gli Italici saranno costretti ad arrendersi e a
consegnare le armi, con la promessa in cambio della cittadinanza romana.
Gli effetti di questa guerra saranno devastanti per Roma per svariati ordini
di motivi:
- le conseguenze destabilizzanti che avrà sulla classe dirigente;
- i disastrosi riflessi economici (tra l'altro perché - oltre a portare
ovunque devastazioni - non comporta, a differenza delle precedenti, alcun
bottino e quindi non si autofinanzia) sull'economia della penisola italiana;
- il momento stesso in cui essa viene combattuta. (Proprio in questo periodo
infatti è iniziato il conflitto ai confini orientali dell'impero contro il
sovrano del Ponto Mitridate).
Figura di grande fascino storico, per la lungimiranza e la capacità di
comprendere i mutamenti profondi in atto nel suo tempo, Silla è tuttavia
anche un personaggio profondamente ambiguo e contraddittorio.
La contraddizione di fondo della sua azione - che ne costituisce però anche
l'originalità - sta nel tentare di arginare le forze antagonistiche al
Senato adoperando i loro stessi mezzi.
In questo modo, se da una parte egli riesce a ottenere una temporanea
riaffermazione di quest'ultimo (dovuta soprattutto alla sua forte
personalità), dall'altra la sua azione è la dimostrazione lampante
dell'arretratezza della classe senatoria rispetto ai tempi nuovi. E'
sintomatico di questa situazione il fatto che nell'arco di tutta la sua
carriera egli si scontri con la diffidenza dei suoi stessi alleati.
Silla costituisce comunque l'ultima personalità di spicco della classe
senatoria, e le sue imprese sembrano quasi il 'canto del cigno'
dell'oligarchia e dei suoi valori.
b) La guerra mitridatica e la prima guerra civile
Mentre in Italia si combatte la guerra sociale, in Oriente si è aperta già
da un pezzo la questione mitridatica.
Mitridate, re del Ponto, regno situato nei pressi di Pergamo e della
Bitinia, insedia già da tempo questi territori minando così la supremazia
romana in quella zona.
La politica da tenersi in tale frangente è uno dei molti (nonchè dei
principali) motivi di dissidio tra il Senato e i cavalieri.
Questi infatti propendono per una politica aggressiva e una soluzione
militare della questione (tra di essi ovviamente troviamo lo stesso Mario);
i senatori invece, coerentemente con la decisione di non farsi coinvolgere
in nuovi conflitti all'esterno, propendono per una soluzione che sia il più
pacifica possibile.
I cavalieri inoltre hanno molti interessi commerciali nella zona in
questione, e per questo non vogliono certo che essa sia sottratta al dominio
di Roma.
La situazione precipita quando Mitridate (88) fa massacrare un numero
imprecisato di mercanti italici residenti nella zona del Ponto. Si impone
allora una risposta militare da parte di Roma.
Il Senato assegna a Silla la provincia asiatica e il compito di ristabilirvi
la pace, risolvendo il conflitto con Mitridate.
A Roma intanto, sull'onda dell'indignazione popolare per la strage avvenuta
ai danni degli Italici, si sta riformando (sotto la guida di Sulpicio Rufo)
una alleanza politica tra cavalieri e popolari, che comprende in sé anche
gli Italici. Alla sua testa si pone, una volta di più, Mario.
Obiettivo immediato di tale coalizione è di trasferire a quest'ultimo la
conduzione delle operazioni militari in Asia.
Sarà proprio il dissidio su chi debba condurre questa nuova impresa militare
a far esplodere la prima guerra civile.
Silla infatti, deciso a non mollare una preda tanto ghiotta, prospetta al
proprio esercito quale perdita di guadagni comporterebbe il fatto di cedere
il campo a Mario e al suo esercito, convincendolo così a marciare su Roma:
un'azione tanto estrema da risultare del tutto inaspettata ai nemici, e che
perciò li coglie di sorpresa e li costringe alla fuga.
E' l'88, e Silla ritorna immediatamente in Oriente per combattere la sua
campagna, lasciando Roma nelle mani dei consoli Ottavio e Cinna.
L'anno seguente si ha tuttavia la violentissima vendetta dei popolari, i
quali tornati a Roma si riappropriano della città mettendola a ferro e fuoco
e giustiziando sommariamente molti esponenti dell'oligarchia.
Nell'86 poi, il consolato passerà nelle mani di Mario (che muore lo stesso
anno) e di Cinna (il quale si è alleato ora con la parte popolare).
Quest'ultimo manterrà il potere fino all'84, anno in cui verrà assassinato.
Egli perseguirà una politica responsabile di riconciliazione, volta al
ristabilimento della pace e dell'equilibrio interno (non si dimentichi che
due guerre a brevissima distanza di tempo, quella sociale e quella civile,
avevano piegato Roma finanziariamente ed economicamente) mirando a
riavvicinare ai popolari i senatori più moderati e assumendo un
atteggiamento attendista nei confronti di Silla, ancora impegnato in
Oriente.
c) Il ritorno di Silla e la seconda guerra civile; le riforme dell'82
Ma l'omicidio di Cinna (84), a opera dei suoi stessi soldati, stravolge
nuovamente la situazione, determinando una svolta intransigente all'interno
del movimento popolare.
Proprio per questo il ritorno di Silla dopo la campagna in Oriente (nel
corso della quale ha sconfitto Mitridate, costringendolo alla resa e a
pagare una forte ammenda, e ha sedato una rivolta in Atene) determina la
seconda guerra civile.
Sbarcato a Brindisi nell'83 difatti, Silla tenta una riconciliazione con i
popolari, ma inutilmente.
Tale fallimento segna l'inizio di un'altra guerra intestina, ancora più
sanguinosa della prima, dal momento che essa coinvolge questa volta anche le
popolazioni italiche.
Il generale patrizio pensa subito a guadagnarsi i favori di buona parte dei
municipi italici, garantendo loro il rispetto dei diritti precedentemente
acquisiti e prospettando un'alleanza tra ceti dirigenti romani e ceti
dirigenti locali (promessa che - come vedremo - verrà rispettata!)
Subito dopo la vittoria della guerra (82) inoltre, Silla instaurerà una
dittatura in Roma (della quale è ormai virtualmente padrone assoluto)
portando avanti un programma di riforme costituzionali volte a riaffermare
il predominio del Senato.
Il suo intento è proprio quello di rafforzare l'autorità e il dominio
politico delle antiche istituzioni romane, al fine di rafforzarne la
centralità e prevenire così il sorgere di poteri personalistici (dei quali
paradossalmente il suo è stato proprio uno degli esempi più eclatanti!).
Tali riforme - ispirate alla proposte fatte da Druso circa dieci anni
prima - consisteranno essenzialmente in:
- un ampliamento della base senatoria, con l'introduzione degli equestri e
degli italici (come del resto aveva loro promesso);
- una drastica diminuzione dei poteri dei tribuni, cui viene tolto il
diritto di veto e proibita l'assunzione di altre cariche politiche;
- l'aumento del numero dei pretori (magistrati di rango immediatamente
inferiore ai consoli, deputati ad amministrare le colonie) al fine di una
migliore distribuzione delle cariche, contro il loro possibile accentramento
in poche mani.
Accanto a queste riforme, egli opera poi la confisca di molti terreni
(soprattutto campani) che assegna poi ai veterani del proprio esercito.
Nell'80 si ritira infine a vita privata in Campania, dove muore poco dopo.
Non amato dagli altri senatori - che non lo capiscono -, dopo la sua morte
saranno le forze più tradizionali a riprendere il potere. Esse tuttavia
manterranno fondamentalmente intatte le modifiche da lui apportate
all'assetto istituzionale.
Fino al 70, l'anno del consolato di Crasso e di Pompeo, tali forze
deterranno il predominio politico in Roma, cercando senza successo di
estirpare i germi rivoluzionari antioligarchici.
CONCLUSIONI
Al termine del processo di estensione territoriale costituito dalle guerre
puniche (conclusosi a metà del II secolo) si affermano in Roma sempre più
chiaramente due indirizzi politici opposti tra loro:
- da una parte vi è quello, più conservativo, del Senato e della nobiltà
terriera, spaventata all'idea delle possibili conseguenze di un'ulteriore
estensione territoriale.
Un tale processo di 'mondializzazione' infatti, renderebbe sempre meno
governabili attraverso le antiche strutture senatorie i territori
dell'Impero, favorendo inoltre l'affermazione a livello politico dei ceti
plebei: sia di quelli finanziari, sia di quelli popolari (i primi attraverso
l'estensione dei mercati e degli appalti legati a guerre di conquista, opere
pubbliche, ecc.; gli altri invece attraverso l'impiego nelle fila degli
eserciti, divenuti oramai realtà di tipo professionale);
- dall'altra parte troviamo invece l'indirizzo politico (che col tempo
finirà per prevalere) sostenuto dai ceti equestri, decisamente più aperto a
una politica militare e di estensione territoriale.
Dal momento inoltre che una tale politica d'ampliamento richiede un uso
sempre più massiccio delle forze armate, assistiamo in questi anni a una
progressiva trasformazione di queste ultime in strumenti di potere e di
imposizione anche a livello politico, in funzione ovviamente anti-senatoria.
(Fatto che trova una chiara dimostrazione nella vicenda personale di Mario
e - anche se ciò può sembrare paradossale - in quella di Silla).
Un altro problema col quale lo Stato deve sempre più fare i conti è la
presenza di vaste masse dei diseredati, di coloro cioè che sono rimasti
privi di terre e di sostanze proprie, i quali - alla meglio - si riciclano
impiegandosi negli eserciti, oppure si riversano nelle città, dove vivono di
espedienti a spese dei cittadini più ricchi (secondo l'antica pratica
clientelare).
La lotta contro un tale piaga sociale costituirà la 'bandiera' politica
soprattutto dei Gracchi, i quali con i propri tentatativi di riforma
costituzionale cercheranno di dare una svolta positiva alla situazione in
atto.
Nonostante inoltre la fine indecorosa sia di Tiberio sia di Gaio, le loro
idee - soprattutto quelle del secondo - ispireranno le strategie politiche
dei popolari anche nei successivi decenni.
CICERONE
Marco Tullio Cicerone (Arpino 106 a.C. - Formia 43 a.C.) nasce da una
famiglia equestre benestante ma sconosciuta, in quanto lontana dai palazzi
romani dove si fa politica.
A Roma frequentò, in vista della carriera politica e giudiziaria, i maggiori
oratori del tempo. Cercò anche di farsi una cultura filosofica e letteraria
seguendo le lezioni dei maggiori interpreti delle varie scuole di pensiero
greco presenti nella capitale tra il 90 e l'80, proseguendo gli studi
direttamente in Grecia e in Oriente dal 79 al 77, al seguito di Antioco di
Ascalona e di Posidonio di Rodi.
Fu proprio in Grecia che maturò l'adesione al genere oratorio detto appunto
"rodio", nonché l'ideale di una cultura enciclopedica, accademica, per lo
più eclettica e sicuramente anti-epicureista.
Andò in Grecia subito dopo aver difeso in tribunale, nell'80, un certo
Roscio di Ameria, accusato di parricidio da un protetto del dittatore Silla.
E' infatti sotto la dominazione di Silla che il giovane avvocato comincia a
fare carriera. In quegli anni l'aristocrazia, potentissima, abusava
enormemente del proprio potere; le sue rappresaglie, dopo la fine di Mario,
furono molto cruente (duemila teste di cavalieri e senatori erano appena
state tagliate), potendo sfruttare l'espediente delle proscrizioni,
inventato da Silla, che permetteva di legalizzare l'assassinio.
Roscio non era che uno sventurato ridotto sul lastrico dalle spoliazioni dei
partigiani di Silla, e siccome era stato accusato d'aver ucciso il padre,
nessuno voleva difenderlo.
Lo fece il giovane Cicerone, che facilmente poté dimostrare l'assenza di
prove e che dietro l'accusa si nascondeva uno dei più potenti liberti di
Silla, il ricco e dissoluto Crisogono.
Cicerone lo accusa senza mezzi termini e, con lui, il regime di Silla. Il
successo della requisitoria fu tale che Cicerone entrò subito nelle grazie
del partito democratico. Tuttavia, per sicurezza, col pretesto d'un
aggiornamento culturale, se ne andò appunto ad Atene. Poi per fortuna nel 78
muore Silla.
Al suo ritorno sposò nel 77 Terenzia, che faceva parte, già da molti secoli,
della classe dirigente. Oltre alla nobiltà, Terenzia portava al marito una
cospicua dote: 100.000 sesterzi (qualcosa come 200.000 euro), alcuni poderi
e immobili a Roma.
Il successo per Cicerone non tarda ad arrivare: nel 75 ottiene la questura
di Lilibeo, in Sicilia, dove si distinse per la sua integrità; nel 70 assume
l'accusa di malversazione contro un ex-governatore della Sicilia, Gaio
Verre, che aveva letteralmente depredato l'isola, spogliandola delle opere
d'arte e che per questo e altri reati verrà costretto all'esilio.
Nel 69 diventa edile e nel 66 pretore. In quell'anno, in un'orazione, si
pronuncia in favore del trasferimento del comando della guerra contro
Mitridate da Lucullo a Pompeo.
La sua veloce carriera dipende anche dal fatto che riesce a scegliere con
grande oculatezza gli inquisiti da difendere: dovevano essere non
particolarmente invisi alla classe dominante e in grado di pagare favolose
parcelle (che potevano anche essere veri e propri lasciti testamentari: è
stato calcolato che alla sua morte, in 30 anni di carriera, Cicerone abbia
speso almeno 150 milioni di sesterzi, cioè circa 300 milioni di euro, di cui
si ignora la provenienza). (1)
Nel 64 ottiene il favore dei nobili per l'elezione a console, contro
Catilina. E infatti nel 63 viene nominato. Era talmente ben visto anche
dalla gente comune che pare non avesse speso nulla per la campagna
elettorale. Nessun uomo politico del suo tempo conquistò così facilmente le
più alte cariche: gli stessi Catone, Cesare, Pompeo ebbero bisogno di
coalizioni e di brogli per avere successo.
Le sue orazioni più famose restano quelle contro Catilina, capo del partito
popolare, reo di aver congiurato contro lo Stato. Esse rappresentano il
vertice dell'oratoria ciceroniana, ma anche l'inizio del declino della sua
carriera.
Sconfitto da Cicerone, Catilina viene bandito da Roma, poi sconfitto con le
sue truppe e ucciso in battaglia. Ma Cicerone vuole inspiegabilmente
infierire contro questo personaggio ordinando di giustiziare, senza regolare
processo, altri cinque suoi complici. (2)
Ne approfitta un tribuno della plebe, Clodio, che nel 58 riesce a far
passare una legge che condannava all'esilio chiunque avesse fatto uccidere
un cittadino romano senza la regolare sanzione del popolo. Cicerone lascia
Roma per Tessalonica e di lì per Durazzo. La sua casa sul Palatinato viene
distrutta.
Ma già un anno dopo, per decreto dei comizi, Cicerone può rientrare in
patria, pronunciando quattro discorsi contro i clodiani. Poi, con l'aiuto di
Catone Minore, fa in modo che il tribuno Milone, in una rissa sulla via
Appia, uccida a tradimento Clodio e massacri altri suoi parenti. Nel 52
Cicerone assume la difesa di Milone, ma inutilmente, perché la folla lo
costringe a fuggire.
Ormai si sente sempre più estraneo al partito democratico e sogna, senza
successo, di creare un nuovo partito, col favore di Cesare e Crasso e con
l'appoggio della classe equestre, cioè i cosiddetti "cavalieri" che traggono
fortuna, non avendo titoli nobiliari, direttamente dalle guerre e che
investono i loro capitali nei paesi conquistati, sfruttando al meglio il
privilegio d'essere degli industriosi cittadini romani. Infatti, ovunque
arrivino le armi romane, i cavalieri diventano banchieri, commercianti,
esattori delle imposte e finiscono con l'accumulare ingenti ricchezze.
Cicerone tenta di fare di questo nuovo ceto medio la base di quel partito
moderato che vuole creare. Tuttavia i cavalieri, questa borghesia ante
litteram, non hanno la forza del numero come i plebei (piccola borghesia,
operai, artigiani, contadini liberi), né quell'esperienza di governo che
hanno mantenuto così a lungo al timone la nobiltà.
I cavalieri sono istintivamente attratti più dalla ricchezza che dal potere
e preferiscono l'ordine alla libertà. Ecco perché ad un certo punto si
orienteranno decisamente verso Cesare.
All'insorgere della rivalità tra Cesare e Pompeo cercò, inizialmente, di non
prendere posizione. Tra l'altro nel 56 aveva proposto e ottenuto dal Senato
la conferma a Cesare del governo della Gallia.
Tuttavia, non si sentiva tranquillo. Il fatto stesso che cercasse
d'avvicinarsi al partito dei nobili lo rendeva inviso ai democratici. Sicché
alla fine del 52 accetta di andare a governare la provincia di Cilicia, in
Asia Minore, vasta e minacciata d'invasione dai Parti.
Nel 51 ottiene una piccola vittoria contro dei ribelli e chiede di essere
acclamato col titolo di imperator. Naturalmente ciò non ha alcuna
conseguenza politica e l'unica cosa certa di questo proconsolato fu che gli
fruttò ben 3.200.000 sesterzi (6.400.000 euro).
All'inizio del 50 è di nuovo in Italia e allo scoppio delle ostilità tra
Cesare e Pompeo decide di seguire quest'ultimo in Grecia. Una malattia però
gli impedisce di prendere parte alla battaglia di Farsalo (49).
Dopo la sconfitta, torna in Italia (47), consapevole che Cesare non
infierirà su di lui, a condizione ovviamente ch'egli si astenga dal fare
politica.
Infatti, durante la dittatura di Cesare egli si dedica esclusivamente agli
studi e alle pubblicazioni dei trattati retorici e filosofici, nonché
all'attività giudiziaria, in cui difende due personaggi ostili a Cesare.
In questi anni però si conclude anche il matrimonio con Terenzia che gli
chiede il divorzio per salvare i propri beni mobili e immobili insidiati dal
marito. Si risposa con la ricca Publilia, una ragazza più giovane di sua
figlia, che a 31 anni era morta di parto: lo fa semplicemente per pagare i
debiti del divorzio, infatti dopo pochi mesi la ripudia.
L'assassinio di Giulio Cesare nel 44 lo riporta alla ribalta, anche perché
Bruto lo esalta come vero democratico.
Ottaviano però, figlio adottivo del dittatore, è deciso a marciare con le
sue legioni su Roma per vendicare Cesare. Una folla di cittadini di vari
ceti sociali, tra cui forse lo stesso Cicerone, va incontro ad Ottaviano per
testimoniargli la propria devozione ed evitare un massacro.
Cicerone è convinto di poter trovare in Ottaviano un alleato contro Antonio
e lancia una serie di filippiche contro quest'ultimo, fatto passare come
erede del dispotismo cesariano. Senonché i due segretamente prendono
contatti con Lepido, uomo politico legato a Cesare, e formato un
triumvirato, con l'intenzione di far fuori tutti i nemici di Cesare. Nella
lista di proscrizione Cicerone è il primo. E' soprattutto Antonio, più che
Ottaviano, a volerlo morto.
Egli quindi decide di rifugiarsi nella sua villa di Astura, da dove potrebbe
imbarcarsi verso l'Oriente. Vi trascorre solo la notte. L'indomani s'imbarca
per Gaeta.
Lo raggiunge un distaccamento di soldati guidato da un tribuno di nome
Popilio, che ha ai suoi ordini un centurione, Erennio, che proprio Cicerone,
molto tempo prima, aveva difeso da un'accusa di parricidio. E' proprio lui
che taglia a Cicerone testa e mani e che le porta ad Antonio, il quale le fa
esporre ai Rostri, la tribuna del Foro romano, dove tante volte aveva
parlato l'oratore.
[1] Cicerone infatti sperperava tutti i suoi averi nell'esibizione di un
lusso smodato, che lo equiparasse all'alta società. I suoi redditi fondiari
si aggiravano sui 500.000 sesterzi l'anno (un milione di euro). Altri
redditi gli venivano dalle numerose "insule", case popolari, che aveva
acquistato a Roma e dato in affitto (non perdonò mai Cesare che aveva
condonato ai poveri un anno di affitti arretrati). Aveva sette ville fastose
il cui mantenimento gli costava più di quanto gli rendessero. (Qui si
suppone che un sesterzio valga circa due euro: vedi scheda)
Da un prestito da lui richiesto, nel 44, per il normale ménage familiare di
cinque mesi, risulta che spendeva 40.000 sesterzi al mese (80.000 euro), ma
con un potere d'acquisto di molto superiore. Il reddito di un artigiano
libero era di circa 10.000 sesterzi l'anno (20.000 euro). Cesare, che gli
prestò, in un'unica soluzione, ben 800.000 sesterzi al tasso di favore del
2,50% (metà di quello normale), non rivide più la somma. (torna su)
[2] Oggi la critica è molto meno severa nei confronti di Catilina, che viene
ritenuto al massimo un demagogo e certamente non un terrorista, come invece
vollero far credere Sallustio e lo stesso Cicerone e Catone Minore. Catilina
cercò di ottenere democraticamente per quattro volte l'elezione al consolato
e solo alla quinta pensò di forzare la mano, facendo chiaramente capire che
la direzione politica dell'impero andava tolta al senato e affidata a una
figura carismatica, in ciò anticipando quella che sarà la posizione di
Cesare, Marco Antonio e dello stesso Ottaviano.
Catilina fu un demagogo perché pensò di arrivare alla dittatura
politico-militare, servendosi dell'idea di condonare i debiti ai
piccoli-medi proprietari non in grado di pagarli. Ma l'idea di Cicerone di
tenere uniti i ceti con interessi contrapposti e soprattutto di tenere unita
la "toga" (il senato) colla "spada" (gli eserciti) era del tutto illusoria,
rispetto alla crisi drammatica della repubblica.
Cicerone voleva addirittura coinvolgere Cesare e Crasso nell'accusa di
tramare contro la legalità. Cesare infatti riteneva il caso dubbio e
preferiva l'esilio e la confisca dei beni alla condanna a morte. Ma poi
Cicerone, insieme a Catone Minore, disse di voler confermare la condanna a
morte "secondo il costume degli antichi", cosa che in realtà soltanto la
flagranza di reato, la confessione e un regolare processo suscettibile di
appello al popolo giustificavano: non a caso la pena di morte era stata
soppressa sin dal 195 a.C. per i cittadini romani.
Catilina fu costretto a lasciare Roma. Contro di lui, che disponeva solo di
2.000 seguaci, ben due generali con varie legioni furono inviati.
S. L. Utcenko, Cicerone e il suo tempo, Editori Riuniti, Roma 1975
K. Kumaniecki, Cicerone e la crisi della Repubblica romana, Roma 1972
G. Boissier, Cicerone e i suoi amici, ed. Rizzoli, Milano 1988
E. Narducci, Modelli etici e società. Un'idea di Cicerone, ed. Giardini,
Pisa 1989
E. Lepore, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda
repubblica, Napoli 1954
T. Colombi, Il segreto di Cicerone, ed. Sellerio
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