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LA DINASTIA
FLAVIA, NERVA, TRAIANO E GLI ANTONINI - I SEVERI
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LA STORIA DI ROMA FINO
ALLE PRIME INVASIONI BARBARICHE |
I FLAVI E IL CONSOLIDAMENTO DELL'IMPERO
Il nuovo assetto dell'Impero
L'attentato del 68 d.C. contro Nerone, l'ultimo esponente della
dinastia Giulio Claudia, segna l'inizio di un nuovo periodo di guerre
civili, periodo la cui estensione è tuttavia soltanto di un anno: il 69
infatti, a causa delle lotte intestine tra diversi condottieri per la
successione alla carica imperiale, vede l'avvicendarsi di ben quattro
diverse personalità.
Tale anno sarà ricordato perciò come l'anno dei quattro imperatori,
oltre che come uno dei più tormentati e sanguinosi dell'intera storia
romana.
All'origine della caduta del principato di Nerone, vi è il fatto che la
politica di quest'ultimo non riscuota l'approvazione né delle province
occidentali, né dell'aristocrazia senatoria romano-italica.
Essa infatti, spostando l'asse degli interessi dello Stato in direzione
delle regioni orientali (nonché delle loro tradizioni politico-culturali),
se da una parte reca offesa agli ideali dell'aristocrazia occidentale, tende
dall'altra a disinteressarsi pericolosamente di quelle nuove realtà
politico-economiche costituite dalle province europee occidentali (Spagna,
Gallia, Germania).
Il fatto poi che l'attentato contro Nerone parta da una di tali province (la
Spagna Terraconense), ci fa capire quanto sia forte il loro dissenso nei
confronti di tale politica, oltre che il grado di sviluppo economico e
politico cui esse sono giunte (e, di conseguenza, anche la loro
intraprendenza sul piano militare).
Dopo un periodo relativamente breve di lotte intestine, tra il 68 e il 69,
saranno i Flavi ad affermarsi come nuova dinastia regnante.
Con essi inizierà per l'Impero una nuova stagione, nel corso della quale se
da una parte verranno consolidate le strutture politiche e istituzionali
della più moderna amministrazione imperiale, dall'altra verranno elisi e
indeboliti gran parte dei privilegi politici del Senato e dell'antica
aristocrazia romana e italica (ovvero di quell'antica forza con la quale lo
stesso Augusto, ai suoi tempi e nella sua costruzione dell'Impero, aveva
dovuto fare i conti).
Ma il rafforzamento dell'apparato burocratico imperiale significa anche il
rafforzamento delle province, in quanto entità politiche tendenzialmente
autonome rispetto alle zone italiane, poiché dotate ormai di una loro
individualità, di una loro ricchezza e di un loro peso politico, e come tali
rivendicanti già da tempo maggiore considerazione e influenza all'interno
della compagine imperiale.
Mentre infatti le antiche forze senatorie tendevano a esercitare un dominio
a senso unico sui territori sottoposti, quelle della nascente
amministrazione imperiale tendono a riservare ad esse un maggiore spazio e
una più alta considerazione: e ciò sia per ragioni strutturali (l'Impero
essendo il risultato dell'unione di diversi stati e di diverse culture), sia
per ragioni pratiche (l'attuale estensione dei territori romani non permette
più infatti, almeno oltre un certo limite, un tale tipo di politica).
D'altra parte è proprio da queste ultime (più che dall'Italia) che prende
avvio la grande spinta di rinnovamento che determinerà prima la fine della
dinastia dei Claudii, e successivamente la lotta per l'affermazione - vinta
da Vespasiano - tra i quattro imperatori.
Al termine del dominio della dinastia Flavia - con la morte di Domiziano,
nel 96 - troveremo dunque un Impero più solido, con un apparato
istituzionale decisamente più articolato ed efficiente, una classe senatoria
in gran parte rinnovata (più mite quindi, nei confronti del potere
dell'imperatore e meno ostile alla sua politica di dominio), e un'Italia i
cui poteri e privilegi a livello politico sono oramai - rispetto al
passato - decisamente ridimensionati (come dimostra chiaramente anche il
fatto che, d'ora in avanti, gli imperatori saranno sempre meno romani e
sempre più spesso di origini non nobili).
La dinastia dei Flavi, insomma, apporterà un cambiamento notevole
all'interno dell'organizzazione degli stati dell'Impero, in direzione di un
maggior accentramento dei poteri dirigistici nelle mani del princeps - a
scapito quindi delle forze più estranee tendenzialmente ai poteri di
quest'ultimo -, secondo un modello di Stato simile per alcuni versi a quello
cui tesero alcuni dei Claudi (Nerone e Caligola), senza tuttavia quella
spinta orientalizzante e ellenizzante che aveva caratterizzato la loro
politica.
Storia di Roma nel periodo della dinastia dei Flavi
1) Il 69, 'l'anno dei 4 imperatori'
Tra il giugno del 68 e il dicembre del 69, cioè tra il mese
dell'insediamento di Galba e quello dell'insediamento di Vespasiano, si
avvicenderanno - come si è già detto - ben quattro imperatori, tra cui,
oltre appunto a Galba e Vespasiano, Otone e Vitellio.
Questo lasso di tempo vedrà il ritorno di una situazione simile - per molti
aspetti - a quella delle guerre civili che, nei decenni finali della
Repubblica, avevano insanguinato il mondo romano (e il cui termine è
coinciso con la battaglia di Azio nel 32, in cui Ottaviano ha sconfitto il
rivale Marco Antonio).
Anche ora infatti, saranno gli eserciti lo strumento fondamentale per la
conquista del potere, anche ora vi sarà una fondamentale divisione tra Est e
Ovest (seppure questa volta lo scontro verrà vinto dalle regioni orientali),
ed anche ora infine saranno dei potenti condottieri a contendersi la suprema
carica imperiale.
Il primo successore di Nerone (morto suicida nel 68) è Galba, comandante
delle truppe della Spagna Terraconense.
Appartenente all'antico patriziato romano, Servio Sulpicio Galba segue da
subito una politica estremamente tradizionalista, che gli aliena le simpatie
tanto del popolino, quanto dell'esercito dei pretoriani (ovvero la guardia
imperiale, insediata stabilmente sul suolo italico). Proprio a questi ultimi
si deve infatti la sua morte, nel gennaio del 69.
Succede poi a Galba Salvio Otone, un altro generale il quale gode però, a
differenza del primo, dell'appoggio dei pretoriani, del popolo e delle
regioni orientali dell'Impero.
Otone spinge da subito per una modernizzazione degli apparati statali,
favorendo l'impiego dei ceti equestri - contro quello, più tradizionale, dei
liberti - all'interno dell'amministrazione pubblica.
E' evidentemente una rivincita, seppure parziale, dei sostenitori del
principato di Nerone contro la reazione tradizionalista di Galba e del
Senato romano.
Ostili in gran parte alla politica otoniana, nella quale non si riconoscono,
sono le province occidentali, e in particolar modo i ceti possidenti che,
assieme all'esercito, mantengono in una condizione di subalternità la gran
parte della popolazione, impiegandola come manodopera semi-libera. Questi
ultimi non vedono infatti di buon occhio la politica di Otone, probabilmente
ritenendola - tra l'altro - non sufficientemente 'occidentalista', quindi
non favorevole ai loro interessi.
E' dalle regioni della Germania meridionale che proviene infatti Aulio
Vitellio, generale delle truppe imperiali in quelle regioni, eletto
imperatore - come del resto sarà poi per Vespasiano - dalle proprie truppe
già prima di arrivare nella capitale. Egli, giunto in Italia nell'aprile del
69, sconfigge Otone accedendo così alla dignità imperiale.
Da subito questi mostra uno stile di governo estremamente autoritario,
fortemente anti-senatorio (quindi anti-tradizionalista), provocando altresì
il malcontento di gran parte della popolazione.
Tra i suoi nemici vi è anche l'esercito dei pretoriani, cui egli toglie
molti dei suoi tradizionali privilegi, abbassandolo in pratica al livello
degli altri eserciti imperiali.
Sarà alla fine Vespasiano (comandante delle truppe imperiali stanziate in
Giudea nel 66, sostenuto dalle regioni orientali dell'Impero), a conquistare
definitivamente il potere.
Come Vitellio, anche Vespasiano è stato acclamato princeps e augusto dalle
proprie truppe già prima di arrivare a Roma, e solo successivamente, nel
dicembre del 69, ha sancito tale carica sconfiggendo sul campo il suo
avversario.
VESPASIANO
I FLAVI E IL CONSOLIDAMENTO DELL'IMPERO
2) La politica di Vespasiano (69-79)
Gli eventi che abbiamo narrato fin qui - segnati come s'è visto dalla lotta
tre le diverse province per 'accaparrarsi', attraverso i propri eserciti, il
potere supremo all'interno dell'amministrazione imperiale, attribuendo la
carica di Augusto ai propri generali - sono in realtà in gran parte un
prodotto (involontario) dell'ordinamento provinciale voluto da Ottaviano
dopo Azio, ai tempi della risistemazione dell'Impero.
Egli infatti, aveva predisposto un sistema di difesa interna ed esterna
delle regioni imperiali fondato sulla stanzialità delle truppe (nonché dei
loro veterani) sui loro territori.
Ma in questo modo, se da una parte aveva favorito la difesa e la
'romanizzazione' stessa (cioè l'integrazione culturale) tra Roma e tali
territori, dall'altra aveva anche rafforzato l'alleanza e l'identificazione
tra le truppe e i loro generali (i prefetti imperiali), oltre che quella tra
i soldati (sia legionari che veterani ormai stabilitisi sulle terre) e le
popolazioni autoctone. Aveva cioè contribuito alla formazione di entità
politiche autonome e indipendenti rispetto al potere centrale di Roma e
dell'Italia.
Tutto ciò, assieme al decollo economico delle province (in special modo di
quelle occidentali), ha sviluppato in esse quella forza e
quell'intraprendenza - sia politica che militare - che è all'origine di
queste ultime lotte intestine (riproposizione, anche se su scala differente,
delle antiche guerre civili e sociali della tarda Repubblica).
Ma questi anni vedono anche un altro fondamentale cambiamento per Roma,
l'inizio cioè di una nuova stagione, nella quale è ormai chiaro a tutti - e
prima di tutto agli eserciti - come gli imperatori possano anche non nascere
a Roma, né appartenere (come è stato finora) all'antica aristocrazia
senatoria romano italica.
Se si fa eccezione per Galba, infatti, uomo di antiche origini nobiliari
(alle quali è infatti profondamente legato) nessuno degli altri imperatori
(Otone, Vitellio e Vespasiano) appartiene alla 'vecchia guardia' senatoria,
essendo tutti piuttosto uomini nuovi, uomini dell'impero.
- Vespasiano
Le origini familiari di Tito Flavio Vespasiano, divenuto il nuovo imperatore
alla bella età di 69 anni, sono da ricercare all'interno del ceto medio
italico. Non quindi figlio di un nobile senatore, ma piuttosto di un
esattore imperiale, egli ha seguito la carriera militare ed è divenuto un
esponente di punta delle nuove classi dirigenti dell'Impero.
Appartiene insomma, a quei ceti emergenti di estrazione italica e non
altolocati, che vanno a comporre i nuovi quadri amministrativi e militari
dell'Impero: è dunque un uomo nuovo, espressione dell'organizzazione, che si
sta sviluppando e consolidando, della nuova Roma imperiale, divenuta ormai
realtà globale.
Come tale egli dedicherà, nel suo principato, un'attenzione particolare alle
province, spostando l'interesse dell'Impero dall'Italia verso le sue
periferie.
Si può dunque dire che la politica di Vespasiano e dei Flavi sia, in gran
parte, il prodotto dello spostamento della ricchezza economica e dei pesi
politici al di fuori dell'Italia (regione che per altro attraversa da anni
una profonda crisi, dovuta essenzialmente all'investimento di gran parte dei
capitali verso le province).
L'azione di governo di Vespasiano consiste essenzialmente in una
riorganizzazione dell'Impero, basata su:
- il rafforzamento dei nuovi apparati statali, rafforzamento fondato anche
su un loro più esplicito riconoscimento a livello istituzionale (si ricordi
a tale riguardo che Augusto, per rispetto nei confronti delle antiche
tradizioni, aveva 'mascherato' il più possibile le proprie cariche effettive
dietro l'apparenza di quelle dell'antica Respublica);
- il rinnovamento della composizione del Senato, ovvero lo smantellamento di
molte antiche famiglie della nobilitas romano-italica, rimpiazzate con
elementi nuovi di origini spesso provinciali ed equestri, in particolare
spagnole (elementi meno legati alle tradizioni - e ai poteri - dell'antico
Senato).
Fondamentalmente la reggenza di Vespasiano è caratterizzata dunque dalla
lotta, talvolta anche persecutoria, nei confronti delle resistenze degli
antichi poteri repubblicani, e dal parallelo rafforzamento del potere
monarchico imperiale: una lotta insomma per l'affermazione della modernità
sul vecchio ordine.
[E sarà proprio una tale politica di rinnovamento della nobiltà e del Senato
a favorire, nei decenni successivi, la 'conciliazione' tra il princeps e il
Senato, ossia tra il nuovo ordine monarchico e gli antichi valori della
'libertas' senatoria.]
Veniamo ora ai principali eventi politici e militari caratterizzanti il
principato di Vespasiano.
Il fatto che Vespasiano provenga dalla regioni orientali dell'Impero (e che
sia sostenuto da esse) ingenera il timore in molti di una ripresa della
politica ellenistica e filo-orientale dei Caligola e Nerone, e prima di loro
di Marco Antonio.
Il nuovo imperatore mostra tuttavia da subito la propria volontà di seguire
un indirizzo fondamentalmente filo-occidentale. Lascia difatti a suo figlio
Tito, che rimane a oriente, il compito di governare tali regioni secondo dei
metodi e una sensibilità ad esse consoni, trasferendosi invece lui nelle
regioni occidentali.
Qui giunto, una delle sue prime preoccupazioni è quella di ridefinire a
livello istituzionale la carica stessa del princeps, ovvero di toglierle
quei caratteri di eccezionalità che ancora essa conserva, dal momento che
rimane il prodotto della somma di un insieme poteri differenti in un solo
individuo.
Con la 'Lex de Imperio' dunque, egli riassume un tale ruolo politico in una
sola magistratura: la carica imperiale, definendone inoltre con precisione
le prerogative politiche: ad esempio - e prima di tutto - il suo rapporto
col Senato.
Non più quindi figura eccezionale, il 'princeps' o imperatore diviene così
il capo di Roma a tutti gli effetti.
Un altro problema che Vespasiano deve affrontare è quello del risanamento
delle casse imperiali, prosciugate dalla politica di grandi spese sostenuta
dal suo predecessore Nerone.
La sua politica in questo campo segue queste direttive: accentramento
attorno alla figura del princeps delle finanze imperiali; drastica riduzione
delle spese e dei donativi per la plebe; amministrazione molto oculata degli
introiti statali, la quale porterà, rispetto al periodo di Ottaviano, a più
che raddoppiare la ricchezza dello Stato.
Ma per fare questo, ovvero per porre in essere un tipo di amministrazione
finanziaria tanto attenta e oculata, egli dovrà anche potenziare gli
apparati burocratici dello Stato, per mezzo di un ampio piano di
rafforzamento di essi (i cui quadri egli andrà a prendere prevalentemente
all'interno del ceto medio italico - lo stesso dal quale anche lui
proviene).
Vespasiano cerca insomma di rafforzare le strutture del potere monarchico,
senza tuttavia per questo seguire o alimentare uno stile di governo di tipo
orientaleggiante - che ad una tale tendenza politica si era associato invece
al tempo dei Claudii.
Al contrario, egli porta avanti un piano di politica culturale fortemente
ostile a ogni concezione estranea alle tradizioni occidentali, perseguitando
e allontanando da Roma le minoranze greche e asiatiche, i filosofi, e tutti
gli esponenti di religioni estranee alla tradizione romana: ebrei,
cristiani, ecc. (già sotto Nerone, infatti il cristianesimo aveva iniziato a
diffondersi nell'Impero).
Tale politica culturale di impronta tradizionalista si inserisce in un piano
più ampio di riavvicinamento al Senato, con il quale Vespasiano cerca di
mantenere rapporti distesi e di reciproco rispetto.
Parallelamente però, avvalendosi delle proprie prerogative istituzionali
(attraverso le quali egli può influire sulla censura: la carica preposta a
compilare le liste dei senatori) egli lavora per rinnovare la composizione
del Senato.
Anche se da tempo infatti è in atto un processo autonomo di degenerazione
della classe nobiliare romana e italica, che si manifesta ad esempio nella
riduzione del numero dei suoi componenti, tuttavia tale classe continua -
attraverso l'istituzione senatoria - ad avere un ruolo politico di primo
piano (secondo solo a quello dell'Imperatore), aiutata in ciò dal prestigio
di cui essa gode all'interno della società romana in generale per ragioni
storiche, nonché grazie alla radicatezza dei propri rapporti di clientela a
livello territoriale.
Il rafforzamento delle province, e l'affacciarsi di conseguenza sulla scena
politica di queste nuove forze è l'occasione, per l'Impero, per assestare a
una tale egemonia dei duri colpi.
In questo contesto si colloca la politica di Vespasiano di ampliamento del
Senato a elementi provinciali ed equestri, meno ostili - anche
ideologicamente - alla nascente realtà politica e sociale dell'Impero.
Parallelamente peraltro egli aumenta l'influenza a livello politico dei
provinciali, estendendo a molti di essi - ad esempio agli Spagnoli - la
cittadinanza latina e concedendo loro a volte la stessa cittadinanza romana.
Sul piano espansionistico e militare, fondamentale nel periodo del
principato di Vespasiano sarà l'ampliamento dei confini romani in Britannia,
attraverso una difficile missione guidata da Agricola (il quale sarà oggetto
di uno scritto di Tacito, che ne è anche il cognato).
I dieci anni di governo di Vespasiano non sono certo privi di conflitti e di
contrasti interni. La sua politica infatti crea scontenti e risentimento
all'interno di molte fasce della popolazione imperiale: dall'antica
nobilitas romana e italica, al popolo di Roma (cui, come si è detto, egli
taglia molti dei precedenti donativi), dagli eserciti (da lui guardati con
sospetto, in quanto potenziali strumenti di ribellione al potere imperiale)
alle regioni orientali (alle quali non elargisce sufficienti favori).
Tuttavia il suo principato costituisce complessivamente un momento di
crescita sia per il potere monarchico che per l'apparato imperiale, quindi
in generale per l'Impero.
Egli inoltre, attraverso gigantesche opere pubbliche, favorisce lo sviluppo
di quest'ultimo anche a livello economico e commerciale determinando così
un'atmosfera positiva anche sul piano culturale.
I FLAVI E IL CONSOLIDAMENTO DELL'IMPERO
3) Il breve regno di Tito (79-81)
Vespasiano ha due figli: Tito e Domiziano. Al primo ha affidato la cura
delle regioni orientali quando, nel 69, si è trasferito in Occidente per
esercitare il proprio ruolo di princeps. Sempre col primo inoltre, ha
condiviso la tribunicia potestas, una delle prerogative essenziali della
carica del princeps.
E' chiaro quindi come sia Tito - per altro il primogenito - l'erede da lui
designato alla successione.
E' difficile tuttavia, data la sua brevità, dare un giudizio equo sul
periodo di reggenza di Tito, il quale, salito al potere nel 79, muore dopo
solo due anni di governo, appena quarantaduenne.
Ciò che si sa è che egli, guardato con sospetto dalla nobilitas per le
tendenze dimostrate precedentemente alla propria elezione in direzione di
una politica di tipo orientale, tenta da subito una riconciliazione con
quest'ultima, sulla base peraltro dei valori della clementia stoica.
Egli verrà infatti polemicamente ricordato, ai tempi della reggenza del
fratello Domiziano, come 'amor ac deliciae', in contrasto con l'appellativo
'dominus et deus' con cui amerà essere chiamato il suo successore.
Altro merito da ascriversi a Tito è l'aver portato avanti (come del resto ha
fatto il padre e come farà Domiziano) la guerra in Britannia, e l'essere
autore della presa di Gerusalemme nel 70 (quando ancora non è asceso al
principato) in veste di generale per ordine del padre.
Nei suoi anni, si collocano inoltre l'eruzione del Vesuvio (79) e il
completamento del Colosseo nella città di Roma (80).
4) Domiziano e la ripresa della politica anti-senatoria (81-96)
Vespasiano non aveva mai concesso onori politici rilevanti al suo
secondogenito, Domiziano, né aveva mai disposto la sua successione al
principato.
Tuttavia, dal momento che comunque quest'ultimo fa parte della dinastia
flavia, spetta a lui dopo la morte del fratello la successione. Al momento
dell'incoronazione egli ha 30 anni d'età.
La politica che Domiziano sceglierà di seguire sarà simile fondamentalmente
a quella di suo padre.
Certo, più esplicita e molto meno mascherata è la volontà da parte sua di
perseguire e di indebolire - attraverso i propri poteri - la vecchia
nobilitas d'origine repubblicana. E sarà proprio una tale volontà a
costargli la vita nel 96, quando verrà ucciso da una congiura di palazzo.
Come in precedenza era stato per suo padre, saranno tre i punti attorno a
cui ruoterà la sua azione:
1) l'indebolimento dei poteri e delle istituzioni dell'antico Senato e
dell'antica nobilitas;
2) il rafforzamento del potere monarchico e del centralismo dello Stato,
ovvero la soppressione dei poteri 'altri' rispetto al proprio, rafforzamento
quindi degli apparati imperiali e dei nuovi ceti equestri (filo-imperiali);
3) le persecuzioni ai danni dei filosofi (colpevoli di contaminare la
cultura occidentale con influenze orientali ed ellenistiche), degli ebrei e
dei cristiani, e in generale di tutti gli 'innovatori' sul piano culturale
(tra le vittime di tali persecuzioni poi, vi saranno anche elementi della
sua famiglia).
Mentre Tito, al momento dell'elezione, aveva al proprio attivo dei trascorsi
politici non graditi al Senato, Domiziano - al contrario - aveva stretto
rapporti di amicizia con alcune famiglie della nobiltà romana e italica: le
stesse delle quali sarebbe poi divenuto acerrimo nemico, tradendo in tal
modo molte delle aspettative nei suoi confronti.
Nei primi anni del suo principato, Tito si occupa soprattutto della difesa
dei confini dell'Impero, combattendo nell'83 contro i Catti nei territori
germanici, e estendendo i confini romani in tali regioni.
[Al termine della campagna, la Germania verrà divisa in due regioni: la
provincia 'Superior' e quella 'Inferior', quest'ultima punto di raccordo con
le regioni danubiane dell'Impero].
Egli porta avanti poi la colonizzazione delle regioni della Britannia,
sempre per mano di Agricola (il quale tuttavia verrà richiamato in patria
nell'84).
Nell'85 infine, i Daci invadono la Mesia (una regione della zona danubiana),
costringendo Domiziano a iniziare delle nuove campagne, la cui durata si
estende fino all'87 e che si concludono con l'acquisizione di nuovi
territori a est.
Ma è a partire dall'89 che la politica di Domiziano si fa spiccatamente
monarchica e accentratrice, suscitando così le ire del Senato e dando inizio
a un periodo di conflitti culminanti nell'assassinio del princeps nel 96.
L'occasione (o la causa?) di questa nuova politica è la ribellione di un
certo Saturnino, prefetto nelle regioni della Germania Superior, il quale
nell'89 viene proclamato Augusto dalle sue truppe iniziando una ribellione
contro Roma che verrà da questa presto soffocata nel sangue.
Forse per paura che dietro tale evento si nasconda un complotto della
nobiltà, Domiziano a partire da questi anni, colpisce con ogni mezzo
possibile le forze nobiliari romane e italici. Delazioni, accuse di
malcostume (già usate da Augusto, anche se per scopi di riforma morale),
confische, ed anche restrizioni di carattere economico (proibizioni
commerciali): tutto è valido per indebolire la classe nobiliare, ritenuta da
Domiziano una gravissima minaccia per il proprio potere!
Oltre a tutto ciò Domiziano assume anche la censura, una carica che - come
si è detto - dà a chi la detiene la possibilità di riformare il Senato,
introducendo in esso (come del resto già suo padre aveva fatto) nuovi
elementi di origine provinciale ed equestre, ovvero nobili di nuova nomina e
di origini 'plebee'.
In questo secondo periodo della sua azione di governo (che inizia, come si è
detto, all'incirca nell'89), Domiziano instaurerà un regime del terrore dal
quale non saranno escluse nemmeno le minoranze culturali, oggetto anch'esse
di persecuzione.
D'altra parte, egli basa gran parte del proprio potere sul consenso delle
province (e sul rafforzamento degli apparati statali, che sono alla base di
tale consenso), oltre che su quello della plebe e degli eserciti, con cui si
mostra estremamente munifico.
La politica anti-senatoria di Domiziano tuttavia, non può non portare alla
lunga i suoi amari frutti.
Nel settembre del 96 una congiura di palazzo, alla quale forse partecipa la
sua stessa moglie, Domizia (da lui precedentemente ripudiata a causa delle
sue simpatie per la nobiltà), porrà fine alla sua vita nella sua stessa
camera.
Al posto di Domiziano, i congiurati predispongono la successione di Cocceio
Nerva, uomo innocuo per il Senato, date le sue origini nobili e la sua età
oramai avanzata.
CONCLUSIONI (69-96)
Tentando un bilancio del periodo della dinastia dei Flavi - ovvero
essenzialmente dei due principati di Vespasiano e Domiziano - possiamo dire
che essa abbia portato avanti una politica fondamentalmente ostile alle
resistenze dell'antico potere repubblicano, basata sul consolidamento a
livello strutturale e burocratico degli apparati statali imperiali, nonché -
di conseguenza - sull'affermazione a livello politico delle province (le
quali si trovano ad essere, per mezzo di tali apparati, decisamente
facilitate nell'accesso alla vita politica dell'Impero).
Rispetto a Nerone e Caligola, i Flavi hanno avuto a monte maggiori
possibilità d'azione: ciò perché la lotta anti-senatoria da essi sostenuta,
ha trovato un notevole appoggio negli interessi di quei nuovi organismi
politici che sono le province d'occidente.
Inoltre - ed è questa un'altra differenza sostanziale rispetto ai Claudii -
lo scontro con il tradizionalismo repubblicano non si è mai mescolato, nella
loro visione, con una politica filo-ellenica e filo-orientale. Tutti e tre
infatti hanno perseguito una strategia rigorosamente 'occidentalista', che
ha conservato loro l'appoggio delle regioni emergenti.
Complessivamente l'Impero uscirà rafforzato dal governo della dinastia
Flavia, mentre l'aristocrazia senatoria vedrà ridimensionati i propri
privilegi politici, essendo tra l'altro affiancata da una più giovane
generazione di latifondisti, d'origine spesso provinciale e equestre.
NERVA, TRAIANO E GLI ANTONINI
NERVA, TRAIANO E GLI ANTONINI: L'APOGEO DELL'IMPERO
Introduzione
Il periodo di storia romana trattato in questo articolo si estende dagli
ultimi anni del primo secolo agli ultimi del secondo, comprendendo un lasso
temporale che, partendo dal principato di Nerva (96.), giunge al termine di
quello di Commodo (.192).
Un tale periodo, di particolare splendore economico e di grande stabilità
politica, è ricordato come l'età d'oro dell'Impero, felice combinazione di
diversi fattori che ne fanno non solo l'apogeo del mondo romano ma, in un
certo senso, quello della stessa civiltà antica.
In esso, se da un lato assistiamo al definitivo affermarsi delle strutture
politiche e burocratiche dell'Impero su quelle più antiche d'origine
repubblicana, non vediamo tuttavia ancora l'inizio del loro deteriorarsi e
del loro degenerare nell'anarchia e nel disordine.
Sul piano socio-economico si afferma sempre di più un "modus vivendi"
aperto, fatto di scambi commerciali e di capitali monetari (cosa che entra
in stridente contrasto con l'antica economia rurale, risalente ancora alle
remote origini di Roma, nelle quali vigeva una netta separazione tra patrizi
e plebei, tra patroni e clienti - un'economia basata cioè sul latifondo, che
non verrà mai definitivamente scalzata, tanto meno sul finire della civiltà
romana imperiale, con l'inizio del Medioevo.)
In questi anni quindi, vengono alla luce tutti i lati 'positivi' dell'idea
di Impero: il definitivo tramonto del predominio politico-economico
dell'antica aristocrazia terriera (non a caso si afferma sempre più la
'nuova aristocrazia' della terra, di nomina imperiale); lo svilupparsi di
una consistente 'classe media', o di una 'media borghesia', in tutte le
regioni imperiali; la capacità del nuovo stato di permeare e controllare un
po' tutti gli aspetti della vita civile dell'Impero; la graduale
parificazione di tutti i suoi sudditi, attraverso - quantomeno
tendenzialmente - lo smantellamento dei privilegi dei cittadini
romano-italici.
Assistiamo dunque alla formazione di una grande 'ecumene' di popoli e di
culture, il centro della quale si trova, dal punto di vista decisionale,
nella figura dell'Imperatore e della sua corte.
L'Impero diviene dunque sempre di più una realtà globalizzata,
caratterizzata cioè da una forte mobilità interna e da una sempre maggiore
parità di diritti (e doveri) tra i sudditi.
1. Nerva, imperatore municipale (96-98)
Dopo l'assassinio di Domiziano nel 96, a opera di varie forze dell'Impero e
in primo luogo del Senato (da Domiziano osteggiato in tutti i modi, compresi
provvedimenti di natura giudiziaria, secondo la modalità - istituita da
Claudio e espressione del potere dell'imperatore - chiamata intra cubicolo),
viene eletto imperatore M. Cocceio Nerva.
E' costui un uomo già anziano e piuttosto debole, anche per ragioni
caratteriali, appartenente all'antica nobilitas italica (per la precisione a
quella umbra), 'messo su' dal Senato e dalle forze del tradizionalismo
italico sfruttando il vuoto di potere creatosi con la fine della dinastia
dei Flavi, per assecondare i propri progetti di restaurazione e di
arginamento dei cambiamenti in atto, sempre più favorevoli a un indirizzo
assolutistico e monarchico.
I due anni del principato di Nerva sono caratterizzati da: una ripresa della
politica filo-italica (mirante cioè a riaffermare la centralità della
penisola tra le regioni dell'Impero); misure di riparazione delle azioni
legali sostenute da Domiziano contro i senatori romani (ovvero il ripristino
dei loro antichi privilegi, la restituzione di gran parte delle ricchezze
loro estorte con misure giudiziarie, ecc.); ripresa di una politica di
donazioni - monetarie e frumentarie - alle popolazioni municipali italiche
(si ricordi che la penisola italiana attraversa un momento di grande crisi
economica, quindi di impoverimento).
Ma ciò che caratterizza maggiormente il principato di Nerva è l'attenzione
alle esigenze della classe nobiliare italica e quindi l'alleanza con il
Senato.
Sarà questo atteggiamento a guadagnargli l'ostilità delle forze politiche
filo-imperiali, in particolare dell'esercito dei pretoriani (la guardia
imperiale) che si vede messa in secondo piano, e si sente quindi tradita dal
proprio princeps.
A ciò si deve un tentativo di congiura, fortunosamente sventato, in seguito
al quale Nerva - preoccupato dalla possibilità di un'involuzione politica e
di una nuova frattura tra 'partito repubblicano' e 'partito imperiale',
dall'inizio cioè di un nuovo periodo di guerre civili - decide di eleggere
come suo successore Ulpio Traiano, uomo politicamente da lui molto distante
in quanto legato all'esercito e capo, all'epoca, delle truppe di stanza
nella Germania Superior.
Già anziano quando viene eletto, Nerva muore dopo soli due anni di governo,
nel 98.
2. Traiano, 'optimus princeps' (98-117)
A. Origini di Traiano
A conferma della volontà di Nerva di assecondare le forze legate al partito
imperiale, possiamo dire che il suo successore - da lui stesso appositamente
scelto - è un uomo d'armi la cui carriera è legata essenzialmente
all'esercito, e le cui origini inoltre - primo fra tutti gli imperatori
romani - non sono né romane né italiche, ma spagnole.
La sua elezione al principato è dunque una chiara riscossa delle forze
provinciali, della nobilitas di nuova nomina, degli eserciti e in generale
delle forze politico-sociali favorevoli a un orientamento imperialistico e
in lotta con quelle tradizionaliste filo-repubblicane.
Traiano passerà alla storia come l'Optimus princeps, ovvero come il migliore
imperatore conosciuto da Roma nell'arco di tutta la sua lunga storia.
Con lui infatti (anche se, ovviamente, non soltanto per merito suo) l'Impero
conoscerà un'impennata nei traffici interni e un periodo di notevole
rigoglio economico.
Inoltre, anche grazie all'impegno da lui portato avanti nell'opera (iniziata
in realtà molto tempo prima, da Augusto e da Vespasiano) di rinnovamento
nella composizione del Senato, si inaugurerà in questi anni un periodo
caratterizzato da un atteggiamento di concordia e di riappacificazione tra
le istituzioni dell'Impero e la nobilitas senatoria, una sorta di
riconciliazione (fittizia) tra i valori dell'universalismo monarchico e
quelli della libertas senatoria e nobiliare.
Un altro motivo di prestigio prima e di gloria poi, così presso i
contemporanei come presso i posteri, sarà costituito per Traiano dalle
molteplici imprese belliche. Il suo periodo coincide, infatti, con l'ultima
fase espansiva dell'Impero romano, quella nella quale esso tocca i suoi
confini estremi, giungendo perfino a comprendere al proprio interno i
territori partici della Mesopotamia.
E anche se in realtà, tali imprese avranno più un valore simbolico (legato
cioè al prestigio delle loro tali vittorie militari) che reale (Roma difatti
non riuscirà a mantenere a lungo molti dei nuovi territori), esse
contribuiranno comunque a consolidare la fama di Traiano come di un
eccellente condottiero, e a far ricordare il suo principato come il più
"glorioso" dell'intera storia romana.
B. La politica interna
Attraverso la propria politica interna Traiano persegue essenzialmente due
finalità: quella del rafforzamento dell'ordine imperiale (sia a livello
sociale, sia a livello amministrativo) e quella del mantenimento della
centralità politica delle regioni occidentali all'interno della compagine
imperiale, in particolare (nonostante le sue origini spagnole) dell'Italia.
Non che una tale politica filo-occidentale sia, in assoluto, una novità.
Come noto, essa era divenuta una costante tra gli imperatori dopo il
fallimento della linea orientalista di Caligola e Nerone.
Lo stesso vale per la politica monarchica e anti-repubblicana (volta cioè
all'indebolimento degli antichi poteri e delle strutture d'origine arcaica)
in atto fin dai tempi di Augusto, seppure con le dovute riserve e i dovuti
'camuffamenti'.
Tuttavia nel periodo traianeo, la centralità e il dirigismo dello Stato si
spingono a un livello mai raggiunto prima: egli infatti, avendo il vantaggio
di partire nella propria azione dalle riforme e dalle conquiste già
raggiunte dai suoi predecessori, riuscirà ad infliggere dei duri colpi ai
sostenitori della linea tradizionalista e repubblica.
Ciò non deve tuttavia indurre a credere che Traiano, nelle sue
manifestazioni pubbliche, manchi in alcun modo di rispetto al Senato.
Nonostante le proprie origini, provinciali e militari, egli dimostra infatti
grande deferenza nei confronti di tale istituzione, e più in generale delle
tradizioni patrie, sulla base di un programma di riappacificazione
(concordia) tra il vecchio e il nuovo ordine: programma reso possibile in
realtà anche dal profondo rinnovamento - avvenuto sotto l'Impero - della
classe nobiliare, ovvero dalla sostituzione di molte delle più antiche
famiglie nobiliari con altre di nuova nomina, molto spesso di origini
provinciali ed equestri.
Accanto a tali trasformazioni di carattere politico (miranti a rafforzare la
centralità dello Stato e dell'Imperatore), sono in atto già da tempo
all'interno dell'Impero anche delle profonde trasformazioni di carattere
sociale, trasformazioni il cui elemento caratterizzante è essenzialmente lo
sviluppo di una vasta classe media.
Tra i due fenomeni inoltre - quello sociale e quello
politico-istituzionale - sussiste anche una profonda interrelazione.
Se infatti a livello amministrativo assistiamo al fiorire di una vasto ceto
medio, impegnato in mansioni di carattere burocratico e amministrativo, e di
un esercito professionale (le cui funzioni sono prevalentemente di carattere
difensivo), si assiste anche parallelamente all'emergere e all'affermarsi di
una vasta fetta di popolazione - che si affianca a quella precedente -
impiegata in attività affaristiche e commerciali.
Tale concomitanza poi non è certo casuale: lo sviluppo di un efficiente
apparato statale è difatti condizione imprescindibile per quello di una
vasta rete di traffici interni, sia attraverso la sicurezza delle rotte
marittime e terrestri, sia attraverso un'organizzazione complessiva dei
territori a livello amministrativo. D'altronde, l'esistenza di una tale rete
richiede e consolida a sua volta quella degli apparati statali.
In questi anni diviene dunque sempre più evidente - toccando al tempo stesso
i suoi apici - un processo, le cui origini risalgono ancora al periodo di
Ottaviano e della tarda repubblica, di reciproco sostegno tra lo Stato e le
classi medie, una sorta di "circolo virtuoso" che sarà una delle basi della
solidità dell'Impero.
Un altro elemento amministrativo e organizzativo che, sebbene già introdotto
precedentemente, viene da Traiano ulteriormente consolidato, è l'utilizzo di
esponenti equestri (anziché quello più tradizionale dei liberti) nelle sfere
più alte dell'amministrazione pubblica.
In un unico frangente Traiano si mostra refrattario ad assecondare i nuovi
orientamenti politici, laddove decide - in contrasto con la tendenza al
decentramento che da sempre caratterizza la politica imperiale - di
conservare all'Italia una notevole centralità politico-amministrativa. Ma
quest'ultima deve essere intesa, molto probabilmente, come una misura
finalizzata essenzialmente al rilancio economico della penisola.
Egli recluta difatti i quadri amministrativi imperiali prevalentemente tra
gli esponenti della borghesia municipale italica, nonostante sia in atto -
già da tempo - un processo di parificazione politica tra i cittadini
dell'Impero (processo che va ovviamente a scapito delle popolazioni
romano-italiche, attraverso lo smantellamento graduale dei loro privilegi).
Un ultimo problema con il quale Traiano deve fare i conti è, appunto, la
crisi economica e demografica italiana.
Per arginare un tale fenomeno egli prenderà essenzialmente due
provvedimenti: la promulgazione nel 108 di un provvedimento che costringe i
nobili senatori (in gran parte ormai latifondisti provenienti dalle
province) ad investire almeno un terzo dei propri patrimoni in terre
italiane; e l'istituzione delle alimentationes, istituzioni statali di
carattere assistenziale il cui scopo è di fornire agli orfani italici
l'opportunità di studiare e, in età adulta, di entrare a fare parte dei
quadri più bassi dell'amministrazione imperiale, nonché - attraverso un
meccanismo di prestiti - di favorire e aiutare la ripresa dell'economia
italiana.
Bilancio della politica traianea
Gli anni di Traiano conoscono il definitivo decollo dell'economia di
scambio, di contro alle antiche resistenze dell'economia (nonché della
mentalità e delle tipiche concezioni politiche) del capitalismo fondiario le
cui origini risalgono ancora al periodo della monarchia (si ricordi ad
esempio, la situazione della Roma monarchica, segnata da una netta
contrapposizione tra i nobili latifondisti, o patrizi, e i loro clienti, o
plebei).
Ma un tale decollo è favorito e reso possibile - oltre che dalle molteplici
opere pubbliche (quali strade, acquedotti, ecc.) portate avanti sia in
questi che negli anni precedenti - dal definitivo affermarsi di un nuovo
assetto sociale e istituzionale, un fenomeno le cui premesse sono state
poste nel corso della lunga trasformazione di Roma in potenza internazionale
e imperiale.
L'Impero dunque, nonostante la centralità politica delle zone occidentali,
si sviluppa sempre più secondo un modello politico di tipo
ellenistico-orientale, essendo caratterizzato da: 1) un forte potere
centralistico dello stato ("dirigismo statale"); 2) un notevole sviluppo dei
settori amministrativi e dell'economia di scambio: quindi, sul piano
sociale, dei ceti medi, 3) il prevalere dell'economia monetaria (cioè dei
capitali mobili) su quella terriera (dei capitali immobili).
E' da ricordare, inoltre, l'attenzione riservata da Traiano (ma anche dal
suo predecessore, Nerva) ai problemi economici e sociali che funestano la
penisola italiana, e il suo tentativo di conservare a essa un ruolo di
centralità sul piano amministrativo e politico.
C. La politica d'espansione
Coerentemente con le proprie origini militari, Traiano porta avanti una
politica espansionistica molto aggressiva.
Essa segnerà per altro la fine della fase espansiva di Roma, giunta ormai
(per ragioni come vedremo qui di seguito) ai limiti estremi di estensione e
di governabilità.
Le ragioni che, molto probabilmente, spingono Traiano a perseguire un tale
tipo di politica sono da ricercarsi principalmente nel desiderio di
prestigio militare (fonte sicura di consensi politici in tutti gli strati
della popolazione), e nella prospettiva di un ulteriore arricchimento
dell'Impero e dello Stato.
Le campagne sostenute da Traiano nel corso del suo principato saranno
essenzialmente cinque: due combattute contro la Dacia, una contro gli Arabi,
una contro gli Ebrei della Cirenaica, un'ultima infine contro il regno dei
Parti.
Tra esse le più significative sono senza dubbio l'ultima e le prime due,
mentre le guerre contro gli Arabi e gli Ebrei possono considerarsi in gran
parte fasi intermedie di un più ampio piano di estensione e consolidamento
dell'Impero verso Est, piano culminante appunto nell'ultima grandiosa
campagna contro il nemico storico di Roma: il regno dei Parti.
La guerra dacica viene portata avanti principalmente per due motivi: la
ricchezza naturale delle zone danubiane, e l'esigenza di arginare le
continue incursioni - guidate dal re Decebalo - dei popoli risiedenti in
quella regione.
Mentre la prima campagna (101-102) si concluderà con una sottomissione
parziale della Dacia, che - seppure rapidamente 'romanizzata' - non sarà
ancora ridotta a provincia romana; la seconda campagna (105-106), che si
deve alla ribellione dello stesso re Decebalo, dai romani conservato sul
trono al termine del conflitto, si concluderà nel 106 con l'annessione
definitiva di tale regione all'Impero.
Una tale annessione inoltre rimpinguerà parecchio le casse dello Stato,
essendo la Dacia abbondantemente provvista, tra le altre ricchezze, d'oro
(uno dei motivi peraltro alla base di queste guerre!)
Le imprese militari di Traiano in Dacia verranno infine celebrate nella
celebre 'Colonna traiana', un'opera del 113.
Al termine delle campagne danubiane, Traiano inizia una nuova serie di
conflitti, stavolta nelle zone orientali.
Motivo di essi è la ripresa delle ostilità tra Roma e le regioni partiche,
le quali - non più funestate dalle incursioni degli Unni e dell'esercito
della dinastia Han (proveniente dall'estremo oriente) - hanno interrotto la
tregua bellica sui propri confini occidentali, più precisamente su quelli
armeni.
In questi anni tuttavia, forse anche a causa del clima di insicurezza e di
debolezza creato dalla ripresa delle ostilità in Armenia, anche altre zone
orientali si mostrano irrequiete.
Traiano è costretto difatti a intervenire militarmente anche in Siria, in
Arabia (fondando nel 106 una nuova provincia: l'Arabia Petrea) e in
Cirenaica (dove l'esercito romano dovrà sedare una rivolta delle popolazioni
semitiche).
Tali episodi d'intolleranza verso la dominazione romana dimostrano molto
bene come il tempo non abbia in realtà definitivamente sedato i conflitti
tra questi due diversi mondi, e come il fuoco della ribellione continui a
covare sotto la cenere. [Un fatto che trova un'ulteriore conferma nella
nostalgia dell'Oriente per la dominazione di Nerone, figura attorno alla
quale si sono create addirittura delle leggende popolari, nonché il caso
molto singolare di un 'falso' Nerone che si aggirerebbe tra esse.]
Ma la vera e propria guerra partica verrà combattuta tra il 114 e il 115 e
si concluderà prima con la conquista dell'Armenia, e successivamente con
quella della Mesopotamia, vero e proprio cuore dell'Impero nemico -
un'annessione quest'ultima, con la quale il dominio di Roma giungerà
addirittura fino al golfo Persico!
E tuttavia il mantenimento di tali regioni costituirà un'impresa troppo
onerosa e irta di ostacoli, perché esse possano essere mantenute a lungo.
Se difatti già le regioni medio-orientali si dimostrano estremamente
difficili da governare attraverso prassi e criteri di dominio politici
romano-occidentali, una tale opera sarebbe ancora più difficile da portare
avanti per regioni ancora più distanti, sia geograficamente che
culturalmente.
Già nel 116 iniziano infatti le prime rivolte nei territori partici della
Mesopotamia, le quali dimostrano appunto la precarietà della dominazione
romana in quelle zone.
Traiano, costretto dagli eventi a riparare in Cilicia, morirà poco dopo,
nell'agosto del 117.
D. Conclusioni sul principato di Traiano
Ulpio Traiano verrà ricordato - complice anche Plinio il Giovane, che tra i
letterati dell'epoca ne è il principale sostenitore politico - come
l'Optimus princeps, e ciò sia per le proprie gloriose imprese militari e
conquiste territoriali, sia per l'impegno dimostrato nella gestione degli
affari interni dell'Impero, a partire dall'assistenza ai poveri per arrivare
alle questioni riguardanti la giustizia.
Lo sviluppo che egli è riuscito a imprimere alle strutture politiche e
istituzionali di Roma ha poi delle ripercussioni molto favorevoli anche sui
commerci e sulla mobilità interna, essendone poi a sua volta alimentato.
Tutto sommato, dunque, quella traianea è una delle epoche più felici della
storia imperiale, l'inizio di quella che viene definita "Età aurea", e che
proseguirà con gli Antonini.
3. Gli Antonini
A. L'Età Aurea
Il periodo degli Antonini (schiera di imperatori il cui nome deriva per
convenzione storica da Antonino Pio, il secondo di essi) è un periodo
storico "perfetto".
Perfetto, perché in esso l'Impero - rinunciando a ulteriori mire
espansionistiche - si ripiega su se stesso e sulle proprie strutture
interne, vivendo per così dire una 'vita propria', il più possibile autonoma
e indipendente rispetto all'esterno, e raggiungendo inoltre un'armonia e una
pace sociale che rimarranno per sempre insuperate.
In questi anni Roma raggiunge infatti un notevole equilibrio tra le sue
differenti componenti sociali, ovvero essenzialmente: a) i ceti
latifondistici, coloro cioè che producono le basi stesse della ricchezza e
del benessere economico dell'Impero; b) i commercianti, coloro che le
rivendono; c) le città, sedi dell'attività commerciale e amministrativa; d)
gli eserciti, strumenti indispensabili per la pace e la sicurezza interne e
esterne; d) le grandi masse dei poveri (sia quelli delle campagne sia quelli
delle città), la cui sussistenza dipende - in gran parte - dalla generosità
e dalle elargizioni dei ceti più ricchi.
Si instaura insomma - soprattutto a causa della grande mobilità che si è
sviluppata sia a livello sociale che a livello commerciale - un clima di
positiva collaborazione, reso possibile inoltre dalla pace e dall'ordine
interni, e da una (relativa) facilità a livello di comunicazioni e di scambi
tra le diverse regioni.
Una tale congiuntura inoltre, positiva innanzitutto da un punto di vista
economico, garantirà - grazie alla generosità sia dei ceti nobiliari e in
generale di quelli più ricchi (secondo la pratica detta dell'evergetismo),
sia dello Stato (con Adriano infatti tolleranza e magnanimità, valori
essenzialmente 'umanitari', diverranno un punto fermo nella condotta di
quest'ultimo) - un più alto livello di esistenza alle classi più povere, sia
proletarie che sotto-proletarie.
Ovviamente una simile situazione sarà resa possibile essenzialmente dalla
condizione di grande rigoglio economico, la quale permetterà ai ceti più
ricchi l'accumulo di un surplus produttivo da destinare a un tale tipo di
attività, le quali svolgeranno peraltro un ruolo essenziale nel mantenimento
della pace sociale, allontanando lo spettro di conflitti e agitazioni tra le
classi più povere!
Ma appena una tale congiuntura - lunga sì, ma anche inevitabilmente
destinata a finire - verrà a incrinarsi, anche il clima di collaborazione e
armonia (che è poi l'essenza stessa dell'Impero) che ha caratterizzato
questi anni, finirà per deteriorarsi irreparabilmente, e diverranno evidenti
i primi segni di una crisi che culminerà con la caduta stessa dell'Impero.
Con gli Antonini, in ogni caso, il livello della vita sociale rimarrà tutto
sommato molto alto, anche se già con Marco Aurelio e ancor più con suo
figlio Commodo si cominceranno a intravedere i principi della futura crisi.
B. Elio Adriano, imperatore "ellenizzante" (117-138)
Sarà il senatore Elio Adriano, imparentato alla lontana con Traiano, nonchè
come questi di origini spagnole, a ereditare il titolo di princeps.
Al momento della morte di Traiano, nel 117, egli si trova in Oriente
impegnato in azioni militari, per incarico del suo predecessore.
Solo nell'anno successivo, il 118, Adriano raggiungerà Roma per farsi
incoronare ufficialmente dal Senato, cosa che - assieme ad altre
manifestazioni, ad esempio la sua costante lontananza dalla capitale e il
suo continuo girovagare per l'Impero - ci mostra subito la scarsa
considerazione che egli nutre sia per Roma che per le sue antiche
tradizioni.
In effetti con Adriano l'Impero subisce una svolta in senso decisamente
orientalista, non solo (come presso i suoi predecessori) dal punto di vista
politico, in direzione cioè di una maggiore centralità dello Stato ovvero di
un controllo più capillare delle sue regioni, ma anche da un punto di vista
culturale.
Se la maggior parte degli imperatori precedenti, da Vespasiano fino a
Traiano, si erano guardati bene dall'assumere atteggiamenti che potessero
suonare in qualche modo d'offesa al tradizionalismo occidentale, ciò si
doveva soprattutto al timore di suscitare dissensi e lotte intestine (quali
ad esempio quelli suscitati da Nerone o, in tempi più recenti, da
Domiziano). Anche per questa ragione essi avevano mantenuto il più possibile
un atteggiamento di rigoroso rispetto nei confronti del Senato e dei valori
delle sue tradizioni.
Ma oramai, al tempo di Adriano, il predominio politico dell'Imperatore è
tale (anche vista la mutata situazione sociale: l'accentramento cioè dei
maggiori poteri istituzionali attorno alla sua figura politica) che egli può
tranquillamente permettersi di abbandonare un certo 'conformismo dei
costumi', ovvero un adeguamento forzato agli stereotipi della tradizione
occidentale, ed esprimere più liberamente il suo punto di vista.
Il fatto poi che quest'ultimo imperatore sfidi il 'perbenismo occidentale'
(come prima di lui avevano già fatto Caligola Nerone e Domiziano), assumendo
atteggiamenti da poeta e da filosofo, e manifestando un gusto ellenizzante
che mal si sposa con i costumi della nobilitas senatoria, non deve farci
credere che egli sia (come invece i suoi predecessori) un tiranno
sanguinario.
Se infatti Nerone e Caligola avevano regnato in una Roma nella quale
l'autorità del Senato, anche sul piano culturale, era ancora preponderante,
e avevano quindi scelto di usare la violenza come strumento di coercizione e
di imposizione, Adriano si trova a regnare invece in un contesto che si è
già fortemente emancipato da una tale tirannia.
Tra le varie manifestazioni dell'orientalismo di Adriano possiamo
annoverare - come già si è detto - la sua costante lontananza da Roma; ma
anche la linea politica decisamente liberale assunta nei confronti delle
regioni orientali dell'Impero, cui egli concede - rispetto a Traiano -
maggiori autonomie; come anche, infine, la tolleranza dimostrata nei
confronti dei culti orientali che si infiltrano nelle regioni occidentali
(tra i quali non dobbiamo però annoverare né il cristianesimo né l'ebraismo,
da lui perseguiti duramente).
Il periodo del suo regno è forse, tra tutti, quello di maggiore benessere.
Né sono presenti in esso eventi particolarmente significativi o eclatanti,
anche perché egli non propende verso nuove guerre di conquista, ma al
contrario si impegna in un'opera generale di consolidamento del vastissimo
territorio imperiale.
Il suo principato è caratterizzato da un riassestamento delle strutture
statali (ad esempio, attraverso la riforma dell'amministrazione finanziaria
dell'Impero, ovvero con l'istituzione dei curatores fisci), e dalla rinuncia
non soltanto a velleità di natura espansionistica, ma anche al mantenimento
di province particolarmente onerose, quali l'Armenia e la Mesopotamia.
Celebre è inoltre il vallo adrianeo in Britannia, che delimita i territori
romani da quelli ancora in mano ai barbari; analoghe manovre di
delimitazione egli le compie poi in Germania e in Dacia.
Un altro elemento caratteristico del suo governo - in forte contrasto con la
linea di governo traianea - è la propensione verso la parificazione di tutti
i cittadini e verso lo sviluppo civile (anche attraverso opere di carattere
pubblico) delle province imperiali.
Nei suoi anni difatti, queste ultime conoscono una vera e propria esclation
a livello urbano, tanto che Adriano verrà ricordato come il maggior
'urbanizzatore' della storia dell'Impero.
Se quindi Traiano si è impegnato prevalentemente in un'opera di
consolidamento di Roma verso l'esterno, il suo successore Adriano ha portato
avanti invece una simile opera verso l'interno, migliorando ulteriormente
l'organizzazione della grande macchina imperiale e rinunciando
pragmaticamente a conservare quei territori che, pur dando lustro
all'Impero, ne risucchiano energie sia umane sia finanziarie.
C. Antonino Pio (138-161)
Adottato da Adriano quasi in punto di morte, T. Aurelio Antonino (passato
alla storia come il Pio, per l'immagine da lui fornita di se stesso come di
un Imperatore interamente dedito al bene dei propri sudditi) ascende al
principato nel 138, a quarantadue anni.
Fondamentalmente Antonino non apporta modifiche all'orientamento di Adriano:
persegue infatti una politica di pace sia all'interno che all'esterno, e di
consolidamento dell'Impero a livello organizzativo.
Se Adriano ha 'sistemato' l'organismo imperiale, portando così virtualmente
a termine quel lungo processo di consolidamento strutturale che era iniziato
con imperatori quali Ottaviano, Vespasiano, ecc., Antonino il Pio invece lo
irrigidisce in una forma che aspira in qualche modo a essere eterna.
Una differenza del suo governo rispetto a quello di Adriano starà però in un
maggior interesse per i diritti e i privilegi degli Italici. Egli difatti
restituirà a questi ultimi, nonché al Senato, parte delle prerogative che il
suo predecessore aveva loro tolte.
Un'attenzione particolare infine viene da lui dedicata all'assetto degli
eserciti sulle frontiere, quasi a voler separare ancor più rigidamente Roma
dal resto dei territori confinanti, secondo un progetto di tipo
isolazionistico già perseguito da Adriano.
Elemento di novità del suo principato - non ascrivibile però alla sua
volontà - sono i tentativi di penetrazione nell'Impero da parte di alcune
popolazioni barbariche, che premono sui confini settentrionali.
Essi costituiranno le prime avvisaglie di più ampi movimenti migratori che
si verificheranno - come vedremo tra poco - sotto il regno del suo
successore, Marco Aurelio.
D. Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, e la prima invasione barbarica
(161-180)
Il principato di Marco Aurelio ruota nella sua interezza attorno al problema
della sicurezza interna, conoscendo lungo l'arco di tutta la sua durata
delle continue invasioni territoriali: prima da parte dei Parti, e
successivamente da parte di alcuni popoli germanici (tra cui Quadi,
Marcomanni, Jazigi.).
Il suo è dunque (quantomeno nei suoi aspetti più significativi e
appariscenti) un periodo di governo essenzialmente militare, anche se ciò
non va ascritto all'indole dell'Imperatore (essendo egli al contrario, come
tutti sanno, il prototipo stesso dell'Imperatore-filosofo) bensì ad esigenze
di carattere difensivo dettate dalle circostanze storiche.
Le campagne militari del periodo di Marco Aurelio sono fondamentalmente due:
una prima combattuta contro i popoli partici orientali, per l'esattezza sul
fronte siriano e armeno; l'altra invece contro i Germani sul fronte
occidentale e interno (l'Italia).
(a) Guerre contro i Parti
Nel 163, il re dei Parti Vologese III, approfittando di una momentanea
debolezza dei confini orientali di Roma (dovuta peraltro ad alcune
incursioni barbariche sulle frontiere britannica e renana), attacca
l'Armenia - stato sotto l'influenza romana - imponendovi un proprio sovrano.
Dopo ciò, invade la Siria, vicina provincia dell'Impero.
Lucio Vero, fratello di Marco Aurelio, da questi designato coreggente, parte
per una spedizione militare nelle zone orientali, ove (163) riconquisterà i
territori perduti, comprese Armenia e Mesopotamia.
Sembrerebbe una ripresa della politica imperiale e coloniale di Traiano, ma
in realtà è espressione di un bisogno di sicurezza sui confini a est.
Sul piano della propaganda culturale poi, tali guerre verranno giustificate
con i concetti di "restitutio imperii" e con l'esigenza di tutelare gli
interessi delle regioni ellenistiche, piuttosto che con l'idea della potenza
romana.
(b) Guerre contro i Quadi e i Marcomanni
Nel 167, un anno dopo la stipula della pace con il regno partico, sarà la
frontiera romano-danubiana a essere invasa, questa volta dall'ondata
migratoria di alcuni popoli barbarici occidentali.
Alla base di tali movimenti migratori vi sono dei 'rimescolamenti' tra le
tribù residenti nelle zone dell'estremo oriente: rimescolamenti che,
partendo dall'odierna Russia, giungono a farsi sentire - attraverso diversi
contraccolpi - fino presso le regioni barbariche sui confini romani
occidentali.
Si verifica così in questi anni la prima invasione nei territori romani
occidentali da parte di popoli germanici, tra cui principalmente vi sono i
Quadi e i Marcomanni. Essi giungono a insediarsi fin nelle regioni della
Venetia (l'attuale Veneto) e di Aquileia.
Ben più grave della prima invasione, poiché giunge a toccare il cuore stesso
dell'Impero, essa impegnerà per alcuni anni (167-175) Marco Aurelio il
quale - anche a causa di una disastrosa pestilenza scoppiata tra le sue
truppe - dovrà ricorrere alla pratica di nuovi arruolamenti, ammettendo tra
le fila dell'esercito anche schiavi, gladiatori e soldati mercenari
germanici. In questi anni si inaugura così la politica (che avrà un enorme
seguito nei secoli della vera e propria decadenza) dell'alleanza con i
barbari al fine di combattere i barbari stessi!
E' facile immaginare come tali cambiamenti comportino per lo Stato romano un
considerevole sforzo finanziario, dovuto ad un consistente aumento delle
spese (soprattutto per gli eserciti), al quale fa inevitabilmente seguito un
inasprimento della pressione fiscale e un aumento dell'attività di
monetazione con l'abbassamento del potere d'acquisto della moneta (fenomeni
entrambi che conosceranno nei prossimi decenni un aumento costante e
inarrestabile).
Nel 180, Marco Antonio muore a Vienna, e il principato passa nelle mani di
suo figlio Commodo, allora diciannovenne, e che già da anni lo affiancava
per altro nella conduzione dell'Impero.
E. Commodo e la ripresa della tradizione autocratica (180-192)
Ancora di più di quello di suo padre, il principato di Commodo segna una
notevole svolta nella politica romana: il termine cioè di quella linea
tendenzialmente pacifista e 'non-violenta' portata avanti dagli
Imperatori-filosofi (Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio), attraverso la
ripresa di uno stile di governo di tipo autocratico e a tratti delirante,
quale era stato ad esempio quello di Nerone.
Mettendo da parte i motivi psicologici e le inclinazioni personali
dell'Imperatore (il quale - come coloro che lo hanno preceduto in un tale
stile di governo - è forse troppo giovane per portare avanti
responsabilmente la propria missione), vi sono evidentemente anche altri
motivi - più concreti e tangibili - alla base di una tale svolta.
Le recenti invasioni barbariche difatti hanno messo in luce la debolezza
strutturale dell'Impero, prospettando chiaramente con essa la necessità di
un mutamento radicale sul piano politico e militare, ovviamente in direzione
di una linea maggiormente difensiva, quindi anche maggiormente militarista e
autoritaria.
Non che quello di Commodo sia un periodo denso di eventi bellici - egli
anzi, non appena eletto, si affretta a stipulare una pace con i Germani e a
tornare a Roma, dopo di che non vi saranno più fatti d'armi particolarmente
significativi durante il suo regno.
Tuttavia una tale condotta di governo è indissolubilmente legata alla fine
per l'Impero della certezza della propria inviolabilità territoriale, e
all'esigenza quindi di un potenziamento ulteriore dell'apparato statale e
degli eserciti, a scapito per altro delle frange aristocratiche (ovvero del
Senato e della nobiltà terriera) da sempre latentemente ostili ad una
politica di eccessivo dirigismo statale.
Punti chiave della politica di Commodo sono: un atteggiamento fortemente
autoritario nei confronti del Senato e dei ceti nobiliari (con la ripresa
delle persecuzioni in stile domizianeo e delle confische di molti dei beni
immobili della nobiltà, attraverso i quali lo Stato viene arricchito e
potenziato); un'ulteriore indebolimento della presenza senatoria negli
apparati statali (con l'assegnazione del comando degli eserciti provinciali
ai cavalieri, anziché ai senatori); un'eccessiva attenzione per gli
spettacoli pubblici, e in generale verso ogni manifestazione di grandezza e
magnificenza dello Stato (anche in concomitanza con avvenimenti gravi, quali
l'ondata della peste o le invasioni della Britannia nel 185).
Non si può certo dire - come si evince anche da quest'ultimo punto - che la
condotta di governo di Commodo sia responsabile e realistica.
Egli morirà difatti a causa di una congiura perpetrata dagli eserciti
provinciali e dal Senato, stanchi di subire la sua condotta priva di regole
e gravitante attorno alle sue manie di grandezza. (Commodo si farà
ribattezzare 'Ercole romano' e trattare come un dio, secondo una linea
teocratica di governo, e ribattezzerà Roma 'Colonia commodiana').
Tuttavia, infondo, si può scorgere nelle sue scelte anche l'espressione di
una mutata temperie culturale, ora più inquieta e quindi anche più violenta,
risultato appunto di una situazione di maggiore instabilità interna
all'Impero.
Commodo morirà nel 192, per una congiura di palazzo. Tale evento aprirà le
porte a una nuova fase di Roma, inaugurata peraltro da una nuova guerra per
il principato tra rivali militari (la prima era stata nel 68, in seguito
alla morte di Nerone).
CONCLUSIONI (96-192)
Il periodo qui analizzato - essenzialmente il secondo secolo - vede
avvicendarsi ben sei imperatori, ognuno dei quali scandisce una differente
fase della trasformazione della compagine imperiale romana:
- Nerva il periodo di riassestamento dopo la morte di Domiziano;
- Traiano l'ultima fase espansiva, forse l'ultima manifestazione di
esuberanza militare da parte dell'Impero;
- Adriano (e Antonino il Pio) quel momento che, costituendo l'apice della
parabola storica di Roma, costituisce inesorabilmente anche l'inizio del
declino;
- Marco Antonio e Commodo, infine, i primi segni della crisi e
dell''implosione' della compagine imperiale, nonché due differenti modi di
rapportarsi a una tale situazione: il primo quello di un distacco filosofico
di fronte alla caducità delle cose (si pensi ai suoi "Ricordi"!), il secondo
invece quello di una reazione violenta e irrazionale davanti alla catastrofe
imminente.
Dal punto di vista socio-culturale poi, tale periodo vede la definitiva
affermazione delle classi filo-imperiali su quelle senatorie e nobiliari, e
un ulteriore assorbimento di queste ultime nelle fila dei poteri del
princeps.
Economicamente, invece, si assiste a un'ulteriore crescita dei traffici e
delle comunicazioni interne, nonché al definitivo affermarsi delle classi
medie nell'economia sociale dell'Impero: sia di quelle impiegate nelle
attività commerciali, sia di quelle impiegate nell'amministrazione statale.
I SEVERI
I SEVERI E LA MILITARIZZAZIONE DELL'IMPERO
1) La fine dell'Età aurea
- L'età d'oro
Quella degli Antonini (grosso modo il secondo secolo) viene ricordata dagli
storici come "l'età aurea" della storia imperiale.
Un tale periodo si distingue infatti per una notevole stabilità - che
rimarrà peraltro insuperata - sia a livello sociale che a livello politico,
dovuta soprattutto al mirabile equilibrio instauratosi tra le diverse classi
che compongono la società imperiale (con particolare riferimento a quelle
nobiliari, che danno un'adesione pressoché incondizionata ai valori
universalistici dell'Impero, riconoscendo così l'autorità delle istituzioni
statali e dell'Imperatore).
Esso, inoltre, è caratterizzato da un livello di vita molto alto e da un
lungo periodo di pace.
Ma il merito di una tale situazione non sta tanto nell'abilità a livello
amministrativo della classe dirigente, quanto piuttosto in una congiuntura
storica particolarmente favorevole. I confini dell'Impero infatti non sono
seriamente minacciati da nessuna popolazione barbarica, né il sistema di
produzione schiavista mostra ancora evidenti segni di crisi e di stanchezza.
Certo si possono intravedere i primi sintomi della futura crisi già sotto il
principato di Antonino il Pio (138-161), quando alcune popolazioni
barbariche tentano - per la prima volta - di forzare le frontiere
dell'Impero.
Stessa sorte toccherà poi al principato di Marco Aurelio (161-180), e
inoltre con esiti molto più gravi (si ricordi l'invasione marcomanna di
Aquileia e del Veneto).
Sotto Commodo (180-192) infine, se anche si verificheranno dei tentativi di
invasione delle zone britanniche da parte di popolazioni barbariche,
possiamo dire che la prima ondata di migrazioni si sia oramai placata.
- Le coordinate della crisi dell'Impero
E' difficile riassumere attraverso concetti astratti il complesso meccanismo
che si trova alla base della crisi imperiale, il cui inizio si colloca
peraltro sul finire dell'età aurea.
Non vi è dubbio però che siano le accresciute esigenze a livello difensivo
il fattore principale (o quantomeno quello più evidente) determinante gli
squilibri sociali e politici dell'Impero.
Vediamo, molto schematicamente, quali siano i punti salienti di un tale
processo:
A - Uno dei fattori principali, forse quello preponderante, sono le
accresciute esigenze a livello militare, quindi le aumentate spese dello
Stato per gli eserciti e, inevitabilmente, la maggiore pressione fiscale
esercitata sui cittadini.
E' ovvio come tali esigenze provochino un impoverimento diffuso tra tutti
gli strati della popolazione (a eccezione, possiamo dire, delle frange
impiegate negli eserciti, sempre più numerose ma anche - per la propria
utilità - sempre più capaci di condizionare le scelte politiche).
D'altra parte la minor sicurezza interna, dovuta anche a episodi di
pirateria e banditismo (prodotto in buona parte di una tale situazione di
impoverimento e di diffuso disagio sociale), rende più difficoltosa la
mobilità interna delle merci e con essa le stesse attività commerciali.
Il che poi si traduce in un indebolimento di quei ceti medi (burocratici,
commerciali, ecc.) che costituiscono la 'spina dorsale' dell'Impero romano.
[Infatti, come si è già detto, il vero scopo di quell'enorme macchina
burocratica e organizzativa che è l'Impero sta nel favorire i traffici e,
con essi, il benessere di buona parte dei suoi sudditi; esso trova dunque
nei ceti medi - impiegati tanto in mansioni istituzionali e gestionali,
quanto in mansioni finanziarie e commerciali - il suo principale alleato. E'
altresì chiaro, come il declino delle classi medie sia complementare a
quello dello Stato imperiale.]
B - Ma crisi delle classi medie significa anche crisi della piccola
proprietà terriera.
Quest'ultima infatti cede sempre di più il passo ai grandi proprietari, i
quali finiranno col tempo per assorbire quasi totalmente al loro interno
quelli più piccoli.
Questi ultimi - in gran parte veterani dell'esercito cui lo Stato ha
concesso piccoli appezzamenti di terra, coi quali essi hanno inaugurato una
piccola attività in proprio - risentono particolarmente sia dell'accresciuta
pressione fiscale, sia della maggiore insicurezza interna e sono perciò
costretti molto spesso a confluire nei latifondi, dal momento che questi che
offrono loro maggiori garanzie: sono i futuri coloni della terra che -
quantomeno nei prossimi secoli - finiranno per sostituirsi all'antica classe
degli schiavi.
C - Alla crisi della borghesia mercantile e cittadina si accompagna dunque
la crisi dei ceti medi rurali, e di conseguenza anche un notevole
arricchimento (assieme a una crescita di peso sul piano politico) della
classe nobiliare, ovvero dei grandi proprietari terrieri.
Ora più che mai, lo Stato e la nobiltà si fronteggiano come nemici: l'uno
alleato e difensore sul piano politico e ideologico di quei ceti
medio-borghesi (dei quali è anche, tuttavia, una delle principali cause
d'impoverimento, pur costituendo essi per l'Impero una indispensabile
condizione di sopravvivenza!) che l'altra tende invece ad assorbire al
proprio interno.
Una lotta che si risolverà sui tempi lunghi (come tutti sanno) in favore dei
grandi possidenti, e che non ha più - come aveva invece avuto nei primi
decenni dell'Impero - motivazioni di carattere principalmente ideologico,
bensì economiche.
Anche il fatto che, con l'aumentare delle necessità e delle spese statali,
la pratica delle confische ai danni dei nobili - già utilizzata negli anni
precedenti da molti imperatori per 'fare cassa' - tenda a inasprirsi,
finisce per alimentare la conflittualità tra il governo e i ceti più ricchi
della società (rompendo così l'idillio, creatosi nel secolo precedente, tra
lo Stato imperiale e il Senato: tra i valori universalistici e monarchici e
quelli della libertas senatoria).
E non sono solo le esigenze di carattere militare a gonfiare i conti dello
Stato, ma in generale l'esasperato sviluppo di tutti i suoi apparati (ad
esempio di quelli con funzioni di intervento economico o 'propagandistico',
come i 'collegia', un tipo di istituzioni di cui si parlerà più avanti).
- Conclusioni
Questi, e i prossimi anni, saranno dunque caratterizzati da:
- un fenomeno di "gigantismo statale" (segno soltanto apparente di solidità
dell'Impero);
- un diffuso impoverimento dei ceti medi e di quelli più bassi;
- il costante ampliamento delle grandi proprietà, nonchè quindi
l'accrescimento - anche su un piano politico - del potere nobiliare (a
scapito ovviamente di quello imperiale).
Il tutto poi sullo sfondo della crisi economica del terzo secolo, crisi
dovuta non solo alle molteplici invasioni esterne e alla maggiore
insicurezza sui confini (fattore cui già si è accennato), ma anche
all'"affaticamento" del sistema di produzione schiavista (delle cui ragioni
si parlerà più avanti).
I SEVERI E LA MILITARIZZAZIONE DELL'IMPERO
2) Il principato di Settimio Severo (193-211)
A. Le guerre civili
Una prova evidente dell'accresciuto potere degli eserciti la si ha se si
considera la situazione che fa seguito alla morte di Commodo (192), ovvero
la lotta per la conquista della carica imperiale.
E' ormai evidente infatti, come gli aspiranti imperatori debbano passare
tutti attraverso le 'forche caudine' dell'approvazione e del sostegno
dell'esercito (quantomeno di una parte di esso), per potere sostenere una
competizione divenuta oramai essenzialmente militare e monetaria.
I pretendenti alla carica suprema sono in questi anni di due tipi: il primo
è quello degli italici (Pertinace e Didio Guiliano), ovvero coloro che
provengono da regioni che da sempre - per tradizione consolidata -
forniscono all'Impero i quadri della classe dirigente.
Essi, per ottenere il titolo augusto, debbono essenzialmente 'comperare' con
consistenti donativi la fedeltà dell'esercito dei pretoriani.
Il secondo tipo invece è composto da militari provenienti da regioni più
periferiche. Questi ultimi - sostenuti dagli eserciti provinciali, ovvero
dalle proprie legioni (ad essi associate da legami di fedeltà, oltre che da
interessi politici contingenti) - tentano un'affermazione a livello
internazionale. Essi sono: Clodio Albino (comandante delle legioni della
Britannia), Pescennio Nigro (comandante delle legioni siriache) e Settimio
Severo (comandante delle legioni danubiane, e futuro imperatore).
Questi gli eventi principali della lotta per il potere: nel 192, alla morte
di Commodo, è Pertinace ad acquisire il titolo imperiale; solo tre mesi
dopo, Didio Giuliano (altro italico) riesce a farlo eliminare dai pretoriani
(con la promessa di larghi donativi) e a prenderne il posto;
contemporaneamente però si sono creati nelle province anche altri aspiranti
imperatori (Albino, Nigro e Settimio) i quali minacciano d'arrivare fino a
Roma e prendere di prepotenza il posto di Giuliano.
Sarà Settimio Severo (193) a compiere per primo tale mossa, e a farsi
incoronare princeps dal Senato (dopo essersi assicurata la fedeltà
dell'esercito del pretorio).
I quattro anni seguenti egli li passerà a lottare contro i propri rivali e i
loro sostenitori, condizione indispensabile per divenire realmente
imperatore unico: nel 194 sconfigge così il suo rivale a oriente, Nigro, il
quale ha cercato e trovato contro il proprio nemico l'alleanza dell'ultimo
sovrano partico, Vologese IV (fatto questo che costringe Settimio a
riprendere la politica aggressiva contro le zone orientali: ovvero a
riconquistare - ancora una volta - la Mesopotamia trasformandola in
provincia, eguagliando così le imprese belliche dello stesso Traiano!).
Nel 197 infine Settimio sconfigge e elimina nelle regioni galliche anche il
suo secondo avversario, Clodio Albino (generale delle truppe britanniche),
divenendo finalmente sovrano a tutti gli effetti e inaugurando una nuova
dinastia: quella dei Severi.
B. Statizzazione e militarizzazione dell'Impero
1 - Onnipervasività dello Stato sotto Settimio
Per comprendere le scelte politiche di Settimio Severo, è necessario tenere
presente la trasformazione (già brevemente descritta sopra) che ha subito
l'Impero sia negli anni del suo principato, sia nei decenni immediatamente
precedenti.
Tali trasformazioni riguardano essenzialmente: i poteri sempre più
accentuati degli eserciti; l'influenza sempre maggiore (sia a livello
economico che politico) dei latifondisti all'interno della società;
l'ampliamento, più o meno in tutte le zone dell'Impero, delle fasce di
povertà.
Il tutto converge nel determinare la fine di quell'armonia tra i ceti ricchi
e lo Stato, nonché tra questi e le masse degli indigenti ossia dei ceti
parassitari (sempre meno tutelati, per forza di cose), e con essa l'inizio
dello scollamento tra le istituzioni imperiali e le reali forze produttive,
nonché più in generale tra tali istituzioni e il reale tessuto sociale di
cui è composto l'Impero.
E' in questa situazione di graduale - ma inesorabile - allontanamento tra lo
Stato e l'effettiva vita sociale dell'Impero, che prende corpo e si afferma
la tendenza verso l'onnipresenza e l'onnipervasività dello Stato nei
confronti di quest'ultima.
Ed è altresì chiaro come un tale atteggiamento costituisca un tentativo di
reazione a uno stato di cose - quello descritto sopra appunto - che in
realtà resta per se stesso difficilmente superabile.
La politica di Settimio Severo avrà infatti come obiettivi principali: da
una parte quello di fare affluire maggiori entrate nelle casse dello Stato
(a spese soprattutto, data la loro ricchezza, dei ceti latifondistici) e
mantenere quindi finanziariamente sia gli eserciti sia gli apparati
dell'amministrazione imperiale (entrambe realtà in costante crescita);
dall'altra di contenere l'avanzamento politico della grande proprietà,
mantenendo viva inoltre la fedeltà ai valori e alle istituzioni dell'Impero
nella popolazione, in particolare nelle classi medie.
Per raggiungere tali obiettivi, Settimio perseguirà una politica di
penetrazione e di controllo sempre più capillare all'interno della società
romana, non escludendo in una tale opera nemmeno (anzi.) alcuni aspetti di
natura economica e produttiva, rimasti fino ad allora appannaggio esclusivo
dei privati cittadini.
- La politica economica
Gli anni del consolato di Settimio Severo conoscono un livello di
statizzazione dell'economia quale mai era stato raggiunto in precedenza:
soprattutto l'economia agraria conosce in questo periodo un vero e proprio
imprigionamento nelle maglie della burocrazia statale attraverso l'azione di
funzionari che - seppure spesso fondamentalmente inesperti e incapaci di una
gestione efficace - possono per mandato imperiale deliberare su di essa.
E' in atto dunque - da parte di uno Stato sempre più centralizzato - un
processo di accentramento di quelle forze produttive che stanno alla base
dell'economia imperiale: processo che, anziché rafforzarle, non farà che
indebolirle, contribuendo così ad accelerare il collasso economico e
politico dell'Impero nel terzo secolo.
Senza contare il fatto che tali misure, assieme ad un'accresciuta pressione
fiscale (è del principato di Settimio l'istituzione di una nuova e gravosa
tassa finalizzata al mantenimento degli eserciti: l'annona militare, che
colpisce soprattutto i grandi proprietari), contribuiscono notevolmente a
guastare i rapporti tra lo Stato e i ceti latifondistici e nobiliari,
essendo anzi il principale motivo alla base dell'interruzione delle loro
buone relazioni.
- I 'collegia'
Sorti nel secondo secolo, come espressione degli interessi delle classi
medie, i 'collegia' conoscono in questi anni un ulteriore sviluppo.
Ma cosa sono i 'collegia'? Essenzialmente associazioni di categoria (ovvero
associazioni professionali, da alcuni studiosi paragonate, a torto o a
ragione, alle corporazioni medievali) oppure associazioni giovanili, agenti
essenzialmente a livello municipale.
Tali associazioni, se da una parte favoriscono l'affermazione politica delle
classi medie e dei ceti meno abbienti - contrastando così il tradizionale
predominio politico all'interno dei municipi delle classi più ricche, cioè
dei latifondisti e degli equestri -, dall'altra rinsaldano l'alleanza
ideologica e politica tra ceti medi e Impero (avendo tali istituti origine
da quest'ultimo, ed essendone inoltre finanziati).
Dal punto di vista dello Stato quindi, i 'collegia' sono essenzialmente uno
strumento di penetrazione e di controllo del tessuto sociale, ragione per
cui Settimio ne incrementerà la presenza.
E' da notare poi come queste istituzioni siano - come già si è accennato -
di due diversi tipi: il primo è costituito dalle associazioni professionali
(ad esempio quelle dei mugnai, o dei tessitori); il secondo invece è
costituito dai 'collegia iuvenis', associazioni finalizzate all'educazione
della gioventù (attraverso incontri, tornei, ecc.) ai valori della società
imperiale e volte a coltivarne l'affezione e la gratitudine verso lo Stato.
[Si ricordino a questo proposito - come un precedente - le 'alimentationes'
istituite da Traiano, anch'esse finalizzate a coltivare la futura classe
media - burocratica - dell'Impero].
- La riorganizzazione dell'Impero
Sono due essenzialmente le coordinate dell'azione imperiale nei riguardi
dell'amministrazione interna: da una parte vi è la tendenza verso una
parificazione tra tutte le regioni dell'Impero (in altri termini a
trasformarle tutte - Italia compresa - in mere province imperiali),
dall'altra la tendenza verso il livellamento politico e giuridico di tutti i
ceti sociali (nobiliari, cittadini, popolari.) nei confronti dell'autorità e
delle istituzioni imperiali.
Entrambi questi orientamenti sono indirizzati ovviamente a rafforzare
l'autorità e il potere dello Stato e dell'Imperatore: l'uno attraverso
un'azione di decentramento amministrativo che comporta l'abolizione di molti
dei privilegi tradizionali degli Italici (ad esempio quelli militari),
l'altro invece elidendo le prerogative politiche dei ceti più ricchi (i
quali, a causa dei propri poteri economici e politici, sono potenzialmente
più pericolosi per l'autorità statale).
Inoltre, crescendo il raggio d'azione delle istituzioni statali, cresce
parallelamente anche l'esigenza di creare un'organizzazione più efficiente e
articolata a livello amministrativo.
Per tale ragione, un peso sempre maggiore finiscono per rivestire
all'interno degli apparati imperiali gli uomini di legge (un esempio del
rigoglio nel campo degli studi giuridici durante il periodo dei Severi ce lo
fornisce Papiniano, famoso giurista e prefetto del pretorio sotto Settimio).
Ma accanto alla tendenza verso l'estensione e l'ingigantimento degli
apparati statali, possiamo scorgerne un'altra - a essa complementare - in
direzione di un accentramento personalistico dei poteri (soprattutto di
quelli finanziari) nella figura del principe. Un doppio movimento, insomma:
dal centro verso la periferia, e da questa verso il centro.
Principale espressione di questo secondo aspetto saranno - come vedremo tra
poco - le riforme finanziarie.
- La riorganizzazione delle finanze
Tra tutte le riforme strutturali messe in atto da Settimio, la più
importante è senza dubbio quella riguardante l'organizzazione delle finanze
imperiali.
Tale trasformazione comporta un accentramento quasi totale del patrimonio
statale nelle mani del princeps, accentramento che riduce ciò che prima era
'fisco', cioè patrimonio dello Stato, a un bene personale (res privata) del
sovrano.
E' dunque evidente, qui come altrove, come sia in atto all'interno
dell'Impero uno sviluppo in senso 'orientaleggiante': se da una parte
infatti ogni bene dello Stato tende a divenire sempre di più un possesso
privato dell'Imperatore [si ricordi, ad esempio, che in Egitto il Faraone
resta legalmente l'unico proprietario di tutti i beni], dall'altra anche la
crescita costante degli apparati burocratici tende a rafforzare l'autorità
di quest'ultimo su tutte le regioni sottoposte al suo dominio.
Ma vi è anche un altro punto che rende la politica finanziaria di Settimio
Severo anomala - quantomeno rispetto ai decenni precedenti -, ovvero la
tendenza a cercare di accrescere, sistematicamente e in tutti i modi
possibili, il patrimonio finanziario dello stato (il quale peraltro, si
identifica oramai con il capitale finanziario personale dell'Imperatore).
Le fonti di arricchimento dello Stato sono essenzialmente tre:
- la prima è una presunta adozione del nuovo imperatore da parte di Marco
Aurelio, attraverso la quale Settimio se da una parte si pone
fondamentalmente il come continuatore dell'opera di governo degli Antonini,
dall'altra incamera in una volta sola tutte le sostanze da essi accumulate
sin dai tempi di Nerva;
- la seconda è la pratica (oramai di lunga tradizione) delle confische ai
danni della nobilitas e dei proprietari terrieri;
- la terza infine sono le confische dei beni fatte ai suoi due nemici e
concorrenti per il titolo imperiale, Nigro e Albino, alla vigilia della loro
morte.
Con tali misure Settimio arriverà ad accumulare un capitale finanziario che
non ha eguali nel mondo classico, ma che - questo ci fa riflettere - non
basterà in ogni caso da solo a colmare la richiesta di danaro da parte dello
Stato, costringendo quest'ultimo ad aumentare la moneta circolante con
inevitabili risultati di carattere inflattivo.
L'organizzazione imperiale sembra quindi regredire, in questi anni, verso
forme personalistiche di potere che ricordano quelle che hanno
caratterizzato il declino della Repubblica e i primi decenni dell'Impero.
Tali cambiamenti però, sono espressione della volontà dell'Imperatore di
contrastare la tendenza in atto all'interno della compagine imperiale verso
la frantumazione, attraverso misure di tipo centralistico e personalistico
di segno opposto.
2 - Il rafforzamento degli eserciti
Anche Settimio - come molti imperatori prima di lui, tra i quali ad esempio
lo stesso Traiano - ha origini militari. E anche lui, come gli altri, non
smentirà tali origini con la propria azione di governo.
Le principali imprese belliche di Settimio saranno tre: le prime due si
collocano negli anni iniziali del suo principato, l'ultima invece in quelli
finali.
Delle due imprese iniziali, quella contro Nigro in Oriente (194) e quella
contro Albino in Gallia (197), è senza dubbio la prima quella più degna di
essere ricordata: con essa difatti l'Impero arriva a conquistare alcune zone
della Mesopotamia rimaste estranee persino alla conquista traianea, e per di
più con minor dispendio sia di mezzi che di tempo.
Ma le campagne orientali sono importanti anche per altre ragioni.
Con esse ha inizio infatti: a) la pratica di arruolamento di ausiliari
locali (Arabi, Parti, ecc.) nelle milizie imperiali, in altri termini
l'impiego dei Barbari contro i Barbari che caratterizzerà la strategia
romana fino alla caduta; b) la creazione di tre nuove legioni (segno
evidente delle accresciute esigenza difensive); c) un'ulteriore apertura
degli eserciti, anche nei gradi superiori, a personaggi appartenenti
all'ordine equestre anziché a quello nobiliare.
Sotto Settimio dunque, assistiamo a una consistente crescita quantitativa
degli eserciti e del loro peso (anche politico) all'interno della società
romana.
E le spese per il loro mantenimento saranno una delle principali cause del
deficit dello Stato (e ciò, come si è detto, nonostante le modifiche subite
dalle finanze imperiali in questi anni), portando tra l'altro il fenomeno
inflazionistico ad un livello mai raggiunto prima (la presenza di argento
nel denario, la moneta romana, arriverà in questi anni a toccare il picco
negativo del 42%).
Nel 208 Settimio si trasferisce, assieme ai suoi due figli Caracalla e Geta,
in Britannia, dove combatte contro i Caledoni per l'annessione della Scozia.
Le campagne non si riveleranno un gran successo, pur concludendosi con una
vittoria romana.
Nel 211, sempre in Britannia, Settimio muore. Sul letto di morte egli
consiglierà ai propri figli, futuri imperatori, di compiacere soprattutto
gli eserciti, largheggiando in stipendi e in donativi.
Un consiglio che, infondo, è il suggello stesso della sua politica: una
politica incentrata attorno all'idea di uno Stato forte, capace di 'tenere
saldamente in pugno' la situazione sia dentro che fuori dai confini, e la
cui principale risorsa sono - in ultima analisi - proprio gli eserciti!
C. La crisi del sistema schiavista
Si è già accennato a come, in realtà, non sia soltanto l'aumentata pressione
fiscale (dovuta essenzialmente alle accresciute esigenze militari) la causa
dell'impoverimento dei ceti medi e bassi nonché, in generale, di un po'
tutta la popolazione dell'Impero.
Vi sono difatti anche altri e più profondi motivi alla base della crisi del
mondo romano, motivi di ordine produttivo.
L'economia antica è un'economia schiavile. Essa ha nella schiavitù la sua
vera (se non l'unica) forza-lavoro, essendo lo schiavo una sorta di
"macchina-umana", priva di qualsiasi (anche del più elementare) diritto,
utilizzabile quindi dal padrone nei modi più svariati e senza alcuna
limitazione di sorta.
A livello produttivo, l'utilizzo di maggior rilievo degli schiavi è quello
agricolo. E infatti - come si è già detto più volte - la produzione agraria
è la base stessa di tutto il sistema economico imperiale.
Il ricambio continuo di schiavi, dovuto alle frequenti guerre di conquista
romane in terre straniere, garantisce all'economia imperiale, almeno fino a
un certo momento, l'afflusso di sempre nuova linfa aumentando o quantomeno
impedendo una diminuzione della produttività.
Ma quando, raggiunti i suoi limiti estremi, l'Impero sarà costretto per
ragioni strutturali a rinunciare ad ulteriori espansioni territoriali (ciò
da cui deriverà una drastica diminuzione di manodopera schiavile), le sue
capacità produttive finiranno per esserne pesantemente compromesse.
Sarà appunto una tale diminuzione, assieme alle aumentate spese per il
mantenimento dello Stato e degli eserciti, una delle principali cause del
tracollo economico del III secolo!
Ma le nefaste conseguenze della diminuzione della forza-lavoro schiavile
colpiscono inevitabilmente più la piccola e la media proprietà rispetto alla
grande.
Anche se infatti, come è ovvio, un tale fenomeno riguarda tutta la
produzione agricola, sono tuttavia i piccoli e i medi produttori - in quanto
più vulnerabili di fronte ai mutamenti del mercato - a patire maggiormente
queste trasformazioni, ciò che li porta a riversarsi nelle grandi proprietà
fondiarie alla ricerca di un più solido rifugio.
Viceversa, le grandi proprietà riusciranno a rimediare alla carenza di
manodopera schiavile accogliendo questi nuovi soggetti, provenienti peraltro
non solo dalla piccola e dalla media proprietà agraria, ma anche dalle
città.
Inizia, in questi anni, il processo di formazione della classe dei 'coloni',
ovvero di quella classe che nei secoli futuri finirà - attraverso un lento
processo che culminerà con la formazione dell'economia feudale - per
sostituire quella degli schiavi.
E diviene inoltre col tempo sempre più visibile lo svuotamento delle città
(dovuto, in massima parte, alla stagnazione dei traffici), così come
l'ampliamento dei latifondi e il diffondersi in essi dell'economia
'colonica'.
Non bisogna credere però, che - sotto i Severi - un tale processo conosca
già il suo apice. Al contrario, in questo periodo l'economia di scambio è
ancora molto florida, soprattutto in alcuni settori.
E tuttavia è indiscutibilmente già in atto quella trasformazione (le cui
basi per altro sono state poste proprio nel 'periodo aureo', quando l'Impero
avendo toccato i suoi limiti espansivi ha bloccato il proprio processo di
dilatazione) che gradualmente porterà a un rovesciamento della situazione, a
vantaggio delle forze particolaristiche e locali, e a svantaggio dello
'Stato sovranazionale' romano.
3) Caracalla (211-217) e la cittadinanza universale
A. Evoluzione dell'Impero sotto Caracalla
1 - Il ruolo degli eserciti
Principale sostegno del principato di Carcalla (il cui vero nome è Marco
Aurelio Antonino) saranno le milizie, alle quali egli elargirà - come del
resto suo padre gli aveva consigliato di fare - diversi favori.
Aumento degli stipendi, donativi, ed altri favori sono infatti oramai mezzi
necessari per assicurarsi il sostegno e l'amicizia degli eserciti, divenuti
strumenti importanti - se non addirittura indispensabili - sia per il
mantenimento dell'integrità territoriale, che come mezzo da parte dei
sovrani di consolidamento e conservazione del proprio potere.
[E infatti, come vedremo, tutti i discendenti di Settimio Severo avranno
negli eserciti il proprio 'giudice supremo', che ne decreterà non solo la
missione politica eleggendoli (prima del Senato), ma anche la fine
(attraverso il cesaricidio)].2 - L'uguaglianza politica
Ma il sostentamento e il mantenimento degli apparati militari (e in generale
di quelli statali) richiede per forza di cose anche delle grandi spese, e
con esse un ulteriore aumento della pressione fiscale.
E' a una tale esigenza di denaro che molto probabilmente si deve la
promulgazione, nel 212, della celebre "constitutio antoniana de civitate",
un editto con il quale l'Imperatore concede anche ai sudditi delle province
(pur se con alcune eccezioni) la cittadinanza romana.
Tale editto costituisce ovviamente, per queste ultime, un grande passo in
avanti. Proseguendo nell'opera del padre, che si era impegnato a parificare
la loro condizione politica a quella italica, Caracalla ne riconosce infatti
anche sul piano giuridico la condizione di uguaglianza rispetto ai sudditi
italici.
Ma oltre che un atto di coraggio, che va contro le più antiche e consolidate
tradizioni di Roma, un tale editto è il riconoscimento di uno stato di
fatto: del fatto cioè che oramai in tutti gli ambiti della vita sociale
dell'Impero (dall'esercito, alla burocrazia, per arrivare alla composizione
stessa del Senato) i ruoli si sono 'internazionalizzati', non essendovi più
quindi - se non in misura davvero trascurabile - un'effettiva egemonia
italica.
Questo provvedimento quindi, che pure risulta indiscutibilmente un affronto
nei confronti dei sostenitori del tradizionalismo romano, non intacca
seriamente gli interessi di nessuna categoria sociale, essendo piuttosto il
riflesso e l'esito di un processo - in atto da tempo - di parificazione tra
le varie regioni dell'Impero (processo inoltre a quest'ultimo
consustanziale, dal momento che l'Impero non può per sua natura avere un
centro, essendo un organismo la cui forza in realtà sta tutta nella capacità
di istituire degli scambi commerciali e culturali tra le proprie zone, anche
le più distanti, e favorirne così l'integrazione).
Il provvedimento di Caracalla è perciò l'atto conclusivo di un percorso la
cui origine si colloca al tempo delle prime e lontanissime manifestazioni
dell'imperialismo e dell'internazionalismo di Roma.
In ogni caso, questa concessione non è veramente universale. Vi sono infatti
anche degli esclusi: sono i "peregrini dediticii", da identificare
probabilmente con alcune popolazioni stanziate nei confini dell'Impero e non
urbanizzate.
3 - Implicazioni finanziarie dell'editto di Caracalla
Ma, come già si è accennato sopra, l'Editto del 212 non è soltanto il
prodotto di aspirazioni di carattere ideale, bensì anche (e secondo molti
prima di tutto) di esigenze finanziarie.
Lo scopo dell'estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti
dell'Impero, non è infatti solo quello d'ampliarne i diritti, ma anche i
doveri - come del resto prova il fatto che esso estenda a tutti i suoi
sudditi il dovere di pagare le imposte sulla successione e quelle sulla
manomissione (l'atto con cui vengono affrancati gli schiavi).
Un tale diritto di cittadinanza universale, dunque, non comporta vantaggi
soltanto per i neo-cittadini, ma anche per lo Stato romano.
4 - L'indebolimento del Senato
Un altro importante aspetto del governo di Caracalla - e in generale dei
Severi - è la tendenza ad esautorare il Senato dai suoi più tradizionali
compiti politici e amministrativi.
Esso difatti, in quanto espressione della classe nobiliare e latifondista
(nonché come istituzione non direttamente dipendente dall'autorità
dell'Imperatore, e per quest'ultimo quindi anche più difficilmente
controllabile) viene "rispettosamente" allontanato da ogni reale funzione di
carattere politico.
Anzichè ai senatori, il princeps preferisce infatti concedere i propri
favori ai cavalieri, e in generale a quelle forze sociali - cittadine o
militari - che sono più direttamente legate alla sua autorità e i cui
interessi, ora più che mai, hanno molta più affinità con i suoi.
In tutti i settori quindi (amministrativi, giuridici, militari, ecc.), i
ceti "borghesi" tendono a sostituire quelli senatori - e ciò anche nei
ranghi più alti, i quali per tradizione consolidata appartengono invece alla
nobiltà.
Lo Stato insomma si difende dalla crescita dei latifondi (ovvero delle forze
produttive agrarie potenzialmente eversive rispetto al suo potere, in quanto
se da una parte conoscono un costante incremento territoriale, sono
dall'altra sempre più portatrici di interessi e di valori particolaristici e
locali, molto divergenti rispetto a quelli imperiali) cercando di
delegittimare l'autorità politica del Senato e della nobiltà terriera.
In questi anni hanno luogo, quindi, due fenomeni opposti ma complementari:
da una parte vi è la crescita degli apparati statali (soprattutto di quelli
militari), mentre dall'altra vi è quella delle grandi proprietà (che si
costituiscono spesso come veri e propri luoghi di assembramento e di rifugio
rispetto al resto della società).
Si verifica, in altri termini, un allontanamento tra le reali forze
produttive e sociali che stanno alla base dell'Impero, e quelle invece di
carattere più propriamente politico e amministrativo.
B. Eventi del principato di Caracalla
Anche se il periodo del principato di Caracalla è relativamente breve, esso
resta comunque in un'ottica storica molto significativo, e ciò non solo per
la promulgazione dell'editto sulla cittadinanza universale.
Sebbene la memoria di quest'ultimo sia infatti incrinata dall'episodio
dell'assassinio (pare davanti alla madre, Giulia Domina) di suo fratello
Geta, aspirante alla coreggenza imperiale, è indiscutibile tuttavia che egli
si sia attivamente impegnato per salvaguardare i confini imperiali sia a
Occidente, con le campagne sul confine retico contro i Germani (213), che ad
Oriente, con quelle contro i Parti (214-217).
Riguardo alle seconde, alla loro base vi è senza dubbio anche il desiderio
di guadagnarsi gloria e fama personali con l'estensione dell'Impero verso
est, approfittando di una momentanea incertezza politica, dovuta a questioni
dinastiche, del regno partico.
E sarà proprio l'esito disastroso di queste campagne a perderlo, facendogli
mancare l'appoggio fondamentale degli eserciti. Egli infatti verrà ucciso a
Carre, nel 217, dai suoi stessi soldati.
Al suo posto diverrà imperatore (seppure per pochissimo tempo) un certo
Macrino, primo esempio nella storia di Roma di uomo asceso fino alla dignità
imperiale partendo dalla carica di prefetto del pretorio. Egli realizzerà in
tal modo il sogno di molti tra coloro che lo avevano preceduto in tale
carica - tra i quali, su tutti, spicca Seiano.
4) Il breve regno di Elagabalo (217-222)
Macrino, facendosi incoronare imperatore dagli eserciti senza neanche
attendere la conferma del Senato, dimostra subito di confidare totalmente
nella solidarietà e nell'appoggio di questi ultimi.
Tuttavia egli non riuscirà a conservarsi nemmeno il loro favore,
probabilmente a causa di una pace ingloriosa e onerosa stipulata con il
regno dei Parti, un atto non approvato dalle truppe; verrà ucciso perciò da
queste ultime dopo solo pochi mesi di governo.
Al suo posto viene allora eletto imperatore Eliogabalo (Marco Aurelio
Antonino), allora quattordicenne, per iniziativa della nonna Giulia Mesa, la
quale sostiene tra le milizie orientali un'ampia campagna in suo favore.
Gli eserciti inoltre lo acclamano imperatore anche per i vincoli di
parentela che egli riveste con Settimio e Caracalla, della cui dinastia si
pone come continuatore.
L'interesse del suo regno è essenzialmente di carattere culturale e
religioso.
Ciò che lo caratterizza infatti è un ambizioso tentativo di rinnovamento
dell'Impero sia a livello religioso, sia a livello di classe dirigente. Ma
sarà proprio un tale ambizioso progetto a perderlo, risultando inaccettabile
agli occhi della classe politica romana. Verrà ucciso infatti - come
Caracalla - dai pretoriani nel 222.
- La crisi 'd'identità' dell'Impero
Oltre che dalla crisi istituzionale e politica dell'Impero, il terzo secolo
è caratterizzato da una crisi di natura culturale e religiosa. Si diffondono
difatti in questo periodo molti nuovi culti, sui quali si affermerà
gradualmente il cristianesimo.
Sebbene non sia ancora divenuta la religione ufficiale dell'Impero (cosa che
accadrà nel secolo seguente), tale culto si è infatti già largamente diffuso
in tutto il mondo romano, spesso anche tra i ceti più elevati.
Molti imperatori inoltre, ad esempio Commodo, tendono rispetto al passato a
mostrarsi decisamente più tolleranti verso la nuova religione, rinunciando
ad atteggiamenti eccessivamente ostili e persecutori nei suoi confronti.
D'altronde, anche tra i cristiani inizia a svilupparsi un diverso clima
ideologico e un diverso atteggiamento verso lo Stato (ne è un esempio un
discorso di Celso della fine del II secolo, nel quale questi auspica un
maggiore impegno e una maggiore sollecitudine dei cristiani verso l'attività
pubblica).
Ma il cristianesimo è soltanto una delle molte religioni che in questi anni
stanno prendendo piede all'interno del mondo occidentale, segno questo della
profonda crisi d'identità che attraversa tali zone. Tra essi, vi sono per
esempio il culto di Mitra o quello di Iside.
Quasi tutti d'origine orientale, essi testimoniano l'influenza esercitata
sull'Occidente dalla cultura asiatica, non solo sul piano politico ma anche
su quello culturale e religioso.
Ed è appunto in un tale clima di forte fermento religioso, che si colloca il
tentativo del giovane imperatore Elagabalo di instaurare in Roma una nuova
religione, che si affianchi integrandolo all'antico pantheon degli dei della
tradizione occidentale.
- La riforma religiosa di Elagabalo
Appartenente all'aristocrazia asiatica, estraneo perciò agli ambienti di
governo occidentali, Elagabalo giungerà a Roma soltanto nel 219 (a due anni
circa dalla propria proclamazione).
Qui giunto, egli si preoccuperà soprattutto di diffondere il culto solare di
Baal, la religione monoteistica della quale è sacerdote.
Assieme a questa, egli esporterà a Roma - e da qui in tutto il mondo
romano - concezioni e costumi di origine orientale, gli stessi peraltro che
sono alla base del fascino esercitato sui romani anche dalle altre religioni
orientali.
Poco si sa del governo del giovanissimo Elagabalo (che fu, oltre a tutto,
molto breve). Su di lui rimangono inoltre soprattutto degli scritti di parte
senatoria, che descrivono il suo regno come un insano crogiolo di vizi e di
eccessi in stile - appunto - orientale.
Pare però che, alla base del suo omicidio, vi sia un'incompatibilità
fondamentale tra le sue idee (e quelle del suo seguito) e quelle della
vecchia classe dirigente romana occidentale.
Nel 222, l'ormai solita congiura delle guardie imperiali pone infatti fine
alla sua vita e quella del suo regno.
ELAGABALO, EPISTOLA AL SENATO
(Difesa di Elagabalo)
Di "Marcus Aurelius Antoninus" (Elagabalus)
(Marzo, 222 A. D.)
Questo documento -- chiaramente un falso -- è l'unico "lavoro in prosa"
attribuito all'Imperatore Elagabalo. Come tale, esso ci offre uno spiraglio
di comprensione della mente di un giovane estremamente particolare, che
incarna i diversi tipi del tiranno, dell'orfano, del sacerdote. Alcune parti
dell'epistola inoltre, potrebbero anche essere vere. Il testo originale è in
greco.
Testo:
Antonino, Primo Sacerdote di Elagabal, Augusto, Imperatore, Princeps, ecc.,
al Senato di Roma,
porge i suoi saluti.
Ancora una volta, interrompo per qualche momento i balli, le bevute e i
bagordi, per riportarvi la situazione corrente nell'Impero. Le province sono
tutte in pace e prosperità; nella capitale l'ordine e la prosperità regnano
come in un'arnia, quasi dovunque. Potete essere orgogliosi della presente
situazione! Di sicuro già sospettate che io abbia disposto le cose in tal
modo per poter continuare indisturbato nella mia ricerca di sempre nuovi
piaceri.
Il portico che ho iniziato a far costruire per i bagni di mio padre è quasi
terminato; invito tutti quanti voi a accertarvi di ciò e a prendere piacere
dai progressi nei lavori, a vostro agio. Inoltre mi è giunta voce che
Scylla, la celebre moglie del senatore Aulo Lubricio, ha dato alla luce un
figlio, Quinto; con mio grande diletto, parti disinteressate mi hanno
confermato che A. Lubricio è nei fatti, come nel nome, il fortunato genitore
del piccolo Quinto. I più sentiti auguri, in questa lieta occasione, da
parte del vostro Imperatore Antonino e, tramite questi, dal Vero Dio
Elagabalo, Onnipotente Padre dei Padri.
Signori, a dispetto di ciò che potete immaginare su di me e sulla mia
visione delle cose, non vivo nell'illusione della mia popolarità presso di
voi, presso i pretoriani, o presso le legioni. Una certa diceria, da voi e
da me udita e sprezzata, sostiene che i miei giorni come imperatore siano
ormai contati, e che molto presto voi servirete un nuovo Imperatore e capo.
Non posso nascondervi il mio sincero rincrescimento, né desidero farlo.
Sembra che io - Antonino - sia stato scelto per una parte di spicco in una
tragedia di bassa lega, e quando vedo con eccessiva chiarezza la parte che
in essa mi spetta, non posso fare a meno di meravigliarmi per il motivo
scelto dall'autore, e per l'efficacia del suo potere.
Fui eletto al principato dalle legioni romane di stanza a Emesa. A quel
tempo, signori, avevo quattordici anni ed ero già Sacerdote Sommo di
Elagabal. I soldati si appassionarono a me in parte a causa della mia
bellezza puerile, ma anche per la carica di Pontefice che ricoprivo - fui
scelto infatti a causa dello zelo religioso verso un vero Dio, e
dall'aspirazione delle legioni verso la gioia e la prosperità: beni che -
non per coincidenza - Elagabal dispensa con grande munificenza a tutti
coloro i quali Lo onorano e si sottomettono al Suo volere. Con l'aiuto
dell'esercito sconfissi in una battaglia sanguinosa il folle Macrino,
l'usurpatore del principato e l'assassino di mio padre; più tardi, il Senato
diede il benvenuto a Elagabal e a me in Roma. (Guardate, Padri coscritti,
come mi sono ridotto, a fare il panegirico di me medesimo!)
Alla luce di questi fatti, sono un poco urtato dall'universale condanna,
oggi espressa più apertamente [di un tempo], riguardo alla mia decisione di
portare a Roma il Grande Elagabal, e di stabilirne qui il culto come Primo
di tutti gli dei. Non vedo personalmente alcuna forzatura nella mia azione.
In Emesa era stato annunciato pubblicamente che Roma richiedeva l'aiuto del
Pontefice di Elagabal per purificare e mantenere saldo l'Impero, che
soffriva sotto il giogo di un crudelissimo padrone, il mio acerrimo nemico,
Macrino. Le mie origini paterne difatti [egli è figlio di Caracalla, o tale
si dice; n.d.t.] divennero un fatto di pubblico dominio solo dopo che alcuni
empi contingenti militari rifiutarono di rientrare sotto l'insegna di un
misero Pontefice siriano, e richiesero per farlo ragioni più tradizionali.
Ma il sentimento prevalente nell'esercito - come ebbi modo di vedere - fu la
felicità di avere acquisito non solo un nuovo imperatore, ma anche un nuovo
Dio. Come prova di questo fatto, vi dico che la Siria è piena di giovanetti
imberbi che sono pronti a dirsi figli di Bassiano, ma non sono che io a
essere e rimanere Primo Sacerdote di Elagabal.
Così, io vi superavo in due distinti domini: come Princeps, e come autorità
religiosa. Da cui arguii che fosse ovvio che ero stato mandato qui dalle
milizie per portare Roma nell'ovile di Elagabal, e che fosse compito
dell'Imperatore erigerGli un tempio nella capitale e approntare un culto
proporzionato alla Sua grandezza. La mia indefessa attività per la causa del
Dio vi ha colpito come "empia", mi dicono alcune voci -- ma allora mi
stupisce che abbiate dichiarato la vostra disponibilità a servire un
Pontefice e Imperatore proveniente da legioni di province tanto distanti, e
che ancora oggi vi umiliate ghignando di fronte a quella Divinità e al suo
ministro terreno, il vostro principe Antonino.
E tuttavia, in quasi quattro anni di governo ho oramai imparato a non
aspettarmi nè lealtà, nè logica, nè coerenza da parte dell'augusto corpo del
Senato. Mi rattrista maggiormente la sicura ribellione dei Pretoriani, i
quali hanno sviluppato un'insana - e direi sospetta - affezione verso mio
cugino, Alessandro. Da una parte egli non è certo un giovane privo di
attrattive, con la parentela ricca e potente che si ritrova -- una versione
in tono minore di me stesso, quando sacerdote di Elagabal, sedussi le
legioni Siriane. D'altra parte, mio cugino ha ben poco da offrire all'Impero
se lo si compara al suo Principe. Come io sono un Pontefice, Alessandro è
invece un Guardiano. I suoi meriti personali e i suoi atti sono tanto
scoloriti, così privi di distinzione e di prestigio, che non posso certo
giudicarli un valido motivo della sua popolarità, ma non starò a rivelarvi
queste cose. non sono mai stato il tipo da tenere informato il Senato di
cose che sa già benissimo da solo!
Mi basta dirvi poche cose riguardo a ciò che potete aspettarvi dall'acquisto
di questo Guardiano: è evidente difatti che certe potenti forze desiderano
fare in modo che il Sole tramonti sull'Impero, e lasciare che le tenebre
penetrino attraverso l'autorità di Alessandro. State certi, Signori, che
quando Elagabal sorgerà di nuovo - come certo farà, solo che vi sia un'unica
persona pia che cammina sulla terra - Egli non sorgerà su quest'Impero, che
noi e i nostri padri abbiamo costruito attraverso tanto sangue e tante
ingiustizie. Gli affari degli uomini sono incerti, hanno sempre bisogno che
gli venga imposto un ordine. Ma Elagabal è eterno, stabile, generoso e
giusto: e sarà la sua Giustizia a scagliare dardi infuocati nei vostri
letti, la sua Generosità a seccare la terra che voi tanto inutilmente
accudite.
Non starò qua a rivelarvi le vostre future disgrazie, poiché domani visiterò
il campo dei Pretoriani, laddove è scritto che io, assieme a mia madre (che
ormai soffre da molto tempo), venga assassinato da ingrati -- i quali in
verità preferiscono la propria sicurezza a quella del loro Capo. Io
raggiungerò così l'anima impavida di Cesare, poiché sono un romano e il
vostro Principe. Come il grande Elagabal riporta in cielo le acque che hanno
inondato i campi per irrigarli, così ora mi richiama al suo fianco, dopo che
ho compiuto tutto ciò che era in mio potere per salvarvi da voi stessi.
Domani io sarò felice; ma lo stesso non posso dire per voi, né per l'Impero.
Vi sono ancora alcune cose che debbo dirvi, prima di prendere congedo da
questa terra. Spiacevoli dicerie affermano che alcuni di voi stanno già
preparando il racconto della mia fine come principe, e ciò che ho udito non
è lusinghiero nei miei confronti. Infatti, sembra che io abbia non solo
chiesto la mia fine - e non mi spiace di sacrificarmi per voi - ma anche di
essere disonorato, infangato e cancellato agli occhi dei posteri. Questo non
mi sta bene, Signori -- ed infatti altri pensieri estremamente tristi mi
sovvengono all'idea di abbandonare il mondo, qualora consideri la scarsa
considerazione che posso aspettarmi dai tempi a venire. Voltandosi indietro
verso questa era per delucidazioni, le menti curiose del futuro verranno a
conoscenza, attraverso lo sguardo bilioso degli "storici", di cose assai
improbabili, anzi impossibili: ad esempio di persone mai esistite, o che
comunque furono molto diverse da come vengono descritte. Vengo accusato di
aver complottato contro persone che neanche conosco, o cui in ogni caso non
ho mai dato grande importanza. Si dice che io sia devoto della Grande Madre,
attraverso la pratica della castrazione, e allo stesso tempo che sono un
bigotto intollerante che ha elevato Elagabal e cancellato ogni altra forma
di culto nel mondo. Ma non si può servire contemporaneamente Dio e la Grande
Madre!!!
[..]
Per vostra informazione, Padri coscritti, la circoncisione non è
castrazione; ammetto tranquillamente di essere circonciso. Questa innocua,
anzi salutare pratica rituale, è richiesta a tutti coloro che amministrano
il culto di Elagabal, e io non avrei potuto portare avanti i miei sacri
uffici con un tale prepuzio, che mi avrebbe allontanato dal Dio che servo.
Un'altra accusa che non ha alcuna relazione con la realtà, è quella secondo
cui avrei scelto di assegnare i posti di governo in base alla. fortuna
fallica delle persone. Il modo in cui scelgo i miei amici e confidenti è un
conto; quello in cui amministro la burocrazia un altro. Nondimeno mi vedo
costretto a chiedervi in che modo un tale ridicolo metro di giudizio si
differenzierebbe da quello adottato dai miei accusatori! Ovvero: quanti di
voi sono senatori per ragioni meramente di nascita? Di certo non potete
avere raggiunto e conquistato un tale livello di mediocre squallore (nel
quale peraltro vi crogiolate) lodando in modi differenti. Questa sottile
analogia mostra come le accuse contro di me rivelino lo stampo di coloro che
mi accusano.
Ma peggio delle spregevoli idiozie sul vostro principe, sono quei libelli
che vengono prodotti a mucchi contro il nostro Comune Benefattore, il Grande
Elagabal. Il Dio che ho servito con tanta profonda abnegazione e ingenuità
sarà oggetto di derisione e totalmente frainteso, dal momento che nessuno
degli "storici" si è mai preoccupato (o ha mai permesso a altri) di
intendere Elagabal e i reali principi del suo culto. Le ultime menzogne che
ho letto sostengono che Egli richieda sacrifici umani, che sia una pietra,
che non ascolti le preghiere dei mortali che pregano altri dei. Non pretendo
certo di difendere il mio Dio, che è Onnipotente; ma vi ho già avvertito:
l'empietà lavora alla propria distruzione!
Padri coscritti: noi sappiamo che la folla raccoglierà, diffonderà e
assorbirà quegli eccessi che io ho condisceso a mostrarle -- e sarà una vera
disgrazia per voi senatori dovervi macchiare con un tale veleno! Ho fatto
bene a non invitarvi ai miei festini privati; ma se la vostra stessa causa è
stata per tanto tempo lontana da voi, non potevo di certo aspettarmi che le
mie parole riuscissero a purificarvi e a redimervi. La commedia è finita, a
voi presto scrivere i vostri piccoli, meschini resoconti,
Vi porgo i miei saluti,
Antonino, Primo Sacerdote di Elagabal, Pio, Felice, Principe, Imperatore,
ecc.
ALESSANDRO SEVERO
5) Alessandro Severo (222-235) e la ripresa della politica senatoria
- La nuova politica filo-senatoria
Salito al potere ancora molto giovane, all'incirca alla stessa età di suo
cugino Elagabalo (che lo ha adottato nel 211), Alessandro governerà comunque
molto più a lungo di questi, anche probabilmente grazie alla propria
istintiva disposizione a piegarsi ai desideri della classe dirigente romana
e occidentale.
Sotto la sapiente guida di Ulpiano, il maggiore giurista del suo tempo, egli
porta avanti una politica moderata, vicina agli ideali della classe
senatoria, nonché in genere dei tradizionalisti.
Sotto il suo principato, molti degli antichi privilegi nobiliari verranno
ripristinati, e l'istituzione senatoria (e assieme a essa, i soggetti che ne
fanno parte: i senatori) riacquisterà almeno una parte del suo antico
prestigio (compatibilmente ovviamente con la mutata situazione di fatto,
ormai decisamente differente rispetto agli anni passati, in quanto
caratterizzata: dallo strapotere degli eserciti; da un'amministrazione
imperiale estremamente centralizzata ed 'esclusiva'; dalla tendenza alla
penalizzazione della città di Roma - sede appunto del Senato -, ormai quasi
parificata dal punto di vista giuridico agli altri municipi imperiali; ecc.)
Uno dei provvedimenti presi a favore del Senato sarà, per esempio, quello di
sopprimere l'antico principio di incompatibilità tra il rango senatorio e la
carica del prefetto del pretorio (carica che - come si è visto - dà grandi
prospettive di carriera politica a chi la ricopre).
Non si arresta, comunque, il processo alla base della crisi dell'Impero, e
con esso la necessità di continui interventi statali in tutti i settori
(economici, militari, ecc.), con la conseguenza inevitabile della crescita
della pressione fiscale.
In questi anni, poi, parallelamente al diffondersi del fenomeno inflattivo a
livello monetario, prende piede sia la pratica dei pagamenti in natura sia
quella delle prestazioni di lavoro e di servizi in luogo dei pagamenti in
danaro.
- Imprese militari
Negli ultimi anni del suo principato, Alessandro dovrà fronteggiare i
tentativi di invasione dei Parti in Armenia (230-232), e quelli di alcuni
popoli barbari sui confini germanici (234-235).
Le campagne orientali sono dovute a una nuova offensiva del Regno partico,
guidato in questi anni da una nuova e più aggressiva dinastia, quella
Sasanide.
Il nuovo sovrano Artaserse conquista infatti l'Iran, l'Afghanistan, la
Mesopotamia e parte dell'Armenia, avvicinandosi così pericolosamente ai
domini romani.
Dopo alcuni inutili tentativi di mediazione, Alessandro si vede quindi
costretto a intervenire militarmente: le sue saranno campagne vinte 'per il
rotto della cuffia', ma in ogni caso vinte. Nel 232 infatti i romani
riprendono possesso della Mesopotamia.
Le campagne combattute in Germania, contro l'offensiva dei popoli barbari,
costeranno invece la vita all'imperatore e al suo seguito.
Forse ciò avviene per aver Alessandro tentato di 'comprare' la pace col
nemico (pratica molto in uso nel periodo tardo-imperiale), o forse per il
sospetto di un indirizzo eccessivamente filo-orientale del suo orientamento
politico-militare.
In ogni caso anche lui verrà eliminato, come molti suoi predecessori e
successori, da una rivolta delle proprie legioni - in questo caso quelle
occidentali - nel 235.
CONCLUSIONI (193-235)
Il periodo dei Severi conosce, rispetto a quello precedente degli Antonini,
una brusca inversione di tendenza, dovuta a difficoltà sia interne
(fondamentalmente di carattere produttivo) che esterne (legate
essenzialmente a una maggiore insicurezza sui confini).
Tali difficoltà causano infatti:
- un incremento degli apparati statali (in particolar modo di quelli
militari);
- una generale diminuzione del benessere economico, soprattutto tra le
classi medie e i ceti popolari (i quali tendono di conseguenza a riversarsi
all'interno delle grandi proprietà terriere);
- la crescita delle proprietà latifondistiche;
- l'emarginazione politica del Senato e in generale delle classi nobiliari
(i cui interessi divergono sempre più rispetto a quelli dei ceti
filo-imperiali) dall'amministrazione dello Stato.
Inizia in questi anni quel lungo processo di disfacimento, sia territoriale
che politico, che culminerà nei secoli successivi con la caduta stessa
dell'Impero.
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