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L'IMPERO ROMANO,
LA FINE DELL'IMPERO D'OCCIDENTE E LA NASCITA DEL
CRISTIANESIMO
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CROLLO DELL'IMPERO DI
OCCIDENTE E NASCITA DEL CRISTIANESIMO |
L'AVVENTO DEL CRISTIANESIMO
Con la fine della dinastia dei Severi, inizia per l'Impero romano un periodo
di profondissima crisi, dovuta per altro ai medesimi motivi che erano stati
all'origine delle difficoltà dei precedenti decenni (cioè insicurezza fuori
e dentro i confini, invasioni, esasperata militarizzazione, incremento delle
tasse, diminuzione della produttività, svuotamento delle città e crescita
della proprietà fondiaria, ecc.), motivi per di più ora notevolmente
aggravatisi.
Dopo un primo momento di disorientamento quasi totale (negli anni che
comunemente vengono definiti dell'anarchia militare) vi sarà un riassetto
dell'Impero, per merito soprattutto dei due celebri imperatori Diocleziano e
Costantino, su basi notevolmente rinnovate.
Con essi inizia così una nuova fase (l'ultima) nella vita dell'Impero,
segnata - oltre che da una gestione decisamente diversa della cosa pubblica
rispetto agli anni passati, e rispetto alla stessa idea di Impero inaugurata
da Augusto - anche dall'affermazione a livello politico e istituzionale del
Cristianesimo, di quel movimento religioso cioè che, nato negli ambienti
culturali della Palestina, si era da subito distinto dalle tradizioni -
estremamente settarie e nazionalistiche - dalle quali era sorto,
diffondendosi poi a macchia d'olio in tutto il Mediterraneo e nello stesso
Impero romano.
Il periodo storico che andiamo a analizzare, dunque, si divide in due
distinte fasi: la prima è quella dell'anarchia militare (236-284), la
seconda quella della 'ristrutturazione' della compagine imperiale ad opera
di Diocleziano (284-305) e di Costantino (306-337).
- Motivi di fondo (e elementi di continuità) di tutto il periodo
Nonostante si possa suddividere - molto schematicamente - questo lungo lasso
di tempo, il cui corso va dal 236 al 337 d.C., in due distinti periodi (cioè
il cinquantennio dell'anarchia militare e quello successivo della
ristrutturazione dell'Impero), tra tali periodi sussistono anche profondi
elementi di continuità, elementi di natura decisamente più sociale e
strutturale che politico-istituzionale.
La differenza tra queste due diverse "età" difatti, non risiede tanto
nell'essere poste di fronte a differenti problemi, quanto nel modo di
affrontarli: mentre tendenza dominante del periodo dell'anarchia militare è
il subirli passivamente, il periodo seguente, segnato appunto da un
complessivo riassetto politico e istituzionale, cercherà di opporre
attivamente a essi dei rimedi, nella consapevolezza che, qualora non vengano
risolti, tali problemi finirebbero per minare la stabilità dell'Impero e
risultare fatali per la sua stessa sopravvivenza.
Vediamo adesso più in dettaglio quali siano gli elementi problematici:
- in primo luogo, come già si è accennato, vi è un aggravamento ulteriore
degli squilibri sociali tra ceti alti (soprattutto fondiari) e ceti medi e
bassi, con la conseguente estensione della grande proprietà, parallelamente
per altro all'aumento della pressione fiscale (il cui pagamento sempre più
spesso avviene in natura), alla crescita numerica degli eserciti e alle
sempre maggiori difficoltà per il commercio e per i ceti mercantili e
finanziari;
- altro fenomeno sempre più pressante, ma anch'esso non certo nuovo, è
quello della divisione interna tra le legioni dell'esercito (fenomeno
parallelo per altro alle tendenze separatistiche di molte regioni, sia a
ovest, sia a est);
- inoltre, accanto a un tale problema di forze centrifughe - e ovviamente a
esso complementare -, si assiste a una massiccia recrudescenza dei tentativi
di invasione dei popoli barbarici, sia nelle zone occidentali che in quelle
orientali dell'Impero (e, assieme a essi, anche dell'espansionismo del regno
neopersiano).
Una simile situazione, che - come si è già detto - provoca inizialmente un
forte sbandamento in seno all'Impero, e successivamente un ripensamento
delle sue strutture più profonde, si tradurrà in tre 'tendenze' di fondo
compresenti nello Stato romano di questi anni:
- favorirà l'affermazione dei militari di professione un po' a tutti i
livelli istituzionali - compreso quello supremo -, ovvero in tutte le
cariche dell'Impero (a scapito chiaramente dei ceti nobiliari e di quelli
finanziari, cioè equestri in senso più classico: i ceti di governo più
tradizionali, insomma);
- costringerà i sovrani a dividere sempre più esplicitamente l'Impero in
regioni differenti, ognuna governata più o meno autonomamente (decisione
suggellata con l'instaurazione della famosa Tetrarchia di Diocleziano);
- e infine indurrà l'Impero, oramai internamente debole e stremato, a
cercare il sostegno e l'alleanza di una nuova forza sociale: la nascente
Chiesa cristiana.
I CINQUANTA ANNI DI ANARCHIA MILITARE
1. I cinquant'anni di anarchia militare (236-284)
A. Introduzione
I cento anni che vanno dalla fine del regno di Alessandro alla fine di
quello di Costantino, segnano la sconfitta definitiva dell'idea di Impero
quale era stata concepita da Ottaviano Augusto e dai suoi successori
(compresi Traiano e Adriano), idea che già aveva iniziato a vacillare con
l'esasperata militarizzazione iniziata sotto la reggenza di Settimio Severo.
Tale idea si basava infatti sul presupposto che l'Impero dovesse fondarsi
sulla collaborazione tra il princeps (capo supremo) e le varie forze
politico-economiche interne (sia su quelle locali - come mostra l'estensione
delle cariche a tutti i provinciali - sia, in generale, sui ceti più ricchi
e influenti: ovvero i nobili e gli equestri). Ciò ovviamente al fine di
migliorare la loro condizione - e assieme a essa, quella dell'Impero - sul
piano politico e economico.
L'esercito, d'altra parte, non era che uno degli strumenti (per quanto
assolutamente essenziale) per l'ottenimento di tale fine, quello preposto
alla sicurezza interna e soprattutto all'espansione e al mantenimento dei
confini.
Ma ora, invece, che le frontiere sono sempre più sovente minacciate da
popolazioni barbariche o da altri nemici, che la ricchezza e la produttività
interne (per vari ordini di ragioni) conoscono una drastica diminuzione, e
che praticamente tutte le energie dello Stato vengono indirizzate - al fine
di mantenere integri i confini - al sostentamento e al potenziamento delle
milizie, sono queste ultime inevitabilmente a dettare legge anche sul piano
istituzionale.
Così i ceti alti, ossia i tradizionali ceti di governo - nobiliari,
latifondistici, finanziari, ecc. - vengono lentamente espropriati della loro
preminenza politica e istituzionale mentre Roma diventa sempre di più un
Impero essenzialmente militare, quasi interamente monopolizzato, anche a
livello di alte cariche, dalle proprie legioni: in altri termini dai suoi
soldati!
Da un'idea 'democratica' d'Impero (seppur in un senso oligarchico e
plutocratico) si passa così a un'idea militaristica, per la quale le forze
produttive e economiche debbono rimanere ai margini della vita politica,
peraltro oramai divenuta fondamentalmente militare.
Tale trasformazione decreterà inoltre il trionfo di una concezione dello
Stato assolutistica e di stampo orientale, all'interno della quale
quest'ultimo, ponendosi al di sopra degli interessi particolaristici,
finisce anche per agire indipendentemente da essi!
Negli anni trattati in questo articolo - e in special modo nel cinquantennio
dell'anarchia militare - la preminenza degli eserciti non sarà mai nemmeno
messa in discussione.
Il Senato, ad esempio, ricoprirà sempre di più in essi un ruolo politico
secondario, e con lui le classi più ricche e economicamente influenti.
Sono le legioni ad esempio a decidere di solito quale debba essere
l'Imperatore di turno e con ciò, implicitamente, le operazioni militari da
portare avanti, in quanto 'interessanti' per le loro ambizioni (ambizioni
soprattutto economiche: la guerra infatti porta sempre bottini...).
E sono le divisioni interne agli eserciti locali (occidentali, illirici,
orientali.) a costituire, assieme alle invasioni barbariche, il principale
elemento di destabilizzazione dell'unità dell'Impero.
Ciò che cambierà, da un cinquantennio all'altro, saranno invece le
istituzioni: ancora legate a antichi schemi e quindi anche più fallibili e
imperfette nel primo, rivedute e più efficienti nel secondo.
Certo, le novità introdotte da Costantino e soprattutto da Diocleziano
conoscono delle 'avvisaglie' nelle scelte di alcuni degli imperatori
precedenti - quali Valeriano, Gallieno o Aureliano -, ma trovano la loro
sistemazione definitiva solo con i primi due.
Possiamo perciò classificare il cinquantennio di anarchia militare come un
momento di transizione, tanto più tumultuoso e drammatico in quanto
profondamente drammatiche sono in esso le condizioni dell'Impero.
Un altro fenomeno tipico di questi anni, suggellato poi nella divisione
dell'Impero (la Tetrarchia) in quattro regioni messa in atto da Diocleziano,
è la tendenza al separatismo di alcune zone, dovuta chiaramente
all'incapacità del potere centrale di costituire un valido strumento di
difesa per i loro confini.
Anche qui, emerge la profonda crisi della macchina statale, la quale -
nonostante punti tutto sugli eserciti - non è in grado comunque di gestire
le proprie enormi (ma insufficienti) risorse belliche al fine di difendere
l'integrità dei suoi territori.
B. Il cinquantennio dell'anarchia militare
DIOCLEZIANO
2. L'Impero sotto Diocleziano (284-305)
A. Le ragioni della scelta tetrarchica
I cinquant'anni di anarchia militare hanno dimostrato a tutti come il
principale nemico dell'ordine interno e della stabilità politica dell'Impero
sia costituito - oramai - dagli eserciti.
Dotati di grande autorità, in quanto divenuti mezzi indispensabili per la
sopravvivenza stessa di Roma, attraverso la salvaguardia dei confini dai
nemici esterni, essi però sempre più spesso sono all'origine di rivolte e di
disordini che minano l'autorità del potere centrale, ovvero in sostanza
dell'Imperatore, giungendo alle volte a proclamare l'indipendenza delle zone
su cui sono insediati.
Ai nemici esterni (i Barbari e i Persiani) si sommano dunque anche quelli
interni - tra cui vi sono appunto, in primo luogo, le milizie.
Inevitabilmente, priorità assoluta per lo Stato diviene quella di
riacquistare un pieno controllo su tutto il territorio dell'Impero.
Già alcuni imperatori come Aureliano, Gallieno e Valeriano avevano
dimostrato - con le loro scelte - di aver compreso chiaramente tale
problema.
Sarà tuttavia Diocleziano a porre in essere una vera, radicale
ristrutturazione dell'Impero, che costituirà peraltro il coronamento delle
iniziative di riforma cui, nei decenni precedenti, i suoi predecessori
avevano dato vita.
Tale riassetto ruoterà attorno al principio secondo cui, per mantenere
l'ordine e il controllo delle province (Italia compresa), è necessario
ridurre drasticamente la distanza tra le maggiori autorità imperiali e i
poteri particolaristici e locali costituiti dalle truppe. Ciò, ovviamente,
al fine di render più difficile a queste ultime l'attribuirsi dei poteri che
oltrepassino le proprie effettive competenze, e intraprendere azioni
contrarie all'autorità del princeps.
Ma per ottenere un tale obiettivo non vi è, allo stato attuale, che una via:
quella di frazionare l'autorità somma dell'Imperatore in una pluralità di
poteri, capaci (seguendo un fine comune e concertato) di porre in atto
un'opera di mantenimento della compagine imperiale, impedendone la divisione
in sotto-stati e soprattutto in stati indipendenti.
"Moltiplicando" gli imperatori infatti, Diocleziano ottiene un controllo -
seppur fragile e precario - della situazione politica, determinando così
un'ultima ripresa di vitalità dell'Impero.
Per favorire e rendere possibile, pur tra tante spinte separatistiche, un
tale predominio politico, è indispensabile poi cercare di assoggettare anche
psicologicamente e moralmente i soldati, nonchè - in generale - i sudditi
dell'Impero, rendendo quindi più difficile ad alcuno il sostituirsi
all'Imperatore (o meglio, agli Imperatori) e in generale alle autorità
statali.
Anche in questo frangente, non è possibile che un solo escamotage, che
consiste in sostanza: nell'aumentare il prestigio pubblico dell'Imperatore/i
obbligando i sudditi a prosternarsi e ad adorarlo/i; nell'affermare - come
già molti hanno fatto - l'origine divina e trascendente di tale potere; e
nel circondarsi di un fasto e di uno sfarzo fino a allora estranei alle
tradizioni politiche e culturali occidentali e romane. Una trasformazione in
senso orientale, insomma, un dispotismo politico di stampo asiatico, che
appare come l'unico mezzo rimasto per conservare e rafforzare la precaria
situazione di dominio che lo Stato ancora conserva sui poteri
particolaristici (miliari, ma anche fondiari) a esso ostili.
E' facile capire come tali soluzioni non siano affatto 'definitive', dal
momento che non possono in alcun modo modificare la condizione di fatto
dell'Impero, bensì soltanto cercare di contenerne gli effetti più
distruttivi.
Non a caso, dopo l'abdicazione di Diocleziano - e quella a essa
contemporanea del suo 'socio' Massimiano -, l'Impero piomberà nuovamente in
una situazione di divisione interna e di guerre civili per il potere!
B. Le campagne contro i nemici esterni e interni
Sin dall'inizio del suo mandato, risulta chiara al nuovo imperatore
l'impossibilità di reggere da solo l'intera compagine degli stati che
rientrano formalmente sotto il dominio di Roma. Come vedremo infatti, i
problemi cui egli sin dai primi anni deve dare una risposta, oltrepassano di
gran lunga le capacità di un unico - per quanto abile - condottiero.
Ad esempio, egli dovrebbe misurarsi con Carino, uno dei figli di Caro - il
precedente imperatore - e arginare contemporaneamente in Gallia le rivolte
dei contadini Bagaudi (ovvero di fasce della popolazione gallica allo stremo
della sopravvivenza, a causa della povertà dilagante nelle campagne).
Una delle prime decisioni prese da Diocleziano è quindi quella di incoronare
Cesare un altro condottiero, un certo Massimiano - anch'egli come lui di
origini illiriche, nonchè come lui uomo di umili natali - per avere avuto il
merito di sedare tali rivolte.
Oltre alla guerra contro Carino poi, Diocleziano dovrà portare avanti,
sempre coadiuvato da Massimiano, alcune campagne nelle zone danubiane contro
i Sarmati, in quelle retiche contro i Franchi, ecc.
Ma la situazione ormai si dimostra tale da non consentire più una gestione
adeguata dell'Impero nemmeno con il lavoro coordinato di due principi,
richiedendo perciò un'ulteriore frazionamento del potere imperiale.
Per tale ragione, nel 290 Massimiano e Diocleziano optano per una soluzione
ancora sconosciuta alla storia di Roma, la scelta tetrarchica, dividendo
ulteriormente i loro poteri con l'elezione ciascuno di un proprio "vice". Ne
risulta così uno Stato retto contemporaneamente da due Augusti (dei quali
Diocleziano si pone come quello superiore) e da due Cesari, nelle persone di
Galerio (vice di Diocleziano) e di Costanzo Cloro (vice di Massimiano).
Sebbene poi tale divisione non implichi ufficialmente una spartizione dei
territori imperiali, Galerio e Massimiano governeranno principalmente sulle
regioni a est e su quelle danubiane, mentre gli altri due si occuperanno
essenzialmente di quelle occidentali.
Uno dei problemi più gravi con i quali l'Impero, nella persona di Cloro,
deve scontrarsi, è la ribellione di un certo Carausio - ufficiale romano -
al dominio di Roma, con la costituzione di un regno autonomo che va dalla
Britannia alla Gallia settentrionale.
Tale questione, iniziata nel 286, si concluderà soltanto nel 296 con la
sconfitta degli avversari (sconfitta causata anche da lotte intestine sul
fronte britannico) e con la presa di Londra da parte di Costanzo Cloro e il
ripristino dell'autorità imperiale.
Diocleziano e Galerio riusciranno invece, sul fronte orientale, a contenere
le spinte dei popoli barbarici sul fronte danubiano e quelle dei Persiani
(guidati da un nuovo imperatore, Narsete) sull'estremo confine orientale. E'
da notare che, al termine di questa seconda guerra, i confini e le influenze
politiche dei Romani in tale area torneranno a essere ancora quelle dei
tempi migliori, cioè all'incirca quelle del periodo traianeo.
Un'altra impresa di Diocleziano in questi anni è la sconfitta di Achilleo,
un generale che - barricatosi nella città di Alessandria - si è fatto
promotore e interprete delle istanze indipendentiste (molto antiche)
dell'Egitto.
Questi i risultati più eclatanti, da un punto di vista bellico, non solo
della scelta di dividere l'Impero, ma anche dell'abilità di Diocleziano nel
dirigere le azioni belliche e nell'eleggere i propri collaboratori.
Assieme a tali successi - e da essi resi possibili - riscontriamo inoltre un
fenomeno generale di rafforzamento dei confini e delle milizie, e un
riassesto generale di molte delle vie di transito, sia di quelle marittime
sia di quelle sulla terra ferma.
C. Le riforme amministrative dell'Impero
Abbiamo già parlato del tipo di organizzazione instaurata da Diocleziano.
Possiamo ora schematizzarla come segue:
DIOCLEZIANO
ZONE A EST< Augusti >MASSIMIANO
ZONE SUD-OCCIDENTALI
GALERIO
ZONE DANUBIANE< Cesari >CLORO
ZONE NORD-OCCIDENTALI
Dal momento che, come si è già detto, Diocleziano rimane istituzionalmente
l'Imperatore più importante, anche nei confronti del suo collega Massimiano,
l'Impero - pur diviso al proprio interno - si può considerare ancora (almeno
in un certo grado) una costruzione politica unitaria.
A ciò, poi, si aggiunga il carisma personale dell'Imperatore e la sua
abilità nello scegliere dei collaboratori che condividano con lui una comune
visione dell'Impero. Si avranno così le ragioni dell'effettiva solidità di
quest'ultimo negli anni di Diocleziano.
La scelta tetrarchica però non trae origine solo dall'esigenza di controllo
e difesa dei vastissimi territori imperiali, ma anche dal fatto di offrire -
almeno sulla carta - la possibilità di appianare un problema molto antico e
pressante, causa da sempre di tanti dissidi, quello della successione.
Il meccanismo istituito da Diocleziano vorrebbe difatti che, dopo la morte o
con l'uscita di scena dei due Augusti, i due Cesari prendessero il loro
posto, designando al tempo stesso i loro successori.
[E, come vedremo più avanti, sarà proprio questo secondo punto, quello della
designazione dei Cesari, l'anello più debole della catena, che determinerà
l'inizio di nuove lotte per il potere].
A livello di amministrazione territoriale, Diocleziano - nel segno di una
sempre maggiore razionalizzazione nella gestione dei territori imperiali -
porta fino a cento le province dell'Impero, e divide quest'ultimo in dodici
diocesi, ognuna governata da un proprio vicario imperiale, alle dipendenze
di uno degli oramai due prefetti del pretorio.
Quanto agli eserciti, negli anni della tetrarchia essi vengono rafforzati
ulteriormente, sia con l'aumento complessivo dei soldati, sia con quello dei
contingenti mobili di cavalleria e fanteria - i quali, oltre a tutto, hanno
il vantaggio di essere controllati direttamente dagli Imperatori e dai
Cesari, e di non dipendere quindi dai capi militari locali (garanzia di
indipendenza da eventuali cattive influenze.)
Il Senato invece, espressione - come noto - di una classe fondiaria e
nobiliare sempre più influente a livello locale, vede ridimensionarsi a
livello statale il proprio ruolo politico, divenendo un'istituzione
essenzialmente giudiziaria e perdendo molte delle sue antiche prerogative
(come ad esempio quella dell'elezione dei consoli).
Di contro, è il "Consilium principis" (organo privato dell'Imperatore) che
tende a sostituirsi a esso nelle questioni politiche.
Altre riforme importanti di questi anni sono: la riforma monetaria (con la
nascita di una nuova moneta); la riforma tributaria (basata su una più
rigorosa valutazione della proprietà dei singoli cittadini, con l'invenzione
di nuove unità di misura del 'reddito' procapite; e sulla fine del
privilegio italico di esenzione dalle tasse); i vari interventi statali per
fissare i prezzi (con pene severissime per i trasgressori) e contenere in
tal modo il fenomeno inflattivo; l'inizio della pratica di vincolamento
delle persone alle attività tradizionalmente svolte dalla propria famiglia
(la nascita in pratica delle caste professionali chiuse, dovuta alla
tendenza, diffusa sia tra i cittadini medi che tra i piccoli agricoltori, a
cercare rifugio nelle grandi proprietà e a fare propria la scelta del
colonato, che offre loro maggiori garanzie di sopravvivenza, privando però
lo Stato del loro contributo fiscale).
D. Il conflitto tra lo Stato e il Cristianesimo
Cresce, in questi anni, il divario tra lo Stato (sempre più invasivo nei
confronti dei cittadini, e sempre più limitante delle loro libertà
personali) e quel tipo di sensibilità che ruota attorno al concetto del
valore della personalità umana e alla speranza di una sua liberazione dai
vincoli sensibili, idee la cui diffusione è testimoniata tra l'altro dal
consenso ottenuto dal messaggio cristiano un po' a tutti i livelli e tra
tutti gli strati sociali.
Stato e chiesa, quindi, si fronteggiano come due opposte concezioni
dell'uomo e della vita (nonché, implicitamente, della società) entrando
drasticamente in conflitto tra loro.
Tale fenomeno sarà alla base di un nuovo periodo di persecuzioni religiose,
inaugurato nel 297 con un editto di Diocleziano ai danni delle comunità
manichee (un culto di origine persiana) e proseguito con un altro editto del
303, ai danni questa volta delle comunità cristiane.
Alcuni storici, inoltre, attribuiscono la responsabilità di questi
provvedimenti all'influenza esercitata sull'Imperatore dal suo 'vice'
Galerio. E' certo, in ogni caso, che tali decreti siano stati attuati in
modo molto più rigoroso nelle zone orientali dell'Impero, che in quelle
occidentali.
E. Conclusioni
Gli anni del consolato di Diocleziano costituiscono indubbiamente per
l'Impero un momento, per quanto effimero, di ripresa.
Merito fondamentale di Diocleziano è senza dubbio l'aver rinnovato l'Impero
sul piano amministrativo, rafforzando lo Stato e la sua autorità sul
territorio, e ponendo un argine sia ai moti indipendentisti sia ai sempre
più diffusi tentativi d'invasione; dall'altro lato tuttavia il suo
intervento non ha affatto mutato (né poteva farlo) la situazione reale,
sociale e culturale, dell'Impero.
L'azione di Diocleziano, dunque, è stata fondamentalmente un'azione di tipo
repressivo, con tutti i limiti che ne conseguono.
D'altra parte, gran parte dell'efficacia dei suoi provvedimenti deriva in
realtà - più che dalla costruzione politica in sé - dal carisma personale
dell'Imperatore e dalla sua abilità nel porre in atto i propri progetti di
rinnovamento.
COSTANTINO E LA CONVERSIONE DELL'IMPERO AL CRISTIANESIMO
3. Costantino e la 'conversione' dell'Impero (305-337)
A. La lunga lotta per il potere (305-324)
Personaggi della lotta per il potere imperiale
DIOCLEZIANOAugusto orientale (->305;+ 313)
MASSIMIANOAugusto occidentale (->305;+ 310)
GALERIOCesare orientale (->305); in seguito Augusto orientale(+ 311)
COSTANZO CLOROCesare occidentale (->305); in seguito Augusto occidentale (+
306)
MASSENZIOFiglio di Massimino (escluso dalla successione); poi Augusto
occidentale non riconosciuto (+ 312)
COSTANTINOFiglio di Costanzo Cloro (escluso dalla successione); poi Cesare
occidentale; infine Imperatore unico (+ 337)
SEVEROCesare occidentale; poi Augusto occidentale (+ 308)
MASSIMINO DAIACesare orientale (+ 313)
LICINIOAlla morte di Severo (308), viene eletto Augusto per le zone
occidentalida Diocleziano (->324;+325)
Nel 305, allo scadere cioè dei vent'anni del proprio principato, Diocleziano
stabilisce (in linea con le decisioni prese all'inizio della Tetrarchia) di
abdicare e porre fine alla propria reggenza, convincendo il suo socio
Massimiano (seppur con difficoltà) a fare lo stesso.
Tale decisione è da ascriversi con ogni probabilità, oltre che alla
stanchezza senile di Diocleziano, anche al bisogno di mettere alla prova la
resistenza e la solidità della costruzione tetrarchica.
Come sappiamo, tale "prova" si concluderà negativamente, e già nei primi
anni dopo l'abdicazione dei due vecchi Augusti sarà visibile a tutti
l'impossibilità per i vari contendenti (tra i quali compaiono anche i due
'Cesari mancati': il figlio di Cloro e quello di Massimiano) di mettersi
d'accordo sulla distribuzione delle cariche.
Da questa situazione deriverà una nuova divisione dell'Impero in regioni
indipendenti, ognuna comandata da un proprio capo e in guerra (più o meno
esplicitamente) con tutte le altre. Tale condizione di competizione
generalizzata avrà termine soltanto con la vittoria finale di uno di essi,
cioè di Costantino, e con il ritorno alla soluzione imperiale classica, che
prevede un unico capo supremo.
Ma la storia di questi anni ci porta una volta di più a fare una
considerazione. Il fatto che la Tetrarchia (pur 'moribonda' già nei primi
anni dopo il 305) venga costantemente rispolverata e chiamata in causa nei
decenni seguenti, ogni qual volta ciò serva a conferire una parvenza di
legittimità ai precari equilibri stabilitisi tra i competitori, assieme al
fatto della disgregazione pressoché immediata dell'Impero subito dopo
l'abdicazione dei due anziani Augusti, dimostrano bene come l'anima più
profonda della Tetrarchia si identificasse in realtà proprio con
Diocleziano, il quale col suo impegno e la sua volontà ferrea aveva impedito
che essa degenerasse e scadesse in poteri meramente particolaristici di tipo
militare.
Non è dunque un caso che, poco dopo la sua uscita dalla scena politica, ciò
avvenga puntualmente.
- Eventi principali tra il 305 e il 324
Qui di seguito si cercherà di descrivere gli eventi salienti di questa
decennale lotta per il potere. [A tale scopo abbiamo inserito, all'inizio di
questo paragrafo, un breve elenco dei personaggi più eminenti di questa
competizione.]
Nel 305, appena avvenuta la proclamazione dei due nuovi Augusti (Galerio e
Cloro) e dei due nuovi Cesari (rispettivamente, Massimino Daia e Severo),
Costantino e Massenzio - ovvero i due aspiranti al trono per diritto di
nascita, in quanto figli di Cloro e di Massimiano - si ritirano l'uno presso
il padre in Britannia, l'altro in Roma (avendo regnato il padre Massimiano,
oramai destituito, sull'Africa e l'Italia).
Nel 306 Costanzo Cloro muore, e lascia così vacante il posto di Augusto
occidentale. Di una tale situazione ovviamente approfitta subito suo figlio
Costantino, facendosi proclamare Augusto dalle truppe stanziate in
Britannia.
Tuttavia Galerio, erede di Diocleziano e quindi capo supremo della
Tetrarchia, si oppone a una simile soluzione innalzando alla carica di
Augusto Severo (insediato fino ad allora nelle zone sud occidentali come
Cesare) ed eleggendo Costantino Cesare occidentale.
Nel 307 scende in campo anche Massenzio, il quale appoggiato dai pretoriani
e richiamando inoltre il padre Massimiano nell'agone politico e militare, si
appropria della corona di Severo ingaggiando contro questi battaglia e
sconfiggendolo.
Dopo la sua cattura e uccisione, Massenzio regna (assieme a Massimino) sulle
zone sud occidentali, pur non essendo tale potere né gradito né riconosciuto
da Galerio.
L'anno successivo Galerio decide perciò di passare all'attacco e di sfidare
Massenzio e Massimiano sul loro stesso terreno. Egli avrà tuttavia la
peggio.
Questo indurrà lo stesso Diocleziano (che, soddisfatto del suo esilio dorato
nel suo palazzo di Spalato, non rimpiange affatto, a differenza di
Massimiano, la vita militare e non ha nessuna intenzione di tornare a
governare) a intervenire, eleggendo contro gli usurpatori un nuovo Augusto,
tale Licinio, cui viene affidato il compito di combattere Massenzio.
Licinio però rinuncerà da subito a combattere i suoi avversari,
accontentandosi di governare su una ristretta zona balcanica.
Ora, tuttavia, anziché quattro, sono cinque i sovrani: Massenzio governa
sull'Europa meridionale (di fatto, se non ufficialmente), Costantino su
quella settentrionale, Licinio sulle regioni della Pannonia, Galerio sulle
restanti zone balcaniche, Daia infine su quelle dell'estremità orientale.
In seguito a dissapori esplosi tra Massenzio e Massimino, quest'ultimo verrà
costretto a fuggire dall'Italia e cercherà rifugio presso Costantino, il
quale tuttavia lo farà imprigionare e lo costringerà al suicidio (310).
Nel 311 muore anche Galerio; ma, poco prima di lasciare il mondo, egli
decide (forse per paura della divina collera) di revocare quegli editti di
persecuzione verso i cristiani che lui stesso aveva promulgati nel 303 e che
avevano dato inizio a un nuovo periodo di persecuzioni.
Nel 312 finalmente, dopo un lungo periodo di preparazione, Costantino
ingaggia battaglia contro Massenzio, sconfiggendolo presso il Ponte Milvio e
divenendo in tal modo l'unico imperatore delle zone occidentali - primo
passo verso la realizzazione di un progetto più ambizioso: la conquista
anche dei territori orientali.
Nel 313 Costantino tenta un avvicinamento politico a Licinio, con il
matrimonio di quest'ultimo con sua sorella Costanza, e con la promulgazione
comune presso Milano di un editto di tolleranza religiosa, teso
essenzialmente a sospendere ogni ostilità da parte dello Stato romano nei
confronti delle comunità cristiane (editto che riprende e sviluppa quello,
del 311, di Galerio).
Ma questa decisione non è casuale: a partire dalla battaglia del Ponte
Milvio infatti, si ha notizia di una conversione di Costantino al
Cristianesimo, un evento che - seppure non meramente politico, in quanto
riguarda anche la sfera delle convinzioni personali dell'Imperatore -
prelude a una nuova alleanza tra lo Stato e la Chiesa cristiana, e avrà per
il futuro dell'Impero conseguenze di enorme portata.
Sempre nel 313 Massimino Daia, reagendo a quella che sente - e non a torto -
come una rottura degli equilibri politici a proprio sfavore, attacca
Licinio.
Sconfitto presso Adrianopoli, egli lascerà così l'Impero nelle mani di due
soli reggenti, Licinio e Costantino appunto. Data inoltre l'ambizione di
quest'ultimo, è certo che una tale situazione non possa essere considerata
definitiva.
Tuttavia, non è negli interessi di nessuno dei due contendenti, per il
momento, combattersi reciprocamente.
Per tale ragione, l'ostilità tra i due sarà rimandata di qualche anno, e si
manifesterà a più riprese nel 316, nel 319 e nel 324.
Fino al 316, varrà nell'impero una sorta di "pace tetrarchica", quella nata
nel 313 a Milano con l'accordo e il matrimonio tra Costanza e Licinio
Liciniano.
Le ambizioni di Costantino sulle zone orientali però, sono già manifeste,
come si può arguire dai seguenti aspetti della sua politica: a) prima di
tutto la sua linea filo-cristiana, volta a compiacere le regioni a est e a
fare in esse grandi proseliti (si ricordi che le comunità cristiane
d'Oriente sono da sempre meglio organizzate e più agguerrite di quelle
d'Occidente, e per tale ragione anche più problematiche per lo Stato, quindi
anche oggetto di maggiori vessazioni e maltrattamenti); b) in secondo luogo
l'opera di propaganda dinastica in proprio favore, secondo la quale egli
sarebbe un discendente diretto dell'Imperatore Claudio il Goto, e come tale
avrebbe diritto di governare sull'Impero nella sua interezza!
Nel 316 si ha così la prima avvisaglia dei futuri conflitti tra i due
Augusti. Nel corso di una battaglia Costantino si appropria di parte dei
territori balcanici del suo avversario, volgendo in proprio favore la
situazione.
Ma sarà sul piano della propaganda religiosa che si giocherà la carta
decisiva e finale del conflitto. Costantino difatti accuserà
(ingiustamente!) il proprio nemico di portare avanti una politica
persecutoria nei confronti della Chiesa cristiana, e si proporrà così come
difensore dei cristiani orientali.
La guerra vera e propria poi scoppierà nel 323, concludendosi l'anno
seguente. Pretesto di essa, sarà un'intromissione momentanea di Costantino
nei territori di Licinio a fini puramente difensivi (egli infatti sta
combattendo una guerra contro i Goti).
Nel 324 infine, Licinio subirà la sconfitta definitiva presso Crisopoli, e
verrà costretto dal vincitore a ritirarsi a vita privata, per poi essere
assassinato l'anno seguente.
In questo modo, Costantino diviene Imperatore unico di Roma e può dare
inizio a una nuova fase della sua storia: l'ultima, quella cristiana.
B. Costantino e la Chiesa
Al di là degli aneddoti e delle leggende sulla conversione dell'Imperatore
(la quale pare sia avvenuta, se non alla vigilia, quantomeno nel periodo
della guerra contro Massenzio), al di là del problema posto dalla sincerità
di tale vocazione religiosa (che oggi si tende a non escludere, anche data
l'indole emotiva e superstiziosa di Costatino), è comunque un fatto
indiscutibile che scegliendo d'abbracciare la fede cristiana Costantino
compie un passo le cui implicazioni sul piano organizzativo e politico
saranno, nei decenni seguenti, enormi.
Prescindendo di nuovo dagli aspetti personali della scelta religiosa, da un
punto di vista meramente storico si vede come, nelle mani dell'Imperatore
d'Occidente, la chiesa cristiana divenga da subito un mirabile strumento
politico, e ciò sia a breve termine (costituendo - come si è appena visto -
un eccellente mezzo di propaganda politica anti-orientale), sia sui tempi
lunghissimi (dal momento che tale sodalizio segnerà per Roma una svolta
epocale dal punto di vista religioso, culturale e organizzativo).
- La Chiesa in Oriente e in Occidente
Si è detto nel paragrafo precedente, che le accuse di persecuzioni ai danni
delle comunità cristiane rivolte da Costantino a Licinio siano fasulle e del
tutto strumentali.
Anche se ciò è vero, esse tuttavia non contengono solo menzogne. Nonostante
difatti tali addebiti amplifichino molto la realtà della situazione, si può
scorgere in essi anche un nucleo di verità.
Da sempre infatti nelle regioni orientali (nelle quali peraltro il culto
cristiano ha avuto origine) le comunità cristiane sono meglio organizzate e
più agguerrite, ragion per cui anche l'azione repressiva dello Stato nei
loro confronti è in linea di massima più profonda e radicale.
Sebbene - dopo gli editti di Galerio e di Costantino - non si possa più
assolutamente parlare di vere e proprie persecuzioni nei confronti delle
comunità cristiane, è un fatto comunque che da parte di Licinio e di
Massimino Daia permanga verso di esse un atteggiamento di maggiore
diffidenza che in Occidente, e che i due Imperatori orientali portino ancora
avanti misure che, in qualche misura, cercano di scoraggiare e di ostacolare
le riunioni e le attività di tali comunità.
Tale politica - che, lo ripetiamo, non si può certo definire persecutoria -
sarà in ogni caso un valido pretesto per aggredire militarmente Licinio,
presentandosi Costantino come difensore della causa cristiana.
D'altra parte, è sempre la minore conflittualità tra Stato e Chiesa
d'occidente, a rendere in questi territori più facile (anche se non
inevitabile né necessaria) una loro riunificazione!
Tuttavia sarebbe un errore anche credere che, all'indomani della conversione
imperiale al Cristianesimo, l'Impero subisca una svolta repentina e totale
verso questo nuovo culto. E' chiara difatti la volontà di Costantino di
rispettare molte delle antiche usanze pagane (conservando ad esempio la
carica di Pontifex Maximus), così come è certo che da un editto di
tolleranza verso i Cristiani non si passa - quantomeno subito - a un editto
di tolleranza verso i pagani.
Abilità di Costantino, il quale dimostrerà durante tutto il suo regno di
possedere vere doti di stratega e di politico, sarà quella di portare avanti
un processo graduale di conversione, anche attraverso misure che favoriranno
l'affermazione sociale della nascente Chiesa cattolica.
- Costantino "tutore" della Chiesa cristiana
L'alleanza tra Stato e Chiesa (alleanza a fini politici e di governo)
richiede tuttavia che quest'ultima si organizzi in modo da diventare sempre
di più una realtà unitaria, cioè priva di divisioni interne - specialmente
laddove queste ultime implichino contrasti violenti e conflitti
inconciliabili.
Ciò di cui l'Impero ha infatti bisogno è, nella visione di Costantino, una
Chiesa universale che funga da complemento e da collante culturale e sociale
per un Impero universale!
E inoltre, egli sa fin troppo bene che il permanere di dissidi nella Chiesa
fungerebbe da deterrente nei confronti di essa, favorendo in più le critiche
dei suoi detrattori.
Per tali ragioni, è nell'interesse di Costantino cercare di appianare - in
veste di Imperatore e di capo supremo dell'Impero - le dispute che nascono
in seno alla Chiesa.
Inoltre, con tali azioni di pacificazione, egli si pone implicitamente come
il "tutore" stesso dell'istituto ecclesiastico, affermando quindi il proprio
potere su di esso (e dando vita così a una politica che nei prossimi anni si
affermerà sempre di più, quella cesaro-papista).
Eventi fondamentali di questa politica di mediazione e di conciliazione
saranno sia l'intervento nelle dispute sulle dottrine donatiste (313, nelle
regioni africane), sia quello nelle dispute - i cui effetti sono ancora più
gravi - sull'arianesimo (325, in Oriente).
In entrambi i casi vediamo una posizione forte (che in futuro dovremo
definire 'cattolica') scontrarsi con un'altra, la quale nel primo caso è
caratterizzata da un atteggiamento di fondo decisamente integralista (i
donatisti difatti negano che coloro i quali, al tempo delle persecuzioni,
hanno ceduto alle minacce dell'Impero, abbiano ancora il diritto di far
parte della Chiesa), e che nell'altro caso invece (la dottrina ariana) nega
la natura divina di Cristo.
Bisogna notare inoltre come fine di Costantino non sia tanto l'affermazione
di una o di un'altra tesi teologica, quanto la pacificazione dei dissidi e
attraverso essa il ritorno della Chiesa nell'ordine e nella legalità.
In questi anni, poi, vediamo affermarsi e consolidarsi alcuni di quei dogmi
che in futuro costituiranno lo spartiacque tra i cattolici e gli eretici.
Una prova evidente di tale atteggiamento 'pragmatico' dello Stato nei
confronti dei dogmi di fede, la sia ha se si considera la vicenda che sta
alla base della conversione dei popoli Goti al Cristianesimo. In essa,
infatti, non si esiterà a favorire l'eresia ariana, come unico strumento
efficace al fine di ottenere la conversione di tali popoli.
Il che ci fa riflettere inoltre in merito al ruolo unificatore e
pacificatore che la Chiesa comincia a assolvere in questi anni, all'interno
dell'orizzonte sempre più variegato e tormentato dell'Impero romano.
- Provvedimenti sulla Chiesa
Come si è detto, Costantino cercherà in molti modi di favorire
l'affermazione a tutti i livelli delle comunità cristiane, attraverso quella
delle istituzioni ecclesiastiche.
Questi i provvedimenti più importanti in favore di esse: a) la concessione
dell'immunità fiscale ai chierici (in seguito parzialmente revocata); b) la
possibilità giuridica del ricorso al tribunale ecclesiastico nei casi dubbi
e oggetto di contestazione (il che favorisce un alleggerimento del lavoro
per i tribunali dello Stato); c) la concessione dei trasporti gratuiti per
le più alte gerarchie ecclesiastiche (equiparate da questo punto di vista
all'alta burocrazia imperiale).
Si afferma infine, l'usanza da parte della corte imperiale e della nobiltà
cristiana, di fare elargizioni e donazioni in favore della Chiesa (cosa che
ne aumenterà la ricchezza e il potere economico e politico).
C. Le riforme amministrative, politiche e finanziarie di Costantino
Ma oltre a tali aspetti di carattere religioso e rivoluzionario, nell'azione
di Costantino si trovano anche dei provvedimenti tendenti a sviluppare
l'idea di organizzazione imperiale promossa precedentemente già da
Diocleziano.
Ovviamente, rispetto a quest'ultimo, egli rinunzia alla concezione
tetrarchica del potere, portando avanti comunque quelle idee in merito alla
gestione imperiale, che mirano a rafforzare i poteri centrali dello Stato, a
scapito di quelli particolaristici.
Egli continua cioè nel processo di formazione dello Stato Assoluto, a
scapito delle forze particolaristiche e locali dell'Impero, in modo tale da
concentrare i poteri decisionali esclusivamente nelle mani delle alte sfere
statali, e in modo che la sottomissione dei sudditi e soprattutto degli
eserciti a queste ultime sia più rigidamente garantita e tutelata che in
passato.
Riguardo agli eserciti, Costantino prosegue nell'incremento dei reparti
mobili alle dirette dipendenze dello Stato; ma prosegue anche nella pratica
del vincolamento professionale (che oramai si estende non solo ai mestieri
più umili, ma anche a quelli più alti - come ad esempio quelli concernenti
le cariche pubbliche che, pur prestigiose, sempre più spesso divengono
troppo onerose, anche per i cittadini ricchi).
Importante è poi la riforma monetaria, con l'introduzione di una nuova
moneta: il 'solidus aureus', interamente in oro e dotata perciò di un forte
potere d'acquisto e di una notevole stabilità. Demerito di essa sarà
tuttavia la scarsa - o nulla - accessibilità ai ceti medi e bassi, la quale
contribuirà ad aumentare ulteriormente il divario tra ricchi e poveri.
Tuttavia, nella visione di Diocleziano, ciò non costituisce affatto un
problema primario, dal momento che una delle tendenze della sua politica
consiste nell'affidare la sorte di questi ultimi alle pratiche
assistenzialistiche della Chiesa (la quale, attraverso questa attività,
trova un potente strumento di affermazione sociale).
D. La nascita di Costantinopoli
A coronamento della grande trasformazione dell'Impero da lui stesso
inaugurata, ma anche della tendenza dei sovrani - in atto oramai da
decenni - a disinteressarsi alla capitale storica, Roma [si ricordi, per
esempio, che Diocleziano l'ha visitata solo una volta nel corso del suo
mandato], Costantino fonderà e inaugurerà tra il 324 e il 331 una nuova
città, Costantinopoli, seconda capitale - e a prevalenza cristiana -
dell'Impero.
Posta in un punto strategico (laddove cioè sorgeva la vecchia città di
Bisanzio, collocata in un punto di snodo tra le zone d'Oriente e quelle
d'Occidente), essa diverrà in futuro la capitale dell'Impero Bizantino, il
quale sopravviverà per più di mille anni al suo 'gemello' occidentale.
CONCLUSIONI (236-337)
I cento anni che abbiamo qui analizzato conoscono essenzialmente due fasi
distinte.
- In una prima fase (236-284), il progressivo spostamento dei pesi politici
nelle mani delle milizie (avvenuto soprattutto a partire dal principato di
Settimio Severo) porterà l'Impero a un passo o quasi dalla dissoluzione, in
quanto le forze centrifughe in esso presenti - che si identificano
principalmente con gli eserciti locali - non troveranno più nell'autorità
centrale dello Stato un efficace deterrente e un adeguato contrappeso.
Saranno gli sforzi eroici di imperatori quali Gallieno e Aureliano a
impedire che questo movimento disgregativo giunga alle sue estreme
conseguenze, determinando così la fine dell'Impero stesso.
- In un secondo periodo (284-337) le forze centralistiche dello Stato
torneranno ad avere la meglio su quelle particolaristiche e militari, ma a
prezzo di assottigliare ulteriormente la libertà d'azione dei cittadini (e
in primo luogo, ovviamente, quella degli eserciti).
In tal modo, l'Impero romano perderà per sempre quei connotati politici che
lo legano alla tradizione occidentale - vale a dire, almeno in un certo
grado, il pluralismo e la partecipazione assembleare -, qualità dalle quali
fino ad allora esso era stata caratterizzato, avvicinandosi sempre di più a
uno Stato assoluto di matrice orientale.
In entrambi questi periodi inoltre, si assiste alla demolizione di
quell'antica concezione del potere imperiale d'origine augustea, basata
anche sul principio della concertazione politica tra le parti sociali, per
la quale quello dell'Imperatore non era ancora un governo di tipo pienamente
autocratico.
Il declino dell'Impero romano, difatti, porterà con sé anche quello di tutte
quelle forze che fino ad allora avevano avuto un peso politico sulle
decisioni del princeps: sia cioè delle antiche istituzioni d'origine
repubblicana, quali il Senato (fino ad allora rimaste attivamente al fianco
delle più giovani istituzioni imperiali), sia di quei ceti commerciali,
finanziari e affaristici che, nel periodo di maggiore fortuna dell'Impero,
costituivano ancora una componente irrinunciabile della vita sociale e
politica di esso.
A guida di un tale Stato, infatti, si porranno fondamentalmente da una parte
l'Imperatore e la sua corte, e dall'altra gli eserciti.
IL DOPO COSTANTINO
1. L'Impero dopo Costantino
Con Diocleziano e Costantino, l'Impero ha subito una consistente
ristrutturazione di carattere istituzionale, al termine della quale due sono
divenuti i cardini dello Stato: gli eserciti da una parte e dall'altra la
corte imperiale (al cui vertice si pone chiaramente proprio l'Imperatore).
Se i primi infatti sono sempre più indispensabili per il mantenimento
dell'integrità territoriale e politica dell'Impero, la seconda invece -
convergente tutta nella figura dell'Imperatore - è impegnata, con l'aiuto
peraltro di apparati di natura burocratica sempre più vasti e onerosi (.ed
anche militari: si ricordino i reparti mobili alle dipendenze dirette del
potere centrale dello Stato), a governare la totalità dei territori
imperiali, e a impedire nello stesso tempo l'insorgere di movimenti di
carattere autonomistico e separatistico a livello regionale.
Ma gli anni che faranno seguito alla morte di Costantino, vedranno anche il
radicalizzarsi di un'altra tendenza dei decenni precedenti, quella verso la
separazione politica e istituzionale tra le zone orientali e le zone
occidentali (da sempre, peraltro, latentemente in conflitto tra loro a causa
della profonda diversità di strutture e di tradizioni politiche).
Una tendenza, quest'ultima, le cui origini vanno ricercate nella
trasformazione interna dell'Impero in questi ultimi decenni: nell'ulteriore
divergere cioè delle due linee di sviluppo.
Se ai tempi di Ottaviano, infatti, era l'Occidente a prevalere - tanto
militarmente quanto economicamente - sull'Oriente, ora al contrario è vero
l'opposto!
Mentre le zone occidentali (nelle quali più radicale si manifesta la crisi
dei commerci, dei ceti medi e delle città, e di conseguenza anche quella
dello Stato e dei suoi apparati) mostrano segni sempre più evidenti di
affaticamento e stanchezza, meno radicali si mostrano quegli stessi fattori
nelle zone orientali (ancora crocevia, tra le altre cose, di molteplici
scambi commerciali tra il mondo mediterraneo e l'entroterra asiatico), zone
all'interno delle quali la soluzione avviata da Diocleziano e Costantino,
pur con le dovute difficoltà, incontra obiettivamente meno ostacoli ed ha
quindi anche, rispetto all'Occidente, maggiore fortuna.
In tali regioni difatti, la corte (chiamata ora consostiorum) ovvero la base
direttiva dello Stato, riesce ancora a prevalere, pur con molte incertezze,
sulle spinte autonomistiche originate dai poteri militari: risultato, ciò,
della maggiore stabilità in tali aree delle strutture imperiali!
Si delineano quindi, gradualmente, due situazioni estremamente differenti:
quella della crisi e della disintegrazione politica occidentale (situazione
il cui culmine sarà costituito dalla caduta stessa dell'Impero d'Occidente,
e dalla nascita dei regni romano-barbarici), e quella della (relativa)
coesione e stabilità delle zone orientali.
Non deve stupire poi il fatto che queste ultime - le quali, oltre a dovere
fronteggiare i propri problemi interni, vedono sempre più vani i propri
sforzi per sostenere l'Occidente - tendano col tempo a prendere le distanze
da esso, accelerandone in tal modo il processo di dissoluzione.
Non a caso, la situazione della parte occidentale e latina inizierà a
precipitare proprio dopo la morte di Teodosio, con la prima esplicita
ammissione di indipendenza a livello politico (anche se non giuridico e
'morale') tra le due zone, l'Impero venendo diviso in due parti autonome:
quella di Onorio e quella di Arcadio.
Ma anche prima della definitiva caduta dell'Occidente (la quale si colloca,
più che altro per convenzione storica, con la deposizione di Romolo
Augustolo, l'ultimo imperatore occidentale, nel 476) i barbari si sono
infiltrati oramai - seppure ufficialmente come 'foederati' - un po' in tutte
le sfere della società romana occidentale, e innanzitutto in quella
militare.
Non può quindi destare una grande sorpresa il fatto che la nascita vera e
propria dei regni romano-barbarici sia accolta, dalle popolazioni indigene,
con una sorta di rassegnata apatia che sfiora la 'volontà di non vedere'. E
ciò anche in considerazione del fatto che tali popolazioni - sia urbane sia
rurali (queste ultime, in più, abituate oramai da tempo a condurre vita
separata) - si mostrano essenzialmente indifferenti al problema di chi
governi effettivamente l'Impero e le province.
2. L'Impero fino alla morte di Teodosio (337-395)
Intendiamo, qui di seguito, occuparci in primo luogo degli eventi politici e
militari più rilevanti del periodo che va dalla lotta per il potere
scatenatasi con la morte di Costantino (337) fino alla morte dell'Imperatore
Teodosio (395), soffermandoci poi più in dettaglio su personaggi, vicende e
risvolti socio-culturali particolarmente rilevanti della storia di questi
anni e, più in generale, di questo nuovo periodo della storia romana.
1) Eventi principali
- Da Costantino a Giuliano Apostata (337-363)
La morte, inaspettata, di Costantino scatena da subito un problema antico,
quello della successione.
L'anziano imperatore infatti, per ragioni in parte misteriose, non si è
preoccupato di designare alcun successore, lasciando così implicitamente ai
figli la possibilità di spartirsi i territori imperiali, secondo una
soluzione di potere di tipo 'pluralista' che è stata estranea alle sue
scelte politiche.
Dei suoi tre figli, soltanto il più giovane, Costante, rimarrà inizialmente
escluso dal titolo di Augusto, andando infatti la parte occidentale a
Costatino (II) e quella orientale a Costanzo (II).
La morte improvvisa - e forse violenta - di Costantino, farà tuttavia di
Costante l'erede dell'Occidente (340).
Sarebbe superfluo descrivere in dettaglio i vari avvicendamenti al potere
degli imperatori di questi anni, che vanno dal 337 al 363.
Ci limiteremo quindi a dire che, in questi come nei decenni precedenti, si
avranno sia episodi di usurpazione (in particolare quello che vedrà
Magnenzio, nel 350, occupare l'Italia e la Gallia, dopo aver eliminato
Costante, venendo poi sconfitto da Costanzo nel 353), sia di larvato
indipendentismo (quale quello di Treboniano Gallo, un parente di Costanzo
cui questi ha affidato la sorte delle regioni orientali, ma che ha poi fatto
giustiziare per il sospetto di mire separatistiche e indipendentiste.)
Ma tra tutti i personaggi di questi anni, è senza dubbio la figura di
Giuliano (detto l'Apostata, a causa della sua scelta di ripudiare
quell'indirizzo filo-cristiano che l'Impero ha oramai definitivamente preso)
a emergere, sia per l'originalità delle proprie vedute che per la propria
abilità militare.
Eletto da Costanzo II Cesare delle Gallie, col compito di tutelarne
l'integrità territoriale contro i tentativi di penetrazione dei popoli
germanici (Alamanni e Franchi), Giuliano darà subito prova delle proprie
capacità militari ottenendo più di un successo, e guadagnandosi così anche
la fiducia e l'approvazione delle popolazioni indigene locali.
Tuttavia non saranno tali imprese a guadagnargli una fama duratura a livello
storico, bensì piuttosto le sue originali concezioni religiose e politiche,
che si concretizzeranno in un programma di riforma sia istituzionale che
culturale.
Se infatti da un lato egli promuoverà nuovamente la diffusione dei culti
pagani nell'Impero, negando quindi alla religione cristiana quel primato che
essa aveva gradualmente acquisito a partire dai tempi di Costatino,
dall'altro invece spingerà per una politica di tipo tradizionalista, volta
allo smantellamento di gran parte degli apparati statali (e al
ridimensionamento della stessa corte imperiale), nonché alla rivalutazione
dei buoni rapporti tra lo Stato e i ceti ricchi, attraverso una diminuzione
della pressione fiscale.
La sua sarà insomma un'azione in favore delle forze più antiche (ma oramai
anche irrimediabilmente in declino) della società romana, legata peraltro
alla sua personale concezione del potere e dell'Impero - una concezione
decisamente in controtendenza rispetto alle tendenze degli ultimi decenni.
Gli eventi che porteranno Giuliano a divenire Imperatore unico, passeranno
attraverso lo scontro con Costanzo II, avvenuto a causa di una richiesta di
quest'ultimo non soddisfatta dal giovane Cesare.
Impegnato sul fronte orientale, difatti, Costanzo richiederà a Giuliano un
massiccio invio di truppe, al fine di poter sferrare un nuovo attacco contro
la potenza persiana. Al rifiuto di Giuliano - dovuto sia alla propria
volontà, temendo egli molto probabilmente di rimanere sguarnito militarmente
sul proprio fronte, sia a quella delle sue truppe - l'Imperatore Costanzo
reagirà entro breve tempo con una vera e propria dichiarazione di guerra,
muovendo poi incontro al suo rivale.
Una battaglia, quella tra i due duci romani, che tuttavia non verrà mai
combattuta, a causa della morte di Costanzo nel 360 a soli 34 anni d'età.
Dopo tale evento, dunque, l'Impero passerà nella sua interezza nelle mani di
Giuliano, che potrà così finalmente portare avanti a livello globale i suoi
progetti di riforma.
Nei due anni del proprio principato infatti (361-363), egli condurrà una
politica fondamentalmente anti-cristiana sul piano religioso e
tradizionalista su quello economico e politico, che gli frutterà peraltro
l'odio della Chiesa e, con esso, il soprannome di Apostata (cioè di
rinnegato).
Nonostante poi la profondità della sua visione (che analizzeremo meglio più
avanti), l'intrinseca anacronisticità del suo progetto politico farà in modo
che i suoi successori rinneghino praticamente tutte le sue riforme - anche
se ciò non toglie che esse siano espressione di un clima culturale e di
tensioni reali che attraversano la società romana di questi anni.
- Da Gioviano a Teodosio (363-395)
Dopo la morte di Giuliano, avvenuta nel corso di una campagna contro i
Parti, è un personaggio della corte, Gioviano, a prenderne il posto; questi
governerà per soli tre mesi, facendo però a tempo a concludere una pace con
l'Impero partico.
Dopo Gioviano, il potere supremo passerà a Valentiniano (364-375), il quale
sceglierà di dividerlo con il fratello Valente (364-375), assegnando a se
stesso la parte occidentale e a suo fratello quella orientale (la cui
capitale è divenuta oramai Costantinopoli).
Successivamente egli assocerà al titolo imperiale anche il figlio sedicenne
Graziano (367-383), dimostrando in tal modo come anche la soluzione
diarchica sia oramai superata in favore di un altro tipo di divisione,
dettata essenzialmente dalle esigenze del momento.
Con Valentiniano l'alleanza tra l'Imperatore e gli eserciti verrà rafforzata
ulteriormente, contribuendo egli in tal modo a una ulteriore
militarizzazione della parte occidentale, ovvero a una prevalenza degli
elementi militari anche tra le più alte sfere dello Stato: un dato che anche
in futuro distinguerà, come si è detto, l'occidente dall'oriente!
Graziano, invece, sarà il primo imperatore romano a rinunciare al titolo di
Pontefice Massimo (una carica religiosa legata alle antiche tradizioni
pagane), contribuendo così all'allontanamento dello Stato dalle consuetudini
pagane.
Nel 378 poi, si avrà la celebre sconfitta dei romani presso la città di
Adrianopoli, in Tracia, in una battaglia nel corso della quale perderà la
vita lo stesso Imperatore d'Oriente Valente, e che rappresenterà uno dei più
grandi smacchi di tutta la storia dell'Impero, costituendo inoltre - a causa
del dilagare incontrollato delle popolazioni gotiche nelle zone danubiane -
un rischio enorme per la stessa sopravvivenza politica di tali zone.
Alla morte di Valente, rimasta vacante la reggenza in Oriente, Graziano
affiderà quest'ultima (379) a un certo Teodosio, un valoroso generale,
figlio di un ufficiale che si era a sua volta distinto in Britannia al
servizio di Valentiniano.
L'azione di quest'ultimo seguirà essenzialmente le seguenti fasi: in una
prima (380) egli riguadagnerà a Roma quelle regioni danubiane che erano
andate perdute subito dopo la battaglia di Adrianopoli (arruolando poi un
grande numero di elementi barbarici tra i reparti militari di frontiera, e
permettendo inoltre a essi di insediarsi stabilmente in alcune regioni
definite dell'Impero); in un secondo momento egli si impegnerà in un'opera
di radicamento ulteriore della Chiesa all'interno dello stato imperiale (nel
382 per esempio, egli proibirà la pratica dei culti pagani in luoghi
pubblici, mentre nel 394 estenderà tale proibizione anche ai luoghi
privati); infine tra il 388 e il 394 combatterà e sconfiggerà due usurpatori
del trono imperiale: Massimo (asceso alla dignità imperiale dopo avere
eliminato Graziano nel 384), e Eugenio (sostenuto dal generale Abrogaste,
uomo d'armi molto potente nelle zone occidentali).
Teodosio morirà nel 395, essendo stato in realtà Imperatore unico
ufficialmente soltanto nel breve periodo che va dal 394 (anno della
sconfitta di Eugenio) al 395, ma avendo in pratica dato all'Impero
un'impronta decisiva per ciò che riguarda i decenni futuri.
Alla sua morte, inoltre, quest'ultimo sarà - per la prima volta - diviso in
due parti indipendenti: quella occidentale retta da Onorio e quella
orientale retta da Arcadio.
2) La figura di Giuliano (355-361-363)
L'ultima figura di imperatore-filosofo che Roma conosca è quella di
Giuliano.
Pur avendo rifiutato la religiosità cristiana in favore delle più antiche
tradizioni pagane, Giuliano non ha - a dispetto di ciò che si potrebbe
immaginare - ricevuto in giovane età un'educazione pagana, bensì al
contrario rigidamente cristiana (i suoi precettori essendo stati scelti
proprio dal suo parente e tutore Costanzo II).
E' piuttosto la sua vasta cultura, che spazia dagli ambiti religiosi a
quelli più propriamente filosofici, a portarlo col tempo ad avvicinarsi alle
concezioni neoplatoniche, con le quali difatti egli condivide tanto le
tendenze ascetiche e misticheggianti quanto l'ispirazione profondamente
anticristiana.
Anche politicamente poi, Giuliano si pone in profondo contrasto con le
tendenze dominanti nei suoi anni, opponendosi sia all'orientamento generale
verso una sempre più accentuata 'simbiosi' politico ideologica tra Stato e
Chiesa; sia alla crescita spropositata degli apparati burocratici (oltre che
a quella della corte e del suo sfarzoso cerimoniale) e al conseguente
aumento della fiscalità (due tendenze queste, che - come si sa - già da
tempo fanno sentire i loro effetti negativi sull'economia imperiale, effetti
tra i quali vi è in primo luogo il ripiegamento di gran parte della
popolazione all'interno delle grandi proprietà latifondistiche).
Negli anni della sua attività dunque, Giuliano spingerà fondamentalmente in
direzione di un rovesciamento della situazione in atto, all'insegna di un
ritorno agli antichi fasti del periodo di Traiano e dell'età aurea, cercando
di favorire un riavvicinamento politico tra i ceti più ricchi e le
istituzioni dell'Impero.
Si noti inoltre come lo sfarzo della corte e i poteri sempre più estesi e
radicati della classe burocratica (la quale si è trasformata col tempo in
una sorta di casta chiusa, capace di grandi arbitri ai danni delle
popolazioni locali, quali ad esempio enormi sprechi delle risorse comuni)
muovano molte proteste da parte dei comuni cittadini: un fattore che, con
ogni probabilità, finisce per sostenere anche tra la popolazione il suo
programma di rinnovamento!
Ma anche credere che Giuliano si ponga a capo di un vasto movimento di
rinascita politica e culturale, trovando l'appoggio entusiastico - ad
esempio - delle antiche famiglie senatorie, rimaste in gran parte legate
alle antiche tradizioni pagane, sarebbe decisamente fuorviante e
semplicistico.
L'ispirazione filosofica alla base delle sue riforme infatti, la cui
impostazione è largamente debitrice alle tradizioni elleniche, non va certo
a genio alla nobiltà terriera occidentale, abituata da sempre a idee e
concezioni più di grana grossa, e diffidente quindi nei confronti di una
tale impostazione.
Piuttosto - e paradossalmente - molti aspetti della personalità e delle
scelte di Giuliano, avvicinano quest'ultimo proprio a quella cultura
cristiana dalla quale vorrebbe prendere risolutamente le distanze.
Si pensi ad esempio alle sue forti inclinazioni verso l'ascetismo (queste
ultime alla base, tra l'altro, della rinuncia al lusso e alla sfarzosità
della corte: un atteggiamento che come si è visto ha, anche sul piano
politico, implicazioni notevoli), o al tipo di riorganizzazione da lui
auspicata per le istituzioni religiose pagane, largamente debitrice alle
strutture stesse della Chiesa cristiana e cattolica.
Un breve cenno va fatto infine a quelle che sono le riforme effettivamente
promosse da Giuliano - quasi tutte poi revocate dai suoi successori - negli
anni del proprio mandato imperiale.
Da un punto di vista amministrativo e politico - oltre a restituire alla
nobiltà senatoria una parte almeno del prestigio sociale e dell'autorità
decisionale che le era stata tolta nei decenni precedenti - Giuliano
introdurrà una nuova moneta, la siliquia, il cui valore sarà di 1/24
rispetto al solidus auerus (la moneta interamente in oro introdotta da
Costantino) e la cui più facile utilizzabilità avvantaggerà i ceti
commerciali, facendo parte inoltre di un più ampio progetto di rilancio
dell'economia di mercato, oramai in declino.
Da un punto di vista religioso, pur non ponendo egli in atto una vera e
propria persecuzione ai danni delle comunità cristiane (anche perchè tali
provvedimenti sarebbero ormai impensabili, dopo le trasformazioni degli
ultimi anni), Giuliano porrà in atto comunque alcune misure volte a ridurre
drasticamente la loro presenza nelle più alte sfere dello Stato, e
promuoverà al tempo stesso un ritorno al paganesimo come religione di Stato.
Ciò attraverso le seguenti misure: restaurazione degli antichi templi
pagani, abolizione dei privilegi concessi da Costantino (e dai suoi
successori) alla Chiesa cristiana, e proibizione dell'insegnamento ai
maestri di religione cristiana.
E' ovvio tuttavia come la situazione oramai mutata sia da un punto di vista
politico e sociale che culturale, renda impossibile il perdurare di simili
provvedimenti.
Già Gioviano, il suo successore, si affretterà difatti a smantellare il
complesso di tali misure in direzione di una politica più realistica, ovvero
di un ritorno all'alleanza tra Stato Chiesa nonché alle recenti misure
economiche e amministrative.
3) Il cristianesimo e la fine dell'uomo antico
Non è un caso che, secondo Giuliano, la restaurazione del vecchio ordine
debba passare attraverso due tipi di riforme: quelle amministrative e quelle
religiose.
Non sono difatti soltanto le trasformazioni di natura sociale (quali
l'allargamento delle proprietà fondiarie, lo svuotamento graduale delle
città, ecc.) a concorrere alla trasformazione del mondo antico in mondo
feudale. Stanno avvenendo infatti cambiamenti molto profondi anche a livello
culturale e, prima di tutto, a livello religioso: cambiamenti dovuti
fondamentalmente all'affermarsi di una nuova temperie, segnata in modo
essenziale dalla presenza del cristianesimo.
Pur essendo cosa universalmente nota il fatto che il messaggio della Chiesa
cristiana sia stato portatore di una nuova concezione morale e, più in
generale, di una nuova visione dell'essere dell'uomo e della natura, può
apparire strano che essa sia riuscita a rivoluzionare quella visione di
fondo che si suole definire - un po' schematicamente - come antica, fino a
decretarne addirittura la scomparsa.
La realtà di una tale affermazione, tuttavia, può essere dimostrata anche
attraverso un'analisi approssimativa di un tale messaggio e dei suoi
contenuti, soprattutto se essi vengano posti a confronto con le idee più
generali e universalmente condivise delle culture, pur tra loro molto
differenti, che siamo soliti far rientrare sotto la denominazione comune di
'civiltà pagane'.
Mentre - ad esempio - nella visione tipica delle civiltà antiche l'uomo e la
natura (ovvero lo spirito e la materia, il soggetto e l'oggetto.) sono
concepiti come due realtà che si compenetrano a vicenda - ponendosi tra loro
in un rapporto sostanzialmente armonico nel quale nessuna delle due riesce
mai a 'sopraffare' l'altra -, la concezione propria del messaggio cristiano
rompe una tale armonia in favore delle componenti più propriamente umane e
spirituali.
In una tale visione, infatti, lo spirito finisce per prendere il sopravvento
sulla natura, ponendosi rispetto a essa come un qualcosa di assolutamente
al-di-là, che rimane per essa fondamentalmente inaccessibile: si determina
così - come già si è detto - una frattura, fino ad oggi non più ricomposta,
tra tali dimensioni!
Ma anche altri elementi, oltre a quello riguardante il rapporto tra uomo e
natura, manifestano chiaramente la profondo differenza che separa gli
'antichi' dai 'moderni'.
Se, ad esempio, nella visione antica il mondo stesso era divino (esso, per
esempio, veniva immaginato come "pieno di dei"), nella visone cristiana
invece esso rimane soltanto un tenue riflesso - seppure in se stesso sublime
e grandioso - della divinità, mentre quest'ultima si pone in una dimensione
di assoluta trascendenza.
Allo stesso modo, mentre l'esistenza terrena è - per gli antichi - un fine
in se stessa, essa diviene - nella concezione religiosa e escatologica
cristiana - una prova o una lotta: qualcosa che rimanda comunque nella sua
più piena realizzazione a un'altra vita, nella quale verranno distribuiti
premi e castighi per le azioni compiute in quella precedente.
Si rende quindi evidente da queste - come da altre - considerazioni la
profonda differenza che intercorre tra l'uomo antico e l'uomo cristiano
(ovvero, in certo senso, moderno): se il primo vive infatti in una
dimensione che è essenzialmente terrena e carnale (un termine, quest'ultimo,
col quale non si intende certo negare ogni valore alla dimensione più
propriamente umana e spirituale, ma che non conferisce comunque ad essa una
predominanza assoluta su quella naturale), il secondo si pone invece nei
confronti della natura in un rapporto di opposizione, che si traduce poi nel
supremo sforzo di trascenderla.
Di nuovo, come si è già detto, mentre l'uomo antico vive ancora in armonia
con il mondo delle forme sensibili, quello cristiano (che vogliamo qui
definire, anche se un po' arbitrariamente, come 'moderno') vive con esse in
un rapporto conflittuale, secondo il quale la sola possibile relazione tra
questi due termini consiste nella prevaricazione e nell'annullamento di uno
di essi per l'azione dell'altro [un fattore questo, ancora più evidente
rispetto al cristianesimo in altre forme di religiosità a esso concomitanti:
ad esempio in quella manichea e iraniana, nella quale ancora più
estremizzata è l'opposizione tra corpo e spirito - identificati
rispettivamente con il male e il bene].
Il prevalere poi di questa seconda visione della vita non può non decretare
il tramonto della precedente, data la loro sostanziale inconciliabilità, e
con essa la fine - almeno nell'immediato - dei valori naturalistici ed
edonistici che l'avevano caratterizzata.
Ma - si obbietterà giustamente - l'uomo che qui definiamo 'moderno' (in base
a una categoria che comprende anche noi stessi) non è frutto soltanto della
rivoluzione cristiana, ma anche di tutte quelle che a essa sono succedute (a
partire dalla rinascita cittadina del XIII secolo, per giungere alla
rivoluzione industriale del XVIII, e così via.).
Anche se ciò è vero, si può dire tuttavia che sia la prima di tali
rivoluzioni, quella connessa cioè con l'affermarsi del messaggio cristiano
(con tutte le sue implicazioni) a porsi a base di tutte le altre e a
renderle possibili. E ciò dal momento che essa sposta l'asse dell'esistenza
umana in direzione del controllo anziché della convivenza, del dominio
anziché della fusione tra l'uomo e la natura!
In tal modo quindi, essa pone le basi stesse delle future trasformazioni
della civiltà moderna: di quella civiltà che nasce cioè con quel processo di
'spiritualizzazione' le cui origini si collocano appunto a partire dalla
diffusione del messaggio - religioso sì, ma anche culturale - cristiano.
Alla fine del Medioevo, difatti, molti fenomeni che avevano già
caratterizzato la civiltà antica (soprattutto ai suoi apici: ovvero la
civiltà ellenistica e quella romana) quali ad esempio il commercio su base
monetaria, lo sviluppo della vita cittadina e delle grandi vie di traffico,
ecc. faranno nuovamente la propria comparsa, ma stavolta su basi molto
mutate, perché potenziate da nuovi strumenti di carattere tecnico (sia in
senso più propriamente tecnologico, ovvero i nuovi strumenti produttivi, sia
in senso finanziario, ad esempio le banche e le altre forme di
organizzazione del credito).
Né vi è poi bisogno di sottolineare come questi ultimi traguardi siano stati
resi possibili, in sostanza, da quel tipo di mentalità che proprio la
rivoluzione cristiana aveva inaugurato, una mentalità tesa tutta a
trascendere la dimensione fisica e naturale, che non accetta più cioè di
"coabitare" con essa.
Non è un caso, infine, che la crisi più radicale della mentalità 'antica' si
verifichi in concomitanza con quella del più avanzato sistema produttivo e
sociale del cosiddetto 'mondo antico', cioè dell'Impero romano.
La crisi di quest'ultimo infatti, determinerà un po' a tutti i livelli
(tanto economici, quanto politici e culturali) la scomparsa stessa del mondo
antico propriamente detto!
4) L'Impero sotto Teodosio
Oltre ai meriti cui già si è accennato - ovvero l'aver difeso l'Impero dal
dilagare delle orde barbariche, in particolare dopo la catastrofe di
Adrianopoli del 378, e l'aver portato avanti un processo di ulteriore
avvicinamento tra lo Stato romano e la Chiesa cristiana - vanno ascritti a
Teodosio alcuni sviluppi di carattere politico e sociale, attuati attraverso
disposizioni che pongono un suggello istituzionale e ufficiale a tendenze
latenti oramai da alcuni decenni.
- I barbari e l'Impero
Primo tra tutti, vi è il provvedimento inerente la riforma degli eserciti e
della loro composizione.
Avendo infatti compreso come, oramai, non sia più possibile arginare le
incursioni barbariche sui territori imperiali, Teodosio opta per una
soluzione scopertamente di compromesso con tali popoli, iniziando così una
trasformazione in senso "barbarico" delle forze armate.
A un tale provvedimento (certo non del tutto originale, in quanto praticato
fin dai tempi di Marco Aurelio, ma perseguito comunque da Teodosio con una
sistematicità e una fermezza assolutamente inedite) se ne aggiunge poi un
altro (anch'esso non nuovo), ovvero l'insediamento dei barbari in alcune
zone, ben delimitate, dell'Impero.
Una strategia di 'addomesticamento' delle forze estranee all'Impero,
insomma, finalizzata a utilizzarne la forza militare ai fini del
consolidamento dell'Impero stesso, ma che - come dimostrerà chiaramente la
vicenda della parte occidentale - comporta inevitabilmente anche molti
rischi per quanto concerne l'identità culturale e la stabilità politica
degli stessi apparati statali. Così, se le zone orientali potranno
conservare fondamentalmente integra la propria identità politica e culturale
(anche se a prezzo - a volte - di patteggiare la pace con le popolazioni
ostili dietro il pagamento di forti somme in danaro, o addirittura di
indirizzare le loro mire espansive sulle zone occidentali), quelle
dell'occidente latino, già intrinsecamente più deboli, vedranno - anche in
conseguenza della linea di 'integrazione' inaugurata da Teodosio - lo
sfaldamento delle proprie istituzioni e il tramonto stesso della propria
civiltà.
- La nascita dello stato cristiano e le prime dispute tra Stato e Chiesa
Un secondo aspetto caratterizzante il principato di Teodosio è, da una
parte, il consolidamento dell'alleanza tra lo Stato e le istituzioni
ecclesiastiche (si pensi ad esempio agli editti del 382 e del 394, che
dichiarano illegali le pratiche religiose pagane); dall'altra - al tempo
stesso - l'emergere dei primi attriti tra essi.
Se è difatti vero che il primo tende a porsi come guida e tutore della
seconda (soprattutto laddove, tanto in occidente quanto in oriente,
insorgano dei dissidi dottrinali che destabilizzano l'unità della Chiesa e
con essa la stessa quiete sociale) è vero anche che la seconda si dimostra
un fattore essenziale di integrazione e di incivilimento per un mondo come
quello romano, percorso ovunque in questi anni da grandi tensioni, dovute
soprattutto alla presenza del 'pericolo barbarico' (si pensi solo per
esempio al problema della convivenza pacifica, che nelle zone occidentali
diverrà col tempo sempre più pressante, tra i barbari e le popolazioni
indigene.)
Queste due realtà quindi, pur svolgendo delle attività tra loro
complementari, finiscono anche per sviluppare una certa conflittualità di
fondo: la stessa che nel periodo medievale sfocerà, in occidente, nel
conflitto Stato-Chiesa e nella lotta per il predominio tra le autorità
ecclesiastiche e quelle laiche.
Di una tale tendenza, è espressione il dissidio sorto in questi anni (390)
tra l'Imperatore Teodosio e il vescovo di Milano, Ambrogio, a causa di un
decreto del primo, non approvato dal secondo.
Alla base di una tale vicenda vi è un editto promulgato da Teodosio ai danni
della comunità di Tessalonica: colpevole di essersi ribellata a una legge
promulgata dall'Imperatore, che proibisce la pratica dei 'vizi contro
natura', essa viene difatti condannata da questi ad essere rasa al suolo, e
a divenire così un esempio e un monito per coloro che volessero ribellarsi
alle decisioni imperiali.
Ma un tale provvedimento incontra subito l'opposizione e la condanna della
Chiesa, e in particolare del vescovo Ambrogio (già consigliere
dell'Imperatore su questioni religiose), scatenando in tal modo una lotta
furiosa tra i due personaggi.
Una lotta vinta poi dall'autorità religiosa di Ambrogio, il quale
(attraverso la minaccia della scomunica, ovvero dell'esclusione dai
sacramenti - una misura davvero grave, data l'autorità sviluppata negli
ultimi decenni dalla Chiesa!) riuscirà a piegare il suo avversario,
costringendolo nel natale dello stesso anno a una pubblica penitenza.
Ma anche l'opposizione pagana e tradizionalista non è del tutto morta, come
dimostra l'insorgere dei moti separatistici, a seguito delle recrudescenze
della lotta (che conosce peraltro un ulteriore inasprimento dopo la vicenda
del 390) contro il paganesimo.
Di un tale fenomeno sarà espressione ad esempio l'elezione di Eugenio, un
Imperatore non riconosciuto dalla corte, ad opera del Senato e delle forze
dell'aristocrazia occidentale nel 392, e sconfitto sulle Alpi orientali nel
394 dalle truppe di Teodosio.
- Cultura pagana e cultura cristiana
Parallelamente allo svilupparsi dell'annoso conflitto tra paganesimo e
cristianesimo (di cui è un esempio in questi anni, una querelle tra Ambrogio
e Simmaco, un nobile senatore occidentale di orientamento pagano, per
l'eliminazione o la conservazione dell'altare della Vittoria - antico
monumento risalente ancora al periodo repubblicano - nell'aula senatoria),
si verifica anche un avvicinamento tra le due opposte tradizioni culturali.
Soprattutto la tradizione dell'oratoria antica tende infatti a confluire in
quella della predicazione cristiana. Sempre di questo periodo poi, è la
compilazione della prima traduzione integrale in latino della Bibbia
(passata alla storia come Vulgata) ad opera di S. Gerolamo: uno dei
capisaldi della spiritualità cristiana occidentale, che favorirà
l'affermarsi tra le masse latine delle tradizioni ebraiche e cristiane.
3. La separazione tra Oriente e Occidente
1) Due diversi destini
Per la prima volta nella sua storia, con la morte di Teodosio, l'Impero
romano viene diviso ufficialmente in due zone indipendenti, assegnate ai due
figli di Teodosio: quella occidentale (comprendente anche le zone
balcaniche) a Onorio, e quella orientale ad Arcadio.
Alla base di una tale decisione sta il fatto che tali aree abbiano
conosciuto (e conoscano tuttora) due tipi di evoluzione estremamente
diversi, e abbiano così sviluppato differenze tanto marcate da rendere
sempre più superfluo il mantenimento dell'antica unità politica. A
fondamento di quest'ultima vi era difatti la possibilità di comunicazione e
di interazione tra due aree culturali e politiche che - pur certo non
omogenee - condividevano comunque alcuni assunti fondamentali.
Ma ora che i diversi sviluppi sociali e istituzionali hanno ulteriormente
accresciuto il divario tra esse, non ha più senso - quantomeno oltre certi
limiti - il mantenimento di una tale unità, anche visti i costi che essa
inevitabilmente comporta attraverso il mantenimento di varie e onerose
infrastrutture.
- Sviluppi delle zone occidentali
Come già si è detto, la caratteristica distintiva delle zone occidentali
rispetto a quelle orientali è il maggiore indebolimento delle strutture
economiche e commerciali, e di conseguenza il forte ripiegamento della
popolazione all'interno dei latifundia, le grandi proprietà che - pur da
sempre caratterizzanti il mondo latino - finiscono ora per costituirsi
praticamente come entità economiche e sociali autonome.
Un tale fenomeno non può non comportare poi un notevole indebolimento dello
Stato, dal momento che - parallelamente peraltro alla crescita per
quest'ultimo delle esigenze sia burocratiche che militari - sottrae ad esso
preziose energie, sia umane che economiche.
Non è un caso quindi, che in queste aree gli apparati statali - già di per
sé più deboli che in Oriente - vengano ulteriormente indeboliti da forze
particolaristiche e militari su cui lo Stato stesso, per forza di cose, non
può avere un controllo eccessivo.
Sono infatti i grandi generali, in occidente, i veri capi di Stato, coloro
cioè cui spetta la fetta maggiore di autorità a livello decisionale - e ciò
a scapito ovviamente della corte imperiale.
La crescita spropositata degli eserciti inoltre, dovuta alle sempre maggiori
esigenze difensive, non può non minare ulteriormente la stabilità
dell'economia interna all'occidente, e con questa di nuovo quella dei suoi
stessi apparati statali.
Un altro elemento poi che è al tempo stesso sintomo e causa della debolezza
di tali aree, è la politica di integrazione, portata avanti sia a livello
politico che a livello militare (gli eserciti occidentali, per esempio,
saranno composti negli ultimi decenni dell'Impero praticamente soltanto da
barbari) tra le popolazioni autoctone e quelle barbariche. Accanto al
vantaggio di contenere le spinte aggressive e distruttive dei popoli
invasori, infatti, essa determinerà l'inesorabile declino delle strutture e
delle tradizioni civili e statali romane, preparandone così il collasso
finale.
Infine in occidente molto più che in oriente, sarà forte la tendenza dello
Stato a delegare alle istituzioni ecclesiastiche, e soprattutto a personaggi
di spicco al loro interno, il compito di favorire (e in alcuni casi finanche
di rendere possibile) un'integrazione pacifica tra le popolazioni indigene e
quelle degli invasori.
A proposito della Chiesa inoltre, bisogna notare che anch'essa, in questi e
nei prossimi anni, seguirà la tendenza generale verso la separazione in due
tronconi indipendenti.
In occidente infatti, come si vedrà, essa farà proprio anche formalmente
l'indirizzo niceano (che si richiama cioè ai decreti del concilio di Nicea,
indetto da Costantino nel 325), mentre in oriente finiranno per prevalere
prima la dottrina ariana e successivamente quella monofisita.
- Sviluppi delle zone orientali
La maggiore solidità dello Stato in Oriente, dovuta in gran parte al
persistere in esso di più floride condizioni sia commerciali che cittadine
(si ricordi che queste regioni hanno tradizioni civili molto più antiche
rispetto all'Occidente, che risalgono al periodo delle città-stato greche o
a quello delle civiltà, ancora più antiche, della Mezzaluna fertile e
dell'Egitto), e quindi a un minor sviluppo della grande proprietà, porterà
come risultato una capacità molto maggiore di arginare le spinte centrifughe
interne ed esterne. Una capacità difensiva che passerà a volte attraverso
stratagemmi poco 'nobili', e tuttavia efficaci: ad esempio - come si è già
detto - la pratica di deviare (come avverrà con le popolazioni Ostrogote di
Teodorico) le mire territoriali barbariche sul fronte occidentale, o lo
scendere a patti con esse attraverso il pagamento di tributi, ecc.
In tali aree inoltre, e a differenza che in Occidente, la politica di
'integrazione' con i barbari non verrà mai - e non a caso - perseguita (se
non in minima parte), e ciò con evidenti vantaggi sia per la loro solidità
amministrativa e politica che per la loro integrità culturale.
Senza contare che le più contenute esigenze difensive impediranno che le
forze militari prendano il sopravvento su quelle della corte imperiale, la
quale infatti consoliderà il suo potere e la sua influenza sui territori
divenendo uno dei maggiori fattori di stabilità e di continuità, assieme
agli apparati burocratici, dell'Impero bizantino.
In sintesi dunque, possiamo dire che in questi decenni la graduale
trasformazione dell'Occidente in un'area economicamente depressa e
politicamente alquanto instabile, renderà superfluo il mantenimento
effettivo (anche se non formale) dell'unità dell'Impero.
Ciò varrà in special modo inoltre per le zone orientali, decisamente più
floride da una parte e interessate dall'altra a stornare da sé le mire
espansionistiche delle popolazioni barbariche, anche a danno delle loro
gemelle occidentali.
2) Eventi principali delle zone europee occidentali da Onorio alla caduta
(395-476)
Il periodo di storia romana che fa seguito alla morte di Teodosio è
caratterizzato da una notevole complessità a livello politico, tanto a
oriente quanto a occidente.
Mentre nelle regioni orientali saranno le lotte per il predominio a livello
religioso e ecclesiastico tra diverse sedi episcopali (ad esempio quelle di
Alessandria e di Costantinopoli) la principale causa di tale complessità; in
quelle occidentali (nelle quali la Chiesa avrà minori difficoltà a
mantenersi coesa, nonostante la presenza di alcuni movimenti ereticali: da
quello donatista a quello ariano, per altro diffuso principalmente tra i
Barbari) saranno le continue lotte tra lo Stato romano e le popolazioni
barbariche il fattore essenziale alla base dei continui rivolgimenti
interni, nonché della conseguente cronica instabilità a livello politico e
istituzionale.
Qui di seguito, in linea peraltro con quella che è l'intenzione di fondo di
tutta l'opera, si tenterà di descrivere le fasi e i meccanismi salienti che
sono alla base delle trasformazioni dell'Impero dopo Teodosio, sia per la
parte a occidente che per quella asiatica.
Bisogna però anche tener presente come la realtà di tali vicende sia
decisamente più articolata e complessa di come qui verrà presentata.
- Il periodo di Stilicone (395-408)
Sono gli eserciti e i loro comandanti a detenere, nelle zone occidentali, il
maggiore potere direttivo. E ciò perché - rispetto a quelle a est - ancora
più urgente e pressante è per esse il problema della difesa dei territori.
Alla morte dell'Imperatore Teodosio, infatti, tali regioni saranno gestite,
più che dal suo giovanissimo figlio e successore, Onorio, dal generale in
capo delle truppe occidentali, Stilicone, un uomo di origini vandaliche,
entrato a fare parte (come del resto molti altri, prima e dopo di lui) dei
più alti quadri dell'esercito.
La sua politica si distinguerà per una grande abilità militare e difensiva,
nonché per la capacità di contenere - attraverso accordi e patteggiamenti,
ma anche con collaborazioni militari - l'aggressività dei barbari, entrati
oramai a fare parte della compagine degli Stati occidentali.
Un altro elemento poi, che caratterizzerà gli anni del dominio di Stilicone
sarà l'ostilità della corte imperiale, un'ostilità dovuta tanto a motivi di
carattere politico (ovvero l'espropriazione da parte di quest'ultimo del suo
effettivo predominio politico), sia a motivi di carattere culturale e
ideologico (essenzialmente due visioni molto diverse del tipo di rapporti da
tenere con le popolazioni esterne all'Impero).
Per una tale ragione Stilicone, preoccupato di difendere la propria
posizione dall'avversione feroce della corte (la quale tuttavia avrà alla
fine la meglio su di lui, con risultati - come si vedrà - per nulla positivi
sulla solidità dell'Impero) tenderà a cercare l'alleanza delle classi
nobiliari, espropriate a loro volta di molti dei propri poteri dagli
apparati statali imperiali.
Sul piano militare, Stilicone si impegnerà fondamentalmente nell'opera di
arginamento dei Visigoti (guidati da Alarico), degli Alani, degli Svevi e
dei Vandali (tutti popoli che, negli anni futuri, riusciranno a insediarsi
stabilmente all'interno dei confini imperiali).
Sconfiggerà difatti i primi - nel corso della loro prima discesa in Italia -
in due battaglie presso Pollenza e presso Verona, nel 402.
Il suo senso di realtà, inoltre, lo porterà a stipulare con essi degli
accordi in base a cui verranno assegnati a essi dei territori su cui
insediarsi stabilmente nelle zone pannoniche, in cambio chiaramente della
loro non belligeranza.
E sarà appunto una tale strategia di accordo con l'elemento barbarico (i cui
risultati saranno tra l'altro sempre molto precari) uno dei fattori
principali che susciteranno l'ostilità della corte imperiale, essendo al
tempo stesso chiara manifestazione della profonda diversità di vedute di
quest'ultima rispetto alle componenti militari - peraltro oramai
essenzialmente barbariche - occidentali!
Ma un tale tipo di politica costituirà anche, in ultima analisi, l'unica
possibilità rimasta all'Impero d'Occidente di prolungare la propria
esistenza, data l'evidente fragilità delle sue fondamenta. e gli anni che
seguiranno la morte di Stilicone dimostreranno appunto la verità di una tale
affermazione.
Oltre a tali imprese, Stilicone sposterà, sempre nel 402 ed essenzialmente
per ragioni di maggiore difendibilità territoriale, la capitale occidentale
da Roma a Ravenna, arginando poi nel 406 le incursioni di Vandali Svevi e
Alani nelle regioni nord-orientali.
Nel 408, tuttavia, la corte - quasi sicuramente irritata dalla politica
eccessivamente filo-barbarica portata avanti dal generale vandalico -
fomenterà una rivolta tra le sue stesse truppe, a seguito della quale egli
perderà la vita.
- Declino e ripresa dell'Impero d'Occidente (408-421)
Gli eventi che seguiranno alla scomparsa di Stilicone, segnati dalla ripresa
del potere direttivo da parte della corte imperiale, dimostreranno
chiaramente l'incapacità di quest'ultima (per motivi essenzialmente
strutturali, l'essere cioè troppo distante dai problemi più veri dello
Stato, di carattere essenzialmente militare) a tenere saldamente in pugno la
situazione nelle regioni occidentali.
Si assiste infatti in questo periodo al primo sacco di Roma (410), da parte
dei Visigoti di Alarico, e all'esplosione conseguente di alcuni moti
indipendentistici, soprattutto in Armorica e in Britannia.
Il primo episodio sarà il momento culminante di un più lungo dissidio tra la
corte e le popolazioni visigotiche stanziate in Pannonia, ancora al tempo di
Stilicone: un dissidio dovuto alla politica scopertamente anti-barbarica
della corte, che ha tolto a tali popolazioni molte delle concessioni che
avevano ricevute dallo stesso Stilicone.
Dopo un primo tentativo di invasione dell'Italia e della sua storica
capitale, sventato nel 408 (anche grazie al pagamento di una forte somma in
danaro e alla liberazione di alcuni schiavi), nel 410 - a seguito di un
nuovo dissidio tra Alarico e la corte romana - si avrà invece il primo vero
sacco di Roma, che verrà messa a ferro e fuoco dai barbari per tre giorni.
Un episodio questo, il cui effetto sulla coscienza dell'epoca sarà -
paradossalmente, almeno dal punto di vista di noi moderni - molto più
eclatante di quello della vera e propria caduta dell'Impero occidentale, che
avverrà nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore,
su iniziativa del generale barbarico Odoacre.
Ciò poiché un tale avvenimento verrà interpretato come il trionfo stesso
della civiltà barbarica su quella più antica dei romani, costituendo così
per i cittadini dell'epoca un evento di portata incalcolabile - come
dimostra inoltre il fatto che la prima grande riflessione cristiana -
escatologica e predestinante - sulla storia e sul suo significato, verrà
realizzata da Sant'Agostino proprio alla vigilia del Sacco del 410, nel suo
celebre scritto intitolato la "Città di Dio". [Un'opera che costituirà a sua
volta l'inizio di una rivoluzione, ovvero la nascita di una nuova concezione
del tempo, inteso in senso lineare e progressivo, e convergente tutto verso
un unico fine: quello della redenzione finale, anziché, come nella
concezione più propriamente antica (dipendente dalla ciclicità degli eventi
naturali), come una realtà circolare e un "eterno ritorno"].
Ma gli effetti della nuova strategia politica della corte non si faranno
sentire soltanto a livello peninsulare, bensì anche nelle zone periferiche
dell'Impero, soprattutto - come si è accennato - in Armorica (regione
coincidente più o meno con l'attuale Normandia) e in Britannia (funestata in
questi anni dalle invasioni di Scoti, Sassoni, e di altri popoli barbarici),
laddove l'impressione dell'abbandono da parte delle forze centrali
incoraggerà ancora una volta l'instaurazione di regimi indipendenti.
La rivolta britannica inoltre, guidata da un certo Costantino (III), si
estenderà poi - dopo che questi sarà sbarcato sul continente - anche su
parte delle regioni galliche.
Sarà per merito di un nuovo condottiero, nella persona questa volta di
Costanzo, che Roma riuscirà - dopo questi ultimi anni bui, che sembrano
decretarne la fine stessa - a risollevarsi dalla profonda crisi nella quale
è caduta dopo la morte di Stilicone.
Un dato che costituisce l'ennesima prova del fatto che, se la parte
occidentale dell'Impero potrà nei decenni futuri prolungare la propria
'agonia politica', ciò si deve essenzialmente - oltre che alla
disorganizzazione dei barbari, spesso posti l'un contro l'altro dall'astuzia
dei romani - alla presenza nelle regioni occidentali di abili generali (come
appunto Stilicone e Costanzo e, in futuro, Ezio e Ricimero), ma non di certo
alla presenza della corte imperiale, né a quella del giovane imperatore
Onorio (che resterà peraltro una figura sbiadita e politicamente quasi del
tutto ininfluente, come del resto la maggior parte degli ultimi imperatori
occidentali, e di buona parte di quelli orientali).
Nel corso dei dieci anni del suo effettivo primato (411-421), Costanzo
riuscirà nelle seguenti imprese: decretare la fine di Costantino e del suo
stato indipendente; cercare e trovare l'alleanza dei Visigoti, guidati ora
da Wallia, contro il dilagare dei popoli Alani e Vandali nelle regioni
iberiche (in cambio peraltro della costituzione per i primi di un regno
indipendente (418) in Aquitania, una regione situata tra la Spagna e
l'attuale Francia); autorizzare infine l'insediamento dei popoli Burgundi
nella zona tra Worms e Magonza.
Ma tali provvedimenti, che pure risolleveranno le sorti dell'Occidente,
portano in sé anche il seme della propria rovina: essi infatti comportano
per lo Stato sia delle enormi spese, sia la creazione sul suolo imperiale di
stati barbarici indipendenti dal dominio romano, i quali costituiscono gli
antecedenti delle future formazioni politiche 'miste' tra romani e barbari.
Vogliamo qui infine soffermarci - per un attimo - sulla vicenda visigotica,
in quanto essa ci appare sintomatica e esemplare del tipo di relazioni
instauratesi in questi decenni tra i Barbari e lo Stato d'Occidente.
I rapporti tra tali popolazioni e le autorità romane saranno difatti sempre
estremamente instabili, come dimostrano sia le vicende appena narrate
(ovvero: la guerra contro Stilicone e i successivi accordi, il Sacco di
Roma, ed infine l'alleanza contro i Vandali e gli Alani), sia quelle future,
caratterizzate da continue esplosioni di violenza e da successive e
provvisorie riappacificazioni. Una situazione alquanto altalenante, insomma,
che troverà una soluzione definitiva soltanto con il crollo stesso
dell'Impero.
- Gli anni di Ezio (421-454)
Dopo la morte improvvisa di Costanzo - seguita, dopo due anni, da quella
dell'Imperatore Onorio (423) - emerge come guida dello Stato occidentale un
altro generale, Ezio.
Il periodo di questi verrà ricordato essenzialmente per due ordini di
motivi: l'alleanza - che diverrà poi scontro - con gli Unni (un popolo
estremamente feroce e aggressivo che, prima di rivoltarsi contro Ezio, avrà
insediato e razziato le zone orientali dell'Impero); e il forte dissidio con
la corte (dissidio che gli costerà inoltre - come già è accaduto a
Stilicone - la vita), oltre che l'accordo politico con la nobiltà romana e
italica in funzione anti-imperiale.
(a) Ezio e gli Unni
Il rapporto con i popoli Unni (guidati in un primo tempo da Ruas, e
successivamente da Attila) conoscerà due distinte fasi: la prima di
collaborazione in funzione difensiva, l'altra segnata invece da una
repentina inversione di tendenza e da un'ostilità feroce.
Le campagne militari portate avanti vittoriosamente da Ezio contro i Vandali
di Genserico, i quali nel 438 hanno invaso la parte settentrionale
dell'Africa, ma che verranno poi confinati in una ristretta zona occidentale
sotto autorizzazione del governo romano in qualità di federati (440); contro
i Visigoti e i Burgundi in Gallia (436); e infine contro gli Svevi in Spagna
(439), avranno tutte come denominatore comune l'alleanza e l'aiuto degli
Unni (un popolo che Ezio conosce peraltro molto bene, in quanto durante la
sua infanzia egli ha passato con essi molto tempo, in qualità di ostaggio
romano).
Pur conclusesi tutte con l'instaurazione di autonomi regni barbarici sul
suolo imperiale, esse risolveranno la situazione in favore dello Stato
romano, determinandone così un'ultima effimera ripresa.
Riguardo ai regni barbarici, si deve notare come questi nascano spesso anche
dalla collaborazione tra la nobiltà locale e i capi militari dei popoli
invasori, decisi a spartire tra loro il potere, a scapito chiaramente
dell'esosa amministrazione imperiale. Le spinte centrifughe, quindi, non
nascono in questi anni soltanto dall'esterno, ma anche dall'interno
dell'Impero!
Inoltre, si deve ricordare una volta di più come sia molto spesso l'azione
di vescovi illuminati e coraggiosi, a permettere l'integrazione tra gli
invasori e le popolazioni indigene (è il caso ad esempio della Spagna, dove
lo Stato sarà impotente a frenare le devastazioni degli Svevi, pacificati e
convinti a desistere invece da Idazio, il vescovo locale).
A partire dal 449, però, la situazione tra Roma e gli Unni cambia
bruscamente.
Questi ultimi infatti, oramai stanchi di razziare le zone orientali
dell'Impero, stringono con esse degli accordi di non belligeranza spostando
poi le proprie mire su quelle occidentali.
Nel 451 Attila - usando come pretesto delle promesse, mai mantenute, del
governo occidentale - inizierà così la sua discesa in Gallia, dove
incontrerà però la resistenza di Ezio. Pur uscito sconfitto per opera di
questi nella celebre battaglia presso i Campi Catalaunici sempre nel 451,
continuerà poi la sua marcia verso l'Italia.
Senza più incontrare ostacoli, Attila si dirigerà infatti verso Roma,
venendo fermato prima di portare a termine la propria impresa sia
dall'incontro (ormai mitico) con il papa Leone, sia - e soprattutto - dalla
peste che affliggerà i suoi soldati.
La morte di Attila infine, nell'anno successivo (452), porrà termine al
pericolo unno, determinando - entro pochissimo tempo - lo sfaldamento della
loro compagine.
(b) Ezio e la corte occidentale
Dopo la morte di Onorio, la parte occidentale dell'Impero rimarrà sguarnita
per alcuni mesi di un reggente ufficiale. A una tale carenza rimedieranno
inizialmente le milizie, nominando nuovo sovrano - con l'appoggio peraltro
di Ezio - un certo Giovanni.
Ma la corte orientale, sotto pressione di Galla Placidia (una delle ultime
esponenti della dinastia teodosiana) eleggerà nuovo augusto Valentiniano
III, figlio della stessa Galla e di Costanzo. Sceso in occidente e sconfitto
il proprio rivale con l'aiuto delle truppe orientali, questi prenderà
allora - con un certo disappunto di Ezio - il possesso del trono.
Nonostante un periodo di pace e di accordo tra Ezio e la madre del nuovo
imperatore, sarà proprio quest'ultimo - incitato peraltro dagli esponenti
del suo seguito - a uccidere il suo rivale durante un pubblico colloquio nel
454.
Anche Valentiniano poi, verrà trucidato per vendetta dalle truppe di Ezio,
l'anno successivo.
Con la morte del grande generale romano, l'Impero occidentale piomberà in
una situazione di prostrazione - simile peraltro a quella seguita alla fine
di Stilicone - nel corso della quale Roma subirà un secondo assalto da parte
di popoli barbarici (che durerà, stavolta, per ben due settimane).
Dopo la sua scomparsa, inoltre, non vi saranno più grandi condottieri (se si
eccettua forse Ricimero) capaci di risollevare le sorti dell'Occidente: gli
ultimi due decenni vedranno infatti il suo rapido declino, un declino che
culminerà - come noto - nel 476, con la caduta definitiva dello Stato romano
d'occidente.
- Gli ultimi anni dell'Occidente (455-476)
Nel 455 saranno le truppe vandaliche guidate da Genserico, ad assediare e a
prendere d'assalto la capitale morale e storica dell'occidente: la città
'eterna' di Roma. Un evento che è un chiaro segno di come oramai le forze
barbariche, ostili all'Impero, abbiano preso definitivamente il sopravvento
su di esso.
Non è un caso che gli ultimi reggenti siano più o meno tutti espressione o
degli interessi regionalistici-barbarici (gli invasori si sono infatti
'spartite' tra loro le regioni occidentali), o della volontà politica della
corte orientale (ancora relativamente salda alla direzione del potere).
Gli ultimi augusti della storia occidentale saranno: Maggioriano (461-465),
Libio Severo (461-465), Antemio (467-472), Giulio Nepote (474-475) e infine
Romolo Augustolo (476).
Il primo di essi, Maggioriano, sarà l'ultimo imperatore concretamente e
'attivamente' impegnato nel governare l'Impero (indirà difatti una riforma -
peraltro mai posta in essere - ai danni dei privilegi fiscali dei grandi
proprietari); Antemio e Nepote, invece, verranno scelti direttamente dalla
corte orientale e imposti poi sul trono d'Occidente.
Il 476, infine, vedrà la fine stessa dello Stato occidentale, con la
deposizione dell'ultimo imperatore ad opera di Odoacre, un capo militare
dell'esercito occidentale, rivale peraltro di Oreste, un altro capo militare
occidentale (padre e 'elettore' dell'ultimo sovrano, in carica per soli
pochi giorni.)
Odoacre, incoronato re dalle proprie truppe, eserciterà un effettivo dominio
sull'Italia per alcuni anni, fino cioè al 493.
Ma di fatto l'Impero d'Occidente - oramai smembrato tra vari stati
indipendenti, detti "romano-barbarici" - non esiste più!
IL QUINTO SECOLO DELL'IMPERO DI ORIENTE
3) Problemi generali
Si è già detto come le zone orientali dell'Impero - dotate oramai di una
capitale autonoma, la città di Costantinopoli - siano caratterizzate da una
maggiore stabilità a livello politico, legata soprattutto al predominio
della corte e degli apparati statali sulle forze militari, e quindi a un
minor sviluppo - ai danni delle città - della grande proprietà.
Ma anche queste regioni si trovano a dover affrontare delle difficoltà di
fondo, non del tutto dissimili per altro da quelle che - in questi stessi
anni - stanno logorando gli apparati delle zone occidentali.
Problemi principali saranno per esse infatti: quello dei confini
(minacciati, a oriente, non solo da nemici barbarici ma anche dai persiani),
quello legato alle divisioni dottrinarie tra le diverse sedi episcopali
(divisioni non esenti, peraltro, da implicazioni politiche e sociali),
quello infine che riguarda le finanze imperiali (la cui salute è una
condizione indispensabile per la stabilità stessa dello Stato).
Sarà appunto la capacità (e la possibilità) di risolvere tali questioni, a
fare della parte orientale l'erede e la continuatrice di quel rinnovamento
dell'Impero che, più di un secolo prima, era stato inaugurato da imperatori
come Diocleziano e Costantino.
- Arcadio (395-408), Teodosio (408-450), Macriano (450-457)
(a) Arcadio e la politica anti-barbarica
E' nel periodo della reggenza - più simbolica che reale - di Arcadio che ha
inizio, sotto la spinta di Eudossia, figlia peraltro proprio di un generale
barbarico, la politica ostile alla presenza di elementi barbarici nello
Stato, soprattutto negli eserciti.
La maggiore ricchezza di queste regioni (che permette ad esse di arruolare e
stipendiare soldati provenienti dai propri territori, specialmente tra i
Traci e gli Isauri) consentirà all'Oriente di portare avanti un tipo di
politica ostile all'integrazione con tutti coloro che risiedono al di fuori
dai confini dell'Impero, o che sono comunque confinati in qualità di ospiti
in zone ben definite di esso.
Come si è detto, una tale scelta di fondo sarà uno dei fattori essenziali
alla base della maggiore solidità dello Stato asiatico rispetto a quello
latino occidentale.
(b) Il lungo regno di Teodosio II
Dopo il breve periodo di Arcadio, avrà inizio quello del lungo governo di
Teodosio II (penultimo esponente, se si tiene conto di Valentiniano II in
Occidente (523-554), della dinastia teodosiana).
Quest'ultimo sarà ricordato per alcune campagne di difesa sui confini
occidentali (contro vari popoli barbarici, raccolti sotto la guida degli
Unni), ma anche e soprattutto per i forti dissidi dottrinali che si
manifesteranno in seno alla Chiesa orientale, tra le sue diverse sedi
episcopali (dissidi cui Teodosio cercherà di dare una soluzione attraverso
due Concili, entrambi ospitati dalla città di Efeso, uno nel 431 e l'altro
nel 449).
In merito agli aspetti militari del regno di Teodosio, questi sarà
costretto - a partire dal 420 e fino al 430, anno in cui verrà stipulato un
trattato di non belligeranza coi barbari, dietro pagamento di un cospicuo
tributo - ad arginare le incursioni degli Unni nelle zone balcaniche.
Dal 442, inoltre, in concomitanza peraltro col riaccendersi di nuovi
conflitti sul fronte balcanico (di nuovo ad opera degli Unni), l'Impero
orientale sarà costretto anche a fronteggiare l'ostilità della potenza
persiana (la quale, tuttavia, tornerà a essere realmente pericolosa solo nel
VI secolo).
A partire dal 450, poi, le mire degli Unni si sposteranno in direzione
dell'Occidente, con grande sollievo degli stati orientali!
Sul fronte interno, Teodosio porrà in atto una politica fondamentalmente
conservatitrice, tendente cioè a riaffermare (anche se in sede ideale e
morale, più che in quella militare e politica!) l'unità di fondo tra le due
aree dell'Impero. Ne è un esempio il "Codex Theodosianum", un testo di
diritto che cerca di dare una base giuridica comune a due zone oramai
politicamente autonome. [Torneremo su questo tema, della rinnovata unità,
quando parleremo di Giustiniano.]
Ma l'aspetto più significativo dei suoi anni, sarà il tentativo di porre un
argine alle accanite dispute teologiche e dottrinali, che vedono
protagoniste soprattutto la sede episcopale di Alessandria e quella di
Costantinopoli.
Esse difatti, legate essenzialmente alla rivalità tra diverse città per il
predominio sulla Chiesa orientale, costituiscono un forte elemento di
destabilizzazione per lo Stato, date anche le molteplici implicazioni di
carattere politico e sociale che si trascinano (e che sono, in buona parte,
alla loro origine).
Il conflitto in corso si basa sull'opposizione di due dottrine di carattere
cristologico: l'una sostenuta da Cirillo vescovo d'Alessandria, che afferma
la natura essenzialmente divina di Cristo (dottrina definita Monofisismo);
l'altra invece propugnata da Nestorio vescovo di Costantinopoli, che afferma
la compresenza in quest'ultimo di una natura divina e di una natura umana
(detta Diofisismo).
Per sedare tali dissidi, Teodosio indirà due Concili nella città di Efeso.
Il primo (431), iniziato nel segno della mediazione, terminerà con una
vittoria sostanziale di Cirillo e del Monofisismo (anche per l'appoggio
ricevuto da questi da parte di alcuni elementi di spicco della corte); il
secondo (449) infine che ribadirà la posizione presa dal primo, ovvero la
'supremazia' sostanziale del Monofisismo sulla dottrina delle due nature o
Nestorianesimo.
Vi è poi un fatto degno di nota, che mostra come la divisione tra Occidente
e Oriente tenda a estendersi in questi anni, anche in campo teologico.
Venuto a conoscenza della disputa infatti, papa Leone tenta da Roma di
proporre una soluzione intermedia tra le due opposte posizioni (soluzione
che successivamente diverrà canonica) nella quale si sostiene che in Cristo
vi siano sì due persone, ma anche una sola natura.
E' da notare poi il fatto che quest'ultima proposta, pur proveniente da una
delle massime autorità della Chiesa cristiana, venga in pratica ignorata da
Teodosio, preoccupato attraverso di essa di creare ulteriore confusione
anziché risolvere quella già presente. Un tale punto di vista, infatti, più
che fornire la soluzione di una rivalità (quella tra Alessandria e
Costantinopoli, la quale - come si è già detto - ha anche e soprattutto dei
risvolti politico-strategici) finirebbe per aggiungere un terzo elemento di
conflittualità nel dibattito. Per tale ragione, l'Imperatore opporrà un
deciso rifiuto di fronte a qualsiasi interferenza da parte della Chiesa
occidentale.
(c) Marciano e la questione del Monofisismo
Dopo il lunghissimo periodo di Teodosio, vi è quello - decisamente più
breve - di Marciano.
Oltre che per avere concesso agli Ostrogoti di Teodorico di insediarsi in
alcune zone balcaniche dell'Impero, questi passerà alla storia per avere
indetto il celebre Concilio di Calcedonia (451), al fine di appianare
definitivamente la questione - rimasta finora irrisolta - tra i monofisiti e
i seguaci di Nestorio.
In esso verranno prese le seguenti decisioni: da una parte saranno
condannate sia la dottrina monofisita che quella diofisita, e affermata
invece come canonica la posizione di papa Leone; dall'altra invece si
affermerà la pari dignità della sede episcopale di Costantinopoli rispetto a
quella romana (una soluzione, quest'ultima, che coglierà impreparata la
Chiesa occidentale).
Gli anni futuri poi, dimostreranno come la soluzione di Leone sia molto più
teorica che reale, dal momento che gli antichi conflitti tra le due correnti
continueranno a dividere al loro interno le regioni orientali.
Non è un caso, poi, se i futuri imperatori d'Oriente si rifiuteranno almeno
tendenzialmente di prendere una posizione netta a favore dell'una o
dell'altra dottrina, rifuggendo così da una soluzione drastica del problema.
- Leone (457-474), Zenone (474-491), Atanasio (491-518)
(a) Leone e il dissesto finanziario
Dopo la morte di Marciano, salirà al trono Leone, anche lui - come già il
suo predecessore - per intercessione di Aspar, un generale che gode di
grande influenza sulle regioni orientali.
Ma la politica di Leone si dimostrerà poco realista. Tra l'altro difatti,
egli impegnerà grandi risorse in un'impresa militare in Africa volta allo
smantellamento della potenza vandalica (la quale ha ripreso vigore poco dopo
l'azione di contenimento di Ezio, e sta funestando ora sia le coste
occidentali che quelle orientali dell'Impero). Una spedizione che si
concluderà, tuttavia, con la distruzione quasi totale della flotta di Zenone
(il generale di Leone) e quindi con un totale fallimento.
Assieme alle misure per contenere gli Ostrogoti, anch'essi irrequieti, tale
impresa costerà molto cara allo stato, il quale scivolerà difatti in una
crisi finanziaria il cui risanamento sarà oggetto soprattutto del governo di
Atanasio.
In ogni caso, il fatto che lo Stato orientale rimanga fondamentalmente sano,
nonostante questi - e altri - sperperi, dimostra già di per sé come esso sia
ancora fondamentalmente solido e in salute: un fatto che lo distingue
dall'Occidente.
(b) Zenone e il predominio isaurico sugli eserciti
Succede a Leone un certo Zenone, un generale isaurico (già capo, sotto il
primo, della spedizione contro i Vandali) che favorirà l'affermazione dei
contingenti isaurici nell'esercito orientale, muovendo però le proteste di
molti dei suoi componenti tradizionali.
Anche le incursioni di vari popoli germanici gli procureranno poi parecchi
problemi.
Una misura celebre che verrà presa da Zenone, sarà quella di indirizzare i
popoli Ostrogoti contro l'Occidente e soprattutto contro l'Italia (dove -
come noto - essi fonderanno un proprio regno); e ciò col pretesto di
liberare quest'ultima dal regime di Odoacre (cosa che avverrà nel 493), ma
col fine, in realtà, di sbarazzarsi della irrequieta presenza di tali
popoli, estremamente scomodi per l'Impero d'Oriente.
(c) Atanasio e il riassesto finanziario dell'Impero
il lungo regno di Atanasio, infine, sarà caratterizzato da una politica
finanziaria molto oculata, volta alla razionalizzazione delle risorse
statali (possibile anche per un'influenza più contenuta nelle zone orientali
dei ceti fondiari - i quali invece, riescono in Occidente ad aggirare fin
troppo facilmente il fisco! - ovvero per la maggior solidità degli apparati
statali).
Anche nell'ambito delle lotte tra Monofisiti e Nestoriani poi, Atanasio
sceglierà di seguire una politica di equilibrio, che gli consentirà una
gestione di questi ultimi senza troppe scosse.
Il riassetto finanziario da lui portato avanti (che avrà come risultato
quello di sviluppare un sistema fiscale più efficiente e razionale) sarà uno
dei fattori alla base della prosperità dello Stato orientale nei futuri
decenni, rendendo così possibile l'audace politica militaristica del suo più
illustre successore: Giustiniano.
- Giustiniano e l'ideale universalistico romano
Si è già detto come le due parti dell'Impero, durante il lungo periodo della
crisi (e in particolare nell'ultimo secolo, il quinto), prendano direzioni
estremamente differenti, tanto da rendere impossibile la loro coesistenza di
fatto all'interno di un unico organismo politico.
Anche se una tale trasformazione si impone ai personaggi dell'epoca come
irreversibile e in qualche modo 'naturale', ciò non significa che - almeno
da alcuni punti di vista - essa non comporti per loro anche dei traumi:
quelli legati ovviamente al mettere in discussione una tradizione politica e
culturale plurisecolare. Tutto questo infatti non può non creare gravi
inquietudini (tanto nelle regioni occidentali, quanto in quelle orientali),
soprattutto tra i ceti culturalmente più consapevoli e più attaccati alle
tradizioni.
Anche nel pieno del processo di separazione, difatti, estremamente vive
rimarranno le istanze di riunificazione, che si concreteranno poi
nell'ambizioso progetto di Giustiniano di ripristinare l'antica unità
imperiale.
Abbiamo già visto, inoltre, come Teodosio II, nel periodo del suo lungo
principato, abbia dedicato una particolare attenzione a questo tipo di
problemi - come ci dimostra anche la compilazione del celebre Codice
teodosianeo, il cui compito è quello di fornire una base giuridica comune ai
due imperi, e con ciò implicitamente di ribadire l'unità delle loro
tradizioni.
Ma l'azione di Teodosio dovrà limitarsi a un livello meramente ideale, cioè
giuridico, per ragioni di carattere strutturale (ovvero le difficoltà
interne allo Stato, il quale non può certo permettersi grandi sperperi di
danaro e di energie militari, per la riaffermazione di un'unità che avrebbe
oramai un carattere essenzialmente simbolico!)
Sarà invece il sesto secolo, sotto la guida dell'Imperatore Giustiniano
(527-565), a conoscere l'espressione più audace di un tale programma di
riunificazione imperiale, il quale sarà basato ora anche su azioni di
carattere militare, finalizzate alla riconquista - a spese chiaramente dei
regni barbarici - di molti dei territori dell'antico Impero romano.
Nel corso della sua reggenza (con l'aiuto peraltro di abili condottieri,
quali Belisario e Narsete), Giustiniano riuscirà a riappropriarsi
dell'Italia, sconfiggendo gli Ostrogoti, di parte della Spagna, ripresa ai
Visigoti, e delle regioni africane, dopo avere rapidamente smantellato le
basi del dominio vandalico.
Oltre a queste imprese di carattere militare, fondamentale sarà poi la
compilazione - sempre per iniziativa di Giustiniano - di un altro codice
giuridico, detto 'Codice giustinianeo', molto simile a quello redatto
precedentemente da Teodosio, ma rispetto a esso decisamente più completo
(esso infatti è base, ancora oggi, degli studi di diritto romano).
Non si deve credere tuttavia, che una tale impresa di riconquista - seppure
parziale - dei vecchi territori imperiali sia espressione di un qualche tipo
di convenienza politica o economica.
Per Bisanzio infatti le regione riconquistate, le cui condizioni sono oramai
estremamente differenti dalle sue (decenni di dominazione barbarica avendo
approfondito ulteriormente le differenze già presenti prima della vera e
propria caduta dell'Occidente), costituiscono al contrario una scomoda
zavorra. L'accresciuto divario tra est e ovest insomma, renderà l'impresa
addirittura svantaggiosa per l'Impero di Giustiniano.
Ma allora, cosa ha indotto l'Imperatore, con l'appoggio peraltro di larghi
strati della popolazione, a portare avanti un tale progetto?
Forse solo un 'mito', il mito dell'antica Roma, ovvero di un'età felice che
si vorrebbe rendere nuovamente attuale.
Un tale progetto e la sua attuazione ci dimostrano dunque come l'ideale
dell'"unità imperiale" sia ancora - a più di mezzo secolo dalla caduta
dell'Impero occidentale - in grado di muovere le forze più vitali sia della
società occidentale e latina (soprattutto degli intellettuali) sia di quella
asiatica, anche a scapito della loro immediata convenienza.
Ma ciò avviene certamente per il vuoto che tali civiltà avvertono davanti a
sé, un vuoto che è poi il preannuncio di quell'epoca oscura che si suole
definire "Età di mezzo"!
CONCLUSIONI (337-518)
Il periodo qui analizzato, compreso tra la metà del quarto e la fine del
quinto secolo, è caratterizzato - oltre che dagli ultimi 'splendori' della
società pagana, simboleggiati molto bene dalla figura di Giuliano Apostata -
anche dalla graduale divisione tra le regioni occidentali e quelle
orientali, dovuta al divergere sempre più netto delle loro strutture sociali
e politiche.
Mentre difatti nelle zone orientali il persistere delle più antiche
tradizioni cittadine e commerciali (rimanendo queste ultime, nonostante
tutto, un crocevia di popoli e merci) consentirà di arginare - almeno in
parte - l'avanzamento dei latifondi e lo strapotere degli eserciti; in
quelle occidentali invece, lo sgretolarsi delle città e delle attività
commerciali sotto i duri colpi dei barbari, e la conseguente cronica
instabilità politica, porteranno al dilagare dei poteri personalistici e
fondiari, oltre che di quelli militari, a spese dell'amministrazione
centrale della corte.
Anche la Chiesa 'universale' cristiana, poi, risentirà di queste differenti
trasformazioni: più compatta e unita in occidente (nonostante il persistere
di varie eresie, come quella donatista e quella ariana) anche per l'esigenza
molto pressante di mediazione tra le popolazioni barbariche e quelle
indigene; molto più litigiosa e disunita in oriente, dove le lotte
dottrinarie si identificheranno in gran parte con le aspirazioni di potere
dei diversi centri cittadini e delle diverse sedi episcopali (o si
caricheranno comunque di significati di tipo sociale e politico.)
Il quinto secolo, dunque, dimostrerà come le profonde diversità tra Oriente
e Occidente - pur sopite sotto secoli di dominazione romana - non siano in
realtà mai state superate.
In questo secolo, difatti, esse riesploderanno in tutta la loro virulenza,
anche se stavolta a favore delle più antiche tradizioni politiche e sociali
dell'Oriente.
LA FINE DELL'IMPERO ROMANO DI OCCIDENTE
Perché crollò l'impero romano, visto che era molto più avanzato, sotto vari
aspetti tecnico-scientifici, del feudalesimo?
Se guardiamo i conflitti di classe, le insurrezioni schiavistiche e le
ribellioni delle colonie di quel periodo, dovremmo dire che l'impero è
crollato quando meno c'era da aspettarselo. Dal punto di vista della lotta
socio-politica, la resistenza delle classi oppresse (se si escludono gli
ebrei e i cristiani) era molto più forte tra il II sec. a.C. e il I sec.
d.C. che non nel III e IV sec. d.C.
Se dovessimo pensare solo ai motivi endogeni dovremmo dire che l'impero è
caduto non quando era più debole, ma quando sembrava più forte (almeno in
apparenza). Certo, sotto l'impero era aumentata la corruzione, la decadenza
dei costumi, l'immoralità, ma fortissimo era il potere politico,
amministrativo e militare.
Un impero non può crollare solo perché i costumi sono corrotti. Né ha senso
affermare che l'impero è caduto a causa della irriducibile resistenza dei
cristiani, i quali tutto erano meno che "rivoluzionari". Costantino,
infatti, ad un certo punto lo comprese perfettamente.
Peraltro, va detto che non tutto l'impero crollò, ma solo la parte
occidentale (quella più sviluppata), poiché quella orientale, ribattezzata
nel nome di Cristo, sopravvisse per altri mille anni. Il che può forse
indurci a credere che non tutto l'impero era uguale, cioè che la debolezza
(più morale che politico-militare) della parte occidentale era maggiore di
quella della parte orientale.
Uguali infatti erano l'odioso fiscalismo, la coscrizione militare, le leggi
inique... Semmai anzi potremmo dire che le regioni orientali avrebbero avuto
un motivo in più per distruggere le fondamenta dell'impero, poiché qui erano
senz'altro maggiormente vessate da Roma.
Il motivo per cui la parte orientale dell'Impero non solo non sia crollata
ma addirittura sia sopravvissuta per altri mille anni, non è mai stato
sufficientemente spiegato dagli storici.
Probabilmente le popolazioni delle regioni orientali avevano nei confronti
delle cosiddette "popolazioni barbariche" un atteggiamento meno ostile, più
aperto di quello che avevano le popolazioni delle regioni occidentali, che
erano più ricche e quindi meno disposte a dividere le loro ricchezze.
L'impero romano è crollato non solo per motivi interni (corruzione morale,
fiscalismo, militarismo ecc.), ma anche perché, espandendosi, tolse ingenti
beni e proprietà alle popolazioni limitrofe, che ad un certo punto ritennero
opportuno ribellarsi.
Quando i valori morali di un impero si indeboliscono progressivamente, il
rimedio che solitamente si prende è quello dell'autoritarismo istituzionale,
che diventa tanto più forte quanto più è debole la coesione sociale sui
valori comuni.
E' dunque probabile che le popolazioni occidentali, abituate a vivere anche
in forza dello sfruttamento di quelle orientali (quest'ultime temute da Roma
assai meno, essendo più lontane), non fossero ben disposte a lottare contro
i cosiddetti "barbari" per difendere i "valori" della civiltà romana; si
lottava contro il nemico (e solo i mercenari, peraltro, lo facevano) più che
altro per difendere un certo livello di benessere.
Viceversa, le popolazioni orientali da tempo dovevano aver capito che il
modo migliore per difendere i veri valori della vita non era quello di stare
dalla parte di Roma, che, in cambio della difesa contro i nemici, non
offriva che ulteriori vessazioni e soprusi, ma era quello di mettersi
direttamente dalla parte degli invasori.
Quando un invasore vede che il nemico si arrende senza combattere, non ha
motivo di infierire. E' stato forse questo che ha permesso una facile
integrazione fra culture, etnie e religioni così diverse.
In occidente invece la resistenza all'integrazione culturale e sociale è
sempre stata fortissima. Ciò non poteva che esasperare gli animi di quelle
popolazioni che, costrette da secoli a vivere in condizioni precarie,
premevano ai confini dell'impero.
Roma dunque è caduta non solo per motivi endogeni, dovuta alla grande
corruzione che la caratterizzava, ma anche per motivi esogeni, dovuti
all'incapacità di gestire democraticamente i rapporti con le popolazioni
confinanti.
Quando queste popolazioni entrarono nell'impero distrussero praticamente
tutto, anche quello che avrebbero potuto utilizzare per migliorare i loro
standard vitali. Ciò sta a significare che l'odio accumulato nel corso dei
secoli nei confronti della potenza romana, specie di quella dell'area
occidentale, aveva raggiunto livelli altissimi.
Giustiniano
La Renovatio imperii di Giustiniano fallì nell'Europa occidentale perché
egli costatò che concedendo ampi poteri politico-economici alla chiesa
romana, questa, invece che sostenere il suo progetto, faceva di tutto per
ostacolarlo. Quanto più la chiesa romana riceveva poteri da Bisanzio, tanto
più se ne serviva in funzione anti-imperiale e anti-ortodossa.
L'ingenuo ottimismo del monofisita basileus s'incontrò con la disponibilità
cattolico-romana al monofisismo, ma non tenne conto che tale chiesa, per
affermare il proprio potere politico, aveva necessità di staccarsi dalla
rivale chiesa ortodossa.
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