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LA DONNA NELL'ANTICA ROMA - CONDIZIONE FEMMINILE

LA CONDIZIONE FEMMINILE AL TEMPO DI ROMA ANTICA

CONDIZIONE FEMMINILE Nella Roma arcaica, quella in cui cominciano a imporsi i rapporti antagonistici, il pater familias (con la sua patria potestà, col suo potere assoluto, natura et iure) aveva dei privilegi relativi al fatto ch'era titolare dei propri beni, a differenza della donna, che, come i figli, non poteva possedere qualcosa di proprio. Nei primi secoli della sua storia il diritto romano rifletteva le regole di una società in cui capo indiscusso era l'uomo, con un potere di vita e di morte ("ius vitae ac necis"), padrone della casa e della familia, comprensiva anche dell'intera servitù. Soltanto l'uomo godeva dei diritti politici (votare, eleggere e farsi eleggere, percorrere la carriera politica, il corsus honorum). La donna ne era del tutto esclusa; anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un uomo che esercitasse su di lei la tutela: questi era il padre, poi il marito e, all'eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo. Da una legge che figura nelle XII Tavole si può ricavare la posizione giuridica della donna nell'antica Roma: "Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus". E cioè: "(E' stabilito che), sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto tutela, eccettuate le vergini Vestali" (che però erano sotto la tutela del pontefice massimo). La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla manus protettiva e imperativa del padre passava, anche senza il suo consenso, a quella del marito. Tuttavia, è documentata la presenza di un matrimonio senza manus, cioè senza potere del marito, in epoca precedente alle Dodici Tavole. E' con la legislazione attribuita a Romolo che si sancisce definitivamente una situazione iniqua nel rapporto tra i sessi (la stessa leggenda sul ratto delle Sabine fa capire in quale considerazione tenessero i romani le donne). Le limitazioni alla capacità giuridica della donna romana vengono spiegate dai giuristi latini con pretese qualità negative come l'ignorantia iuris (ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale), infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d'animo) ecc. La rivendicazione di questa radicale diversità tra uomo e donna rifletteva una netta contrapposizione già esistente tra uomo e uomo, tipica delle società antagonistiche. Al pari degli impotenti o degli eunuchi, la donna romana, nel periodo arcaico, non poteva adottare; non poteva neppure rappresentare interessi altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private; non poteva fare testamento o testimoniare, né garantire per debiti di terzi, né fare operazioni finanziarie; non poteva neppure essere tutrice dei suoi figli minori. Le veniva preclusa la facoltà d'intervenire nella sfera giuridica di terzi semplicemente perché (e con questo in pratica si chiudeva il cerchio della discriminazione) non aveva mai ufficialmente gestito alcun tipo di potere su altri. Sotto questo aspetto la società maschilista romana non faceva molta differenza tra donne ignobili e donne rispettabili, come p.es. le matrone. Le differenze erano di carattere etico-sociale, non certo politico. Tra le prime, spesso indicate come non romane, sono coloro che provengono dal mondo del teatro, del circo, della prostituzione. Queste donne appartengono ad uno status sociale inferiore, riconoscibile ad esempio nel fatto che era loro consentito di non coprirsi il capo o nel divieto di portare la stola, quel manto che è considerato proprio della rispettabile matrona. Queste donne di rango inferiore, come pure quella ufficialmente dichiarate adultere, vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili. A differenza delle donne egiziane le romane non avevano diritto al nome proprio. Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico. (1) Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen (p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare. Cicerone, p.es., chiamerà la figlia col nome di Tullia. Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens portavano il nome generico di Prima, Secunda, ecc. Ma questo era la plebe a farlo, i patrizi preferivano attingere alle antenate illustri. Per distinguere due sorelle oppure madre e figlia si usavano l'aggettivo senior o junior. I liberti, maschi o femmine, assumevano il nome del patrono. A volte, ma solo per i maschi, si aggiungeva un soprannome per meriti civili o militari: p.es. l'Uticense, il Censore, l'Africano... D'altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto ereditiere, avevano l'obbligo di contribuire a mantenere l'esercito. [1] Si noti che a differenza di quella romana, la donna etrusca poteva essere identificata anche col nome della madre, poteva partecipare ai banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le donne dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa quando voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva una libertà che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che descrissero gli etruschi come un popolo privo di moralità. Leo Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano 1984 G. Alfoldy, Storia sociale dell'antica Roma, ed. Il Mulino, Bologna 1987 A. Giardina, Il mondo degli antichi, ed. Laterza, Roma-Bari 1994 C. Petrocelli, La stola e il silenzio, ed. Sellerio, Palermo 1989 E. Cantarella, La vita delle donne, in AA. VV., Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, ed. Einaudi, Roma 1989 E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, ed. Feltrinelli, Milano 1996 D. Tudor, Donne celebri del mondo antico, ed. Mursia. Milano 1980 Storia delle donne, a c. di G. Duby e M. Perrot, ed. Laterza Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in AA. VV., Storia delle donne in Occidente. L'antichità, ed. Laterza, Roma-Bari 1990 ISTRUZIONE Le bambine romane imparavano a leggere, scrivere e far di conto se i genitori potevano permettersi di pagare un maestro privato. Quando arrivavano a dodici anni ed erano già in età da marito, potevano continuare con lo studio, sempre a pagamento, delle lettere, della danza e della musica. L'istruzione dei ricchi è sempre stata privata: i primi precettori delle grandi famiglie provengono dall'Italia stessa, e parlano latino, greco, osco. Mentre le legioni romane portano il latino ovunque, nell'Urbe diventa di moda il greco. Si considerava chic per le ragazze conversare in greco e leggere Menandro. E gli intellettuali greci, la cui superiore cultura era apprezzata a Roma, emigravano volentieri in questa città. Ma sono anche gli schiavi e le schiave greche che insegnano la loro lingua ai bambini delle famiglie patrizie. Col tempo però i romani cercano di favorire anche la scuola pubblica, pagandola di tasca propria, in quanto lo Stato, restio a interferire nel potere del "pater familias", comincerà a provvedere solo a tardo impero. Da Cesare a Costantino verranno accordati regolarmente compensi e privilegi agli educatori pubblici, poiché si riteneva fosse un dovere sociale imparare a leggere e scrivere, senza differenze di sesso. Spesso alle lezioni della scuola pubblica assistono nutrici e custodi degli stessi studenti, ma è possibile anche per genitori, parenti, amici: la scuola è aperta a tutti. L'istruzione pubblica è suddivisa in primaria (fatta col maestro elementare), secondaria (fatta col grammatico) e superiore (fatta col retore). Alla secondaria accedono in maggior numero ragazzi e ragazze delle famiglie più agiate. Si studiano lingua e letteratura latina e greca, fisica, astronomia, mitologia e storia. Alla scuola del retore vanno solo i figli destinati all'attività forense o politica, quindi solo i maschi, anche se si conoscono casi di donne istruite che si difendono da sole in tribunale o tengono discorsi pubblici. (1) Gli studenti maschi a scuola apprendono soprattutto la retorica, cioè l'arte di persuadere e di commuovere, così come è stata elaborata in Grecia. Gli aristocratici furono sempre contrari all'apprendimento pubblico di quest'arte, perché la vedevano come una minaccia ai loro interessi. Poi vi sono scuole specializzate, professionali, come quelle per l'edilizia e l'agrimensura, ma anche quelle, prevalentemente femminili, ove s'impara il canto, la musica e la danza. Nella storia della letteratura latina sono comunque assai scarse le figure di donne colte; è conosciuta una sola poetessa di elegie, vissuta nell'età di Augusto, Sulpicia, che mise in versi il suo amore per Cerinto. Quintiliano, il retore spagnolo vissuto a Roma nell'età degli imperatori Flavi, a cui Vespasiano aveva dato l'incarico di professore di retorica retribuito dallo stato, nel suo trattato sulla formazione dell'oratore enumera alcune donne dell'antica Roma, celebri per la loro cultura: Cornelia, madre dei Gracchi, alla quale attribuisce personali capacità e la presenta come ispiratrice e formatrice dell'eloquenza dei figli; Lelia, figlia di Lelio l'amico degli Scipioni, e Ortensia, figlia dell'oratore Ortensio, alle quali sembra dare importanza in rapporto ai padri. (1) Ortensia, figlia di un grande oratore romano, fu scelta dalle altre matrone come loro portavoce perché in tribunale si opponesse all'imposizione di pesanti tasse sulle donne, in occasione delle guerre civili. La ebbe vinta. IL LAVORO DELLE DONNE ROMANE Premesso che lavorare per i romani non era considerato né un privilegio né un diritto, ma una pesante necessità di cui non essere fieri, va detto che le donne delle classi medie e basse sono poco note alla storiografia e la vita delle donne contadine cambiò poco nel corso del millennio. Le donne svolgono prevalentemente lavori domestici. Nelle iscrizioni romane di Roma troviamo solo quattro donne mediche, una segretaria, una stenografa e poi sarte, pettinatrici, levatrici, balie, pescivendole, erbivendole. Nella città di Ostia troviamo anche nutrici, tessitrici, lavandaie, massaggiatrici. Ci sono poi, spesso legate al mondo della prostituzione: attrici, albergatrici, cameriere, danzatrici, proprietarie di taverne. Alla donna era affidata la prima educazione del bambino, il primissimo insegnamento orale. Era la donna che formava i figli sul piano morale e comportamentale, affiancata, in questo, dai comites, cioè dai parenti, nonni e nonne, zie e zii. Scopo della sua vita era quello di diventare un'esperta amministratrice della casa, circondata, se possibile, da ancillae e famulae che ne eseguivano gli ordini. Infatti la stessa etimologia della parola "donna" ci avvicina ad una domus (casa) oppure ad una domina (padrona). In casa essa ha diritti non scritti ma reali sulla famiglia, sui figli, sulle dispense. Era lei che aveva tutte le chiavi e controllava ogni cosa: solo l'accesso alla cantina le era vietato. Il vino resterà proibito alle donne sino alla fine del periodo repubblicano. In casa essa si dedica ad acu pingere, cioè al ricamo. Una famosa epigrafe funebre del II sec. a.C. elogia le virtù domestiche di una defunta: "casta fuit, domum servavit, lanam fecit" ("fu casta, governò la casa, lavorò la lana"). (1) Le donne potevano anche gestire il commercio dei tessuti. Il latifondista si serviva in genere di due fattori: un uomo e una donna, per gestire le sue tenute rurali e i suoi schiavi. (1) "Straniero, ho poco da dirti: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l'altro l'ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, va' pure". IL MATRIMONIO DELLE DONNE ROMANE A differenza che nell'antico Egitto, nella Roma arcaica una figlia, ancora giovanissima (puella, che è diminutivo di puera, ragazza), poteva essere promessa in sposa o fidanzata (sponsalia) a un giovane anche contro la propria volontà e questo rito era giuridicamente valido; consisteva in un vero e proprio impegno, perseguibile in caso di inadempimento, che vincolava la donna ad una sorta di fedeltà pre-matrimoniale nei confronti del futuro sposo. Il matrimonio si perfezionava con il trasferimento della donna dalla famiglia paterna a quella del marito. Il fidanzato consegnava alla ragazza un pegno per garantire l'adempimento della sua promessa di matrimonio, un anello che lei si metteva all'anulare della mano sinistra. Sembra che tra il dono e quel dito esista una certa relazione. Aulo Gellio afferma che anatomicamente questo è l'unico dito a presentare un sottilissimo nervo che lo collega direttamente con il cuore. I matrimoni insomma venivano decisi dai parenti dei due giovani e i motivi erano sempre di natura economica. Questo soprattutto in età repubblicana. La forma più completa del matrimonio è quella detta perconfarreationem, dal panis farreus, un pane preparato con l'antico cereale, il farro, che viene mangiato dagli sposi, appena entrati nella nuova casa. Accanto a questo rito di matrimonio, sempre seguito dal patriziato, si hanno altre due forme meno solenni: la coemptio, una vendita simbolica con la quale il padre cede la figlia allo sposo mediante un compenso pecuniario, e l'usus, una specie di sanatoria di una condizione di fatto, per cui diventa moglie la donna che abbia abitato con un uomo per un anno intero senza interruzione di tre notti consecutive. Con questi due ultimi modi si raggiungono le iustae nuptiae, dando al marito quel diritto di protezione e di tutela, ma spesso non di padronanza assoluta, che si dice manus. Una donna romana può essere ceduta dal padre al marito già a 12 anni, laddove i greci non mandano spose le loro fanciulle se non tra i 16 e i 18 anni. In ogni caso troviamo iscrizioni funerarie che citano fanciulle sposate a 10 ed 11 anni. E' chiaro che il matrimonio tra i Romani era pienamente valido anche se non consumato. Poiché la donna dipendeva totalmente dal padre e dal marito e poiché si mirava all'indissolubilità del vincolo matrimoniale, l'assenza di un vero amore reciproco non rendeva l'istituto del matrimonio meno stabile. D'altra parte i romani si sposavano soprattutto per garantirsi una discendenza, mentre sul piano della sessualità avevano atteggiamenti piuttosto liberi, almeno da parte degli uomini (la cosa sarà reciproca solo in epoca imperiale). Al matrimonio comunque la donna pensa come a qualcosa che cambierà la sua vita, anche se nel periodo più antico si tratta semplicemente di passare dal dominio del padre alla potestà del marito. Nella formula più arcaica l'uomo chiede alla donna "se vuole essere la sua mater familias", cioè "moglie". E' interessante notare che l'avvenimento che fa accedere una donna al rango di mater familias non è il parto, ma appunto il matrimonio. In tutt'altro senso la donna indirizza al futuro sposo la domanda "e tu vuoi essere il mio pater familias?" Con ciò desidera che l'uomo diventi per lei, anche giuridicamente, un nuovo padre, alla cui potestà lei coi suoi figli vuole sottomettersi loco filiae, come una figlia, il che la proteggerà finanziariamente. Ma può accadere che il marito sia ancora un filius familias, poiché la patria potestà paterna non cessa, ma dura finché il padre è in vita. In questo caso la donna che entra nella famiglia del marito è sottoposta alla potestà del suocero. In ogni caso il pater familias, marito o suocero, ha su di lei un potere, manus, che per un'antica legge dei tempi di Romolo comporta almeno in due casi un diritto di vita o di morte: quando la moglie è sorpresa in flagrante adulterio e quando si scopre che ha bevuto vino. Le lodi rivolte alle donne, nelle epigrafi, raramente riguardano la donna in se stessa; le sue virtù sono quelle che le hanno permesso di servire ed amare il marito, i figli e di accudire la casa. Non c'è dovere di reciprocità nell'amore, non c'è obbligo alla reciproca fedeltà coniugale. In famiglia la moglie sta vicino al marito in ogni occasione, pur essendone subordinata (p.es. è a cena nei banchetti e nei ricevimenti). Valerio Massimo ci dice che "feminae, cum viris cubantibus, sedentes cenitabant", le donne cenavano stando sedute, mentre gli uomini erano sdraiati. La decimazione bellica degli uomini, causata dalle guerre puniche e dalle guerre civili, squilibra il rapporto numerico tra i due sessi. L'iniziativa per la celebrazione delle nozze non viene assunta dal futuro marito, ma più di frequente dal padre della donna. E' questi in definitiva che acquista alla figlia un marito, offrendogli una congrua dote da amministrare. La nuova usanza attecchisce bene, ma stravolge completamente l'antico ordine familiare basato sull'indiscussa potestas maritale. Anche dopo sposata la donna continua ad appartenere alla famiglia paterna, resta cioè sotto la potestas di suo padre. Alla base di questo nuovo tipo di matrimonio (detto sine manu, senza potere maritale) ci sono solo due condizioni: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis, il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla semplice traditio da una famiglia all'altra. Nel 18 a.C., per far fronte al crollo delle nascite e ai divorzi facili, Ottaviano presenta la famosa Lex Iulia de maritandis ordinibus, diretta a ricostruire la società secondo i più rigidi principi morali. Infatti la legge sanciva l'obbligo al matrimonio, vietava l'unione dei senatori con liberte (schiave affrancate) e prevedeva una serie di misure allo scopo di aumentare il tasso demografico: si stabilivano premi per i cittadini con famiglie numerose e pene pecuniarie per i celibi e i coniugi senza figli. I celibi restavano esclusi da vari diritti. Il decreto assegna inoltre un termine agli eterni fidanzamenti e stabilisce severe sanzioni per quei furbi che con continue rotture di fidanzamento eludono le leggi fiscali a carico degli scapoli, emanate per fronteggiare il preoccupante fenomeno della diminuzione delle nascite. Sarà forse un effetto delle leggi augustee, ma sta di fatto che prima del cristianesimo sono rarissime le testimonianze di donne rimaste nubili. Le donne, in particolare, dovevano dimostrare d'aver voluto almeno tre figli, nel qual caso ricevevano parità di diritti con gli uomini. Ottaviano promulgò, inoltre, la Lex Iulia de pudicitia et de coercendis adulteriis, che riguardava il libertinaggio ed il lusso licenzioso. Contro gli adulteri e le adultere erano sancite gravissime pene economiche. Alla base vi era la volontà di rinsaldare l'istituto familiare e la società uscita disfatta dalle guerre civili. Dopo Augusto le mezzane, le prostitute e le attrici vengono private di vari diritti legali. LE CERIMONIE NUZIALI DI ROMA ANTICA SACRA NUPTIALIA: RITI NUZIALI NELL'ANTICA ROMA Le componenti simboliche Gli antropologi interpretano l'episodio del ratto quale trasposizione in chiave storico-narrativa di un rito di fertilità che doveva svolgersi, probabilmente, al tempo della mietitura e che prevedeva la reciproca cessione delle donne da parte degli uomini. Una trasmissione del rito sarebbe peraltro attestata anche in età moderna dalle celebrazioni coincidenti con il solstizio d'estate che, in Sardegna e in Sicilia ad esempio, combinano insieme i festeggiamenti per la raccolta delle messi e quelli nuziali; e ancora dalla festa toscana dei Tralli, durante la quale i contadini si scambiano delle bambole. La cessione di un oggetto simbolico, a garanzia del patto matrimoniale, è del resto attestata, secondo Georges Dumézil dal cosiddetto vaso di Duenus, un kérnos di foggia greca a tre scomparti, destinati alle diverse offerte votive. Il vaso reca incisa una iscrizione, databile alla fine del VI sec. a.C., e decifrabile, ad opinione dello studioso, in chiave di vero e proprio contratto: "Colui che mi invia giura, in nome degli dei, che, se la ragazza non avrà con te facili rapporti e non si dimostrerà docile, farà in modo che tra voi si ristabilisca l'accordo". Cerimonie matrimoniali: la condizione della donna nell'ambito familiare "Olim itaque tribus modis in manum conveniebant: usu, farreo, coemptione" (Gaio, Institutiones Iuris Civilis, I, 110). Confarreatio è una vera e propria cerimonia ufficiale, celebrata alla presenza del flamine di Giove; coemptio e usus sono invece ufficiati medianti rituali privati e posti sotto la protezione di Giunone Lucina. Nel corso dei secoli, il momento delle nozze si svolge secondo un rituale drammatizzato, cui vanno riconosciuti alcuni elementi spettacolari: vestita di bianco, con il flammeum, un velo arancione posto sulla acconciatura ripartita in sei ampie ciocche, al calar della sera, la futura mater familias finge di aggrapparsi alle braccia della propria madre, dalle quali è strappata a forza, mentre musici, suonatori e portatori di torce formano un corteo, per accompagnarla alla casa dello sposo. Lungo il tragitto sarà scortata da Domiduca e Iterduca, divinità preposte a condurla verso la nuova dimora; appena giunta, Domitius la tratterrà e Manturna e altri numi la renderanno docile nei confronti del marito. Lo stesso flammeum ha una valenza simbolica, perché rappresenta la rinuncia alla libertà e la reclusione fra le pareti domestiche. Il dato testuale, che colpisce l'attenzione degli allievi, è la ricorrenza della tematica riguardante il possesso maschile in riferimento alla femmina, sempre stigmatizzata, soprattutto nelle massime, dalla paura di insidiosi rivali. "Maximo periculo custoditur quod multis placet" (Publilio Siro, Sententiae, 18). Si tratta di una suggestione latente anche nell'immaginazione delle giovanissime alunne che suscita fantasie riposte e accende emozioni improvvise, curiosità legate alla rievocazione della civiltà antica, recepita secondo una possibile chiave di lettura consonante. Le ragioni del divorzio Un altro aspetto delle consuetudini romane che colpisce l'attenzione delle studentesse è relativo alle motivazioni che riguardano il ripudio della donna, un comportamento diffusosi tardivamente in età repubblicana e assai spesso biasimato, anche quando la motivazione addotta dall'uomo concerne la sterilità della donna e dunque un pur legittimo desiderio di prole: "Repudium inter uxorem et virum a condita Urbe usque ad vicesimo et quingentesimum annum nullum intercessit.Primus autem Sp. Carvilius uxorem sterilitatis causa dimisit. Qui, quamquam tolerabili ratione motus videbatur, reprehensione tamen non caruit, quia ne cupiditate quidem liberorum coniugali fidei praeponi debuisse arbitrabantur" (Valerio Massimo, Factorum ac dictorum memorabilium, II). Spesso la donna viene ripudiata prima ancora che abbia commesso un vero e proprio adulterio: è sufficiente che compaia in pubblico a capo scoperto, evidentemente, secondo il rigoroso punto di vista del marito, per attrarre gli sguardi maschili: "Horridum C. Sulpicii Galli maritale supercilium. Nam uxorem dimisit quod eam capite aperto foris versatam cognoverat". Oppure basta che la consorte sia colta in flagrante, mentre parla con una liberta di dubbia morale: "ut potius caveret iniuriam quam vindicaret"... meglio prevenire l'offesa che vendicarla, commenta Valerio Massimo! Sottrazione delle chiavi di cantina: anche questa manchevolezza, valevole affinché un uomo pretenda e ottenga un immediato divorzio, implica alcune osservazioni e ampliamenti, alla scoperta delle motivazioni che riguardano norme di comportamento e principi morali. Infatti, nel mondo antico, l'ebbrezza femminile è demonizzata non solo in quanto indice di corruttela dei costumi, ma altresì perché l'assunzione del temetum, vino puro, è collegabile alle pratiche sacrificali in onore degli dei. In tal senso il divieto si sposta dal piano antropologico quotidiano all'ambito della emarginazione religiosa. "Ecastor lege dura vivont mulieres / multoque iniquiore miserae quam viri" (Plauto, Mercator, 817-818). La battuta pronunciata da Sira, nella commedia Plautina, sottolinea la disparità della legge a tutto vantaggio dell'uomo che, peraltro, può tradire impunemente la moglie. L'eventualità che la normativa giuridica stabilisca regole uguali per tutti è ritenuta una speranza irrealizzabile, come evidenzia il ricorso al congiuntivo imperfetto proferito da Sira in un'altra battuta: "Utinam lex esset eadem quae uxori est viro" (Plauto, Mercator, 823). D'altra parte, lo stereotipo della moglie invadente e assillante, delineato secondo il punto di vista maschile, ricorre in molte scene teatrali e nelle satire, pertanto nei generi testuali che accolgono le istanze dell'iperrealismo quotidiano. Ad esempio, Giovenale dissuade gli amici dal contrarre matrimonio, fornisce una casistica dettagliata relativa ai fastidi procurati dalle consorti e mette in risalto le molestie derivanti specialmente da una moglie intellettuale, saccente e verbosa al punto da zittire persino i professionisti della parola: "Cedunt grammatici vincuntur rhetores omnis / turba tacet..."(Satirae,VI, 438-439). E l'opinione non sembra essere isolata, se anche Marziale si augura di incontrare come compagna di vita una "...non doctissima coniux" (Epigrammata, II, 90). Una donna chiamata moglie Dalla parola aulica coniux, alla più usuale uxor, l'asse paradigmatico, riferito all' Io femminile in rapporto al Tu maschile, si presta alla varietà dei registri comunicativi e delle sfumature semantiche: coniuga, nupta, nuptula, sponsa... Esaminando i testi latini, gli allievi prendono nota dei termini, ne studiano l'evoluzione in senso diacronico, grazie alla consultazione di alcuni repertori etimologici, e stabiliscono campi lessicali fra i vocaboli stessi. Analizzando, ad esempio, il significato delle due parole comprese nel nome Viriplaca, la dea che ricomponeva le liti fra coniugi, inferiscono la supremazia dell'uomo sulla donna, indubitabilmente sanzionato anche durante una cerimonia di riappacificazione come quella descritta da Valerio Massimo: "Quotiens vero inter virum et uxorem aliquid iurgi intercesserat, in sacellum deae Viriplacae, quod est in Palatio, veniebant, et ibi invicem locuti quae voluerant contentione animorum deposita concordes revertebantur. Dea nomen hoc a placandis viris fertur adsecuta, veneranda quidem et nescio an praecipuis et exquisitis sacrificiis colenda utpote cotidianae et domesticae pacis custos, in pari iugo caritatis ipsa sui appellatione virorum maiestati debitum a feminis reddens honorem" (Factorum et dictorum memorabilium, II, 1, 6). Il vagheggiamento di una donna dotata di obbedienza, obsequio raro, fedele ad un solo uomo, univira, e al contempo operosa, poiché "domum servavit lanam fecit", si coglie nelle rievocazioni muliebri descritte dalle epigrafi sepolcrali. La ricorrenza delle parole, selezionate secondo un intendimento celebrativo, descrive l'immagine femminile in base a un canone ideale, perciò consono alle aspettative maschili. Peraltro l'esistenza terrena di queste mogli esemplari si esaurisce nel giro di pochi lustri: giudicate idonee all'unione a partire dai dodici anni, raggiungono infatti eccezionalmente i quarant'anni di vita. Il Corpus Inscriptionum latinarum (C.I.L.) ci riporta, tra le altre, la memoria di Claudia, una signora vissuta nel I sec. a.C. e appartenente alla classe aristocratica: Hospes quod dico paulum est adsta ac perlege. Hic est sepulcrum haud pulchrum pulchrae feminae. Nomen parentes nominarunt Claudiam. Suum maritum corde dilexit suo. Natos duos creavit. Horum alterum in terra liquit alium sub terra locat. Sermone lepido tam autem incessu commodo. Domum servavit lanam fecit. Dixi. Abi. Nel caso di Claudia, si possono riscontrare due indizi di segno antropologico che forniscono alla sua caratterizzazione una evidenza meno convenzionale rispetto ai molti altri ritratti stereotipati dell'epigrafia usuale: la conversazione brillante e l'incedere dignitoso. L'epitaffio di Rusticeia ricostruisce invece l'arco di una esistenza brevissima, conclusasi a 25 anni nel momento del parto: Causa meae mortis partus fatumque malignum. Sed tu desine flere mihi carissime coniux et fili nostri serva communis amorem. Nam meus ad caeli transivit spiritus astra. In modo struggente si rivela una premurosa tensione affettiva, quale proiezione del dolore del marito che ha dedicato alla giovane defunta l'epigrafe e che immagina un estremo colloquio con la propria amata. Le altre donne: paelices e scorta L'avveduta morigeratezza delle coniugate lascia comunque spazio ad un'altra figura femminile: la paelex, ossia la donna che convive abitualmente con un uomo il quale, a sua volta, ha giuridicamente dominio sulla propria sposa in virtù del vincolo matrimoniale. La parola paelex, come ci informa Aulo Gellio, possiede una connotazione infamante. Dato il suo ruolo di concubina, le sono preclusi i luoghi sacri, infatti, in base ad una legge tradizionalmente attribuita al re Numa, ella non può toccare il tempio di Giunone e, nel caso l'abbia fatto, deve sacrificare un'agnella alla dea: "Paelex aedem Iunonis ne tangito si tangit Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito" (Aulo Gellio, Noctes Atticae, IV,3,3). Tra le fonti che stigmatizzano il comportamento femminile, si ricontra anche una testimonianza che fornisce una riflessione adatta agli uomini che dissipano il loro tempo nei piaceri carnali in compagnia di scorta, ossia di prostitute. "Omnis illis speratae rei longa dilatio est" per tali uomini il tempo che intercorre tra un piacere e l'altro è una lunga dilazione, commenta Seneca, e invece il tempo dell'amore è brevissimo, perché non sanno gioire di nulla "at illud tempus quod amant breve est et praeceps breviusque multo suo vitio; aliunde enim alio transfugiunt et consistere in una cupiditate non possunt. Non sunt illis longi dies sed invisi; at contra quam exiguae noctes videntur, quas in complexu scortorum aut vino exigunt!"(De brevitate vitae, XVI, 4). IL DIVORZIO Secondo Plutarco, Romolo praticamente non permetteva mai alle donne di divorziare, mentre lo permetteva ai mariti in taluni casi: tentato avvelenamento, uso di chiavi false, adulterio. Chi la ripudiava per altri motivi, avrebbe perduto i suoi beni, dei quali la metà sarebbero stati assegnati alla donna e metà al tempio di Cerere. Quanto a colui che avesse venduto la propria consorte, gli si augurava di finire all'inferno (sic!). Fin dall'epoca repubblicana la fanciulla poteva uscire a capo scoperto, ma gli uomini potevano divorziare da una donna sposata che non copriva il capo con un velo o con un lembo del mantello: lo fece p.es. Gaio Sulpicio Galba. Anche se partecipava ai giochi del circo poteva essere cacciata e costretta al divorzio (lo racconta Valerio Massimo nelle sue Storie). Plinio il Vecchio racconta, nella sua Storia naturale, che la moglie di Egnazio Metenno fu uccisa a frustate dal marito semplicemente perché aveva bevuto del vino dalla botte, mentre un'altra fu lasciata morire di fame perché aveva forzato la cassetta ove erano le chiavi della cantina. La legge non puniva questo tipo di omicidi. Di regola un marito che sorprendeva la donna a bere, la cacciava di casa tenendosi la dote ricevuta all'atto del matrimonio. Il ripudio, che sotto il tardo impero cristiano verrà ammesso solo nei casi di adulterio, omicidio, maleficio e avvelenamento del coniuge, in tutta l'epoca classica era invece possibile in ogni momento. Bastava recapitare al coniuge un biglietto con su scritto tuas res tibi habeto ("riprenditi quello che è tuo") ed è tutto finito. Se il divorzio era la possibilità di sciogliere il matrimonio per potersi risposare, il ripudio invece poteva avvenire per ragioni molto meno gravi, che passavano sotto la vaga formula di "comportamento perverso e disgustoso". Lo Stato cercherà tuttavia, col tempo, di porre un freno minacciando la perdita dei beni. Le seconde nozze comunque non incontrano, in epoca repubblicana, il favore dell'opinione pubblica e sulle epigrafi sepolcrali si legge per lungo tempo il titolo di onore di univira, donna che ha avuto un solo marito, ad evidenziare una vera virtù femminile. In epoca imperiale le cose cambiano notevolmente. Se viene a mancare uno soltanto di questi due elementi: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis, il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla semplice traditio da una famiglia all'altra, il matrimonio si scioglie, specie se vi è la cessazione della volontà di convivere da parte di entrambi i coniugi. Le pene pecuniarie introdotte dal regime augusteo per arginare il fenomeno del "divorzio facile" servirono a ben poco. Il fatto che in epoca imperiale fosse diventato più facile divorziare non incentivava affatto i matrimoni, anzi aumentava i motivi per non sposarsi e per non avere figli. Augusto consentì addirittura a tutti i romani di famiglia non senatoria di sposare le liberte, e i matrimoni de facto dei soldati vennero legalizzati e ai loro figli concessi i diritti civili. LA PROCREAZIONE ED ASSISTENZA Nella civiltà romana, dove la patria potestas era più che altrove illimitata, abbastanza facilmente gli uomini potevano liberarsi dei figli indesiderati. Era sufficiente non riconoscerli e abbandonarli. A tale proposito, lo storico Dionigi di Alicarnasso cita una legge secondo cui il padre deve riconoscere "almeno" la figlia primogenita. Ciò ad evitare l'eccessivo abbandono (esposizione) di neonate di sesso femminile (come d'altronde quello dei neonati illegittimi) presso la pubblica via, dove potevano morire di fame e di freddo, a meno che non venissero raccolti da qualche mano pietosa, se non interessata (il neonato esposto non può essere adottato, ma un mercante di schiavi può venderlo). Quest'uso, praticato da ricchi e poveri, durerà più di mille anni. La sterilità era comunque considerata una grave disgrazia. Ma il parto rappresentava un rischio mortale per tutte le classi sociali. Muore di parto o per le sue conseguenze il 5-10% delle partorienti. Levatrici e medici non hanno mai la certezza di poter risolvere il parto positivamente. Si sa che l'ampiezza del bacino di donne, spesso giunte ancora impuberi alle nozze, influisce sull'esito del parto. Nelle famiglie agiate, su consiglio del medico Sorano, la nutrice o la madre fasciano spalle e petto alle spose-bambine e lasciano libere le anche per ottenere un bacino più ampio. Per le conseguenze negative del parto Cicerone vede morire sua figlia Tullia. La donna romana, specialmente quella di classe sociale più elevata, comincia a rifiutare la prole a fine repubblica. Cicerone chiederà addirittura di proibire il celibato. E Augusto, alla fine del primo secolo, constatata una forte contrazione nelle nascite, incentiva nozze e natalità e promette alle donne maritate la liberazione da ogni tipo di tutela alla morte del padre, purché siano portate a termine almeno tre gravidanze. Al contrario la donna che tra i 18 ed i 50 anni risultasse ancora nubile non potrà ricevere eredità. Bisogna dunque tentare almeno tre gravidanze, altrimenti, in forza delle leggi augustee, ogni lascito ereditario finisce in mano ai parenti paterni o allo Stato e si resta per tutta la vita sotto l'amministrazione di un tutore. Limitare le nascite, specie nelle classi più elevate, diventa il principale obiettivo della ricca matrona, che è riuscita a portare a termine le tre gravidanze. La matrona può fare anche uso di pozioni contraccettive ed abortive, che impiegano ingredienti rischiosi come la ruta, l'ellèboro, l'artemisia (in epoca repubblicana s'ingerivano sostanze, anch'esse nocive alla salute, nella speranza di ottenere più facilmente la gravidanza). Se la matrona vuole abortire in segreto deve fare attenzione perché, sin dall'epoca delle XII Tavole, la decisione sull'aborto spetta al futuro padre, che la può anche ripudiare per avergli sottratto il partum. I medici si rifiutano di assistere aborti, che possono nascondere un adulterio, di cui essi diverrebbero complici, subendo le stesse pene previste per gli amanti. Può accadere che la donna muoia per effetto della pratica abortiva. Se ciò avviene per un intervento chirurgico fallito, contro il medico c'è l'accusa di omicidio, se è per una pozione l'accusa è di avvelenamento. In ogni caso l'aborto non è punito in sé, ma solo se procura la morte della donna. Le classi superiori provvedono a limitare le nascite anche con la continenza. La matrona che vive nella continenza viene ammirata ed approvata. La limitazione delle nascite dipese anche dal fatto che si faceva coincidere, sulla scia di Platone e Aristotele, la miseria con la sovrappopolazione. Il primo proponeva di non nutrire i bambini deboli o i figli di genitori troppo vecchi o malsani o di scarso valore morale. Non ammetteva il diritto di procreare prima dei 37 anni e dopo i 55 per gli uomini; non accettava più di un determinato numero di figli per famiglia, consigliava gli aborti e l'abbandono dei bambini deboli o deformi. Il secondo si era limitato a proporre il matrimonio in tarda età, la volontaria sterilità e la pratica abortiva. L'ADULTERIO ED IL CONCUBINATO NELL'ANTICA ROMA Nella Roma arcaica l'adulterio era considerato reato solo se veniva commesso dalla donna, e veniva punito in modo più severo della vicina Grecia. Era addirittura prevista la pena di morte se il pater familias lo riteneva necessario. Le donne ufficialmente dichiarate adultere, come le donne di rango inferiore (le lavoranti nei circhi, nei teatri, nella prostituzione), vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili. Eppure nell'antica Roma c'era un notevole permissivismo per le relazioni sessuali con prostitute: un rimedio che lo stesso Cicerone consigliava affinché i giovani non cercassero di "godersi le mogli degli altri". Naturalmente si pretendeva che le ragazze arrivassero vergini al matrimonio. Una cosiddetta donna di "facili costumi", se non ha solo occasionali rapporti con il marito della matrona (un romano libero non è mai colpevole di adulterio), può ufficialmente convivere in famiglia come concubina. Il concubinato, importato con molte modifiche da Atene, diviene un istituto tipicamente romano. E' sulle concubine che, ad un certo punto della storia romana, possono essere fatti gravare i rischi del parto, evitati alle spose ufficiali, protette dal sistema sociale. La matrona non ha difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave o donne non rispettabili. Secondo quanto riferisce Svetonio, era la stessa moglie che forniva ad Augusto donne del genere. Quando le orde dei barbari, sfondati i confini, dilagheranno in tutto il mondo romano occidentale, troveranno già molto diffusa la pia donna cristiana, una donna che forse somiglia di più alla donna-domus dei tempi arcaici. LA PROSTITUZIONE La prostituzione a Pompei è una delle poche occupazioni pubbliche riservate alle donne, le quali sono, in questo caso, quasi sempre schiave di origine orientale. Il lavoro si svolge in postriboli (lupanares) che a Pompei sono oltre la ventina, posti preferibilmente presso i crocicchi di strade secondarie. Essi sono caraterizzati da piccole celle munite di un letto in muratura e di una porticina di legno sopra la quale è spesso dipinta una scenetta erotica, indicativa del tipo di prestazione offerta. La tariffa media (10-15 assi), che va tutta al tenutario (il quale paga una tassa giornaliera pari a una tariffa) corrisponde al prezzo di due porzioni di vino. Le ragazze, che i proprietari acquistano per un prezzo pari a circa 750 volte la tariffa media di una prestazione, hanno nomi d'arte. I clienti sono generalmente affezionati e grafomani (hic ego puellas multas futui). EMANCIPAZIONE DELLE DONNE ROMANE La sicurezza, la stabilità e l'ordine interno della società civile, che si verificano dopo la fine delle guerre puniche e civili, rendono il ruolo protettivo del marito romano largamente superfluo. Nel più sicuro ed opulento ambiente sociale, già ben visibile nell'età ciceroniana (85 - 31 a.C.), di protettivo è rimasto solo il materno ed insostituibile ruolo femminile. Il ruolo della materfamilias tende inevitabilmente a rafforzarsi e la donna comincia a partecipare alla vita sociale e intellettuale. In epoca imperiale, attraverso l'istituto della coemptio fiduciae causa, le donne potevano sostituire il tutor legittimo con uno di loro fiducia: questi era un semplice prestanome e permetteva loro di disporre dei propri beni e di se stesse come meglio credevano. Altra conquista giuridicamente rilevante, già presente in epoca repubblicana, fu il riconoscimento della parentela anche in linea femminile. Se in un primo tempo il rapporto fra madre e figlio non aveva alcuna rilevanza giuridica, in seguito a questo intervento fu concesso ad alcune donne di avere persino la tutela dei propri figli, nel caso di padre indegno. Ora, se è benestante, per governare la domus le basta dare poche direttive alla servitù. Quanto ai figli la matrona ricca ne affida l'educazione al pedagogo di casa; la povera invece li manda alla scuola pubblica, dove vengono formati da magistri sottopagati. A volte sole, a volte con il marito o con un'amica vanno alle terme, dove prendono il bagno in piena promiscuità con gli uomini, finché nel II sec. d.C. l'imperatore Adriano interviene a frenare comportamenti eccessivamente disinvolti e separa ambienti ed orari di donne e uomini. Nelle immagini pervenute e nelle fonti letterarie non si vede mai una donna tra quelli che a prima mattina devono correre a porgere l'obsequium, il deferente saluto ai potenti, né tra la povera gente che, tessera annonaria alla mano, si presenta nei luoghi di distribuzione gratuita di generi alimentari. Sono cose che fanno gli uomini, i quali fanno anche la spesa. Si vedono invece donne alla fullonica (tintoria), che si fanno restituire la biancheria, dal calzolaio, dal sarto. Quanto all'impegno politico bisogna considerare che l'unico imperatore che permise a una donna, sua madre, di entrare in senato per svolgere mansioni tradizionalmente riservate agli uomini, fu Eliogabalo. Questo ovviamente non significa che importanti donne romane non parteciparono, seppure indirettamente, alla politica: sono ben note le vicende legate ai nomi di Valeria Messalina, Agrippina Maggiore, Giulia Agrippina, Sabina Poppea, Pompea Plotina, ecc. (leggi la scheda su Livia Drusilla Claudia). L'emancipazione sociale, morale e politica d'altra parte è direttamente collegata a quella economica: solo tardivamente la legislazione autorizza la donna romana a trattenere per sé tutta la sua proprietà (a eccezione della dote che passa al coniuge), a essere padrona dei beni ereditati e a conservarli in caso di divorzio. Tutto ciò però non le permetterà mai di acquisire dei veri diritti politici. Nell'epoca di massima conquista delle libertà femminili a Roma era forte l'influsso delle religioni egiziane, e venivano largamente praticati riti sacri ad Iside e ad altre divinità importate dall'antico Egitto. Nella religione egiziana, infatti, la figura della donna appare sempre e costantemente collegata a quella di grande madre di tutti gli esseri viventi e di grande sposa. Alla natura femminile si riconosceva l'origine della vita, la sua tutela ed il suo armonioso sviluppo. Molti storici, di allora e di oggi, fanno coincidere il decadere dell'istituto familiare, la crisi dei valori sociali e familiari con l'emancipazione femminile e con l'istituto del divorzio, senza rendersi conto che con questa emancipazione le donne chiedevano semplicemente di poter avere gli stessi diritti degli uomini. DONNE NELL'ANTICA ROMA Provare a decifrare di più di quanto la letteratura non abbia mai tramandato: è forse questa velleità a spostare l'attenzione dell'interprete contemporaneo su aspetti della vita comune della società romana classica. Lo sguardo insegue allora l'immagine di una donna in molti dei suoi possibili ruoli, oscillanti tra precetti e proibizioni, simboli naturali e riti del tempo sacro. A partire dunque dal piano concreto e quotidiano del soddisfacimento delle esigenze primarie, le fonti scritte registrano classificazioni rigorose e precise in merito ai cibi che la donna ha il compito di conservare, come la frutta e le uova, e specifici divieti riguardanti la preparazione di alcuni alimenti, quale la macellazione e la macinazione della carne, in quanto pratiche correlate alle mansioni sacrificali di spettanza maschile. La cura del focolare domestico e della casa in genere lasciano immaginare una domina assai impegnata, nello svolgimento delle proprie mansioni, in modo da evitare il più possibile la frequentazione e la consuetudine con altre rappresentanti del gentil sesso. L'elenco dei doveri muliebri ricordati da Catone sembra abbastanza oneroso e cospicuo di per sé, tanto da pregiudicare ogni eccesso in materia di svago. Tuttavia, tra le norme comportamentali, è vivamente raccomandata la pratica di limitare il numero di visite da parte di altre donne: "Vicinas aliasque mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat" (De agri cultura, 143, 5). Luxuriosa e ambulatrix, ossia il fatto di essere amante del lusso e degli spostamenti, costituiscono peraltro i parametri definitori della cattiva moglie. Esiste comunque una categoria di donne le cui mansioni hanno maggiori affinità con i privilegi sacrali maschili: si tratta delle sei vergini Vestali, incaricate di sorvegliare il fuoco del focolare pubblico, conservato nel santuario di Vesta, e di preparare la mola salsa, da spargere sugli animali destinati al sacrificio. La mola salsa è un composto di farina di farro, ottenuta da spighe raccolte in maggio e dunque ancora impregnate di energia primiziale, mescolata a muries. La muries consiste invece nell' impasto di sale e acqua di fonte perenne, posto a cuocere in una pentola d'argilla, sigillata con il gesso: "[.] fit ex sali sordido, in pila pisato, et in ollam fictilem coniecto, ibique operto gypsatoque et in furno percocto, cui virgines vestales serra ferrea secto et in seriam coniecto, quae est intus in aede Vestae in penu exteriore, aquam iugem, vel quamlibet, praeterquam quae per fistulas venit, addunt, atque ea demum in sacrificiis utuntur" (Sesto Pompeo Festo, De significatu verborum). Fuoco, acqua perenne e spighe sono in stretta analogia con la condizione di purezza serbata dalle Vestali. Il loro stato verginale vale infatti a purificare simbolicamente tutte le colpe della popolazione e catalizza in questo modo la benevolenza divina e il successo per i maschi della città. Il ruolo delle Vestali attesta dunque una funzione femminile essenziale e necessaria per la potenza di Roma. Peraltro anche due importanti cariche religiose maschili paiono associate alla indispensabile presenza di una consorte coadiutrice: si tratta del flamen dialis e del rex sacrificulus, assistiti rispettivamente dalla flaminica e dalla regina sacrorum. In caso di morte della sposa, il flamen decade infatti dal proprio incarico (cfr. Aulo Gellio, Noctes Atticae, 10, 15, 23). Nell'immaginario culturale romano anche la donna, al pari dell'uomo, svolge un ruolo fondamentale e decisivo per descrivere e trasfigurare in chiave mitica gli eventi del passato storico. Come hanno diffusamente dimostrato gli studi di antropologia culturale, il paradigma dell'eroe ha una funzione preminente nella conservazione e nella tutela di valori fondamentali per la stabilità e l'equilibrio di ogni aggregazione umana. Fides, auctoritas e pietas, ossia i principi basilari del patto sociale romano, sono dunque variamente riconfermati attraverso le fisionomie e i comportamenti di uomini eccellenti, protagonisti dei miti delle origini o delle vicende storico-politiche documentate dagli autori classici. In questo culto dell'immagine esemplare, la figura femminile gioca spesso il ruolo di controparte, allorché l'identità maschile assume valenze negative o contraddittorie rispetto al canone ideale. Il modello muliebre diviene allora, a pieno titolo, vicariante dell'eroe e in tale sovvertimento dei compiti si sfumano le qualità precipue, dettate dal sesso di appartenenza, per cedere il posto ad una gamma di tratti e specifiche connotazioni virili, che si esplicano in manifestazioni di coraggio e sprezzo del pericolo. È quanto si rileva, ad esempio, leggendo il discorso che Plutarco fa pronunciare alla madre di Coriolano, allorché una delegazione di donne la supplica d'intercedere presso il figlio, affinché ponga fine alla guerra contro Roma: "Ma il nostro strazio maggiore procede dal vedere la nostra patria così debole e sgomenta da essersi ridotta a fondare su noi le proprie speranze. [.] Se non potremo fare altro, sapremo almeno morire nell'atto d'implorare per la patria" (Da Marzio Coriolano, XXXIII, in Le vite parallele, trad. A.Ribera, Sansoni, Firenze 1974). Coltivare i connotati fisici di un carattere virile era peraltro uno degli obiettivi perseguiti nell'educazione delle bambine di buona famiglia, come ancora ci attesta Claudio Galeno ai tempi dell'imperatore Marco Aurelio. Alcuni autori, ad esempio Jean Gaudemet, ipotizzano un ruolo importante per la mulier e addirittura una sorta di parità nei confronti del marito, come comproverebbero certe iscrizioni funerarie, tra le quali la più famosa è senza dubbio la cosiddetta Laudatio quae dicitur Turiae, riportata in Fontes iuris romani anteiustiniani. Il marito di Turia elogia il comportamento della propria compagna, che si è rivelata certa, ossia fedele, fidata e determinata durante i 41 anni di matrimonio, e che ha venduto tutti i propri gioielli per salvare il consorte, in un momento di persecuzione politica. Egli ha rifiutato di ripudiarla, benché ella stessa, essendo sterile, avesse incoraggiato l'unione dell'amato con un'altra sposa. Peraltro nei tempi antichi, l'usanza di cambiare o addirittura scambiare le mogli doveva essere assai diffusa, se persino Catone Uticense cedette all'amico Ortensio, l'adorata Marzia, per poi riprenderla alla morte di costui (Strabone, Geografia, XI, 9, 1). Le leggi di Romolo prevedevano che la donna non potesse abbandonare il marito, ma che il coniuge potesse invece ripudiarla, nel caso in cui ella avesse avvelenato i figli, taciuto una gravidanza o commesso adulterio (Cfr. Plutarco, Romolo, XXII). Qualora poi le mogli avessero ucciso i propri uomini, i congiunti provvedevano a strangolarle, senza nemmeno attendere il processo: un'inutile perdita di tempo, data l'evidenza della colpa e l'efferatezza del delitto. In età repubblicana la dimestichezza con la preparazione di pozioni tossiche non dovette essere un'attitudine saltuaria, in cui si cimentavano annoiate signore della società bene alle prese con insopportabili compagni, ma piuttosto un'anomala rivendicazione di potere alternativo, talvolta non esente da un'impronta di rivolta contro la maggioranza politica. Durante il consolato di Marco Claudio Marcello e Tito Valerio, nel 331 a.C., molti importanti cittadini morirono, per cause che furono attribuite non solo a una terribile pestilenza, ma specialmente all'avvelenamento causato da un complotto di donne, poi denunciate da una ancella: "Tum patefactum muliebri fraude civitatem premi matronasque ea venena coquere et, si sequi extemplo velint, manifesto deprehendi posse. [7] Secuti indicem et coquentes quasdam medicamenta et recondita alia invenerunt" (Livio, Ab urbe condita, VIII, 18). Nelle case di venti patrizie furono infatti trovate presunte pozioni salutari. Tuttavia, appena le nobildonne furono costrette a berle, perirono immediatamente. Le denunce cominciarono a moltiplicarsi e ben centosettanta matrone furono condannate a morte, quantunque fossero giudicate alla stregua di folli e non di vere e proprie criminali: "Prodigii ea res loco habita captisque magis mentibus quam consceleratis similis visa..." (Livio, ib.). La labilità del carattere femminile è del resto un topos ricorrente di molta poesia satirica, che indulge nell'indecente rappresentazione dell'ebbrezza con ovvii rimandi allo stilema della menade. Per le donne, la proibizione di bere vino risale alla dimensione leggendaria del Lazio, in un'epoca addirittura antecedente alla fondazione di Roma. Re Fauno ha sorpreso ubriaca la propria moglie Fauna e la punisce fustigandola a morte con rami di mirto; tuttavia, placatosi il suo grande furore, non può fare a meno di avvertire un grande desiderio di lei, perciò in suo onore istituisce sacri riti, durante i quali è offerta un'anfora coperta da un velo: ".quae quia contra morem decusque regium clam vini ollam ebiberat et ebria facta est, virgis myrteis a viro ad mortem usque caesam; postea vero cum eum facti sui poeniteret ac desiderium eius ferre non posset, divinum illi honorem detulisse; idcirco in sacris eius obvolutam vini amphoram poni" (Lattanzio, Divinae Institutiones, I, 22, 11). Pertanto nel tempo mitico si collocano i parametri del divieto e della concessione nei confronti della bevanda sacra: Fauna assurge al ruolo di Bona Dea e le sacerdotesse addette al suo culto conservano nel tempio un vino che è chiamato latte, in uno speciale recipiente denominato vaso da miele: ".quod vinum in templum eius non suo nomine soleat inferri, sed vas in quo vinum inditum est mellarium nominetur et vinum lac noncupetur" (Macrobio, Saturnaliorum convivia, I, 12, 25). Annessa al santuario è una sorta di farmacia, dove le sacerdotesse trasformano le erbe medicinali: gli uomini sono esclusi, in base ad una proibizione che ricollega al mito greco di Medea i riti dedicati alla Bona Dea, protettrice delle donne (gunaikeia). In questo luogo, la stessa presenza di serpenti, associati ai riti terapeutici della fecondità, esalta e qualifica il ruolo della indiscussa signoria femminile. L'onomastica divina riassume le qualità della Madre Terra: Bona e Fauna, in quanto produce gli alimenti per gli esseri umani e li favorisce in tutte le loro necessità; Ope, perché per opera sua la vita sussiste, e Fatua, appellativo deverbale riferibile a fari, che suggestivamente allude alla capacità di vagire acquisita dai bimbi appena hanno "toccato terra": "Fatuam a fando quod, ut supra diximus, infantes partu editi non prius vocem edunt quam attigerint terram" (Macrobio, ib.). Nel calendario romano compaiono altre feste officiate dalle donne, p.es., in coincidenza con il primo di aprile, le cerimonie dedicate a Venere Verticordia e a Fortuna Virile. In tale occasione madri e nuore del Lazio tolgono le collane d'oro al simulacro della dea e lavano la sua statua di marmo. Successivamente anch'esse s'immergono in un bagno purificante; ma la loro nudità mette in luce ogni difetto della persona; pertanto bruciano incenso e levano preghiere in onore di Fortuna Virile, affinché siano aiutate a nascondere ai propri mariti le imperfezioni del corpo: "Accipit ille locus posito velamine cunctas / et vitium nudi corporis omne videt / ut tegat hoc celetque viros, Fortuna Virilis / praestat et hoc parvo ture rogata facit" (Ovidio, Fasti, IV, vv.147-150). Il rito possiede un'indubbia connotazione riferibile a finalità seduttive, è quasi una sorta di preliminare amoroso che rinnova, anno dopo anno, per le maritate, la tensione dell'evento nuziale già consumato in precedenza. Peraltro l'assunzione di una bevanda sedativa, identica a quella bevuta da Venere prima di congiungersi allo sposo, composta di latte, miele e semi di papavero, traspone analogicamente il senso dell'unione coniugale in una prospettiva significante, atta a risvegliare le qualità della dea in ogni donna. Durante le feste femminili, si svolgono sacrifici non cruenti: è il caso dell'offerta di latte di fico in concomitanza con le Nonae Caprotinae, il 7 di luglio, in onore di Giunone. La cerimonia risale agli antichi riti mediterranei della fecondità e pertanto coinvolge all'unisono le donne libere e le schiave. Ed è proprio a proposito di quest'ultime che la leggenda fa risalire la suggestiva dedica di tale rito, ossia alla fine della guerra contro i Galli, allorché le popolazioni confinanti, intenzionate a invadere Roma, chiesero in ostaggio al senato le madri e le vergini. Fu allora che una schiava, di nome Tutela o Filotide, propose di recarsi dagli avversari, con altre sue compagne, fingendo di essere una donna libera. Giunte all'accampamento nemico, le coraggiose ancelle eccitarono gli uomini a bere, al punto da farli ubriacare; subito dopo, ad un segnale convenuto, che, come vuole la tradizione, fu trasmesso presso un albero di fico, i soldati romani fecero irruzione ed ebbero la meglio. Lo stesso Macrobio, nel riferire la vicenda, sottolinea la portata eroica dell'ancillarum factum, non riscontrabile in ulla nobilitate (Saturnaliorum convivia, I, 2, 35). Tra presenza e marginalità, non sembra comunque lecito descrivere il modello femminile romano in chiave completamente autonoma: passione, coraggio e devozione muliebre acquistano la loro significanza nel rapporto interpersonale con l'uomo, rispetto al quale la condizione della donna assume, a vari gradi, il proprio carattere di indispensabilità. LE VESTALI Sacerdotesse della antichissima dea Vesta (corrispondente alla greca Estia), la dea del focolare domestico, le Vestali, le custodivano il tempio sul Foro, tenendo sempre acceso il fuoco, che secondo la leggenda era stato acceso per la prima volta da Romolo, come simbolo dell'eternità dell'Urbe. L'istituzione delle Vestali è anteriore alla stessa nascita di Roma, anche se la leggenda le fa risalire all'epoca di Numa. Furono prima quattro, poi sei, infine sette. Venivano scelte dal Pontifex Maximus, suprema autorità religiosa di Roma, tra fanciulle dai sei ai dieci anni. Il loro servizio durava 30 anni, di cui dieci per la formazione, altri dieci per l'esercizio del ministero e gli ultimi dieci come maestre delle novizie. Come Vesta (intorno a cui non esistono racconti mitologici) dovevano rimanere vergini e per distinguersi dalle altre donne portavano una speciale acconciatura dei capelli e un velo bianco, suffibulum, che veniva assicurato sul petto mediante una fibbia. Il pontefice massimo, che vigilava sull'osservanza della verginità, aveva il potere di condannare a morte e far seppellire viva la Vestale che avesse trasgredito al suo impegno, nel "Campus Sceleratus" posto nei pressi di porta collina in una fossa, dotata di un giaciglio, di una lanterna e di poco cibo. Chiusa la fossa, se ne pareggiava il terreno per far sparire ogni traccia delle colpevoli. Anche il seduttore era punito con una fustigazione cosi violenta che ne provocava la morte. Le Vestali non erano sottoposte alla patria potestas ed erano esonerate dalla tutela, se si esclude ovviamente quella trentennale dello stesso pontefice. Anzi le Vestali erano le sole donne romane che, fino all'età di Augusto (63 a.C. - 14 d.C.), potessero esercitare i diritti civili, come quello di fare testamento, senza l'autorizzazione del tutore (ovviamente non potevano avere discendenza). Più tardi a questi privilegi poterono partecipare le donne romane con tre figli e le liberte con quattro. Le Vestali potevano avere il privilegio di graziare i condannati a morte. Famose le leggende di Rea Silvia, Ilia enniana e Tullia. Pare che producessero anche la mola salsa, cioè il farro salato. ELISSA - DIDONE La leggenda dell'infelice Elissa: una contaminazione a più voci per un mito d'origine fenicia La genesi dei personaggi del mito si realizza in un tempo identificabile con approssimazione, per molti di loro non si azzarda neppure l'attribuzione di una ipotetica cronologia d'origine, e le vicende che li vedono protagonisti si amplificano nel corso dei secoli, offrendo spesso versioni discordanti. Capita addirittura che un personaggio abbia facoltà di lagnarsi contro le presunte menzogne di un poeta, simulatore di comportamenti non confacenti all'autentico mitologema. La bionda Didone deve certamente la propria fama alla sublime arte di Virgilio, che ha dedicato alla regina cartaginese il IV libro dell'Eneide e numerosi altri versi del poema; tuttavia la fisionomia dell'eroina ha subito, ad opera della geniale inventiva artistica, una trasformazione radicale lesiva di una proverbiale pudicizia. Contro l'invidiosa Musa virgiliana si scaglia pertanto il risentimento di Didone; ne è portavoce Ausonio, che latinizza un testo greco: "Invida cur in me stimulasti Musa Maronem / fingeret ut nostrae damna pudicitiae?" La storia della fenicia Elissa/Didone, fuggita da Tiro, dopo che il fratello Pigmalione le ha ucciso il marito, si lega alla leggenda di fondazione di Cartagine. Un'antica etimologia - Didone significherebbe "donna virile" - attribuisce peraltro al nome dell'eroina una valenza combattiva ben confacente a colei che, profuga in terra straniera, ha ottenuto dagli indigeni il permesso di occupare una porzione di terreno equivalente alla superficie delimitabile mediante una pelle di bue. Agendo d'astuzia, l'intraprendente colonizzatrice taglia la pelle in sottili strisce che le consentono di contrassegnare un perimetro bastevole per la costruzione della nuova città: la punica Byrsa, ovvero "pelle di bue". Corteggiata da molti sovrani africani, per resistere alle insistenti profferte di Iarba e non venire meno alla fedeltà nei confronti del marito defunto, la regina si suicida e, secondo lo storico Giustino, diviene pertanto una delle divinità del pantheon cartaginese. Molti dettagli cultuali, pertinenti alla religione fenicia, appartengono infatti alla leggenda tradizionale: il tabù che vieta le seconde nozze per le vedove e lo stesso suicidio rituale, perpetrato mediante il fuoco, quasi una pratica purificatoria a sostegno dei ritmi stagionali di fecondazione della terra. Il poema di Virgilio, celebrativo dell'impero di Ottaviano Augusto e della conseguente grandezza di Roma, opera in senso divergente rispetto alla leggenda che suffraga la divinizzazione della casta Elissa e ciò non stupisce, perché l'incursione nelle tradizioni culturali di un popolo nemico, duramente combattuto e infine sottomesso a prezzo di secolari sacrifici, fa parte di un'operazione politica assai sofisticata, ma non inusuale. Il patto di fedeltà coniugale perdurante oltre la morte, appannaggio di una virtuosa donna cartaginese, cede al cospetto della magnanimità di un eroe progenitore di quella gens Iulia, da cui l'imperatore stesso discende. Virgilio elabora ogni dettaglio del carattere di Didone, esasperandone le valenze umane e donandole una affettività disperata e totalizzante: il personaggio commuove e risulta essere indimenticabile, eppure la sua configurazione originaria appare usurpata. La fama di pudicizia che inorgogliva la regina "elevandola fino alle stelle" (Eneide, IV, 322), vero e proprio connotato divino, lascia il posto a comportamenti furiosi confacenti ad una baccante, allorché la donna scopre il "tradimento" dell'amante, in procinto di partire. "Saevit inops animi totamque incensa per urbem / bacchatur [...]" (Eneide, IV, 300-301): questo aggirarsi fuori di senno, per la città, si correla al tormento amoroso che le ha dilaniato l'animo tra penosi conflitti prima della unione fatale. Nella tormentata sequenza dedicata alla rivelazione dell'innamoramento, il paragone con la cerva ferita da una freccia, l'ha infatti assimilata ad un animale indifeso e braccato: "Uritur infelix Dido totaque vagatur / urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta" (Eneide, IV, 68-69). Il lessico della passione ruota attorno ai campi semantici del fuoco bruciante (uritur/incensa), che prefigura il suicidio conclusivo, e del furor (bacchatur/furens), che trasporta sul piano infero lo statuto di una eroina originariamente destinata alla dimensione siderea. Tuttavia, pur nel capovolgimento del mito, è accaduta una sorta di compensazione: la Didone virgiliana ha suscitato, nel corso dei secoli, una sorta di trasporto empatico da parte di molti poeti, del quale l'altra Didone, protagonista della leggenda punica, non sarebbe stata probabilmente mai capace. S. Agostino si commuove, mentre legge la sventurata sorte di Elissa (cfr. Confessioni, XIII), benché a posteriori condanni l'umana debolezza che induce il lettore a dedicare troppa commiserazione alla finzione letteraria e poca verso le proprie peccaminose miserie. Giacomo Leopardi, invaghito dalla intensità affettiva della regina, prova addirittura una sorta di avversione nei confronti dell'eroe troiano: "ma Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione parla così coperto, anzi dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone"(Zibaldone). Il mitologema di Elissa modifica nel corso dei secoli il proprio tema di fondo, acquisendo sfumature interpretative consone soprattutto alla sensibilità individuale, di segno ben diverso a paragone della funzione etica o sociale che punici e latini variamente gli attribuivano. "Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; / Replica il mio le care tue fattezze; / Nulla contengono di più i nostri occhi / E, disperato, il nostro amore effimero / Eterno freme in vele d'un indugio" (La terra promessa, VIII). Per Giuseppe Ungaretti, Didone è simbolo della memoria, di tutto ciò che è incancellabile, in quanto accaduto, perché l'assenza, sottolineando il distacco, mette in gioco la facoltà di rivivere incessantemente l'intensità delle emozioni: "est une poétique de l'absence, elle est dans ce sens une poétique de la mémoire". E dunque le "vele d'un indugio" valgono a dilatare a dismisura anche gli attimi più brevi, giacché, come insegna lo stesso S. Agostino, non v'è oggettiva corrispondenza tra tempo interiore e tempo fisico. Poetica dell'assenza e poetica della memoria stabiliscono la circolare connessione interpretativa che rinnova ad ogni lettura la scoperta dell'identità mitica: Didone rappresenta una sorta di alter ego simbolico non solo per Ungaretti, ma per quanti, accostandosi all'invenzione virgiliana, si sono rispecchiati in lei. LIVIA DRUSILLA CLAUDIA Figlia di Livio Claudiano, della nobile e antichissima famiglia Claudia che fin dai tempi di Romolo aveva dato alla patria consoli, magistrati, generali e statisti, Livia Drusilla era "Claudia" due volte: per nascita (58 a.C.) e per matrimonio, avendo sposato il cugino Tiberio Druso Nerone. Padre e marito erano ferventi repubblicani: Claudiano, partigiano di Bruto, si era dato la morte dopo Filippi, e Tiberio, dopo aver partecipato alla guerra di Perugia contro Ottaviano, era stato da questi proscritto. Durante la sua fuga in Sicilia, Livia l'aveva seguito in esilio. Da lì i Claudi erano riparati in Grecia e nei boschi presso Sparta. Ottaviano invece viene da una stirpe oscura, da una modesta famiglia di Velletri: i suoi rivali gli rinfacciano un nonno cambiavalute, un fornaio e addirittura degli avi di origine servile. Sua madre però è Azia, figlia di Balbo e di Giulia, unica sorella di Cesare. E quest'ultimo indicherà proprio Ottaviano come suo erede universale (politico ed economico) nel testamento. Quando Cesare viene assassinato, Ottaviano aveva solo 19 anni. Spalleggiato dai fedelissimi amici, Vispanio Agrippa e Mecenate, Ottaviano riesce, dopo molti raggiri politici e scontri armati, ad affermarsi come legittimo erede dello zio, di cui assume il nome. Ottaviano era dunque nemico di Livia, ma nel 39 a.C. una tregua tra lui, Antonio e Sesto Pompeo permetteva ai proscritti di rientrare a Roma. Ottaviano voleva riconciliarsi con la classe aristocratica e forse per dimostrare queste sue buone intenzioni decide di sposare Livia. Quando la conosce, Livia era di nuovo incinta del primo marito ed era di sei anni più giovane di lui. Ottaviano era già stato sposato tre volte e tutte per ragioni politiche: con Servilia, con Clodia, figliastra di Marcantonio, e infine con Scribonia. Livia ricambiò immediatamente le attenzioni di Ottaviano, perché era una donna molto ambiziosa. Ottaviano ripudia Scribonia proprio nel giorno in cui gli partorisce la figlia Giulia e nel contempo chiede la mano di Livia a Tiberio Claudio, quasi avesse a che fare col padre e non col marito. Tiberio concede il divorzio e Ottaviano chiede al collegio dei pontefici di sposarla immediatamente: era il 17 gennaio del 38. Livia dà alla luce Druso, il suo secondogenito. Ottaviano lo riconosce come cittadino romano, ma lo riconsegna al suo legittimo padre. Vuole figli propri, ma Livia, dopo un aborto molto sofferto, non concepisce più. Tuttavia Ottaviano, invece di separarsi da lei, rinuncia momentaneamente alla posterità. Ottaviano si fida ciecamente di Livia, si consulterà continuamente con lei, giungendo persino ad affidarle il sigillo personale perché firmi a nome suo, e le mette a disposizione 500 servi per le sue esigenze personali. D'altra parte Livia sa ricambiargli tale fiducia. Anche quando lui s'innamorerà perdutamente di Terenzia, moglie di Mecenate, lei saprà fare buon viso a cattivo gioco. Ha capito che la soluzione migliore è quella di governare dietro le quinte, come un'eminenza grigia. Essa è testimone del momento cruciale del trapasso dalla repubblica all'impero. Ottaviano infatti si decide a dare il colpo di grazia a Marco Antonio che, dopo il divorzio da Ottavia, viveva al fianco di Cleopatra, con cui progettava di fondare un grande regno ereditario in Oriente. La battaglia di Azio mette fine al sogno dei due amanti e il vincitore, insignito del titolo di Augusto, reso sacro e inviolabile dalla potestà tribunicia, rimane l'unico padrone di Roma. Livia si appresta a fondare l'impero insieme a Ottaviano, a governarlo per 50 anni e a lasciarlo in eredità ai suoi figli. Ha già infatti combinato per Tiberio e Druso due vantaggiosi matrimoni: il primo con Vipsania, figlia di Agrippa, amico e generale di Augusto; il secondo con la nobile Antonia, figlia di Ottavia e di Marco Antonio. Tuttavia Augusto, privo di discendenti maschi, decide di adottare Marcello, primogenito di Ottavia, dandogli in moglie la quattordicenne Giulia. Ma Marcello, poco più che ventenne, muore di febbre tifoidea. Allora Augusto fa una proposta ad Agrippa, suo fidato generale: gli chiede di rinunciare con un divorzio alla moglie per sposare Giulia appena rimasta vedova. Agrippa, che aveva 25 anni più di Giulia, accetta e subito nascono Gaio e Lucio Cesare, adottati dall'imperatore, e poi ancora Agrippina e Giulilla. Quando sta per nascere il quinto figlio, Agrippa Postumo, muore il fedelissimo Agrippa, nel 12 a.C. Per la discendenza di Livia non sembra esservi speranza, tanto più che tre anni più tardi Druso, di stanza in Germania, dove sta conducendo una campagna per fortificare i confini dell'impero, muore tra le braccia del fratello Tiberio. Giulia insomma è di nuovo vedova e il posto di genero dell'imperatore è vacante. Tiberio, figlio di Livia, viene praticamente costretto dalla madre a ripudiare l'amata moglie Vipsania e a sposarsi con Giulia. Ma il matrimonio è un fallimento totale, e Livia, per evitare scandali a causa del comportamento adulterino di Giulia, obbliga Tiberio a partire per Rodi in volontario esilio. Questo fa sì che si rafforzi la posizione dei primi due figli maschi di Giulia, Gaio e Lucio Cesare. Ma Augusto non può sopportare che le intemperanze di Giulia costituiscano una minaccia alla stabilità del suo principato. Cosicché la condanna all'esilio perpetuo sull'isola di Pandataria, oggi Ventotene. Quanto ai suoi figli maschi, la fine è vicina: Lucio muore di un morbo misterioso e Gaio per una lieve ferita stranamente infettata. Era però rimasto il terzo figlio maschio di Giulia, avuto dopo la morte del marito Agrippa, che era appunto stato chiamato Agrippa Postumo. Augusto decide di adottarlo insieme al figliastro Tiberio, l'ultimo rimasto a Livia, a patto però che tutti accettino Germanico come erede politico di Augusto: Germanico era figlio di Druso, marito di Agrippina, sorella di Agrippa Postumo. Ma il destino vuole che anche Agrippa Postumo e sua sorella Giulilla vengano mandati in esilio, sicché Tiberio, figlio di Livia, è l'unico in grado di ereditare il potere di Augusto, il quale, pur non essendo molto convinto, non ha modo di cambiare il corso della storia, in quanto muore a 76 anni tra le braccia di Livia. A Livia ora occorre soltanto il tempo per eliminare Agrippa Postumo, il solo possibile pretendente che possa sbarrare la strada a Tiberio. Dopodiché si fa insignire del titolo di "madre della patria", la prima donna nella storia dell'Urbe. Tuttavia Tiberio mal sopporta la presenza ingombrante della madre e, nonostante essa si sia resa in qualche modo responsabile anche dell'omicidio di Germanico, rivale di Tiberio, le sottrae il sigillo imperiale. Ciò però non serve a nulla, perché è Tiberio in realtà che si ritira a Capri, lasciando Roma in balìa di Elio Seiano, il terribile prefetto del pretorio che nessuno, salvo Livia, osa contrastare. Livia morirà nel 29 d.C., quasi novantenne. Tiberio non solo rifiuta di presenziare ai funerali ma vieta al senato di decretare l'apoteosi divina alla "madre della patria". Sarà l'imperatore Claudio, figlio di Druso, a farlo.

 
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