CONDIZIONE FEMMINILE
Nella Roma arcaica, quella in cui cominciano a imporsi i rapporti
antagonistici, il pater familias (con la sua patria potestà, col suo potere
assoluto, natura et iure) aveva dei privilegi relativi al fatto ch'era
titolare dei propri beni, a differenza della donna, che, come i figli, non
poteva possedere qualcosa di proprio.
Nei primi secoli della sua storia il diritto romano rifletteva le regole di
una società in cui capo indiscusso era l'uomo, con un potere di vita e di
morte ("ius vitae ac necis"), padrone della casa e della familia,
comprensiva anche dell'intera servitù.
Soltanto l'uomo godeva dei diritti politici (votare, eleggere e farsi
eleggere, percorrere la carriera politica, il corsus honorum). La donna ne
era del tutto esclusa; anche per esercitare i diritti civili (sposarsi,
ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un
uomo che esercitasse su di lei la tutela: questi era il padre, poi il marito
e, all'eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo.
Da una legge che figura nelle XII Tavole si può ricavare la posizione
giuridica della donna nell'antica Roma: "Feminas, etsi perfectae aetatis
sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus". E cioè: "(E'
stabilito che), sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto
tutela, eccettuate le vergini Vestali" (che però erano sotto la tutela del
pontefice massimo).
La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla manus
protettiva e imperativa del padre passava, anche senza il suo consenso, a
quella del marito. Tuttavia, è documentata la presenza di un matrimonio
senza manus, cioè senza potere del marito, in epoca precedente alle Dodici
Tavole.
E' con la legislazione attribuita a Romolo che si sancisce definitivamente
una situazione iniqua nel rapporto tra i sessi (la stessa leggenda sul ratto
delle Sabine fa capire in quale considerazione tenessero i romani le donne).
Le limitazioni alla capacità giuridica della donna romana vengono spiegate
dai giuristi latini con pretese qualità negative come l'ignorantia iuris
(ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale),
infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d'animo)
ecc. La rivendicazione di questa radicale diversità tra uomo e donna
rifletteva una netta contrapposizione già esistente tra uomo e uomo, tipica
delle società antagonistiche.
Al pari degli impotenti o degli eunuchi, la donna romana, nel periodo
arcaico, non poteva adottare; non poteva neppure rappresentare interessi
altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private; non poteva fare
testamento o testimoniare, né garantire per debiti di terzi, né fare
operazioni finanziarie; non poteva neppure essere tutrice dei suoi figli
minori.
Le veniva preclusa la facoltà d'intervenire nella sfera giuridica di terzi
semplicemente perché (e con questo in pratica si chiudeva il cerchio della
discriminazione) non aveva mai ufficialmente gestito alcun tipo di potere su
altri.
Sotto questo aspetto la società maschilista romana non faceva molta
differenza tra donne ignobili e donne rispettabili, come p.es. le matrone.
Le differenze erano di carattere etico-sociale, non certo politico.
Tra le prime, spesso indicate come non romane, sono coloro che provengono
dal mondo del teatro, del circo, della prostituzione. Queste donne
appartengono ad uno status sociale inferiore, riconoscibile ad esempio nel
fatto che era loro consentito di non coprirsi il capo o nel divieto di
portare la stola, quel manto che è considerato proprio della rispettabile
matrona. Queste donne di rango inferiore, come pure quella ufficialmente
dichiarate adultere, vengono private a scopo punitivo del diritto di
contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni
diritti civili.
A differenza delle donne egiziane le romane non avevano diritto al nome
proprio. Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere
conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere
pronunciato in pubblico. (1)
Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen
(p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e
il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a
cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come
individuo, ma come parte di un nucleo familiare. Cicerone, p.es., chiamerà
la figlia col nome di Tullia.
Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens portavano il nome
generico di Prima, Secunda, ecc. Ma questo era la plebe a farlo, i patrizi
preferivano attingere alle antenate illustri. Per distinguere due sorelle
oppure madre e figlia si usavano l'aggettivo senior o junior.
I liberti, maschi o femmine, assumevano il nome del patrono. A volte, ma
solo per i maschi, si aggiungeva un soprannome per meriti civili o militari:
p.es. l'Uticense, il Censore, l'Africano...
D'altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma
repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto ereditiere,
avevano l'obbligo di contribuire a mantenere l'esercito.
[1] Si noti che a differenza di quella romana, la donna etrusca poteva
essere identificata anche col nome della madre, poteva partecipare ai
banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le donne
dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di
politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa
quando voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva
una libertà che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che
descrissero gli etruschi come un popolo privo di moralità.
Leo Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età
repubblicana, Milano 1984
G. Alfoldy, Storia sociale dell'antica Roma, ed. Il Mulino, Bologna 1987
A. Giardina, Il mondo degli antichi, ed. Laterza, Roma-Bari 1994
C. Petrocelli, La stola e il silenzio, ed. Sellerio, Palermo 1989
E. Cantarella, La vita delle donne, in AA. VV., Storia di Roma, 4. Caratteri
e morfologie, ed. Einaudi, Roma 1989
E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, ed.
Feltrinelli, Milano 1996
D. Tudor, Donne celebri del mondo antico, ed. Mursia. Milano 1980
Storia delle donne, a c. di G. Duby e M. Perrot, ed. Laterza
Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in AA. VV., Storia
delle donne in Occidente. L'antichità, ed. Laterza, Roma-Bari 1990
ISTRUZIONE
Le bambine romane imparavano a leggere, scrivere e far di conto se i
genitori potevano permettersi di pagare un maestro privato.
Quando arrivavano a dodici anni ed erano già in età da marito, potevano
continuare con lo studio, sempre a pagamento, delle lettere, della danza e
della musica.
L'istruzione dei ricchi è sempre stata privata: i primi precettori delle
grandi famiglie provengono dall'Italia stessa, e parlano latino, greco,
osco. Mentre le legioni romane portano il latino ovunque, nell'Urbe diventa
di moda il greco. Si considerava chic per le ragazze conversare in greco e
leggere Menandro. E gli intellettuali greci, la cui superiore cultura era
apprezzata a Roma, emigravano volentieri in questa città. Ma sono anche gli
schiavi e le schiave greche che insegnano la loro lingua ai bambini delle
famiglie patrizie.
Col tempo però i romani cercano di favorire anche la scuola pubblica,
pagandola di tasca propria, in quanto lo Stato, restio a interferire nel
potere del "pater familias", comincerà a provvedere solo a tardo impero. Da
Cesare a Costantino verranno accordati regolarmente compensi e privilegi
agli educatori pubblici, poiché si riteneva fosse un dovere sociale imparare
a leggere e scrivere, senza differenze di sesso.
Spesso alle lezioni della scuola pubblica assistono nutrici e custodi degli
stessi studenti, ma è possibile anche per genitori, parenti, amici: la
scuola è aperta a tutti.
L'istruzione pubblica è suddivisa in primaria (fatta col maestro
elementare), secondaria (fatta col grammatico) e superiore (fatta col
retore). Alla secondaria accedono in maggior numero ragazzi e ragazze delle
famiglie più agiate. Si studiano lingua e letteratura latina e greca,
fisica, astronomia, mitologia e storia.
Alla scuola del retore vanno solo i figli destinati all'attività forense o
politica, quindi solo i maschi, anche se si conoscono casi di donne istruite
che si difendono da sole in tribunale o tengono discorsi pubblici. (1)
Gli studenti maschi a scuola apprendono soprattutto la retorica, cioè l'arte
di persuadere e di commuovere, così come è stata elaborata in Grecia. Gli
aristocratici furono sempre contrari all'apprendimento pubblico di
quest'arte, perché la vedevano come una minaccia ai loro interessi.
Poi vi sono scuole specializzate, professionali, come quelle per l'edilizia
e l'agrimensura, ma anche quelle, prevalentemente femminili, ove s'impara il
canto, la musica e la danza.
Nella storia della letteratura latina sono comunque assai scarse le figure
di donne colte; è conosciuta una sola poetessa di elegie, vissuta nell'età
di Augusto, Sulpicia, che mise in versi il suo amore per Cerinto.
Quintiliano, il retore spagnolo vissuto a Roma nell'età degli imperatori
Flavi, a cui Vespasiano aveva dato l'incarico di professore di retorica
retribuito dallo stato, nel suo trattato sulla formazione dell'oratore
enumera alcune donne dell'antica Roma, celebri per la loro cultura:
Cornelia, madre dei Gracchi, alla quale attribuisce personali capacità e la
presenta come ispiratrice e formatrice dell'eloquenza dei figli; Lelia,
figlia di Lelio l'amico degli Scipioni, e Ortensia, figlia dell'oratore
Ortensio, alle quali sembra dare importanza in rapporto ai padri.
(1) Ortensia, figlia di un grande oratore romano, fu scelta dalle altre
matrone come loro portavoce perché in tribunale si opponesse all'imposizione
di pesanti tasse sulle donne, in occasione delle guerre civili. La ebbe
vinta.
IL LAVORO DELLE DONNE ROMANE
Premesso che lavorare per i romani non era considerato né un privilegio né
un diritto, ma una pesante necessità di cui non essere fieri, va detto che
le donne delle classi medie e basse sono poco note alla storiografia e la
vita delle donne contadine cambiò poco nel corso del millennio.
Le donne svolgono prevalentemente lavori domestici. Nelle iscrizioni romane
di Roma troviamo solo quattro donne mediche, una segretaria, una stenografa
e poi sarte, pettinatrici, levatrici, balie, pescivendole, erbivendole.
Nella città di Ostia troviamo anche nutrici, tessitrici, lavandaie,
massaggiatrici.
Ci sono poi, spesso legate al mondo della prostituzione: attrici,
albergatrici, cameriere, danzatrici, proprietarie di taverne.
Alla donna era affidata la prima educazione del bambino, il primissimo
insegnamento orale. Era la donna che formava i figli sul piano morale e
comportamentale, affiancata, in questo, dai comites, cioè dai parenti, nonni
e nonne, zie e zii.
Scopo della sua vita era quello di diventare un'esperta amministratrice
della casa, circondata, se possibile, da ancillae e famulae che ne
eseguivano gli ordini. Infatti la stessa etimologia della parola "donna" ci
avvicina ad una domus (casa) oppure ad una domina (padrona).
In casa essa ha diritti non scritti ma reali sulla famiglia, sui figli,
sulle dispense. Era lei che aveva tutte le chiavi e controllava ogni cosa:
solo l'accesso alla cantina le era vietato. Il vino resterà proibito alle
donne sino alla fine del periodo repubblicano.
In casa essa si dedica ad acu pingere, cioè al ricamo. Una famosa epigrafe
funebre del II sec. a.C. elogia le virtù domestiche di una defunta: "casta
fuit, domum servavit, lanam fecit" ("fu casta, governò la casa, lavorò la
lana"). (1)
Le donne potevano anche gestire il commercio dei tessuti.
Il latifondista si serviva in genere di due fattori: un uomo e una donna,
per gestire le sue tenute rurali e i suoi schiavi.
(1) "Straniero, ho poco da dirti: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non
bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il
marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla
terra, l'altro l'ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel
portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, va' pure".
IL MATRIMONIO DELLE DONNE ROMANE
A differenza che nell'antico Egitto, nella Roma arcaica una figlia, ancora
giovanissima (puella, che è diminutivo di puera, ragazza), poteva essere
promessa in sposa o fidanzata (sponsalia) a un giovane anche contro la
propria volontà e questo rito era giuridicamente valido; consisteva in un
vero e proprio impegno, perseguibile in caso di inadempimento, che vincolava
la donna ad una sorta di fedeltà pre-matrimoniale nei confronti del futuro
sposo. Il matrimonio si perfezionava con il trasferimento della donna dalla
famiglia paterna a quella del marito.
Il fidanzato consegnava alla ragazza un pegno per garantire l'adempimento
della sua promessa di matrimonio, un anello che lei si metteva all'anulare
della mano sinistra. Sembra che tra il dono e quel dito esista una certa
relazione. Aulo Gellio afferma che anatomicamente questo è l'unico dito a
presentare un sottilissimo nervo che lo collega direttamente con il cuore.
I matrimoni insomma venivano decisi dai parenti dei due giovani e i motivi
erano sempre di natura economica. Questo soprattutto in età repubblicana.
La forma più completa del matrimonio è quella detta perconfarreationem, dal
panis farreus, un pane preparato con l'antico cereale, il farro, che viene
mangiato dagli sposi, appena entrati nella nuova casa. Accanto a questo rito
di matrimonio, sempre seguito dal patriziato, si hanno altre due forme meno
solenni: la coemptio, una vendita simbolica con la quale il padre cede la
figlia allo sposo mediante un compenso pecuniario, e l'usus, una specie di
sanatoria di una condizione di fatto, per cui diventa moglie la donna che
abbia abitato con un uomo per un anno intero senza interruzione di tre notti
consecutive. Con questi due ultimi modi si raggiungono le iustae nuptiae,
dando al marito quel diritto di protezione e di tutela, ma spesso non di
padronanza assoluta, che si dice manus.
Una donna romana può essere ceduta dal padre al marito già a 12 anni,
laddove i greci non mandano spose le loro fanciulle se non tra i 16 e i 18
anni. In ogni caso troviamo iscrizioni funerarie che citano fanciulle
sposate a 10 ed 11 anni. E' chiaro che il matrimonio tra i Romani era
pienamente valido anche se non consumato.
Poiché la donna dipendeva totalmente dal padre e dal marito e poiché si
mirava all'indissolubilità del vincolo matrimoniale, l'assenza di un vero
amore reciproco non rendeva l'istituto del matrimonio meno stabile.
D'altra parte i romani si sposavano soprattutto per garantirsi una
discendenza, mentre sul piano della sessualità avevano atteggiamenti
piuttosto liberi, almeno da parte degli uomini (la cosa sarà reciproca solo
in epoca imperiale).
Al matrimonio comunque la donna pensa come a qualcosa che cambierà la sua
vita, anche se nel periodo più antico si tratta semplicemente di passare dal
dominio del padre alla potestà del marito.
Nella formula più arcaica l'uomo chiede alla donna "se vuole essere la sua
mater familias", cioè "moglie". E' interessante notare che l'avvenimento che
fa accedere una donna al rango di mater familias non è il parto, ma appunto
il matrimonio.
In tutt'altro senso la donna indirizza al futuro sposo la domanda "e tu vuoi
essere il mio pater familias?" Con ciò desidera che l'uomo diventi per lei,
anche giuridicamente, un nuovo padre, alla cui potestà lei coi suoi figli
vuole sottomettersi loco filiae, come una figlia, il che la proteggerà
finanziariamente. Ma può accadere che il marito sia ancora un filius
familias, poiché la patria potestà paterna non cessa, ma dura finché il
padre è in vita. In questo caso la donna che entra nella famiglia del marito
è sottoposta alla potestà del suocero.
In ogni caso il pater familias, marito o suocero, ha su di lei un potere,
manus, che per un'antica legge dei tempi di Romolo comporta almeno in due
casi un diritto di vita o di morte: quando la moglie è sorpresa in flagrante
adulterio e quando si scopre che ha bevuto vino.
Le lodi rivolte alle donne, nelle epigrafi, raramente riguardano la donna in
se stessa; le sue virtù sono quelle che le hanno permesso di servire ed
amare il marito, i figli e di accudire la casa. Non c'è dovere di
reciprocità nell'amore, non c'è obbligo alla reciproca fedeltà coniugale.
In famiglia la moglie sta vicino al marito in ogni occasione, pur essendone
subordinata (p.es. è a cena nei banchetti e nei ricevimenti). Valerio
Massimo ci dice che "feminae, cum viris cubantibus, sedentes cenitabant", le
donne cenavano stando sedute, mentre gli uomini erano sdraiati.
La decimazione bellica degli uomini, causata dalle guerre puniche e dalle
guerre civili, squilibra il rapporto numerico tra i due sessi. L'iniziativa
per la celebrazione delle nozze non viene assunta dal futuro marito, ma più
di frequente dal padre della donna. E' questi in definitiva che acquista
alla figlia un marito, offrendogli una congrua dote da amministrare. La
nuova usanza attecchisce bene, ma stravolge completamente l'antico ordine
familiare basato sull'indiscussa potestas maritale.
Anche dopo sposata la donna continua ad appartenere alla famiglia paterna,
resta cioè sotto la potestas di suo padre. Alla base di questo nuovo tipo di
matrimonio (detto sine manu, senza potere maritale) ci sono solo due
condizioni: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis, il
reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla
semplice traditio da una famiglia all'altra.
Nel 18 a.C., per far fronte al crollo delle nascite e ai divorzi facili,
Ottaviano presenta la famosa Lex Iulia de maritandis ordinibus, diretta a
ricostruire la società secondo i più rigidi principi morali. Infatti la
legge sanciva l'obbligo al matrimonio, vietava l'unione dei senatori con
liberte (schiave affrancate) e prevedeva una serie di misure allo scopo di
aumentare il tasso demografico: si stabilivano premi per i cittadini con
famiglie numerose e pene pecuniarie per i celibi e i coniugi senza figli. I
celibi restavano esclusi da vari diritti.
Il decreto assegna inoltre un termine agli eterni fidanzamenti e stabilisce
severe sanzioni per quei furbi che con continue rotture di fidanzamento
eludono le leggi fiscali a carico degli scapoli, emanate per fronteggiare il
preoccupante fenomeno della diminuzione delle nascite. Sarà forse un effetto
delle leggi augustee, ma sta di fatto che prima del cristianesimo sono
rarissime le testimonianze di donne rimaste nubili.
Le donne, in particolare, dovevano dimostrare d'aver voluto almeno tre
figli, nel qual caso ricevevano parità di diritti con gli uomini. Ottaviano
promulgò, inoltre, la Lex Iulia de pudicitia et de coercendis adulteriis,
che riguardava il libertinaggio ed il lusso licenzioso. Contro gli adulteri
e le adultere erano sancite gravissime pene economiche. Alla base vi era la
volontà di rinsaldare l'istituto familiare e la società uscita disfatta
dalle guerre civili.
Dopo Augusto le mezzane, le prostitute e le attrici vengono private di vari
diritti legali.
LE CERIMONIE NUZIALI DI ROMA ANTICA
SACRA NUPTIALIA: RITI NUZIALI NELL'ANTICA ROMA
Le componenti simboliche
Gli antropologi interpretano l'episodio del ratto quale trasposizione in
chiave storico-narrativa di un rito di fertilità che doveva svolgersi,
probabilmente, al tempo della mietitura e che prevedeva la reciproca
cessione delle donne da parte degli uomini. Una trasmissione del rito
sarebbe peraltro attestata anche in età moderna dalle celebrazioni
coincidenti con il solstizio d'estate che, in Sardegna e in Sicilia ad
esempio, combinano insieme i festeggiamenti per la raccolta delle messi e
quelli nuziali; e ancora dalla festa toscana dei Tralli, durante la quale i
contadini si scambiano delle bambole.
La cessione di un oggetto simbolico, a garanzia del patto matrimoniale, è
del resto attestata, secondo Georges Dumézil dal cosiddetto vaso di Duenus,
un kérnos di foggia greca a tre scomparti, destinati alle diverse offerte
votive. Il vaso reca incisa una iscrizione, databile alla fine del VI sec.
a.C., e decifrabile, ad opinione dello studioso, in chiave di vero e proprio
contratto: "Colui che mi invia giura, in nome degli dei, che, se la ragazza
non avrà con te facili rapporti e non si dimostrerà docile, farà in modo che
tra voi si ristabilisca l'accordo".
Cerimonie matrimoniali: la condizione della donna nell'ambito familiare
"Olim itaque tribus modis in manum conveniebant: usu, farreo, coemptione"
(Gaio, Institutiones Iuris Civilis, I, 110). Confarreatio è una vera e
propria cerimonia ufficiale, celebrata alla presenza del flamine di Giove;
coemptio e usus sono invece ufficiati medianti rituali privati e posti sotto
la protezione di Giunone Lucina.
Nel corso dei secoli, il momento delle nozze si svolge secondo un rituale
drammatizzato, cui vanno riconosciuti alcuni elementi spettacolari: vestita
di bianco, con il flammeum, un velo arancione posto sulla acconciatura
ripartita in sei ampie ciocche, al calar della sera, la futura mater
familias finge di aggrapparsi alle braccia della propria madre, dalle quali
è strappata a forza, mentre musici, suonatori e portatori di torce formano
un corteo, per accompagnarla alla casa dello sposo. Lungo il tragitto sarà
scortata da Domiduca e Iterduca, divinità preposte a condurla verso la nuova
dimora; appena giunta, Domitius la tratterrà e Manturna e altri numi la
renderanno docile nei confronti del marito. Lo stesso flammeum ha una
valenza simbolica, perché rappresenta la rinuncia alla libertà e la
reclusione fra le pareti domestiche.
Il dato testuale, che colpisce l'attenzione degli allievi, è la ricorrenza
della tematica riguardante il possesso maschile in riferimento alla femmina,
sempre stigmatizzata, soprattutto nelle massime, dalla paura di insidiosi
rivali. "Maximo periculo custoditur quod multis placet" (Publilio Siro,
Sententiae, 18).
Si tratta di una suggestione latente anche nell'immaginazione delle
giovanissime alunne che suscita fantasie riposte e accende emozioni
improvvise, curiosità legate alla rievocazione della civiltà antica,
recepita secondo una possibile chiave di lettura consonante.
Le ragioni del divorzio
Un altro aspetto delle consuetudini romane che colpisce l'attenzione delle
studentesse è relativo alle motivazioni che riguardano il ripudio della
donna, un comportamento diffusosi tardivamente in età repubblicana e assai
spesso biasimato, anche quando la motivazione addotta dall'uomo concerne la
sterilità della donna e dunque un pur legittimo desiderio di prole:
"Repudium inter uxorem et virum a condita Urbe usque ad vicesimo et
quingentesimum annum nullum intercessit.Primus autem Sp. Carvilius uxorem
sterilitatis causa dimisit. Qui, quamquam tolerabili ratione motus
videbatur, reprehensione tamen non caruit, quia ne cupiditate quidem
liberorum coniugali fidei praeponi debuisse arbitrabantur" (Valerio Massimo,
Factorum ac dictorum memorabilium, II).
Spesso la donna viene ripudiata prima ancora che abbia commesso un vero e
proprio adulterio: è sufficiente che compaia in pubblico a capo scoperto,
evidentemente, secondo il rigoroso punto di vista del marito, per attrarre
gli sguardi maschili: "Horridum C. Sulpicii Galli maritale supercilium. Nam
uxorem dimisit quod eam capite aperto foris versatam cognoverat". Oppure
basta che la consorte sia colta in flagrante, mentre parla con una liberta
di dubbia morale: "ut potius caveret iniuriam quam vindicaret"... meglio
prevenire l'offesa che vendicarla, commenta Valerio Massimo!
Sottrazione delle chiavi di cantina: anche questa manchevolezza, valevole
affinché un uomo pretenda e ottenga un immediato divorzio, implica alcune
osservazioni e ampliamenti, alla scoperta delle motivazioni che riguardano
norme di comportamento e principi morali. Infatti, nel mondo antico,
l'ebbrezza femminile è demonizzata non solo in quanto indice di corruttela
dei costumi, ma altresì perché l'assunzione del temetum, vino puro, è
collegabile alle pratiche sacrificali in onore degli dei. In tal senso il
divieto si sposta dal piano antropologico quotidiano all'ambito della
emarginazione religiosa.
"Ecastor lege dura vivont mulieres / multoque iniquiore miserae quam viri"
(Plauto, Mercator, 817-818). La battuta pronunciata da Sira, nella commedia
Plautina, sottolinea la disparità della legge a tutto vantaggio dell'uomo
che, peraltro, può tradire impunemente la moglie.
L'eventualità che la normativa giuridica stabilisca regole uguali per tutti
è ritenuta una speranza irrealizzabile, come evidenzia il ricorso al
congiuntivo imperfetto proferito da Sira in un'altra battuta: "Utinam lex
esset eadem quae uxori est viro" (Plauto, Mercator, 823).
D'altra parte, lo stereotipo della moglie invadente e assillante, delineato
secondo il punto di vista maschile, ricorre in molte scene teatrali e nelle
satire, pertanto nei generi testuali che accolgono le istanze
dell'iperrealismo quotidiano. Ad esempio, Giovenale dissuade gli amici dal
contrarre matrimonio, fornisce una casistica dettagliata relativa ai fastidi
procurati dalle consorti e mette in risalto le molestie derivanti
specialmente da una moglie intellettuale, saccente e verbosa al punto da
zittire persino i professionisti della parola: "Cedunt grammatici vincuntur
rhetores omnis / turba tacet..."(Satirae,VI, 438-439). E l'opinione non
sembra essere isolata, se anche Marziale si augura di incontrare come
compagna di vita una "...non doctissima coniux" (Epigrammata, II, 90).
Una donna chiamata moglie
Dalla parola aulica coniux, alla più usuale uxor, l'asse paradigmatico,
riferito all' Io femminile in rapporto al Tu maschile, si presta alla
varietà dei registri comunicativi e delle sfumature semantiche: coniuga,
nupta, nuptula, sponsa...
Esaminando i testi latini, gli allievi prendono nota dei termini, ne
studiano l'evoluzione in senso diacronico, grazie alla consultazione di
alcuni repertori etimologici, e stabiliscono campi lessicali fra i vocaboli
stessi.
Analizzando, ad esempio, il significato delle due parole comprese nel nome
Viriplaca, la dea che ricomponeva le liti fra coniugi, inferiscono la
supremazia dell'uomo sulla donna, indubitabilmente sanzionato anche durante
una cerimonia di riappacificazione come quella descritta da Valerio Massimo:
"Quotiens vero inter virum et uxorem aliquid iurgi intercesserat, in
sacellum deae Viriplacae, quod est in Palatio, veniebant, et ibi invicem
locuti quae voluerant contentione animorum deposita concordes revertebantur.
Dea nomen hoc a placandis viris fertur adsecuta, veneranda quidem et nescio
an praecipuis et exquisitis sacrificiis colenda utpote cotidianae et
domesticae pacis custos, in pari iugo caritatis ipsa sui appellatione
virorum maiestati debitum a feminis reddens honorem" (Factorum et dictorum
memorabilium, II, 1, 6).
Il vagheggiamento di una donna dotata di obbedienza, obsequio raro, fedele
ad un solo uomo, univira, e al contempo operosa, poiché "domum servavit
lanam fecit", si coglie nelle rievocazioni muliebri descritte dalle epigrafi
sepolcrali. La ricorrenza delle parole, selezionate secondo un intendimento
celebrativo, descrive l'immagine femminile in base a un canone ideale,
perciò consono alle aspettative maschili. Peraltro l'esistenza terrena di
queste mogli esemplari si esaurisce nel giro di pochi lustri: giudicate
idonee all'unione a partire dai dodici anni, raggiungono infatti
eccezionalmente i quarant'anni di vita.
Il Corpus Inscriptionum latinarum (C.I.L.) ci riporta, tra le altre, la
memoria di Claudia, una signora vissuta nel I sec. a.C. e appartenente alla
classe aristocratica:
Hospes quod dico paulum est adsta ac perlege.
Hic est sepulcrum haud pulchrum pulchrae feminae.
Nomen parentes nominarunt Claudiam.
Suum maritum corde dilexit suo.
Natos duos creavit. Horum alterum
in terra liquit alium sub terra locat.
Sermone lepido tam autem incessu commodo.
Domum servavit lanam fecit. Dixi. Abi.
Nel caso di Claudia, si possono riscontrare due indizi di segno
antropologico che forniscono alla sua caratterizzazione una evidenza meno
convenzionale rispetto ai molti altri ritratti stereotipati dell'epigrafia
usuale: la conversazione brillante e l'incedere dignitoso.
L'epitaffio di Rusticeia ricostruisce invece l'arco di una esistenza
brevissima, conclusasi a 25 anni nel momento del parto:
Causa meae mortis partus fatumque malignum.
Sed tu desine flere mihi carissime coniux
et fili nostri serva communis amorem.
Nam meus ad caeli transivit spiritus astra.
In modo struggente si rivela una premurosa tensione affettiva, quale
proiezione del dolore del marito che ha dedicato alla giovane defunta
l'epigrafe e che immagina un estremo colloquio con la propria amata.
Le altre donne: paelices e scorta
L'avveduta morigeratezza delle coniugate lascia comunque spazio ad un'altra
figura femminile: la paelex, ossia la donna che convive abitualmente con un
uomo il quale, a sua volta, ha giuridicamente dominio sulla propria sposa in
virtù del vincolo matrimoniale.
La parola paelex, come ci informa Aulo Gellio, possiede una connotazione
infamante. Dato il suo ruolo di concubina, le sono preclusi i luoghi sacri,
infatti, in base ad una legge tradizionalmente attribuita al re Numa, ella
non può toccare il tempio di Giunone e, nel caso l'abbia fatto, deve
sacrificare un'agnella alla dea: "Paelex aedem Iunonis ne tangito si tangit
Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito" (Aulo Gellio, Noctes
Atticae, IV,3,3).
Tra le fonti che stigmatizzano il comportamento femminile, si ricontra anche
una testimonianza che fornisce una riflessione adatta agli uomini che
dissipano il loro tempo nei piaceri carnali in compagnia di scorta, ossia di
prostitute. "Omnis illis speratae rei longa dilatio est" per tali uomini il
tempo che intercorre tra un piacere e l'altro è una lunga dilazione,
commenta Seneca, e invece il tempo dell'amore è brevissimo, perché non sanno
gioire di nulla "at illud tempus quod amant breve est et praeceps breviusque
multo suo vitio; aliunde enim alio transfugiunt et consistere in una
cupiditate non possunt. Non sunt illis longi dies sed invisi; at contra quam
exiguae noctes videntur, quas in complexu scortorum aut vino exigunt!"(De
brevitate vitae, XVI, 4).
IL DIVORZIO
Secondo Plutarco, Romolo praticamente non permetteva mai alle donne di
divorziare, mentre lo permetteva ai mariti in taluni casi: tentato
avvelenamento, uso di chiavi false, adulterio. Chi la ripudiava per altri
motivi, avrebbe perduto i suoi beni, dei quali la metà sarebbero stati
assegnati alla donna e metà al tempio di Cerere.
Quanto a colui che avesse venduto la propria consorte, gli si augurava di
finire all'inferno (sic!).
Fin dall'epoca repubblicana la fanciulla poteva uscire a capo scoperto, ma
gli uomini potevano divorziare da una donna sposata che non copriva il capo
con un velo o con un lembo del mantello: lo fece p.es. Gaio Sulpicio Galba.
Anche se partecipava ai giochi del circo poteva essere cacciata e costretta
al divorzio (lo racconta Valerio Massimo nelle sue Storie).
Plinio il Vecchio racconta, nella sua Storia naturale, che la moglie di
Egnazio Metenno fu uccisa a frustate dal marito semplicemente perché aveva
bevuto del vino dalla botte, mentre un'altra fu lasciata morire di fame
perché aveva forzato la cassetta ove erano le chiavi della cantina. La legge
non puniva questo tipo di omicidi. Di regola un marito che sorprendeva la
donna a bere, la cacciava di casa tenendosi la dote ricevuta all'atto del
matrimonio.
Il ripudio, che sotto il tardo impero cristiano verrà ammesso solo nei casi
di adulterio, omicidio, maleficio e avvelenamento del coniuge, in tutta
l'epoca classica era invece possibile in ogni momento. Bastava recapitare al
coniuge un biglietto con su scritto tuas res tibi habeto ("riprenditi quello
che è tuo") ed è tutto finito.
Se il divorzio era la possibilità di sciogliere il matrimonio per potersi
risposare, il ripudio invece poteva avvenire per ragioni molto meno gravi,
che passavano sotto la vaga formula di "comportamento perverso e
disgustoso". Lo Stato cercherà tuttavia, col tempo, di porre un freno
minacciando la perdita dei beni.
Le seconde nozze comunque non incontrano, in epoca repubblicana, il favore
dell'opinione pubblica e sulle epigrafi sepolcrali si legge per lungo tempo
il titolo di onore di univira, donna che ha avuto un solo marito, ad
evidenziare una vera virtù femminile.
In epoca imperiale le cose cambiano notevolmente. Se viene a mancare uno
soltanto di questi due elementi: la materiale convivenza degli sposi e
l'affectio maritalis, il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie,
che compare accanto alla semplice traditio da una famiglia all'altra, il
matrimonio si scioglie, specie se vi è la cessazione della volontà di
convivere da parte di entrambi i coniugi. Le pene pecuniarie introdotte dal
regime augusteo per arginare il fenomeno del "divorzio facile" servirono a
ben poco.
Il fatto che in epoca imperiale fosse diventato più facile divorziare non
incentivava affatto i matrimoni, anzi aumentava i motivi per non sposarsi e
per non avere figli.
Augusto consentì addirittura a tutti i romani di famiglia non senatoria di
sposare le liberte, e i matrimoni de facto dei soldati vennero legalizzati e
ai loro figli concessi i diritti civili.
LA PROCREAZIONE ED ASSISTENZA
Nella civiltà romana, dove la patria potestas era più che altrove
illimitata, abbastanza facilmente gli uomini potevano liberarsi dei figli
indesiderati. Era sufficiente non riconoscerli e abbandonarli.
A tale proposito, lo storico Dionigi di Alicarnasso cita una legge secondo
cui il padre deve riconoscere "almeno" la figlia primogenita. Ciò ad evitare
l'eccessivo abbandono (esposizione) di neonate di sesso femminile (come
d'altronde quello dei neonati illegittimi) presso la pubblica via, dove
potevano morire di fame e di freddo, a meno che non venissero raccolti da
qualche mano pietosa, se non interessata (il neonato esposto non può essere
adottato, ma un mercante di schiavi può venderlo). Quest'uso, praticato da
ricchi e poveri, durerà più di mille anni.
La sterilità era comunque considerata una grave disgrazia. Ma il parto
rappresentava un rischio mortale per tutte le classi sociali. Muore di parto
o per le sue conseguenze il 5-10% delle partorienti. Levatrici e medici non
hanno mai la certezza di poter risolvere il parto positivamente.
Si sa che l'ampiezza del bacino di donne, spesso giunte ancora impuberi alle
nozze, influisce sull'esito del parto. Nelle famiglie agiate, su consiglio
del medico Sorano, la nutrice o la madre fasciano spalle e petto alle
spose-bambine e lasciano libere le anche per ottenere un bacino più ampio.
Per le conseguenze negative del parto Cicerone vede morire sua figlia
Tullia.
La donna romana, specialmente quella di classe sociale più elevata, comincia
a rifiutare la prole a fine repubblica. Cicerone chiederà addirittura di
proibire il celibato. E Augusto, alla fine del primo secolo, constatata una
forte contrazione nelle nascite, incentiva nozze e natalità e promette alle
donne maritate la liberazione da ogni tipo di tutela alla morte del padre,
purché siano portate a termine almeno tre gravidanze. Al contrario la donna
che tra i 18 ed i 50 anni risultasse ancora nubile non potrà ricevere
eredità.
Bisogna dunque tentare almeno tre gravidanze, altrimenti, in forza delle
leggi augustee, ogni lascito ereditario finisce in mano ai parenti paterni o
allo Stato e si resta per tutta la vita sotto l'amministrazione di un
tutore.
Limitare le nascite, specie nelle classi più elevate, diventa il principale
obiettivo della ricca matrona, che è riuscita a portare a termine le tre
gravidanze. La matrona può fare anche uso di pozioni contraccettive ed
abortive, che impiegano ingredienti rischiosi come la ruta, l'ellèboro,
l'artemisia (in epoca repubblicana s'ingerivano sostanze, anch'esse nocive
alla salute, nella speranza di ottenere più facilmente la gravidanza).
Se la matrona vuole abortire in segreto deve fare attenzione perché, sin
dall'epoca delle XII Tavole, la decisione sull'aborto spetta al futuro
padre, che la può anche ripudiare per avergli sottratto il partum.
I medici si rifiutano di assistere aborti, che possono nascondere un
adulterio, di cui essi diverrebbero complici, subendo le stesse pene
previste per gli amanti.
Può accadere che la donna muoia per effetto della pratica abortiva. Se ciò
avviene per un intervento chirurgico fallito, contro il medico c'è l'accusa
di omicidio, se è per una pozione l'accusa è di avvelenamento. In ogni caso
l'aborto non è punito in sé, ma solo se procura la morte della donna.
Le classi superiori provvedono a limitare le nascite anche con la
continenza. La matrona che vive nella continenza viene ammirata ed
approvata.
La limitazione delle nascite dipese anche dal fatto che si faceva
coincidere, sulla scia di Platone e Aristotele, la miseria con la
sovrappopolazione. Il primo proponeva di non nutrire i bambini deboli o i
figli di genitori troppo vecchi o malsani o di scarso valore morale. Non
ammetteva il diritto di procreare prima dei 37 anni e dopo i 55 per gli
uomini; non accettava più di un determinato numero di figli per famiglia,
consigliava gli aborti e l'abbandono dei bambini deboli o deformi. Il
secondo si era limitato a proporre il matrimonio in tarda età, la volontaria
sterilità e la pratica abortiva.
L'ADULTERIO ED IL CONCUBINATO NELL'ANTICA ROMA
Nella Roma arcaica l'adulterio era considerato reato solo se veniva commesso
dalla donna, e veniva punito in modo più severo della vicina Grecia. Era
addirittura prevista la pena di morte se il pater familias lo riteneva
necessario.
Le donne ufficialmente dichiarate adultere, come le donne di rango inferiore
(le lavoranti nei circhi, nei teatri, nella prostituzione), vengono private
a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della
facoltà di trasmettere pieni diritti civili.
Eppure nell'antica Roma c'era un notevole permissivismo per le relazioni
sessuali con prostitute: un rimedio che lo stesso Cicerone consigliava
affinché i giovani non cercassero di "godersi le mogli degli altri".
Naturalmente si pretendeva che le ragazze arrivassero vergini al matrimonio.
Una cosiddetta donna di "facili costumi", se non ha solo occasionali
rapporti con il marito della matrona (un romano libero non è mai colpevole
di adulterio), può ufficialmente convivere in famiglia come concubina.
Il concubinato, importato con molte modifiche da Atene, diviene un istituto
tipicamente romano. E' sulle concubine che, ad un certo punto della storia
romana, possono essere fatti gravare i rischi del parto, evitati alle spose
ufficiali, protette dal sistema sociale.
La matrona non ha difficoltà ad accettare le relazioni del marito con
schiave o donne non rispettabili. Secondo quanto riferisce Svetonio, era la
stessa moglie che forniva ad Augusto donne del genere.
Quando le orde dei barbari, sfondati i confini, dilagheranno in tutto il
mondo romano occidentale, troveranno già molto diffusa la pia donna
cristiana, una donna che forse somiglia di più alla donna-domus dei tempi
arcaici.
LA PROSTITUZIONE
La prostituzione a Pompei è una delle poche occupazioni pubbliche riservate
alle donne, le quali sono, in questo caso, quasi sempre schiave di origine
orientale.
Il lavoro si svolge in postriboli (lupanares) che a Pompei sono oltre la
ventina, posti preferibilmente presso i crocicchi di strade secondarie.
Essi sono caraterizzati da piccole celle munite di un letto in muratura e di
una porticina di legno sopra la quale è spesso dipinta una scenetta erotica,
indicativa del tipo di prestazione offerta.
La tariffa media (10-15 assi), che va tutta al tenutario (il quale paga una
tassa giornaliera pari a una tariffa) corrisponde al prezzo di due porzioni
di vino.
Le ragazze, che i proprietari acquistano per un prezzo pari a circa 750
volte la tariffa media di una prestazione, hanno nomi d'arte.
I clienti sono generalmente affezionati e grafomani (hic ego puellas multas
futui).
EMANCIPAZIONE DELLE DONNE ROMANE
La sicurezza, la stabilità e l'ordine interno della società civile, che si
verificano dopo la fine delle guerre puniche e civili, rendono il ruolo
protettivo del marito romano largamente superfluo. Nel più sicuro ed
opulento ambiente sociale, già ben visibile nell'età ciceroniana (85 - 31
a.C.), di protettivo è rimasto solo il materno ed insostituibile ruolo
femminile.
Il ruolo della materfamilias tende inevitabilmente a rafforzarsi e la donna
comincia a partecipare alla vita sociale e intellettuale.
In epoca imperiale, attraverso l'istituto della coemptio fiduciae causa, le
donne potevano sostituire il tutor legittimo con uno di loro fiducia: questi
era un semplice prestanome e permetteva loro di disporre dei propri beni e
di se stesse come meglio credevano.
Altra conquista giuridicamente rilevante, già presente in epoca
repubblicana, fu il riconoscimento della parentela anche in linea femminile.
Se in un primo tempo il rapporto fra madre e figlio non aveva alcuna
rilevanza giuridica, in seguito a questo intervento fu concesso ad alcune
donne di avere persino la tutela dei propri figli, nel caso di padre
indegno.
Ora, se è benestante, per governare la domus le basta dare poche direttive
alla servitù. Quanto ai figli la matrona ricca ne affida l'educazione al
pedagogo di casa; la povera invece li manda alla scuola pubblica, dove
vengono formati da magistri sottopagati.
A volte sole, a volte con il marito o con un'amica vanno alle terme, dove
prendono il bagno in piena promiscuità con gli uomini, finché nel II sec.
d.C. l'imperatore Adriano interviene a frenare comportamenti eccessivamente
disinvolti e separa ambienti ed orari di donne e uomini.
Nelle immagini pervenute e nelle fonti letterarie non si vede mai una donna
tra quelli che a prima mattina devono correre a porgere l'obsequium, il
deferente saluto ai potenti, né tra la povera gente che, tessera annonaria
alla mano, si presenta nei luoghi di distribuzione gratuita di generi
alimentari. Sono cose che fanno gli uomini, i quali fanno anche la spesa. Si
vedono invece donne alla fullonica (tintoria), che si fanno restituire la
biancheria, dal calzolaio, dal sarto.
Quanto all'impegno politico bisogna considerare che l'unico imperatore che
permise a una donna, sua madre, di entrare in senato per svolgere mansioni
tradizionalmente riservate agli uomini, fu Eliogabalo.
Questo ovviamente non significa che importanti donne romane non
parteciparono, seppure indirettamente, alla politica: sono ben note le
vicende legate ai nomi di Valeria Messalina, Agrippina Maggiore, Giulia
Agrippina, Sabina Poppea, Pompea Plotina, ecc. (leggi la scheda su Livia
Drusilla Claudia).
L'emancipazione sociale, morale e politica d'altra parte è direttamente
collegata a quella economica: solo tardivamente la legislazione autorizza la
donna romana a trattenere per sé tutta la sua proprietà (a eccezione della
dote che passa al coniuge), a essere padrona dei beni ereditati e a
conservarli in caso di divorzio.
Tutto ciò però non le permetterà mai di acquisire dei veri diritti politici.
Nell'epoca di massima conquista delle libertà femminili a Roma era forte
l'influsso delle religioni egiziane, e venivano largamente praticati riti
sacri ad Iside e ad altre divinità importate dall'antico Egitto. Nella
religione egiziana, infatti, la figura della donna appare sempre e
costantemente collegata a quella di grande madre di tutti gli esseri viventi
e di grande sposa. Alla natura femminile si riconosceva l'origine della
vita, la sua tutela ed il suo armonioso sviluppo.
Molti storici, di allora e di oggi, fanno coincidere il decadere
dell'istituto familiare, la crisi dei valori sociali e familiari con
l'emancipazione femminile e con l'istituto del divorzio, senza rendersi
conto che con questa emancipazione le donne chiedevano semplicemente di
poter avere gli stessi diritti degli uomini.
DONNE NELL'ANTICA ROMA
Provare a decifrare di più di quanto la letteratura non abbia mai
tramandato: è forse questa velleità a spostare l'attenzione dell'interprete
contemporaneo su aspetti della vita comune della società romana classica. Lo
sguardo insegue allora l'immagine di una donna in molti dei suoi possibili
ruoli, oscillanti tra precetti e proibizioni, simboli naturali e riti del
tempo sacro.
A partire dunque dal piano concreto e quotidiano del soddisfacimento delle
esigenze primarie, le fonti scritte registrano classificazioni rigorose e
precise in merito ai cibi che la donna ha il compito di conservare, come la
frutta e le uova, e specifici divieti riguardanti la preparazione di alcuni
alimenti, quale la macellazione e la macinazione della carne, in quanto
pratiche correlate alle mansioni sacrificali di spettanza maschile.
La cura del focolare domestico e della casa in genere lasciano immaginare
una domina assai impegnata, nello svolgimento delle proprie mansioni, in
modo da evitare il più possibile la frequentazione e la consuetudine con
altre rappresentanti del gentil sesso.
L'elenco dei doveri muliebri ricordati da Catone sembra abbastanza oneroso e
cospicuo di per sé, tanto da pregiudicare ogni eccesso in materia di svago.
Tuttavia, tra le norme comportamentali, è vivamente raccomandata la pratica
di limitare il numero di visite da parte di altre donne: "Vicinas aliasque
mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat" (De agri
cultura, 143, 5). Luxuriosa e ambulatrix, ossia il fatto di essere amante
del lusso e degli spostamenti, costituiscono peraltro i parametri definitori
della cattiva moglie.
Esiste comunque una categoria di donne le cui mansioni hanno maggiori
affinità con i privilegi sacrali maschili: si tratta delle sei vergini
Vestali, incaricate di sorvegliare il fuoco del focolare pubblico,
conservato nel santuario di Vesta, e di preparare la mola salsa, da spargere
sugli animali destinati al sacrificio.
La mola salsa è un composto di farina di farro, ottenuta da spighe raccolte
in maggio e dunque ancora impregnate di energia primiziale, mescolata a
muries.
La muries consiste invece nell' impasto di sale e acqua di fonte perenne,
posto a cuocere in una pentola d'argilla, sigillata con il gesso: "[.] fit
ex sali sordido, in pila pisato, et in ollam fictilem coniecto, ibique
operto gypsatoque et in furno percocto, cui virgines vestales serra ferrea
secto et in seriam coniecto, quae est intus in aede Vestae in penu
exteriore, aquam iugem, vel quamlibet, praeterquam quae per fistulas venit,
addunt, atque ea demum in sacrificiis utuntur" (Sesto Pompeo Festo, De
significatu verborum).
Fuoco, acqua perenne e spighe sono in stretta analogia con la condizione di
purezza serbata dalle Vestali. Il loro stato verginale vale infatti a
purificare simbolicamente tutte le colpe della popolazione e catalizza in
questo modo la benevolenza divina e il successo per i maschi della città. Il
ruolo delle Vestali attesta dunque una funzione femminile essenziale e
necessaria per la potenza di Roma.
Peraltro anche due importanti cariche religiose maschili paiono associate
alla indispensabile presenza di una consorte coadiutrice: si tratta del
flamen dialis e del rex sacrificulus, assistiti rispettivamente dalla
flaminica e dalla regina sacrorum. In caso di morte della sposa, il flamen
decade infatti dal proprio incarico (cfr. Aulo Gellio, Noctes Atticae, 10,
15, 23).
Nell'immaginario culturale romano anche la donna, al pari dell'uomo, svolge
un ruolo fondamentale e decisivo per descrivere e trasfigurare in chiave
mitica gli eventi del passato storico.
Come hanno diffusamente dimostrato gli studi di antropologia culturale, il
paradigma dell'eroe ha una funzione preminente nella conservazione e nella
tutela di valori fondamentali per la stabilità e l'equilibrio di ogni
aggregazione umana. Fides, auctoritas e pietas, ossia i principi basilari
del patto sociale romano, sono dunque variamente riconfermati attraverso le
fisionomie e i comportamenti di uomini eccellenti, protagonisti dei miti
delle origini o delle vicende storico-politiche documentate dagli autori
classici.
In questo culto dell'immagine esemplare, la figura femminile gioca spesso il
ruolo di controparte, allorché l'identità maschile assume valenze negative o
contraddittorie rispetto al canone ideale. Il modello muliebre diviene
allora, a pieno titolo, vicariante dell'eroe e in tale sovvertimento dei
compiti si sfumano le qualità precipue, dettate dal sesso di appartenenza,
per cedere il posto ad una gamma di tratti e specifiche connotazioni virili,
che si esplicano in manifestazioni di coraggio e sprezzo del pericolo.
È quanto si rileva, ad esempio, leggendo il discorso che Plutarco fa
pronunciare alla madre di Coriolano, allorché una delegazione di donne la
supplica d'intercedere presso il figlio, affinché ponga fine alla guerra
contro Roma: "Ma il nostro strazio maggiore procede dal vedere la nostra
patria così debole e sgomenta da essersi ridotta a fondare su noi le proprie
speranze. [.] Se non potremo fare altro, sapremo almeno morire nell'atto
d'implorare per la patria" (Da Marzio Coriolano, XXXIII, in Le vite
parallele, trad. A.Ribera, Sansoni, Firenze 1974).
Coltivare i connotati fisici di un carattere virile era peraltro uno degli
obiettivi perseguiti nell'educazione delle bambine di buona famiglia, come
ancora ci attesta Claudio Galeno ai tempi dell'imperatore Marco Aurelio.
Alcuni autori, ad esempio Jean Gaudemet, ipotizzano un ruolo importante per
la mulier e addirittura una sorta di parità nei confronti del marito, come
comproverebbero certe iscrizioni funerarie, tra le quali la più famosa è
senza dubbio la cosiddetta Laudatio quae dicitur Turiae, riportata in Fontes
iuris romani anteiustiniani.
Il marito di Turia elogia il comportamento della propria compagna, che si è
rivelata certa, ossia fedele, fidata e determinata durante i 41 anni di
matrimonio, e che ha venduto tutti i propri gioielli per salvare il
consorte, in un momento di persecuzione politica. Egli ha rifiutato di
ripudiarla, benché ella stessa, essendo sterile, avesse incoraggiato
l'unione dell'amato con un'altra sposa.
Peraltro nei tempi antichi, l'usanza di cambiare o addirittura scambiare le
mogli doveva essere assai diffusa, se persino Catone Uticense cedette
all'amico Ortensio, l'adorata Marzia, per poi riprenderla alla morte di
costui (Strabone, Geografia, XI, 9, 1).
Le leggi di Romolo prevedevano che la donna non potesse abbandonare il
marito, ma che il coniuge potesse invece ripudiarla, nel caso in cui ella
avesse avvelenato i figli, taciuto una gravidanza o commesso adulterio (Cfr.
Plutarco, Romolo, XXII).
Qualora poi le mogli avessero ucciso i propri uomini, i congiunti
provvedevano a strangolarle, senza nemmeno attendere il processo: un'inutile
perdita di tempo, data l'evidenza della colpa e l'efferatezza del delitto.
In età repubblicana la dimestichezza con la preparazione di pozioni tossiche
non dovette essere un'attitudine saltuaria, in cui si cimentavano annoiate
signore della società bene alle prese con insopportabili compagni, ma
piuttosto un'anomala rivendicazione di potere alternativo, talvolta non
esente da un'impronta di rivolta contro la maggioranza politica.
Durante il consolato di Marco Claudio Marcello e Tito Valerio, nel 331 a.C.,
molti importanti cittadini morirono, per cause che furono attribuite non
solo a una terribile pestilenza, ma specialmente all'avvelenamento causato
da un complotto di donne, poi denunciate da una ancella: "Tum patefactum
muliebri fraude civitatem premi matronasque ea venena coquere et, si sequi
extemplo velint, manifesto deprehendi posse. [7] Secuti indicem et coquentes
quasdam medicamenta et recondita alia invenerunt" (Livio, Ab urbe condita,
VIII, 18).
Nelle case di venti patrizie furono infatti trovate presunte pozioni
salutari. Tuttavia, appena le nobildonne furono costrette a berle, perirono
immediatamente. Le denunce cominciarono a moltiplicarsi e ben centosettanta
matrone furono condannate a morte, quantunque fossero giudicate alla stregua
di folli e non di vere e proprie criminali: "Prodigii ea res loco habita
captisque magis mentibus quam consceleratis similis visa..." (Livio, ib.).
La labilità del carattere femminile è del resto un topos ricorrente di molta
poesia satirica, che indulge nell'indecente rappresentazione dell'ebbrezza
con ovvii rimandi allo stilema della menade.
Per le donne, la proibizione di bere vino risale alla dimensione leggendaria
del Lazio, in un'epoca addirittura antecedente alla fondazione di Roma. Re
Fauno ha sorpreso ubriaca la propria moglie Fauna e la punisce fustigandola
a morte con rami di mirto; tuttavia, placatosi il suo grande furore, non può
fare a meno di avvertire un grande desiderio di lei, perciò in suo onore
istituisce sacri riti, durante i quali è offerta un'anfora coperta da un
velo: ".quae quia contra morem decusque regium clam vini ollam ebiberat et
ebria facta est, virgis myrteis a viro ad mortem usque caesam; postea vero
cum eum facti sui poeniteret ac desiderium eius ferre non posset, divinum
illi honorem detulisse; idcirco in sacris eius obvolutam vini amphoram poni"
(Lattanzio, Divinae Institutiones, I, 22, 11).
Pertanto nel tempo mitico si collocano i parametri del divieto e della
concessione nei confronti della bevanda sacra: Fauna assurge al ruolo di
Bona Dea e le sacerdotesse addette al suo culto conservano nel tempio un
vino che è chiamato latte, in uno speciale recipiente denominato vaso da
miele: ".quod vinum in templum eius non suo nomine soleat inferri, sed vas
in quo vinum inditum est mellarium nominetur et vinum lac noncupetur"
(Macrobio, Saturnaliorum convivia, I, 12, 25).
Annessa al santuario è una sorta di farmacia, dove le sacerdotesse
trasformano le erbe medicinali: gli uomini sono esclusi, in base ad una
proibizione che ricollega al mito greco di Medea i riti dedicati alla Bona
Dea, protettrice delle donne (gunaikeia). In questo luogo, la stessa
presenza di serpenti, associati ai riti terapeutici della fecondità, esalta
e qualifica il ruolo della indiscussa signoria femminile.
L'onomastica divina riassume le qualità della Madre Terra: Bona e Fauna, in
quanto produce gli alimenti per gli esseri umani e li favorisce in tutte le
loro necessità; Ope, perché per opera sua la vita sussiste, e Fatua,
appellativo deverbale riferibile a fari, che suggestivamente allude alla
capacità di vagire acquisita dai bimbi appena hanno "toccato terra": "Fatuam
a fando quod, ut supra diximus, infantes partu editi non prius vocem edunt
quam attigerint terram" (Macrobio, ib.).
Nel calendario romano compaiono altre feste officiate dalle donne, p.es., in
coincidenza con il primo di aprile, le cerimonie dedicate a Venere
Verticordia e a Fortuna Virile. In tale occasione madri e nuore del Lazio
tolgono le collane d'oro al simulacro della dea e lavano la sua statua di
marmo.
Successivamente anch'esse s'immergono in un bagno purificante; ma la loro
nudità mette in luce ogni difetto della persona; pertanto bruciano incenso e
levano preghiere in onore di Fortuna Virile, affinché siano aiutate a
nascondere ai propri mariti le imperfezioni del corpo: "Accipit ille locus
posito velamine cunctas / et vitium nudi corporis omne videt / ut tegat hoc
celetque viros, Fortuna Virilis / praestat et hoc parvo ture rogata facit"
(Ovidio, Fasti, IV, vv.147-150).
Il rito possiede un'indubbia connotazione riferibile a finalità seduttive, è
quasi una sorta di preliminare amoroso che rinnova, anno dopo anno, per le
maritate, la tensione dell'evento nuziale già consumato in precedenza.
Peraltro l'assunzione di una bevanda sedativa, identica a quella bevuta da
Venere prima di congiungersi allo sposo, composta di latte, miele e semi di
papavero, traspone analogicamente il senso dell'unione coniugale in una
prospettiva significante, atta a risvegliare le qualità della dea in ogni
donna.
Durante le feste femminili, si svolgono sacrifici non cruenti: è il caso
dell'offerta di latte di fico in concomitanza con le Nonae Caprotinae, il 7
di luglio, in onore di Giunone. La cerimonia risale agli antichi riti
mediterranei della fecondità e pertanto coinvolge all'unisono le donne
libere e le schiave.
Ed è proprio a proposito di quest'ultime che la leggenda fa risalire la
suggestiva dedica di tale rito, ossia alla fine della guerra contro i Galli,
allorché le popolazioni confinanti, intenzionate a invadere Roma, chiesero
in ostaggio al senato le madri e le vergini.
Fu allora che una schiava, di nome Tutela o Filotide, propose di recarsi
dagli avversari, con altre sue compagne, fingendo di essere una donna
libera. Giunte all'accampamento nemico, le coraggiose ancelle eccitarono gli
uomini a bere, al punto da farli ubriacare; subito dopo, ad un segnale
convenuto, che, come vuole la tradizione, fu trasmesso presso un albero di
fico, i soldati romani fecero irruzione ed ebbero la meglio. Lo stesso
Macrobio, nel riferire la vicenda, sottolinea la portata eroica
dell'ancillarum factum, non riscontrabile in ulla nobilitate (Saturnaliorum
convivia, I, 2, 35).
Tra presenza e marginalità, non sembra comunque lecito descrivere il modello
femminile romano in chiave completamente autonoma: passione, coraggio e
devozione muliebre acquistano la loro significanza nel rapporto
interpersonale con l'uomo, rispetto al quale la condizione della donna
assume, a vari gradi, il proprio carattere di indispensabilità.
LE VESTALI
Sacerdotesse della antichissima dea Vesta (corrispondente alla greca Estia),
la dea del focolare domestico, le Vestali, le custodivano il tempio sul
Foro, tenendo sempre acceso il fuoco, che secondo la leggenda era stato
acceso per la prima volta da Romolo, come simbolo dell'eternità dell'Urbe.
L'istituzione delle Vestali è anteriore alla stessa nascita di Roma, anche
se la leggenda le fa risalire all'epoca di Numa. Furono prima quattro, poi
sei, infine sette.
Venivano scelte dal Pontifex Maximus, suprema autorità religiosa di Roma,
tra fanciulle dai sei ai dieci anni. Il loro servizio durava 30 anni, di cui
dieci per la formazione, altri dieci per l'esercizio del ministero e gli
ultimi dieci come maestre delle novizie.
Come Vesta (intorno a cui non esistono racconti mitologici) dovevano
rimanere vergini e per distinguersi dalle altre donne portavano una speciale
acconciatura dei capelli e un velo bianco, suffibulum, che veniva assicurato
sul petto mediante una fibbia. Il pontefice massimo, che vigilava
sull'osservanza della verginità, aveva il potere di condannare a morte e far
seppellire viva la Vestale che avesse trasgredito al suo impegno, nel
"Campus Sceleratus" posto nei pressi di porta collina in una fossa, dotata
di un giaciglio, di una lanterna e di poco cibo. Chiusa la fossa, se ne
pareggiava il terreno per far sparire ogni traccia delle colpevoli. Anche il
seduttore era punito con una fustigazione cosi violenta che ne provocava la
morte.
Le Vestali non erano sottoposte alla patria potestas ed erano esonerate
dalla tutela, se si esclude ovviamente quella trentennale dello stesso
pontefice. Anzi le Vestali erano le sole donne romane che, fino all'età di
Augusto (63 a.C. - 14 d.C.), potessero esercitare i diritti civili, come
quello di fare testamento, senza l'autorizzazione del tutore (ovviamente non
potevano avere discendenza). Più tardi a questi privilegi poterono
partecipare le donne romane con tre figli e le liberte con quattro.
Le Vestali potevano avere il privilegio di graziare i condannati a morte.
Famose le leggende di Rea Silvia, Ilia enniana e Tullia.
Pare che producessero anche la mola salsa, cioè il farro salato.
ELISSA - DIDONE
La leggenda dell'infelice Elissa:
una contaminazione a più voci per un mito d'origine fenicia
La genesi dei personaggi del mito si realizza in un tempo identificabile con
approssimazione, per molti di loro non si azzarda neppure l'attribuzione di
una ipotetica cronologia d'origine, e le vicende che li vedono protagonisti
si amplificano nel corso dei secoli, offrendo spesso versioni discordanti.
Capita addirittura che un personaggio abbia facoltà di lagnarsi contro le
presunte menzogne di un poeta, simulatore di comportamenti non confacenti
all'autentico mitologema.
La bionda Didone deve certamente la propria fama alla sublime arte di
Virgilio, che ha dedicato alla regina cartaginese il IV libro dell'Eneide e
numerosi altri versi del poema; tuttavia la fisionomia dell'eroina ha
subito, ad opera della geniale inventiva artistica, una trasformazione
radicale lesiva di una proverbiale pudicizia. Contro l'invidiosa Musa
virgiliana si scaglia pertanto il risentimento di Didone; ne è portavoce
Ausonio, che latinizza un testo greco: "Invida cur in me stimulasti Musa
Maronem / fingeret ut nostrae damna pudicitiae?"
La storia della fenicia Elissa/Didone, fuggita da Tiro, dopo che il fratello
Pigmalione le ha ucciso il marito, si lega alla leggenda di fondazione di
Cartagine.
Un'antica etimologia - Didone significherebbe "donna virile" - attribuisce
peraltro al nome dell'eroina una valenza combattiva ben confacente a colei
che, profuga in terra straniera, ha ottenuto dagli indigeni il permesso di
occupare una porzione di terreno equivalente alla superficie delimitabile
mediante una pelle di bue. Agendo d'astuzia, l'intraprendente colonizzatrice
taglia la pelle in sottili strisce che le consentono di contrassegnare un
perimetro bastevole per la costruzione della nuova città: la punica Byrsa,
ovvero "pelle di bue".
Corteggiata da molti sovrani africani, per resistere alle insistenti
profferte di Iarba e non venire meno alla fedeltà nei confronti del marito
defunto, la regina si suicida e, secondo lo storico Giustino, diviene
pertanto una delle divinità del pantheon cartaginese. Molti dettagli
cultuali, pertinenti alla religione fenicia, appartengono infatti alla
leggenda tradizionale: il tabù che vieta le seconde nozze per le vedove e lo
stesso suicidio rituale, perpetrato mediante il fuoco, quasi una pratica
purificatoria a sostegno dei ritmi stagionali di fecondazione della terra.
Il poema di Virgilio, celebrativo dell'impero di Ottaviano Augusto e della
conseguente grandezza di Roma, opera in senso divergente rispetto alla
leggenda che suffraga la divinizzazione della casta Elissa e ciò non
stupisce, perché l'incursione nelle tradizioni culturali di un popolo
nemico, duramente combattuto e infine sottomesso a prezzo di secolari
sacrifici, fa parte di un'operazione politica assai sofisticata, ma non
inusuale.
Il patto di fedeltà coniugale perdurante oltre la morte, appannaggio di una
virtuosa donna cartaginese, cede al cospetto della magnanimità di un eroe
progenitore di quella gens Iulia, da cui l'imperatore stesso discende.
Virgilio elabora ogni dettaglio del carattere di Didone, esasperandone le
valenze umane e donandole una affettività disperata e totalizzante: il
personaggio commuove e risulta essere indimenticabile, eppure la sua
configurazione originaria appare usurpata.
La fama di pudicizia che inorgogliva la regina "elevandola fino alle stelle"
(Eneide, IV, 322), vero e proprio connotato divino, lascia il posto a
comportamenti furiosi confacenti ad una baccante, allorché la donna scopre
il "tradimento" dell'amante, in procinto di partire. "Saevit inops animi
totamque incensa per urbem / bacchatur [...]" (Eneide, IV, 300-301): questo
aggirarsi fuori di senno, per la città, si correla al tormento amoroso che
le ha dilaniato l'animo tra penosi conflitti prima della unione fatale.
Nella tormentata sequenza dedicata alla rivelazione dell'innamoramento, il
paragone con la cerva ferita da una freccia, l'ha infatti assimilata ad un
animale indifeso e braccato: "Uritur infelix Dido totaque vagatur / urbe
furens, qualis coniecta cerva sagitta" (Eneide, IV, 68-69).
Il lessico della passione ruota attorno ai campi semantici del fuoco
bruciante (uritur/incensa), che prefigura il suicidio conclusivo, e del
furor (bacchatur/furens), che trasporta sul piano infero lo statuto di una
eroina originariamente destinata alla dimensione siderea.
Tuttavia, pur nel capovolgimento del mito, è accaduta una sorta di
compensazione: la Didone virgiliana ha suscitato, nel corso dei secoli, una
sorta di trasporto empatico da parte di molti poeti, del quale l'altra
Didone, protagonista della leggenda punica, non sarebbe stata probabilmente
mai capace.
S. Agostino si commuove, mentre legge la sventurata sorte di Elissa (cfr.
Confessioni, XIII), benché a posteriori condanni l'umana debolezza che
induce il lettore a dedicare troppa commiserazione alla finzione letteraria
e poca verso le proprie peccaminose miserie.
Giacomo Leopardi, invaghito dalla intensità affettiva della regina, prova
addirittura una sorta di avversione nei confronti dell'eroe troiano: "ma
Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione parla così coperto, anzi
dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a
descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo anche rispetto a
Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa
passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si
congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone,
e sempre volgendosi alla sola Didone"(Zibaldone).
Il mitologema di Elissa modifica nel corso dei secoli il proprio tema di
fondo, acquisendo sfumature interpretative consone soprattutto alla
sensibilità individuale, di segno ben diverso a paragone della funzione
etica o sociale che punici e latini variamente gli attribuivano.
"Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; / Replica il mio le care tue
fattezze; / Nulla contengono di più i nostri occhi / E, disperato, il nostro
amore effimero / Eterno freme in vele d'un indugio" (La terra promessa,
VIII). Per Giuseppe Ungaretti, Didone è simbolo della memoria, di tutto ciò
che è incancellabile, in quanto accaduto, perché l'assenza, sottolineando il
distacco, mette in gioco la facoltà di rivivere incessantemente l'intensità
delle emozioni: "est une poétique de l'absence, elle est dans ce sens une
poétique de la mémoire". E dunque le "vele d'un indugio" valgono a dilatare
a dismisura anche gli attimi più brevi, giacché, come insegna lo stesso S.
Agostino, non v'è oggettiva corrispondenza tra tempo interiore e tempo
fisico.
Poetica dell'assenza e poetica della memoria stabiliscono la circolare
connessione interpretativa che rinnova ad ogni lettura la scoperta
dell'identità mitica: Didone rappresenta una sorta di alter ego simbolico
non solo per Ungaretti, ma per quanti, accostandosi all'invenzione
virgiliana, si sono rispecchiati in lei.
LIVIA DRUSILLA CLAUDIA
Figlia di Livio Claudiano, della nobile e antichissima famiglia Claudia che
fin dai tempi di Romolo aveva dato alla patria consoli, magistrati, generali
e statisti, Livia Drusilla era "Claudia" due volte: per nascita (58 a.C.) e
per matrimonio, avendo sposato il cugino Tiberio Druso Nerone.
Padre e marito erano ferventi repubblicani: Claudiano, partigiano di Bruto,
si era dato la morte dopo Filippi, e Tiberio, dopo aver partecipato alla
guerra di Perugia contro Ottaviano, era stato da questi proscritto. Durante
la sua fuga in Sicilia, Livia l'aveva seguito in esilio. Da lì i Claudi
erano riparati in Grecia e nei boschi presso Sparta.
Ottaviano invece viene da una stirpe oscura, da una modesta famiglia di
Velletri: i suoi rivali gli rinfacciano un nonno cambiavalute, un fornaio e
addirittura degli avi di origine servile.
Sua madre però è Azia, figlia di Balbo e di Giulia, unica sorella di Cesare.
E quest'ultimo indicherà proprio Ottaviano come suo erede universale
(politico ed economico) nel testamento. Quando Cesare viene assassinato,
Ottaviano aveva solo 19 anni.
Spalleggiato dai fedelissimi amici, Vispanio Agrippa e Mecenate, Ottaviano
riesce, dopo molti raggiri politici e scontri armati, ad affermarsi come
legittimo erede dello zio, di cui assume il nome.
Ottaviano era dunque nemico di Livia, ma nel 39 a.C. una tregua tra lui,
Antonio e Sesto Pompeo permetteva ai proscritti di rientrare a Roma.
Ottaviano voleva riconciliarsi con la classe aristocratica e forse per
dimostrare queste sue buone intenzioni decide di sposare Livia. Quando la
conosce, Livia era di nuovo incinta del primo marito ed era di sei anni più
giovane di lui. Ottaviano era già stato sposato tre volte e tutte per
ragioni politiche: con Servilia, con Clodia, figliastra di Marcantonio, e
infine con Scribonia. Livia ricambiò immediatamente le attenzioni di
Ottaviano, perché era una donna molto ambiziosa.
Ottaviano ripudia Scribonia proprio nel giorno in cui gli partorisce la
figlia Giulia e nel contempo chiede la mano di Livia a Tiberio Claudio,
quasi avesse a che fare col padre e non col marito. Tiberio concede il
divorzio e Ottaviano chiede al collegio dei pontefici di sposarla
immediatamente: era il 17 gennaio del 38.
Livia dà alla luce Druso, il suo secondogenito. Ottaviano lo riconosce come
cittadino romano, ma lo riconsegna al suo legittimo padre. Vuole figli
propri, ma Livia, dopo un aborto molto sofferto, non concepisce più.
Tuttavia Ottaviano, invece di separarsi da lei, rinuncia momentaneamente
alla posterità.
Ottaviano si fida ciecamente di Livia, si consulterà continuamente con lei,
giungendo persino ad affidarle il sigillo personale perché firmi a nome suo,
e le mette a disposizione 500 servi per le sue esigenze personali.
D'altra parte Livia sa ricambiargli tale fiducia. Anche quando lui
s'innamorerà perdutamente di Terenzia, moglie di Mecenate, lei saprà fare
buon viso a cattivo gioco.
Ha capito che la soluzione migliore è quella di governare dietro le quinte,
come un'eminenza grigia. Essa è testimone del momento cruciale del trapasso
dalla repubblica all'impero.
Ottaviano infatti si decide a dare il colpo di grazia a Marco Antonio che,
dopo il divorzio da Ottavia, viveva al fianco di Cleopatra, con cui
progettava di fondare un grande regno ereditario in Oriente.
La battaglia di Azio mette fine al sogno dei due amanti e il vincitore,
insignito del titolo di Augusto, reso sacro e inviolabile dalla potestà
tribunicia, rimane l'unico padrone di Roma.
Livia si appresta a fondare l'impero insieme a Ottaviano, a governarlo per
50 anni e a lasciarlo in eredità ai suoi figli.
Ha già infatti combinato per Tiberio e Druso due vantaggiosi matrimoni: il
primo con Vipsania, figlia di Agrippa, amico e generale di Augusto; il
secondo con la nobile Antonia, figlia di Ottavia e di Marco Antonio.
Tuttavia Augusto, privo di discendenti maschi, decide di adottare Marcello,
primogenito di Ottavia, dandogli in moglie la quattordicenne Giulia. Ma
Marcello, poco più che ventenne, muore di febbre tifoidea.
Allora Augusto fa una proposta ad Agrippa, suo fidato generale: gli chiede
di rinunciare con un divorzio alla moglie per sposare Giulia appena rimasta
vedova. Agrippa, che aveva 25 anni più di Giulia, accetta e subito nascono
Gaio e Lucio Cesare, adottati dall'imperatore, e poi ancora Agrippina e
Giulilla. Quando sta per nascere il quinto figlio, Agrippa Postumo, muore il
fedelissimo Agrippa, nel 12 a.C.
Per la discendenza di Livia non sembra esservi speranza, tanto più che tre
anni più tardi Druso, di stanza in Germania, dove sta conducendo una
campagna per fortificare i confini dell'impero, muore tra le braccia del
fratello Tiberio.
Giulia insomma è di nuovo vedova e il posto di genero dell'imperatore è
vacante. Tiberio, figlio di Livia, viene praticamente costretto dalla madre
a ripudiare l'amata moglie Vipsania e a sposarsi con Giulia. Ma il
matrimonio è un fallimento totale, e Livia, per evitare scandali a causa del
comportamento adulterino di Giulia, obbliga Tiberio a partire per Rodi in
volontario esilio.
Questo fa sì che si rafforzi la posizione dei primi due figli maschi di
Giulia, Gaio e Lucio Cesare. Ma Augusto non può sopportare che le
intemperanze di Giulia costituiscano una minaccia alla stabilità del suo
principato. Cosicché la condanna all'esilio perpetuo sull'isola di
Pandataria, oggi Ventotene.
Quanto ai suoi figli maschi, la fine è vicina: Lucio muore di un morbo
misterioso e Gaio per una lieve ferita stranamente infettata.
Era però rimasto il terzo figlio maschio di Giulia, avuto dopo la morte del
marito Agrippa, che era appunto stato chiamato Agrippa Postumo. Augusto
decide di adottarlo insieme al figliastro Tiberio, l'ultimo rimasto a Livia,
a patto però che tutti accettino Germanico come erede politico di Augusto:
Germanico era figlio di Druso, marito di Agrippina, sorella di Agrippa
Postumo.
Ma il destino vuole che anche Agrippa Postumo e sua sorella Giulilla vengano
mandati in esilio, sicché Tiberio, figlio di Livia, è l'unico in grado di
ereditare il potere di Augusto, il quale, pur non essendo molto convinto,
non ha modo di cambiare il corso della storia, in quanto muore a 76 anni tra
le braccia di Livia.
A Livia ora occorre soltanto il tempo per eliminare Agrippa Postumo, il solo
possibile pretendente che possa sbarrare la strada a Tiberio. Dopodiché si
fa insignire del titolo di "madre della patria", la prima donna nella storia
dell'Urbe.
Tuttavia Tiberio mal sopporta la presenza ingombrante della madre e,
nonostante essa si sia resa in qualche modo responsabile anche dell'omicidio
di Germanico, rivale di Tiberio, le sottrae il sigillo imperiale.
Ciò però non serve a nulla, perché è Tiberio in realtà che si ritira a
Capri, lasciando Roma in balìa di Elio Seiano, il terribile prefetto del
pretorio che nessuno, salvo Livia, osa contrastare.
Livia morirà nel 29 d.C., quasi novantenne. Tiberio non solo rifiuta di
presenziare ai funerali ma vieta al senato di decretare l'apoteosi divina
alla "madre della patria". Sarà l'imperatore Claudio, figlio di Druso, a
farlo.
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