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IL SISTEMA FEUDALE - LA CHIESA NEL MEDIOEVO E L'IMPEROO

STORIA DELLA CHIESA IN EPOCA FEUDALE - MEDIOEVALE
 

GELASIO E IL POTERE DEL PAPATO
Quando papa Gelasio I (492-496) scrisse all'imperatore bizantino Anastasio I che il potere sacro dei vescovi era superiore a quello temporale dei re, non lo fece certamente col proposito di ribadire il valore della sacra diarchia (cioè l'equivalenza dei poteri), ma piuttosto con quello di affermare il primato della chiesa sullo Stato e, in particolare, quello della sede romana su tutte le altre. Ciò che infatti Gelasio non riesce a spiegare è il motivo per cui l'imperatore, essendo costituito per diritto divino, debba dipendere dai vescovi nelle questioni religiose (al massimo avrebbe dovuto dipendere dai concili ecumenici o universali, come d'altra parte tutti i vescovi). Gelasio si serve della specifica competenza dei vescovi in materia di fede (cui allora peraltro non erano estranei neppure i responsabili laici delle istituzioni, essendo tutti educati sin da piccoli al cristianesimo), per sostenere che l'imperatore, non avendo uguale competenza, deve considerarsi subordinato alla chiesa. La chiesa romana dunque -stando alla posizione di Gelasio- si sentiva tenuta a rispettare le leggi imperiali solo nella misura in cui l'imperatore ammetteva la propria subordinazione alla volontà pontificia. La religione -qui è già chiarissimo- veniva usata come uno strumento di tipo politico. La questione per Gelasio non era di merito (nel senso che su talune cose gli imperatori potevano anche manifestare opinioni eterodosse o discutibili), ma era di metodo: qualunque affermazione dell'imperatore acquistava un valore solo s'egli preventivamente manifestava obbedienza al pontefice. (In verità Gelasio parla di "vescovi", ma poiché già vigeva la teoria della superiorità di quello romano, le conseguenze era poi facile tirarle). Nella concezione teologico-politica di Gelasio non c'è (come invece in quella di tanti teologi bizantini) la convinzione che i due poteri divini siano equivalenti o paritetici. In Europa occidentale si comincerà a parlare di tale diarchia solo a partire dall'epoca comunale, quando impero e chiesa romana erano già fortemente in crisi, e ne parleranno solo gli anticlericali (p.es. Marsilio da Padova, Dante Alighieri.), convinti di aver elaborato un principio innovativo. Secondo Gelasio l'imperatore non poteva assolutamente intromettersi nelle questioni di fede, cioè doveva rinunciare a priori al suo diritto di cittadino-credente (diremmo oggi) di esprimere pareri e opinioni in campo religioso (lasciando poi la decisione ultima a un Concilio cattolico). Egli doveva svolgere unicamente la sua funzione di longa manus della chiesa. Gelasio chiedendo ai credenti di obbedire all'imperatore solo in quanto fiduciario della chiesa, poneva le basi dell'uso politico dell'arma della scomunica.
LA COSCIENZA SPORCA DEL "FILIOQUE"
Probabilmente va considerato affrettato il giudizio negativo che nella sua celebre Storia del cristianesimo, Ambrogio Donini diede sulle controversie trinitarie del tempo di Ario. A suo parere, infatti, esse altro non erano che "artificiose discussioni, prive di qualsiasi valore culturale"(ed. Teti 1977, p.267). Oggi certamente, all'occhio secolarizzato dell'uomo moderno appaiono così, anche se non dobbiamo dimenticare che, nel passato, dietro ogni dibattito teologico si nascondevano precise implicazioni di natura politica e culturale, che venivano poi dissimulate in varie maniere dalle forze che prendevano o conservavano il potere. D'altra parte, fino alla nascita del capitalismo industriale, la religione ha sempre rappresentato il terminus ad quem di ogni riflessione speculativa: la stessa filosofia borghese, per potersi imporre, con Cartesio, dovette prima prendere le distanze dalla Scolastica. Questo per dire che dal punto di vista storico anche quelle "artificiose discussioni" sulle caratteristiche della Trinità cristiana, acquistano un'importanza tutt'altro che trascurabile. Lo dimostra il fatto che persino l'istituzione occidentale che più si è cimentata in quelle diatribe -la chiesa cattolica- non ha resistito alla tentazione, nel Catechismo Universale (CCC), di alterare volutamente la verità storica sul problema, squisitamente teologico, della cosiddetta "processione dello Spirito Santo". Essa ha avuto il coraggio non solo di affermare che il Simbolo della fede cristiana, e cioè il Credo di Nicea-Costantinopoli, è "tuttora comune a tutte le grandi Chiese dell'Oriente e dell'Occidente"(195), ma persino di falsificare tale Simbolo riportando solo quello latino con l'aggiunta del Filioque (p.61). Quanto "sporca" sia la coscienza della chiesa romana riguardo a tale problema -che si trascina da più di un millennio-, è testimoniato da un duplice fatto: da un lato, nella disamina dei dogmi del Simbolo relativi allo Spirito Santo, non si fa cenno alcuno alle molteplici controversie teologiche che il Filioque scatenò tra cattolici e ortodossi (questa parola non è mai citata nel CCC); dall'altro tutta la trattazione dell'art.8, "Credo nello Spirito Santo", è stata chiaramente condotta con l'intenzione di dimostrare la veridicità del Filioque, per quanto il Simbolo venga commentato solo nella parte che afferma la consustanzialità delle tre persone divine, ovvero la inseparabilità dello Spirito dal Padre e dal Figlio, che per i cattolici significa la diversità delle persone assorbita nell'identità della loro natura. La teologia ha indubbiamente, per il mondo moderno, solo un valore simbolico, poiché i suoi concetti appaiono indimostrabili alla ragione e credibili solo per fede; e non tanto perché l'esperienza cristiana ha smesso di essere un fenomeno "socialmente ovvio", quanto perché l'evoluzione dell'autocoscienza umana ha portato a considerare tale fenomeno oggettivamente inadeguato, anche quando vuole apparire "socialmente ovvio". Ormai sulla religione pesa un giudizio negativo che prescinde totalmente dal comportamento individuale o collettivo dei credenti. E' bene tuttavia che uno storico non consideri "insensati" i concetti della teologia, ma "sensati" solo in relazione a un preciso contesto semantico (il quale, a sua volta, non può essere considerato di per sé meno libertario o meno umanistico di quello odierno, basato prevalentemente sull'autonomia della naturale rationis). Compito dello storico è appunto quello di non disperdere il patrimonio culturale e intellettuale dell'umanità, in qualunque forma esso si presenti; in questo senso è impossibile immaginarsi degli uomini discutere per secoli su problemi oggi del tutto insignificanti. Il fatto che le soluzioni date a quei problemi ci appaiano inutili ai fini dei nostri interessi, probabilmente dipende dalla scarsa capacità che abbiamo di riattualizzare "cose vecchie", ovvero di coltivare la "memoria storica" in forme originali, non ripetitive. Non è solo questione di complessità del lavoro di ricerca, ma anche di volontà di conservare il "meglio" del nostro passato. E' questione insomma di liberarci dei pregiudizi con cui ci guardiamo alle spalle. La vicenda storica
Che cos'è il Filioque? Questa formula, cui diede un contributo decisivo il vescovo di Siviglia, Isidoro, appare per la prima volta nel canone 3 del terzo concilio di Toledo (589), il quale, paradossalmente, lanciò l'anatema contro coloro che avessero dichiarato vera una fede diversa da quella proclamata a Nicea (325) e Costantinopoli (381), senza sapere che già il canone 7 del concilio ecumenico di Efeso (431) aveva deciso di vietare tassativamente un "Simbolo della fede" diverso da quello decretato a Nicea e a Costantinopoli! (il concilio di Calcedonia, nel 451, aveva rinnovato la sanzione). Tale qui pro quo si spiega probabilmente sia col fatto che i prelati spagnoli di Toledo non avevano intenzione di sfidare l'autorità dei primi concili ecumenici, sia col fatto che i testi greci erano sempre meno conosciuti in Occidente. Una delle accuse che il cardinale Umberto da Silva Candida, in occasione dello scisma del 1054, rivolgerà agli ortodossi sarà proprio quella di aver omesso il Filioque dal Credo! L'aggiunta del concilio di Toledo fu causata dallo scontro con i visigoti ariani, onde accentuare maggiormente la "divinità" del Cristo, che l'eresia ariana negava. Gli ariani consideravano lo Spirito una creatura del Figlio, anch'egli a sua volta creato. Il Filioque non ebbe tanto lo scopo di negare la subordinazione dello Spirito al Figlio, quanto di affermare l'uguaglianza divina del Figlio col Padre nella relazione di origine riguardo allo Spirito. Sarà poi il re spagnolo Recaredo a ordinare d'introdurre il Filioque nel Simbolo di Nicea: il IV sinodo di Toledo, nel 633, lo approvò. Nonostante che nel 681 il VI concilio ecumenico rinnovasse ancora il divieto di modificare il Credo, l'interpolazione fu poi approvata dai concili locali di Braga (675), Gentilly (767), Frioul (796), Aquisgrana (809), passando dal Simbolo spagnolo-gotico a quello gallicano. Nel 794, al sinodo di Francoforte, Carlo Magno (768-814) non solo inserì definitivamente nel Credo gallicano l'aggiunta, ma ripudiò anche, con l'approvazione dei legati del papa Adriano, le decisioni del Niceno II (787), che aveva canonizzato il culto delle immagini(1). Era solo un pretesto per scatenare un conflitto con l'impero bizantino, ma il papa Leone III, che successe ad Adriano, vi si oppose. Tuttavia, grazie anche alla solerte mediazione del vescovo spagnolo di Orleans, Teodulfo, Carlo Magno era riuscito a imporre a tutte le chiese di Francia, Germania, Italia centro-settentrionale l'inserimento dell'eresia nel Credo, incontrando solo l'opposizione di Alcuino e dell'arcivescovo di Aquileia, Paolino. Carlo Magno era personalmente interessato a quella introduzione per provocare la controparte bizantina ed avere così un pretesto per affermare la propria candidatura al titolo di imperatore del sacro romano impero. Non dimentichiamo, infatti, che la sua incoronazione da parte di papa Leone III avverrà senza richiedere l'autorizzazione del già esistente imperatore bizantino. Tale arbitraria modalità servirà anche al papato per risolvere in maniera politica le proprie rivalità giurisdizionali (di confine territoriale) con le chiese d'Oriente. Finché il nuovo Credo rimase una caratteristica delle chiese "barbariche" (Gallia e Bretagna) l'Oriente ortodosso non interverrà mai. Le cose invece cambiarono quando i prelati francesi, nel IX secolo, cominciarono a servirsi del Filioque per sostenere l'originarietà del Credo latino e accusare i vescovi bizantini di averlo alterato! Così, in un concilio dell'807 Carlo Magno scomunicò l'impero rivale d'Oriente. Gli orientali reagirono per la prima volta a Gerusalemme, nel Natale dell'808. Qui, alcuni monaci delle Gallie si scontrarono coi confratelli greci sulla questione del Filioque. I monaci delle Gallie espressero le loro lagnanze al papa Leone III, il quale, invece di risolvere la questione autonomamente, scrisse a Carlo Magno. Questi ordinò al vescovo Teodulfo di redigere un trattato sullo Spirito Santo in difesa del Filioque, e convocò nell'809 un sinodo ad Aix-la-Chapelle per far decretare che il Filioque era una dottrina della chiesa cattolica e doveva mantenere il suo posto nel Credo cantato durante la messa. Teodulfo sarà il primo a contrapporre il Filioque ai Greci nei Libri Carolini. Nel dicembre dello stesso anno Carlo Magno chiese al papa d'introdurre nel Credo il Filioque. Pur approvando personalmente la processione ab utroque, formulata nel sinodo di Aquisgrana (809), Leone III era però contrario all'inserimento del theologumenon nel Credo: infatti ordinò che si incidesse il Simbolo originario su due tavole d'argento -in greco e in latino- da esporre nella basilica di San Pietro a Roma. Politicamente il papato era favorevole alla posizione di Carlo Magno e, a tale proposito, era anche disposto a condividere la modificazione del Credo (a partire da Leone Magno, sulla scia della teologia di Agostino e di Ambrogio, nessun papa ebbe dubbi sul valore del Filioque). Non dimentichiamo che lo Stato della Chiesa, nel 756, era nato in virtù dell'aiuto militare che i Franchi avevano concesso al papato contro i Longobardi. Tuttavia, sul piano più propriamente ecclesiale, la chiesa romana temeva che quella eresia avrebbe potuto procurare divisioni e scismi, specie in quei territori (ad es. i Balcani) che sperava di sottrarre all'influenza bizantina. Il papato aveva bisogno d'essere appoggiato militarmente dal nuovo impero occidentale che stava emergendo nelle Gallie, onde far valere con sicurezza l'aggiunta nel Credo e il primato del pontefice e della sede romana. Per sostenere la teoria del primato papale la chiesa romana, nei secoli VIII e IX, elaborò addirittura dei falsi, in accordo con la monarchia francese: il Sesto canone del concilio di Nicea, la Donazione di Costantino e le Pseudo-Decretali di Isidoro. Proprio in virtù di tale teoria, il papato non avrebbe certo potuto tollerare che, dopo essersi liberati dalla presenza ingombrante dei bizantini, i Franchi cominciassero a rivendicare un'egemonia cesaropapista. La questione rimase in sospeso per alcuni anni, finché, durante la polemica tra il papa Nicolò I e il patriarca Fozio, di nuovo fu al centro di accesi contrasti. Fozio infatti non solo condannò l'aggiunta nel Credo, ma anche il contenuto teologico del Filioque in sé. Tuttavia, solo nel 1014 l'imperatore Enrico II, incoronato a Roma, prese la decisione d'imporre a tutto il mondo latino il rito germanico della messa. Il papa Benedetto VIII accettò. Bisanzio reagì sopprimendo il nome del papa dalle sue preghiere liturgiche. La cristianità europea, fino a quel momento unita, sulle questioni fondamentali della dogmatica, giungerà alla separazione definitiva nel 1054. Tale rottura verrà formalmente ma non sostanzialmente superata solo nel 1965, in una dichiarazione congiunta di papa Paolo VI e del patriarca di Costantinopoli (Istanbul) Atenagora, i quali si assunsero le reciproche responsabilità dello scisma. (Prima del 1054 le divergenze di natura disciplinare, giurisdizionale e di altro genere -come ad es. si possono riscontrare nel sinodo Trullano II del 692, detto Quinisextum- non erano mai sfociate in una rottura teologica). La chiesa romana deciderà di canonizzare l'eresia nel concilio del Laterano del 1215, sotto Innocenzo III, dopo il trionfo latino della quarta crociata (1202-1204) sulla Costantinopoli ortodossa. Successivamente, nei concili voluti per riunificare le due confessioni della cristianità (Lione nel 1274, sotto Gregorio X, e Ferrara-Firenze nel 1439, sotto Eugenio IV), si è cercato, da parte cattolica, d'indurre gli ortodossi ad accettare il Credo modificato, ma senza successo. L'importanza del Filioque di colpo cessò dopo il 1453, allorché Bisanzio fu conquistata dai turchi, e dopo l'affermarsi delle idee umanistico-rinascimentali e protestantiche in Europa occidentale. In seguito, i cosiddetti "uniati" (credenti cattolici di rito ortodosso) si opporranno all'aggiunta, benché, ovviamente, non alla teologia ivi implicita. Ancora oggi alcune chiese cattoliche di rito orientale presenti in Occidente, e alcune comunità cattoliche di rito latino che vivono in Oriente recitano il Credo senza il Filioque (in Grecia dal 1973). Recentemente anche i vecchi-cattolici e gli anglicani sembrano essersi orientati in questa direzione. Per concludere Qui naturalmente non si ha intenzione di ripercorrere l'iter delle controversie teologiche che per secoli hanno diviso ortodossi e cattolici, anche perché -come già detto- il problema vero, per uno storico, non è quello di "ripetere" i fatti o le idee del passato, ma quello di riattualizzarli (il che richiede tempo, studi approfonditi e, soprattutto, apertura mentale). Indubbiamente la confessione ortodossa, su questo argomento, esprime una posizione di maggiore equilibrio e profondità, dovuta probabilmente al fatto ch'essa, a differenza della chiesa cattolica, ha sempre cercato di salvaguardare il messaggio più antico della tradizione cristiana, che era di tipo comunitario ed escatologico, rinunciando a trasformarsi in un'istituzione di potere, concorrenziale a quella degli Stati politici. Tuttavia non è nel nostro interesse prendere le difese dell'ortodossia contro il cattolicesimo, poiché ogni religione è, in ultima istanza, oggettivamente, una forma di illusione. Per cui, se anche si riuscisse a eliminare il principale impedimentum dirimens sulla via della conciliazione dogmatica fra cattolici e ortodossi, rimarrebbe il dato incontrovertibile dell'assoluta precarietà della religione qua talis ai fini della risoluzione dei problemi umani. Al massimo, osservando laicamente i contenuti di quella diatriba, si può affermare che le tesi ortodosse rispecchiano un maggior senso della democrazia, del rispetto dei valori umani, della diversità e specificità delle persone. Più di così lo storico non può dire. D'altra parte, il lettore può facilmente rendersi conto da solo che la formulazione dell'eresia filioquista è stata, sin dal suo nascere, strettamente connessa alle questioni politiche, non solo perché con essa l'impero carolingio ha cercato un pretesto per separarsi da quello bizantino, ma anche perché, ideologicamente, il Filioque è a un tempo causa ed effetto d'una precisa concezione cattolico-romana della politica.
II La tesi di Wojtyla
Ora, prima di procedere ad un'analisi delle implicazioni culturali e politiche dell'eresia filioquista, abbandonando il terreno della storia, è forse bene precisare che alla falsificazione dei fatti operata dal Catechismo Universale non si è giunti a caso. Sin dal 1981 papa Wojtyla ha più volte ribadito (conformemente a una tradizione teologica che si rifà al Concilio Vaticano II) la necessità di considerare equivalenti i due Credo cristiani. "Qui ex Patre Filioque procedit" e "Qui a Patre per Filium procedit" sono state considerate dal pontefice, e non solo da lui ovviamente, due definizioni sostanzialmente analoghe (cfr "La civiltà cattolica" del 17.1.1981). Nella Lettera (del 25.3.1981) all'episcopato della chiesa cattolica per il 1600o anniversario del I concilio di Costantinopoli, Wojtyla, riportando l'esatta traduzione del Credo, adottato definitivamente nel II concilio di Costantinopoli, spiega che sulla formulazione del Simbolo "sono nate numerose interpretazioni, anche divergenti"(parag. 2), ma che, nonostante ciò, la chiesa romana è rimasta fedele alla verità originaria. Wojtyla in sostanza non nega la differenza, semplicemente non le attribuisce alcuna particolare importanza, lasciando così intendere che il Filioque altro non era stato che un adattamento (di forma) alle esigenze della chiesa mutatesi col tempo. Non c'è insomma contraddizione insanabile (come invece per gli ortodossi), in quanto la formula del Credo sancita nel 381 era legata -queste le testuali parole del pontefice- alle "peculiarità espressive dell'epoca"(ib.), e quindi soggetta a ulteriori, inevitabili modifiche. In sostanza, dire che lo Spirito procede "solo dal Padre" e dire che procede "anche dal Figlio" sono due cose identiche (cfr. la bolla di unione coi Greci, Laetentur coeli, del 6 luglio 1439, al concilio di Firenze). Da qui alla decisione, presa nel CCC, di non parlare neppure del Filioque, fingendo di darne per assodata la presenza nel Credo originario, il passo è stato breve, e i cattolici, che da tempo non s'interessano minimamente (se non nelle "alte sfere") di tali questioni, non hanno avuto modo di fare obiezioni di sorta. Forse pochi in Occidente sanno che proprio a causa di quell'aggiunta -considerata dagli ortodossi l'eresia, in assoluto, più grave- Oriente e Occidente, sul piano teologico, cominciarono a separarsi. Così, ad es., la pensa V. Lossky in La teologia mistica della Chiesa d'Oriente (ed. Il Mulino 1967) e, prima di lui, tra gli esegeti moderni, l'arciprete A. Lebedev, il filosofo L.P. Karsavin e il teologo C. Yannaras. Più conciliante invece è la posizione dei teologi B. Bolotov e A. Stawrowsky, che sostanzialmente si basano sulle tesi di S. Bulgakov. Wojtyla naturalmente evitò con cura nel 1981 di sottolineare che nei concili successivi al Costantinopolitano I, e cioè di Efeso (431) e di Calcedonia (451), la chiesa "indivisa" aveva espressamente vietato di compiere qualsiasi alterazione alla formulazione del Credo, decretando altresì che la comunione fra le varie chiese locali dipendeva dall'accettazione della fede niceno-costantinopolitana. Il suo ecumenismo, infatti, risente ancora dei limiti del passato, allorquando nei confronti della confessione ortodossa l'unico vero problema, per i cattolici, era come annettersela. La riflessione culturale Tra le cause-conseguenze culturali inerenti all'accettazione occidentale dell'eresia filioquista va annoverata quella, gravissima, dell'incapacità a distinguere i concetti di "essenza" ed "energia" (che allora gli ortodossi intendevano riferire alla vita del Dio uno e trino e che oggi invece -sulla scia di Feuerbach- dobbiamo intendere in senso ontologico, riferendo quei concetti all'essenza stessa dell'uomo). La suddetta distinzione, laicamente trasformata, comporta la percezione dell'essere umano come di un ente in ultima istanza "indicibile", poiché le sue manifestazioni esteriori non coincidono del tutto con la sua natura interiore. Esterno ed interno non sono completamente coincidenti. L'interno, in parole povere, è sempre più ricco dell'esterno, come la coscienza lo è dell'esperienza. Oltre a tali aspetti di natura filosofica, la questione del Filioque potrebbe offrire ampio materiale di discussione anche alla psicanalisi. Il Figlio che si fa "come" il Padre, perché "geloso" del rapporto che il Padre ha con lo Spirito (che è la parte femminile della trinità divina)... Il Figlio che facendosi "come" il Padre, in realtà lo estromette dal suo rapporto con lo Spirito... Il Figlio che, dopo aver estromesso il Padre, pretende di poter "gestire" lo Spirito come fosse una sua personale proprietà... Cos'è tutto questo se non una riedizione in veste religiosa del classico complesso di Edipo? Già si è detto che il Filioque è la fonte di tutte le "eresie" cattoliche rispetto all'ortodossia, le più importanti delle quali sono quelle relative all'ufficio del pontefice (come ad es. il primato di Pietro e della giurisdizione universale di Roma, l'infallibilità ex-cathedra, la superiorità sul concilio o il concetto di "vicario di Cristo"). Se vogliamo, il Filioque è stato il primo tentativo riuscito, in ambito cristiano, di strumentalizzare la religione, stravolgendone il contenuto dogmatico-tradizionale, per una mera esigenza di potere politico. Tutto l'apparato giuridico-normativo della chiesa cattolica è funzionale alla giustificazione dell'abuso filioquista. Senza esagerare si può sostenere che il Filioque è alla base di tutta la cultura della violenza, della sopraffazione, del maschilismo... tipica dell'Occidente cattolico e protestante (i protestanti non hanno mai messo in discussione il Filioque). Esiste persino uno stretto rapporto fra i due dogmi su Maria (Immacolata concezione e Assunzione) e il Filioque, poiché come in questa eresia il lato "femminile" della Trinità, e cioè lo Spirito (in ebraico ruah è di genere femminile), viene abbassato al ruolo di semplice esecutore della volontà del Figlio, che si arroga la pretesa di sostituire il Padre (che rappresenta, simbolicamente, nella tradizione cristiana e non solo cristiana, l'origine delle cose, la fonte da cui tutto promana ecc.), così nei due suddetti dogmi su Maria, si è cercato, da parte del "Figlio autoritario" (personificato dal papa), di recuperare l'immagine svilita della "femminilità", dimostrando, con ciò, che la chiesa romana non può sussistere su princìpi esclusivamente maschilisti. Il Figlio, o meglio, il suo vicario in terra, il papato, che attraverso l'eresia filioquista si era liberato della presenza ingombrante del Padre (la memoria di un passato), per avere sullo Spirito (le varie manifestazioni della fede) un'egemonia assoluta, sembra essersi accorto, coi due dogmi su Maria, che tale egemonia non è possibile, per cui, in luogo dello Spirito, ha creato un suo sostituto, Maria, divinizzata appunto per sostituire lo Spirito di Dio, il quale, benché "sequestrato" dal Figlio, continua ad avere la pretesa di "soffiare dove vuole". Il papa arriva ad avere con Maria lo stesso rapporto dispotico e privilegiato che il Cristo cattolico, "ribelle" al Padre, ha voluto avere con lo Spirito. Il Filioque tra vero e falso ateismo Come si può notare, dalle cose fin qui dette, il Filioque appare anche come una forma embrionale di ateismo "volgare", in quanto, se è vero che in virtù di esso si sono giustificati gli abusi più vergognosi, è anche vero ch'esso riflette una percezione della realtà sociale molto più laica di quel che non si creda. Il Filioque, infatti, è stato anche il tentativo di togliere alla concezione ortodossa della divinità quel carattere di sacralità che aveva, trasformando la fede religiosa in uno strumento di emancipazione dalla tradizione. Il cattolico è ateo, rispetto al credente ortodosso, proprio in quanto "cattolico". I protestanti cercarono di reagire agli abusi filioquisti (teocrazia papale ecc.), affermando il "primato dello spirito" (vedi ad es. i concetti di fede nella grazia divina, il libero esame o il sacerdozio universale: tutti princìpi che nell'ambito del cattolicesimo-romano hanno un valore assai relativo). Ma i protestanti non rappresentano altro che il rovescio della medaglia (cioè l'anarchia in luogo della monarchia assoluta, la spontaneità in luogo della disciplina, il carisma in luogo dell'istituzione...). Avendo destoricizzato completamente la figura teologica del "Padre" (in quanto non fanno riferimento ad alcuna tradizione storica), i protestanti sono certo votati a un ateismo migliore, più conseguente di quello cattolico, ma, non avendo piena coerenza scientifica, non sono in grado di creare una vera alternativa, sul piano sociale, al cattolicesimo. La chiesa protestante è alternativa a quella cattolica in quanto, appoggiandosi alla prassi borghese, è riuscita a prevalere sul terreno dell'economia. Ma la crisi progressiva del capitalismo può essere facilmente strumentalizzata dalla chiesa cattolica, anche in funzione anti-protestantica. E non a caso, delle tre religioni cristiane, la protestante è quella più in crisi, cui si cerca di supplire, soprattutto negli Stati Uniti, mediante comunità e sètte esoteriche, misteriche, pseudo-orientali e così via. Di fatto, né il cattolicesimo, laicizzando l'ortodossia, è riuscito a creare una società veramente democratica, a causa dei suoi presupposti (feudali) di classe irrisolti, né il protestantesimo, laicizzando ulteriormente il cattolicesimo, è riuscito, coi suoi presupposti borghesi di classe, nel medesimo intento. Ciò a testimonianza che sulla base della progressiva razionalizzazione dei contenuti religiosi è impossibile elaborare un umanesimo sociale integrale, senza compiere una contemporanea rivoluzione politico-democratica. Forse oggi il problema più interessante, all'interno dell'ideologia cristiana, è quello di come giungere all'ateismo passando per l'ortodossia. Questa confessione rappresenta l'esigenza più alta di tutto il cristianesimo, in quanto rappresenta il tradimento più sofisticato dell'originario messaggio politico di Gesù (è il tradimento che si può reperire soprattutto nei testi attribuiti agli apostoli Marco, Giovanni e Paolo). Per poter veramente "ammazzare" il cristianesimo -come diceva Gramsci- occorre non solo realizzare gli ideali ch'esso ha promosso invano, ma anche gli ideali che ha tradito (nascondendoli agli occhi dei credenti): altrimenti ci sarà sempre la possibilità che una religione rinasca. Il vero ateismo -sul piano metafisico- non passa né attraverso il tradimento dell'immagine di "Figlio" (operata dai cattolici), né attraverso il tradimento dell'immagine di "Spirito" (operata dai protestanti), ma attraverso il tradimento dell'immagine di "Padre" (operata dagli ortodossi). Cioè dobbiamo riprendere il significato simbolico del concetto di "Padre" per superarlo una volta per tutte, liberandoci da questa condizione di dipendenza psicologica e culturale. Solo in tal modo l'ateismo sarà consapevole e determinato. Per poter recuperare la valenza simbolica del concetto di "Padre", con cui si è tradito il messaggio di Cristo, che non contemplava in origine questo concetto, dobbiamo decodificare l'espressione di Giovanni: "Dio è amore". Il concetto di dio è stato utilizzato da Giovanni per rimediare al fallimento del progetto rivoluzionario del Cristo. L'identificazione infatti porta alla conclusione che dio è ovunque, in particolare è là dove esiste "amore". Questa grandissima testimonianza di Giovanni, che apre le porte all'universalità e all'ecumenicità del messaggio cristiano, esprime anche il tradimento più alto del vero messaggio di Cristo, per il quale l'identificazione non era fra "amore e dio" ma fra "liberazione e uomo". L'ortodossia -a differenza del cattolicesimo che, puntando tutto sul cristomonismo, ha fatto coincidere la vita religiosa con il sacrificio e l'obbedienza; e a differenza del protestantesimo che ha fatto coincidere la vita religiosa con la libertà interiore e la ricerca intellettuale della verità-, l'ortodossia pretende, ancora oggi, di essere la massima realizzazione, in figura, del principio dell'amore (a prescindere naturalmente dalla realizzazione pratica dei suoi singoli fedeli). Ebbene, noi dobbiamo dimostrare coi fatti che il principio dell'amore (universale) può essere vissuto meglio senza religione cristiana, in maniera assolutamente laica, a partire dalla liberazione degli uomini dalle ingiustizie e dalle oppressioni. Se noi riusciremo in questo (che è l'obiettivo più grande di tutto il genere umano), la religione cristiana scomparirà da sola, spontaneamente, a causa della sua intrinseca inutilità e falsità. (1) La distinzione tra "adorazione" e "venerazione" delle immagini sacre venne fraintesa in Europa occidentale proprio a causa di una cattiva traduzione degli Atti del concilio del 787, sulla base della quale, successivamente, Carlo Magno, nei suoi famosi Libri Carolini (789-791), rifiutò il decreto di quel concilio.
Bibliografia:
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- L. Sartori (a cura di), Spirito Santo e storia, ed. AVE 1977.
Storia dello Scisma Oriente - Occidente P. Ranson M. Terestchenko L. Motte
Alcune note di introduzione a cura del traduttore
Lo studio che presentiamo è costituito da due conferenze tenute dai Proff. P. Ranson e M. Terestchenko presso una scuola superiore di Parigi. Quello che colpisce il lettore in questi studi è l'assoluta novità dell'impostazione data alla questione "scisma" per troppo tempo sconosciuta agli studiosi ed anche agli occidentali che fossero semplicemente interessati a questa storia, soprattutto a causa di storici in malafede che hanno preferito tenere molti risvolti di questa storia artatamente celati al fine di non permettere in alcun modo la messa in discussione delle origini del papato e del Sacro Romano Impero. Non possiamo dimenticare, a questo proposito, come tutte le case regnanti dell'Europa occidentale originassero dall'Impero carolingio e dal sistema feudale la propria ragione di esistere e che l'eventuale messa in discussione della validità, sul piano del diritto storico dell'Impero carolingio, avrebbe messo conseguentemente in discussione anche la loro sussistenza. Per ciò che riguarda il Papato, la cosa è anche più evidente, in quanto la tesi difesa da Ranson e Terestchenko è quella della "usurpazione" del trono ortodosso dell'antica Roma da parte di vescovi eretici germano-franchi aventi come scopo primario il mantenere prima il potere carolingio e poi, da Gregorio VII in poi, il proprio potere politico da veri e propri imperatori romani (cfr. il "Dictatus Papae"del 1075). In un primo momento, il lettore italiano, abituato alla manualistica storica scolastica, potrà rimanere veramente colpito, se non quasi traumatizzato, da questa "Storia dello Scisma Oriente-Occidente", e arriverà fors'anche a rifiutarla quasi visceralmente tanto tutti noi siamo abituati alle nostre cognizioni di base e le riteniamo comode e tranquille anche per la nostra coscienza un po' forse sonnolenta rispetto al nuovo, ma, una volta fatto lo sforzo di operare in noi stessi una vera e propria "metanoia" intellettuale ed accettando con serietà ed equanimità delle interpretazioni diverse da quelle alle quali abbiamo sempre dato credito, allora dovremo concludere col dare ragione ai nostri autori. Ciò potrebbe dare origine ad una metanoia senz'altro un po' più grande di quella culturale, ma questa è competenza di un Altro.
Lo studio che segue è tratto, per fraterna concessione del suo direttore L. Motte, dai nn. 1 e 2 della rivista "LA LUMIERE DU THABOR" edita a cura della FRATERNITE' ORTHODOXE St. GREGOIRE PALAMAS che ne detiene i diritti letterari. Daniele Gandini 1 - Il quadro politico e religioso: la Romanità. Per affrontare con serietà la questione dello scisma, bisogna, in primo luogo, schivare un primo ostacolo e cioè quello di vedersi negato il fondamentale ruolo dogmatico di questa questione oggi. Codesta questione rischia di essere rifiutata immediatamente da un punto di vista storico poiché gli specialisti in ecumenismo hanno fatto tanto per ridurne la portata fino al renderla una banale "questione di campanile" la cui sussistenza oggi è del tutto anacronistica. Non abbiamo forse visto qualche anno fa il Patriarca Atenagora dichiarare di aver perduto il suo diploma in teologia manifestando così il suo disinteresse per gli aspetti dogmatici dello scisma? Per il padre Congar sono stati dei malintesi storici a provocare l'allontanamento reciproco : "Lo scisma di Oriente ci appare consistere nell'accettazione di uno stato di cose in cui ogni parte della cristianità, vive, si comporta e giudica senza tener conto dell'altra. Allontanamento quindi, provincialismo, situazione di non rapporti, stato di ignoranza reciproca. Lo scisma d'oriente, si è realizzato a causa di un progressivo estraniarsi delle parti e consiste oggi nell'accettazione di tale estraniarsi." Secondo questa interpretazione, questo allontanamento ha avuto delle cause geografiche, linguistiche e morali. La principale causa geografica, si afferma seguendo lo storico belga Pirenne, è la rottura delle vie di comunicazione tra oriente e occidente dovuta alle invasioni musulmane. La causa linguistica di questa misconoscenza reciproca è l'ignoranza del greco in occidente e del latino in oriente. Culturalmente le due tradizioni che non si capiscono più tra loro, sviluppano ciascuna autonomamente dall'altra due visioni peraltro possibili del Cristianesimo. In Oriente, a forza di risettaciare continuamente i Padri greci, la teologia diventa "Bizantina" ; in Occidente, grazie ai carolingi, il dogma progredisce approfondendo le "intuizioni originali" della Patristica latina. Congar che vuol tirare tutte le conseguenze della sua analisi nell'ottica dell'unione delle Chiese, ne deduce che il reciproco allontanamento può essere superato dato che le condizioni sociologiche sono cambiate : la società moderna è più "civilizzata", più capace di amore di quanto lo fossero quelle di "Bisanzio" e dell'Occidente medioevale. Congar afferma ugualmente che la grande scoperta di oggi, del tutto ignorata nel passato dalla Chiesa, sarebbe l'amore : "Diciannove secoli di Cristianesimo si sono interessati quasi unicamente a Dio. Oggi conosciamo il mondo e questo si impone talmente a noi che certe affermazioni cristiane ci sembrano se non vacillare, almeno essere surclassate dalle evidenze che ci vengono dalle cose... Nulla è più significativo a questo riguardo del ritorno dell'amore, anche se solo della parola amore, nella letteratura religiosa". Il fondo di questa posizione "ecumenista" sulla storia dello scisma è l'affermazione che i Padri abbiano ignorato, del tutto o in parte, l'amore e che conseguentemente ogni vivente oggi si trovi, su questo punto, ad un livello più alto di Sant'Atanasio, l'intransigente lottatore per la fede di Nicea, di san Cirillo d'Alessandria, il "persecutore" di Nestorio, o di San Massimo il Confessore che rifiutava ogni compromesso di fronte ai cinque patriarchi diventati per un momento eterodossi. Si vede dunque fino a che punto queste tesi sono dei veri e propri insulti alla Teologia dei Padri quando si afferma che l'amore è "una scoperta recente" e che è stata una mancanza di amore ad essere la causa delle grandi polemiche dei padri contro gli eretici.
Questo concetto, ammesso oggi da numerosi cattolici e anche da molti "ortodossi", si fonda su di una visione della storia completamente falsa e su tre postulati che ci proponiamo di discutere nel modo che segue : Per prima cosa "Bisanzio" non esiste, è un'impostura o almeno una polemica indegna di storici seri, il chiamare "bizantini" coloro che fino alla caduta di Costantinopoli, Nuova Roma, e anche oltre, si sono sempre chiamati "romani". Il Patriarca di Costantinopoli porta ancora oggi il titolo di "Arcivescovo di Costantinopoli Nuova Roma". Secondariamente l'opposizione culturale tra i Padri greci e latini si giustifica solo col fatto che i germano-franchi hanno dato ad Agostino d'Ippona un'autorità esclusiva a spese degli altri numerosissimi padri latinofoni anteriori. Questa sedicente opposizione dunque è in gran parte falsa e in luogo di distinguere tra padri latini e padri greci, bisogna riconoscere l'unità della Fede tra padri latinofoni ed ellenofoni, tranne Agostino, nell'interno del quadro geopolitico della romanità. Infine non c'è stato scisma nel senso di separazione di due mondi, poiché una cosa del genere sarebbe contraria alla definizione stessa di Chiesa, una per natura, ma l'usurpazione della sede ortodossa di Roma da parte della frazione francofila che ha dovuto agire per molti secoli prima di vincere la Romanità in occidente.
La scienza storica europea chiama generalmente "bizantino" l'Impero Romano del santo Imperatore Costantino il Grande attribuendo all'Impero questo aggettivo a partire dalla fondazione di Costantinopoli, o a volte, a partire da Giustiniano. L'origine di questa nuova civiltà sarebbe legata ad una cosiddetta "orientalizzazione" dell'Impero Romano. In ogni caso tutti affermano che l'Impero Romano diventa "bizantino" verso il V-VI secolo, perché si ellenizza e perde la sua latinità originaria. D'altro canto questa stessa scienza storica chiama "bizantino" il quadro culturale e teologico dell'Impero, perché esso perde la sua specificità greca per modellarsi su di una "mentalità bizantina" assai problematica. Già i due termini "Greci" e "Bizantini" sono recenti e peggiorativi. Il termine "greco" non viene in verità impiegato prima dell'VIII - IX secolo , nel particolare clima politico e ideologico dell'epoca carolingia: Carlo Magno vuole restaurare l'impero romano e a questo scopo gli è necessario negare ogni legittimità al "Basileus" Ortodosso col fine precipuo di spezzare il legame profondo esistente fra le popolazioni gallo-romane e italo-romane da un lato e Costantinopoli dall'altro. Chiamare "greci" i popoli dell'Impero è, per mezzo di un'impresa ideologica di notevole ampiezza, rigettarli fuori dall'Occidente e praticamente identificarli con i "Gentili", con i Greci antichi e cioè con i pagani di cui parla la scrittura. Alcuni anni più tardi, Nicola I, il primo papa germanofilo attaccato dai vescovi italo-romani del sud dell'Italia e da quelli gallo-romani in conflitto con il clero franco, tentò di raccogliere intorno a sé tutto l'episcopato germanico e franco. Fece comporre dei trattati "contro gli errori dei greci" che si rivelarono delle vere e proprie minacce nei confronti della Fede cristiana. Nella mente di Hincmar e egli altri teologi franchi di quest'epoca che pensavano di poter far progredire nel sottile la teologia analizzando l'essenza di Dio con le categorie di Aristotele, il termine "greco" è un insulto pieno di disprezzo : i "greci" sono insieme indegni del nome di "cristiani", ignoranti in teologia e perfidi come degli "orientali". Basta consultare i numerosi trattati "Contro gli errori dei greci", da quello di Ratramno di Corbia fino a quello di Tommaso d'Aquino, che queste raccolte di citazioni false e menzognere appaiono col chiaro ed evidente scopo di presentare la sottigliezza diabolica del "Filioque" come un segno di grande superiorità intellettuale dell'Occidente sui "greci". Tra gli ortodossi romani dell'Impero quel termine era considerato una vera e propria ingiuria; nel secolo XV anche un partigiano dell'unione con Roma al Concilio di Firenze, quale l'Imperatore Giovanni Paleologo, rifiutò come ingiurioso l'epiteto di "greco". Ugualmente è da dirsi per il termine "bizantino"; nessuno si sognerebbe oggi di chiamare i parigini "luteziani" dal nome dell'antico villaggio sul quale è costruita l'attuale città così come noi facciamo usando quel vocabolo per gli abitanti di Costantinopoli Nuova Roma. Il termine d'altronde è piuttosto tardivo perché è solo nel XV secolo che un latinizzante uniata, Niceforo Gregoras, l'utilizzò per la sua storia dei Romani intitolata "Storia dei "Bizantini". Nei secoli XVI e XVII viene impiegato più frequentemente soprattutto dagli Illuministi Francesi che ad esso diedero un valore dispregiativo. Montesquieu e Voltaire parlano rispettivamente di "un'indegna raccolta di declamazioni e di miracoli" e di "un tessuto di rivolte, di sedizioni e di tradimenti" per descrivere l'Impero Romano di Costantinopoli. Fino ad oggi questo termine ha conservato tale connotazione negativa e abbiamo potuto vedere persino un professore della Sorbona arrabbiarsi al solo nome del grande e Santo Fozio. Quale che sia l'impronta di mille anni di passioni antiortodosse, resta il fatto che la storia, nel suo sforzo necessario di rigore e di obbiettività, non ha assolutamente il diritto di usare una terminologia uscita dalle polemiche più violente dell'epoca carolingia o del XVIII secolo. Non ne verrebbe di conseguenza la liceità di trattare i "tempi lunghi " della storia universale partendo da concetti apparsi in momenti ben precisi di lotte per lo più "provinciali" ? Non sarebbe più giusto chiamare i bizantini col loro nome di Romani e di utilizzare gli aggettivi e i sostantivi propri della loro Romanità? Non è forse ciò che fanno ancora oggi gli Arabi che li chiamano "Rom" e "Romis"? Innumerevoli sarebbero le sorgenti testuali di queste affermazioni e gli storici potrebbero analizzare più adeguatamente il sentimento profondo di unità culturale che avevano i Romani della Nuova Roma nei confronti del passato sia "romano" (latino) sia "greco", sia antico sia cristiano. Per esempio la Biblioteca di san Fozio sconcerta spesso il critico occidentale che vi vede soltanto un prezioso libro di erudizione che evidenzia la curiosità intellettuale del santo patriarca, quando invece i libri di Storia Romana o di Filosofia greca gli erano così poco estranei quanto per un francese del XX secolo lo sarebbero le opere di Racine o quelle di Moliere. La storia antica era tanto vicina culturalmente a san Fozio quanto ne era tenuta lontana, sul piano dei valori cristiani, come ne è testimonianza il suo rifiuto all'intrusione del razionalismo umanista carolingio nell'interno della dogmatica. Gli "umanisti" latini o greci non avevano un carattere di esemplarità per un romano di Costantinopoli, più di quanto la nostra infanzia lo abbia per l'adulto che siamo diventati. Prendiamo un altro esempio più recente : qualcuno potrebbe obbiettarci il fatto che la Grecia continentale, una volta liberata dal giogo dei Turchi, non ha scelto il nome di "Romanità". Nei fatti questa è l'eccezione che conferma la regola : sono state le potenze occidentali a imporre il termine "greci" per tagliare via gli ortodossi continentali dai loro fratelli dell'Anatolia ed impedire così ogni rivendicazione dell'Asia minore, in quanto i Turchi dovevano essere risparmiati e protetti per ragioni di politica internazionale. Le conseguenze di questa politica furono più tardi i massacri di Asia minore del 1923 durante i quali truppe francesi ed inglesi assistettero indifferenti allo sterminio delle popolazioni cristiane. Nel XIX secolo, in ogni caso, la scelta dei termini greci ed elleni fu combattuta dagli Ortodossi ostili alla rinascita di un neo-paganesimo elleno; il grande poeta Costis Palamas fu il cantore della romanità di fronte alle tesi del gruppo neo-greco di Korais incapace di dimostrare l'esistenza di una coscienza nazionale neo-greca autonoma. Oggi il teologo di fama mondiale Giovanni Romanidis, professore all'Università di Tessalonica, è diventato il difensore dell'idea e della coscienza romana ortodossa. Il Padre Giovanni Romanidis ha in particolare denunciato la grande contraddizione della scienza storica europea che presentiamo di seguito : da un lato si afferma che l'impero è diventato "bizantino" perché è diventato "elleno" o "greco"; dall'altro si spiega il passaggio dalla civilizzazione ellenica dell'impero romano - quella ad esempio dei grandi Cappadoci - alla civilizzazione bizantina con la perdita del carattere propriamente elleno di questa civilizzazione. Così l'Impero Romano diventa "bizantino" perché si ellenizza e la civilizzazione ellenica diventa "bizantina" perché cessa di essere ellena. Si vede così quanto sia grande la confusione presso gli storici e i teologi occidentali che parlano ora di "bizantini" ora di orientali ora di greci per indicare un impero che si è sempre chiamato nella stessa maniera : Romano. Sarebbe dunque un vero progresso il rifiutare questi termini dispregiativi di "greci" e di "bizantini" che non hanno nemmeno il merito di chiarire i fatti storici. Se si ritornasse alla denominazione di "romano" e di romanità ortodossa", l'efficacia scientifica sarebbe grande almeno su tre punti: 1] Lo storico avrebbe un filo conduttore coerente per considerare la storia del mondo mediterraneo nella sua totalità : l'impero romano viene invaso da popolazioni barbare che impongono il loro dominio in modo piuttosto differente ; in occidente questa dominazione consiste in una sorta di imitazione parodistica e nell'usurpazione delle antiche strutture romane e cristiane ; presso i musulmani si stabilisce invece un modello di dominazione non parodistico e le due culture, cristiana e musulmana, restano, seppure in una certa misura parallele ed ostili. I punti d'incontro essenziali sono particolarmente interessanti e sono incomprensibile al di fuori di questa unità culturale romana, in particolare quando si parla del periodo carolingio, delle crociate e del Concilio di Firenze. Quest'ultimo avvenimento è spesso trascurato dagli storici quando invece riveste un'importanza quasi paradigmatica. Bessarione inventa e diffonde ben presto l'umanesimo insieme pagano e papista; San Marco d'Efeso rifiuta assolutamente, in nome della Romanità Ortodossa, l'infallibilità del papa e dell'uomo europeo; Pletone riscopre una ellenicità fondata sul ritorno dei culti pagani, ritorno ostile tanto alla romanità quanto all'Europa. 2] La storia non dovrebbe cercare una "latinità" che non esiste sempre. Le differenti costruzioni della latinità in Occidente - Carlo Magno e successori - sarebbero meglio comprese se fossero studiate come utopie o come ideologie nate per facilitare il dominio sull'antica Romanità Ortodossa. 3] La lotta patetica dei Romani d'Occidente contro i Barbari potrebbe infine essere studiata in una prospettiva di lunga durata invece di svanire curiosamente dopo i Merovingi. In particolare la volontà degli Italo-Romani del sud d'Italia o della Sicilia, dei provenzali, degli aquitani, degli spagnoli romanizzati, tutti ortodossi, di preservare la loro cultura e la loro fede potrebbe essere studiata in quest'ottica. Infine la storia delle idee scaturirebbe dalla storia degli avvenimenti, poiché il senso di infallibilità che caratterizza, secondo il padre Justin Popovic, l'uomo europeo, progredirebbe nello stesso tempo delle forze politiche e religiose proprie all'Occidente medioevale e classico : il papato e la monarchia assoluta. La storia di ciò che si denomina lo "scisma" del 1054 sarebbe da questo punto di vista un archetipo, lo studieremo nel prossimo capitolo e vedremo come l'abbandono dei termini antiscientifici di "bizantini" e di "greci" permette di modificare le opinioni tradizionali o ecumeniste sullo "scisma". 2 - Lo scisma del 1054 Nel primo capitolo abbiamo mostrato brevemente che la necessità del "Dialogo Ecumenico" conducevano a dare una spiegazione insoddisfacente sia per la teologia sia per la storia dello scisma del 1054. Sul piano teologico il dibattito è stato impoverito perché è stato ridotto ad essere soltanto una disputa di parole; in particolare il filioque è presentato come il frutto fortunato di un approccio puramente latino ed occidentale alla teologia che, dati i postulati, non mette in pericolo la teologia classica dei padri. Si impiega allora il vocabolario vago dei sentimenti e delle emozioni , come fa, ad esempio Olivier Clement quando parla della "grandezza propriamente religiosa del filioque" e delle "intuizioni originali del Filioquismo". Brevemente, in mancanza di un vocabolario concettuale sufficientemente elaborato, l'Oriente, meno speculativo, e l'Occidente, troppo razionalista forse, non si sarebbero capiti. Si è allora andati alle cause puramente storiche che presto sembrano essere soltanto una serie di casi sfortunati; prevale allora l'interpretazione psicologica: a ciascuno si fa un dovere, dopo aver messo tra parentesi tutti i problemi, di trovar scortese la propria parte. Così Clement scrive del patriarca Michele Cerulario: "Il patriarca bizantino Michele Cerulario era uno spirito rozzo, incapace di discernere l'essenziale dall'accessorio e di elevarsi ad una concezione ecumenica della Chiesa"; e Congar dice del cardinale Umberto che era "un uomo rigido e combattivo" e la sua Bolla di scomunica è un monumento di inimmaginabile incapacità di comprensione". A forza di "dialogo", è la storia che rischia di diventare incomprensibile se si resta sulle alte sfere della "casualità psicologica". In realtà l'aspetto storico e l'aspetto teologico sono legati, soprattutto a partire dall' VIII secolo quando la teologia del filioque, della redenzione e generalmente il metodo teologico uscito dall'agostinismo appaiono come l'ideologia dei Franchi e dei Germani i cui antenati hanno invaso la romanità occidentale e che hanno avuto bisogno di tre secoli per costituirsi in Stato. Lo "scisma" non è soltanto una rottura, uno strappo nel tessuto cristiano dovuto ad una separazione teologica tra Roma e l'Oriente, ma piuttosto l'usurpazione della sede ortodossa dell'antica Roma operata dai Germano-Franchi e tendente al rapimento dell'ultimo Papa Ortodosso ed alla sua sostituzione con un papa germanico filioquista, Sergio IV.
Descriveremo ora in breve le grandi tappe di questa usurpazione che sono le tappe di una lotta tra l'elemento romano, gallo-romano e italo-romano, da un lato e i barbari goti, longobardi, vandali o franchi dall'altro. L'origine lontana, il dato fondamentale che celava in germe le divisioni ulteriori, sono le invasioni barbariche, non tanto per il carattere eretico ariano della religione di questi popoli, quanto per la loro incapacità di costituirsi in stato o almeno di modellare una religione capace di rimpiazzare quella che volevano distruggere. Dopo i primi massacri e grazie alla resistenza eroica dei vescovi, dei preti e di tutto il popolo martire gallo-romano, dal momento della morte del re Eurico, il progetto di sostituire la "Romanità" con una "Goticità" dovette essere abbandonato. Anzi al contrario numerosi capi barbari presero gli abiti e i titoli romani per guadagnare un po' di legittimità presso le popolazioni. Ciò però non vuol dire che il sentimento nazionale delle popolazioni asservite sia scomparso rapidamente, come hanno affermato certi storici (Fustel de Coulange). In realtà, dopo il naufragio del potere politico romano, la rappresentanza legale così come l'autorità morale sul popolo romano viene ad essere assunta dalla Chiesa che diventa il luogo di resistenza di tutti coloro che vogliono conservare la tradizione e l'identità romane. In questo tormentato periodo, oltre al ruolo dei grandi vescovi del V e del VI secolo come Fausto di Riez o Cesario d'Arles, il patriarca dell'Antica Roma assume la funzione di Etnarca del popolo Romano d'Occidente. E' lui infatti che resta in contatto con l'Imperatore di Costantinopoli. Si sa quanto Gregorio il Grande seppe preservare i diritti dei Romani in quell'epoca così tormentata e drammatica, al punto che non esitava, nei suoi Moralia a paragonare la Romanità occidentale con Giobbe. Certamente l'Impero Romano d'Oriente non aveva mai cessato di rivendicare, malgrado le difficoltà , la sua parte occidentale. I Romani d'Oriente e d'Occidente erano solidali, ma da Giustiniano a Basilio I la fortuna militare di Costantinopoli non fu sempre favorevole. Le divisioni interne dei barbari e quel periodo oscuro che fu l'epoca merovingia, assicurarono tuttavia alla Chiesa una molto relativa tranquillità: i barbari non potevano accedere facilmente allo stato ecclesiastico e la sinodalità della Chiesa, conforme ai Canoni Apostolici, era rispettata grazie alla grande maggioranza di Romani liberi nelle città gallo-romane. Sarà necessario l'immenso sistema di deportazione e di messa in schiavitù dei Romani che si chiama feudalesimo, perché i Franchi diventino maggioritari nell'elezione dei Vescovi.
Già le scuole monastiche che, fondate un tempo dai discepoli di San Giovanni Cassiano, di Onorato di Arles e di Fausto di Riez, formavano i vescovi romani, erano state annientate ad opera di Carlo Martello e di Pipino il Breve. A causa dell'anarchia politica merovingia, il carattere sinodale della Chiesa fu parzialmente soppresso per essere ristabilito solo a favore dell'episcopato franco. La grande crisi iconoclasta che lacerò l'Impero in Oriente, permise ai Franchi di godere delle divisioni interne dei romani d'Oriente e dell'Italia meridionale. In effetti, dopo l'inizio dell'VIII secolo, l'Italia romana e la Chiesa Ortodossa dell'Antica Roma restarono pericolosamente isolate, nel momento in cui, sotto il principato di Leone Isaurico e poi sotto i suoi successori, le icone furono distrutte e gli iconofili perseguitati. Poiché il papa Gregorio II rifiutava di promulgare gli editti imperiali che ordinavano la distruzione delle Icone, l'Italia fu isolata dall'Oriente e presa come in una tenaglia fra gli imperatori eretici e i Franchi. I Franchi erano iconoclasti, fondamentalmente, e ugualmente lo erano i Longobardi e certi vescovi dell'Italia del nord come Claudio di Torino. Tuttavia gli Ortodossi partigiani delle Icone erano numerosi in Gallia, nel clero e nell'episcopato di tradizione romana. In Oriente, grazie alla imperatrice Irene, essi riusciranno a prevalere e a imporre il VII Concilio Ecumenico che i vescovi franchi di Carlo Magno non riconosceranno e contro il quale si leveranno. La questione del filioque fu altrettanto grave. Il filioque non è una formulazione antica, come generalmente si afferma, che risalirebbe al III Concilio di Toledo. Data invece dalla fine del secolo VII o dall'inizio dell'VIII ed era contestato molto in Occidente all'inizio del IX dai vescovi gallo-romani: al contrario i franchi ne facevano il simbolo di una rinascita intellettuale che in realtà appariva ben modesta. Il Concilio di Aix la Chapelle è una notevole testimonianza di questa lotta tra l'elemento romano e l'elemento franco. Per prima cosa questo Concilio mette in evidenza il carattere recente del filioque. In effetti i rappresentanti del Concilio di Aix informarono il Papa che il Simbolo della fede cominciava ad essere cantato con il filioque nel palazzo di Carlo Magno e che si trattava di un dogma nuovo. Il Concilio di Aix non poté concludere nulla e si divise in due partiti contrari. Carlo Magno, il campione del filioque, non poté in realtà imporre la sua opinione e il Concilio si sciolse prima della sua fine. Così scrive Adam Zernicaw: "Gli incontri sullo Spirito Santo furono numerosi con gli uni che dicevano che lo Spirito santo procedeva anche dal Figlio e gli altri che li contraddicevano". Ciascuno dei due partiti fece appello al Papa Leone III che non solo si oppose all'aggiunta del filioque, ma in più ordinò che il Credo di Nicea-Costantinopoli fosse inciso su due piastre d'argento, in greco ed in latino, nella chiesa di San Pietro. Questa sconfitta di Carlo Magno dimostra che il potere dei Franchi cadeva di fronte all'autorità del Papa Ortodosso dell'Antica Roma. Bisogna ben comprendere che per Carlo Magno il contenuto dogmatico non era essenziale, ma il filioque era per lui il simbolo del progresso compiuto nei confronti dei "Greci" in teologia grazie all'applicazione delle categorie razionali alla Santa Trinità. Era per lui la prova della superiorità culturale dei Franchi su coloro che chiamava spregevolmente i "Greci". Il vecchio Leone III, sebbene fosse riuscito a resistere sulla Fede, aveva tuttavia permesso a Carlo Magno di riportare una vittoria definitiva sul piano politico facendosi incoronare "Imperatore dei Romani" e cioè lo aveva lasciato usurpare il potere legittimo dell'Imperatore di Costantinopoli sulle popolazioni romane di Occidente. La versione germano-franca dell'incoronazione di Carlo Magno che si trova sui manuali di storia occidentali è una vera mistificazione, poiché essa è fondata unicamente sul racconto dell'ideologo franco Eginardo che afferma che sarebbe stato Leone III ad aver voluto di sua iniziativa incoronare un Carlo Magno piuttosto reticente. In realtà con questa cerimonia in cui la potenza del re franco fece violenza al Papa Ortodosso Leone III, Carlo Magno voleva instaurare una nuova concezione della legittimità del potere. Il racconto di Eginardo che non osa addossare a Carlo Magno la responsabilità dell'avvenimento, prova al contrario che nel IX secolo i barbari non erano riusciti ad instaurare altra legittimità che quella del popolo romano. Invece la pretenziosa teologia del filioque e la concezione carolingia del potere aggiunte al fatto che la dottrina agostiniana sulla predestinazione sembrava poter far considerare predestinata la razza dei Franchi, gettarono le fondamenta principali del Medio evo occidentale.
La necessità di lottare contro gli Arabi nell'Italia meridionale e l'occupazione militare franca della Roma Antica vi aveva fatto nascere, come in un microcosmo, una situazione simile a quella dell'Occidente: un partito franco ed un partito romano vi lottavano. Dalla morte di Leone III all'anno 858, il popolo ortodosso di Roma riuscì ad imporre un suo candidato , malgrado le minacce dell'imperatore germanico. Già dal momento dell'elezione di Leone III grandi furono l'ansietà ed anche il terrore per una rappresaglia franca. L'elezione di Benedetto III fu interrotta dal partito germanico che impose per un momento il proprio candidato Anastasio, ma la folla assediò le porte della basilica costantiniana ove si teneva il sinodo incaricato di eleggere il nuovo papa. Alla morte di Benedetto fu eletto il primo papa germanofilo Nicola I. L'imperatore germanico Ludwig accorse e fece svolgere l'elezione alla sua presenza. Prestissimo Nicola I volle imporre la sua autorità su tutta la chiesa e applicò alla sua tiara e al suo regno la dottrina della predestinazione. Scrisse al patriarca della Nuova Roma, San Fozio il Grande, che "la Chiesa di Roma aveva meritato il diritto al potere assoluto ed aveva ricevuto il governo di tutte le pecorelle di Cristo". Un po' più tardi, furioso di non aver ottenuto il riconoscimento delle sua innovazioni da San Fozio, scrisse direttamente al popolo, al clero e all'Imperatore di Costantinopoli delle lettere piene di ostilità e di odio in cui il patriarca è chiamato "Signor Fozio" , "adultero", "omicida" ed "ebreo". In Bulgaria benediceva la missione del vescovo Formoso, uno dei capi del partito filogermanico, ed autorizzava l'aggiunta del filioque al Credo nonché altre riforme o pratiche tipiche delle chiese franche. Questo atteggiamento provocò la reazione della Chiesa di Costantinopoli e San Fozio, d'accordo con il suo Sinodo, inviò un'enciclica a tutte le Chiese nella quale denunciava la situazione creata in Bulgaria e il dogma del filioque. Un concilio si tenne a Costantinopoli nell'867, alla presenza dei delegati dei patriarchi orientali, che anatematizzò le dottrine denunciate da san Fozio, in particolare l'eresia del filioque e la sua aggiunta al Credo di Nicea-Costantinopoli in Bulgaria. Più di mille firme testimoniarono contro il dogma franco che, come afferma San Fozio, scinde la Santa Trinità in due, poiché instaura due sorgenti nella Divinità, finendo così nel paganesimo. Dopo la partenza per l'esilio del patriarca Fozio, il papa Nicola I fece organizzare a Costantinopoli nell'869 un concilio di 18 vescovi nel quale la persona di San Fozio fu condannata, senza che nessuna eresia gli potesse essere rimproverata. Bisogna dire che Nicola I in Roma non osò mai imporre il filioque per paura del popolo romano fedele alla Fede Ortodossa. Nicola I d'altronde non cessava di trovare difficoltà con i romani dell'Italia del Sud e anche con quelli delle Gallie che erano rimasti scossi dalla sua concezione totalitaria dell'antica "etnarchia". Quando morì, era ormai sostenuto solo dai teologi franchi filioquisti che egli aveva mobilitato contro il patriarca e l'imperatore di Costantinopoli, senza peraltro fare il nome di San Fozio la cui scienza e santità erano note ai romani ortodossi della Gallia.
Dopo un papa di transizione, Adriano, il partito romano ebbe nuovamente il sopravvento e l'arcidiacono Giovanni, divenuto Giovanni VIII, salì al trono patriarcale di Roma. Giovanni VIII che la storiografia occidentale ha lasciato per molto tempo da parte - e ciò in parte a causa della falsificazione delle fonti, ormai ammessa dagli storici -, fu un grande papa della Romanità, della statura dei Leone Magno e dei Gregorio Magno. Gerarca attento e prudente, fino alla morte dell'imperatore Ludwig II nell'875, seppe utilizzare il partito germanico, senza pur dare ad esso un ruolo decisionale. Al momento però nel quale la minaccia germanica scomparve con la morte dell'imperatore, depose, scomunicò e anatematizzò i vescovi "nicolaiti" che avevano aggiunto il filioque in Bulgaria ed in particolare il vescovo Formoso. Scelse un candidato all'impero tra i carolingi, il re di "Francia" Carlo il Calvo che era il più moderato e il più lontano dall'Italia e gli impose una "donazione" che liberava le elezioni dei papi dalla presenza dei legati imperiali. Così tentava di preservare Roma da un nuovo Nicola imposto dal partito germanofilo. Dopo la disfatta e la morte di Carlo il Calvo, lasciò in sospeso la successione che egli cercava di controllare, muovendo i vari candidati gli uni contro gli altri. Fallì alla fine perché il re Carlo il Grosso invase Roma e fece avvelenare Giovanni VIII che fu poi finito a colpi di scure. Questo periodo di tempo che Giovanni VIII riuscì a dare al trono dell'antica Roma, se da un lato fece entrare la capitale in un periodo di disordini e di incertezze, dall'altro doveva contribuire a cambiare l'aspetto delle cose. Da una parte la disorganizzazione politica in Italia provocata dalla vacanza del trono imperiale occidentale permise alle truppe di Basilio I di avanzare in modo decisivo in Italia e di liberare momentaneamente i romani della regione ; dall'altra parte i legati di Giovanni VIII poterono assistere e riconoscere le decisioni del Concilio dell'879 presieduto da San Fozio, di nuovo in possesso del suo trono patriarcale. A questo concilio tutti patriarchi vennero rappresentati e San Fozio fu riconosciuto da tutto il mondo quale Patriarca della Nuova Roma. Così colava a picco tutta l'opera di Nicola I. L'inalterabilità del Simbolo della fede e la condanna di ogni aggiunta furono proclamate ufficialmente benché Giovanni VIII avesse domandato che i franchi non venissero nominati e ciò per prudenza. I legati della Chiesa di Roma chiamarono l'aggiunta del filioque un "inqualificabile insulto ai Padri", Giovanni VIII scrisse una lettera a San Fozio nella quale condannava in termini velati, ma fermi, i germano-franchi e l'aggiunta del filioque: "Noi li mettiamo dalla parte di Giuda, poiché essi hanno lacerato le membra del Cristo". Questo concilio dell'879 che riconobbe l'ecumenicità del VII Concilio ebbe tutti i caratteri di un Concilio Ecumenico e la chiesa Ortodossa lo riconosce ormai come l'VIII Ecumenico. Il pontificato di Giovanni VIII segna dunque un momento decisivo e mal conosciuto della storia dello "scisma", perché rappresenta l'ultima grande resistenza dei romani dell'antica Roma e dell'Occidente nei confronti della spinta germano-franca contro il trono ortodosso di Roma.
Il periodo che va dalla morte di Giovanni VIII all'inizio del secolo IX è sistematicamente rappresentato in Occidente come un periodo di corruzione e di anarchia a causa del ruolo che in quest'epoca hanno avuto i laici nella scelta dei papi. I soli papi che trovano grazia agli occhi degli storici, sono quelli rivolti verso i regni sorti dai carolingi. In realtà questo periodo è presentato come un periodo particolarmente turbolento perché i romani dell'antica Roma conservavano un controllo relativo sulla loro Chiesa. Come scrive G. Romanidis : "Per due secoli, dagli anni tra il 784 e l'809, quando i Franchi condannarono il VII Concilio Ecumenico, fino al 1019 o 1014 quando il Filioque fu definitivamente introdotto nel simbolo a Roma, gli Ortodossi Latini lottarono duramente in Italia per conservare la Fede del VII e dell'VIII Concilio Ecumenico". Effettivamente fino all'inizio del secolo XI il Filioque non fu mai aggiunto al Credo e, finché Roma riconobbe il VII e l'VIII Concilio Ecumenico , la comunione non fu rotta fra le sedi orientali e l'antica Roma. Durante questo periodo i Franchi che temevano una rivolta di tutti i Romani dell'Occidente non osarono attentare direttamente al Patriarca dell'antica Roma. Quando però l'impero germanico fu ristabilito, l'ultimo Papa Ortodosso Giovanni XVIII fu deportato in un monastero dell'Italia meridionale e Sergio IV che doveva il suo trono all'Imperatore tedesco Enrico II, professò il Filioque nella lettera di intro-nizzazione che indirizzò al Patriarca di Costantinopoli Sergio II. Quest'ultimo, per decisione conciliare, cancellò allora il nome del papa dai dittici della Grande Chiesa e non vi fu mai rimesso. A Roma il filioque fu ufficialmente aggiunto dal papa Benedetto VIII che era nipote dell'Imperatore tedesco. Ancora una volta il clero ed il popolo reagirono ma dovettero questa volta inchinarsi di fronte all'autorità di Benedetto VIII perché fu durante l'incoronazione di Enrico II di Germania che il Credo fu letto con l'aggiunta. L'usurpazione del Trono ortodosso dell'antica Roma così si compiva e il popolo romano d'Occidente, senza né capo, né difese, dovette sopportare le persecuzioni che fecero ad esso subire i grandi papi del feudalesimo come Gregorio VII. Ciononostante ci furono per molto tempo ancora in maniera sparsa delle resistenze e si sa da un testo di Alessandro di Hales che nel 1240 e cioè 226 anni dopo l'aggiunta del filioque di Benedetto VIII si cantava ancora in certe chiese il Credo senza l'aggiunta. Si può dire tuttavia che nel 1014 la resistenza di quattro secoli dei Romani di Occidente si conclude e che così una nuova struttura ecclesiale, totalmente estranea all'antica e che porta tutte le caratteristiche del feudalesimo, sostituisce totalmente il Papato ortodosso di Leone, di Gregorio e di Giovanni VIII.
L'incidente del 1054 a Costantinopoli che dà il suo nome allo "scisma", non è dunque, come si è detto, che un permesso di inumazione. Si sa che il 15 Luglio 1054 durante la Liturgia celebrata alla presenza del patriarca Michele Cerulario, Umberto, legato del Papa Leone IX, fece irruzione in Santa Sofia e pose sull'altare un libello in cui rimproverava gli "orientali" di aver tolto il Filioque dal Credo. Accusava inoltre il Patriarca Michele di essere nemico dello Spirito e nemico di Dio. Il patriarca riunì un Concilio e anatematizzò "questo scritto empio e stupido". Il Patriarca Pietro di Antiochia al quale il Cerulario scrisse, confermò la decisione della Chiesa di Costantinopoli e tutti gli altri Patriarchi Orientali fecero la stessa cosa seguendo in ciò quanto avevano deciso al momento del Concilio dell'879.
Gli avvenimenti ulteriori confermano che il termine usurpazione è il più adeguato per descrivere la politica ecclesiastica dei Franchi e dei Germani. Le crociate sono infatti in un modo ancora più chiaro dei tentativi di rimpiazzare i Vescovi Ortodossi delle sedi orientali con dei Vescovi "latini", cioè Franchi. L'uniatismo fu ugualmente la continuazione con mezzi più o meno diretti della stessa politica e solo recentemente la conoscenza e lo studio dei testi hanno permesso un'interpretazione sfavorevole all'Occidente dello "scisma". E' questo ristabilimento dei fatti che l'Ecumenismo tenta di relativizzare, appoggiandosi sull'ostilità o sul disprezzo quasi ereditario nei confronti di tutto ciò che è "bizantino" o "greco", ma esso, lasciando nell'oblio la resistenza dei suoi antenati romani ortodossi, non può giustificare codesta relativizzazione se non nascondendo dei fatti storici e disprezzando in maniera quasi totale la lotta politica e teologica dei Romani Orientali durante le Crociate e durante i secoli XIV e XV quando san Gregorio Palamas e San Marco d'Efeso si presentarono come i campioni della Tradizione Romano Ortodossa di fronte alla Teologia orgogliosa dei Franchi prodotto di elucubrazioni razionali e fantastiche. Ai nostri tempi in cui la civiltà sorta dal preteso "Rinascimento" è in molte parti contestata, l'ecumenismo viene considerato da molti ortodossi come un ultimo tentativo del Papato, isola feudale in mezzo al mondo moderno, di salvare "l'infallibilità" dell'uomo europeo ed impedire il ritorno dei "Romani d'Occidente" alla teologia tradizionalmente romana degli ortodossi e cioè alla teologia dei Tre Dottori. (Versione italiana da La Pietra nn.3-4/1999)
DAL MILLE ALLA FINE DEL 1200
Quadro politico
Le due istituzioni politiche maggiormente rappresentative, in questo periodo, sono l'Impero romano-germanico e la Chiesa cattolico-romana. La corona imperiale è detenuta prima dalla casa di Franconia (1024-1125) e poi dalla casa di Svevia (1152-1250), entrambe della Germania. Sotto la dinastia francone le vicende politiche più significative, a livello europeo, furono: 1) la lotta dell'impero contro il papato per le investiture del clero (vescovi e abati),
2) il grande scisma tra cattolici e ortodossi,
3) le crociate in Medio Oriente contro i musulmani,
4) l'emanazione da parte dell'impero della Costitutio de feudis (1037). Sotto la dinastia sveva le vicende più importanti furono:
1) la prosecuzione delle crociate,
2) l'annessione imperiale del regno normanno nell'Italia meridionale,
3) la lotta dell'impero contro i Comuni (Milano, Pavia, Genova, ecc.),
4) la lotta dell'impero e della chiesa contro le eresie.
A) La lotta per le investiture (1059-1122)
I) Verso la metà dell'XI sec. il papato si era notevolmente rafforzato, superando la profonda crisi in cui era caduto nei secoli IX e X. Le forti proteste contro il concubinato del clero, la simonia, cioè la vendita di funzioni, cariche e beni ecclesiastici per denaro, l'ignoranza e l'indifferenza per la religione, lo costrinsero a prendere posizione.
II) Soprattutto due aspetti avevano contribuito a mettere in crisi la chiesa:
1) il papa, in conseguenza del privilegio che l'imperatore sassone Ottone I aveva preteso, doveva, prima di essere consacrato, ricevere la conferma dell'imperatore, mentre, in conseguenza di un ulteriore decreto voluto da un altro imperatore, Enrico III, doveva ottenere da quest'ultimo la designazione prima di essere eletto;
2) i vescovi, in conseguenza della politica di Ottone I, che li aveva già investito del governo delle città e dei feudi (vescovi-conti), avrebbero dovuto ricevere l'investitura temporale (mediante la spada) dall'imperatore e quella ecclesiastica (mediante l'anello e il pastorale) dal papa, ma l'imperatore, approfittando della subordinazione del papato alla sua volontà, si era col tempo arrogato anche l'investitura ecclesiastica, cioè l'elezione stessa dei vescovi e degli abati.
III) La protesta contro questa situazione critica venne condotta su due piani:
1) quello ereticale delle ribellioni popolari urbane (ad es. la Patarìa) che si richiamavano agli ideali evangelici di povertà, fraternità e comunione dei beni, contro gli abusi e la corruzione dell'alto clero;
2) quello del monachesimo cluniacense: un movimento che. sorto nel monastero francese di Cluny, coinvolse gli ordini regolari dei benedettini, cistercensi, certosini, camaldolesi, ecc., nonché una buona parte del clero secolare e del laicato cattolico.
IV) Il papato optò per la seconda alternativa, senza rinunciare a un'intesa con la Patarìa (dal nome del quartiere milanese ove abitavano i tessitori e i commercianti di panno) per minare l'indipendenza dei vescovi lombardi nei suoi confronti. I monaci di Cluny volevano difendere l'ideale di una chiesa "guida suprema" della cristianità, con a capo il potere indiscusso del pontefice. Gli ordini religiosi che parteciparono a questo movimento chiesero d'essere posti sotto la diretta potestà del papa, per sottrarsi all'autorità del vescovo diocesano o del signore laico locale. La loro riforma morale voleva essere molto rigida e intransigente. Sul piano teologico si servirono delle cosiddette Decretali dello pseudo-Isidoro, un falso documento composto verso la metà del IX sec. Si tratta di una raccolta di testi apocrifi nei quali si parla del potere del vescovo di Roma su tutti gli altri vescovi, si nega il diritto ai sovrani laici d'intromettersi negli affari della chiesa e si parla della loro sottomissione al potere ecclesiastico. Per la prima volta viene avanzata l'idea dell'infallibilità del papa. Questo documento era stato preceduto nell'VIII sec. da un altro falso, fatto passare per autentico: la cosiddetta Donazione di Costantino, in cui si sostiene che l'imperatore Costantino concesse al pontefice le insegne imperiali e tutte le città italiane, Roma compresa, mentre lui si trasferiva a Costantinopoli.
V) Nel 1059 si tenne a Roma il grande Concilio del Laterano, col quale si promulga una serie di decreti per condannare la simonia, il concubinato, ogni forma di lassismo morale e di indisciplina del clero. Si stabiliscono inoltre nuove norme per l'elezione del pontefice: la scelta e l'elezione del candidato viene riservata al Collegio dei cardinali, cioè ai vescovi titolari di diocesi, di chiese o di cariche fondamentali della chiesa di Roma e della campagna romana circostante (la nomina dei cardinali era riservata al papa). Al resto del clero e al popolo romano veniva riconosciuta la facoltà di manifestare il proprio consenso mediante acclamazione. L'elezione del pontefice era così sottratta ad ogni ingerenza della nobiltà romana e dell'imperatore, e venivano altresì rifiutati i suddetti privilegi di Ottone I e di Enrico III. Per affrontare l'inevitabile scontro con l'impero tedesco, il papato si alleò militarmente con la potenza normanna, stanziata nel sud dell'Italia, e minacciò di scomunicare le autorità laiche che avessero continuato a concedere le investiture.
VI) Il conflitto tra papato e impero assunse toni drammatici quando vennero a confronto il papa Gregorio VII e l'imperatore Enrico IV. Il papa, infatti, con i suoi decreti, chiamati Dictatus papae (1075), non voleva solo abolire ogni ingerenza laica nella vita ecclesiastica, ma voleva anche conferire al vescovo di Roma l'esercizio di un primato assoluto su tutte le autorità ecclesiastiche e secolari. Il suo programma teocratico prevedeva:
1) infallibilità della chiesa romana,
2) universalità del pontefice e sua superiorità sui concili (soltanto a lui spettava il potere di nominare i vescovi e di emanare prescrizioni ecumeniche),
3) potere del papa di deporre gli imperatori e di scioglierne dal giuramento di fedeltà i sudditi.
VII) Viceversa, Enrico IV faceva leva su una tradizione ben radicata nell'Occidente, secondo cui l'autorità del potere imperiale proviene direttamente da Dio e non dal papa. Oltre a ciò, Enrico IV temeva che l'attuazione della riforma gregoriana lo privasse di tutti i possedimenti ecclesiastici che dipendevano dalla sua corona.
VIII) Le delibere dei Concili ecclesiastici a favore della riforma gregoriana non furono rispettate né da Enrico IV, né dalla maggioranza dell'episcopato di Germania, Francia, Inghilterra e Italia. Enrico IV anzi convocò una Dieta di vescovi tedeschi a Worms per far dichiarare decaduto Gregorio VII. La risposta fu immediata: il papa scomunicò l'imperatore, sciogliendo i sudditi dall'obbligo di fedeltà. Di ciò approfittarono subito molti principi tedeschi ostili a Enrico IV, il quale così si vide costretto a sottoporsi all'umiliazione di mendicare, nella veste di un comune penitente, la revoca della condanna: cosa che ottenne dopo tre giorni di penitenza presso il Castello di Canossa, in Toscana, ove Gregorio VII s'era rifugiato temendo un attacco militare dell'imperatore. Il pontefice cedette anche perché da molte parti gli erano pervenute delle proteste per la scomunica lanciata contro l'imperatore.
IX) Tornato in Germania, Enrico IV soffoca l'opposizione interna, ripristina la prassi delle investiture imperiali del clero e scende in Italia con un forte esercito. A Roma si fa incoronare imperatore da un antipapa che aveva fatto eleggere in precedenza. I Normanni vengono in soccorso di Gregorio VII, ma, dopo aver cacciato l'imperatore, saccheggiano così duramente la città che la cittadinanza costringe il papa a rifugiarsi a Salerno, dove morirà dopo un anno.
X) La lotta per le investiture prosegue con i successori di entrambe le parti e si conclude con il Concordato di Worms (1122), con cui Enrico V riconosce la separazione delle due investiture: l'elezione del pontefice resta riservata al Collegio dei cardinali, quella dei vescovi e degli abati diventa di esclusiva prerogativa del clero; all'imperatore fu riconosciuta la facoltà di concedere l'investitura temporale (o politica) solo a quei vescovi o abati già eletti secondo la legge canonica: solo in Germania l'imperatore poteva concedere l'investitura temporale prima di quella ecclesiastica.
XI) In conclusione:
1) la politica episcopale degli imperatori germanici, iniziata da Ottone I, era definitivamente fallita;
2) una parte dei feudatari (laici ed ecclesiastici) approfittò della debolezza dell'impero per consolidare il proprio dominio, ampliando i confini territoriali: il che diede origine ai cosiddetti "principati territoriali" (territori isolati politicamente ed economicamente in cui poi si frantumerà la Germania);
3) la chiesa cattolica era diventata un organismo centralizzato e autoritario, sovrapposto alla comunità dei credenti e guidato da un monarca eletto dall'apparato dirigente della curia romana, vertice di una gerarchia ecclesiastica disciplinata;
4) in molte città dell'Italia settentrionale, una volta indebolita l'autorità del vescovo-conte, il vuoto di potere viene colmato dagli stessi cittadini, uniti da comuni interessi e resi più forti dallo sviluppo delle loro attività economiche: di qui la formazione dei Comuni.
B) La Costitutio de feudis (1037)
I) Durante il governo della dinastia di Franconia, l'imperatore Corrado II il Salico fu costretto a emanare la Costitutio de feudis, con cui riconosceva anche ai feudatari minori (valvassori o vassalli dei baroni) il diritto di trasmettere ai legittimi eredi i benefici dei quali avevano ottenuto l'investitura. Ciò stava ad indicare che all'interno della classe feudale i contrasti non riguardavano più soltanto le rivalità tra singoli signori, ma si erano anche ampliati alla contrapposizione tra interi settori della feudalità.
II) Il movimento di trasformazione interna del sistema feudale, pur interessando tutto l'Occidente europeo, ebbe come epicentro l'Italia del nord (vedi soprattutto i valvassori di Milano). Corrado II si mise dalla parte di questi valvassori anche per ottenere nuovi appoggi alla corona contro lo strapotere dei grandi feudatari laici ed ecclesiastici. Tuttavia, il decreto non farà che accelerare la disgregazione dei poteri imperiali, in quanto i piccoli feudatari, ottenuto il decreto, si allearono con le grandi signorie contro l'impero. A quel tempo fu proprio questa alleanza, sostenuta dai nuovi ceti mercantili, che riuscì ad impedire a Corrado II di imporre la sua volontà sulla città di Milano. Addirittura la popolazione, cosciente della propria forza, riuscì a liberarsi, poco dopo, anche della presenza dell'arcivescovo, costringendo la grande nobiltà a formare un governo su base comunale, cioè associativa.
C) Lo scisma cattolico-ortodosso (1054)
I) I rapporti tra l'Occidente cattolico e l'Oriente ortodosso (le due correnti principali della cristianità europea medievale) cominciarono a deteriorarsi quando il papato, nell'800, accettò di incoronare Carlo Magno sovrano del Sacro Romano Impero d'Occidente, senza che si chiedesse alcuna autorizzazione all'imperatore di Costantinopoli.
II) Successivamente gli imperatori carolingi e germanici presero ad accusare i greco-ortodossi (bizantini) di eresia, al fine di giustificare il trasferimento dell'impero a Occidente. Lo fecero in una maniera un po' curiosa. Approfittando di una lotta contro l'eresia ariana in Spagna, cominciarono a introdurre nel Credo cristiano l'espressione "Filioque" ("e dal Figlio"), relativa alla processione dello Spirito, che per i cattolici avviene anche "dal Figlio". Questo nel 589. In seguito l'aggiunta si diffuse in tutto l'impero d'Occidente, tanto che nel 1014 l'imperatore Enrico II indusse il papa a inserirla ufficialmente e definitivamente nel Credo. Dopodiché gli imperatori d'Occidente presero ad accusare i bizantini d'essere stati loro a omettere questa formula nel Credo! Naturalmente un'accusa di tal genere faceva leva sull'estraneità che da secoli caratterizzava i rapporti tra le due confessioni. In ogni caso, la questione del "Filioque" servì da premessa ideologica per giustificare la rottura con l'oriente cristiano.
III) Già si è detto che subito dopo il Mille, la chiesa romana cercò con la lotta per le investiture di sottrarsi alla soggezione in cui la costringevano gli imperatori occidentali. Questo mutato atteggiamento trovò un riflesso anche nel suo modo di rapportarsi all'Oriente ortodosso. Infatti, se a partire da Carlo Magno i suoi rapporti con l'Oriente erano mediati dagli interessi dell'impero d'Occidente, ora essa pensa di staccarsi dall'ortodossia in modo autonomo. E cominciò a farlo chiamando in Italia, nel 1016, i Normanni, affinché l'aiutassero nella guerra contro gli arabi e i bizantini nell'Italia meridionale. Ben presto però i Normanni si aggiudicarono il controllo di tutto il sud (incluse le isole), minacciando i territori dello stesso papato. Il quale così decise di inviare una delegazione a Costantinopoli per chiedere due cose: l'aiuto militare dell'imperatore e la subordinazione della chiesa ortodossa a quella cattolica (in tal modo Roma poteva controllare tutte le diocesi bizantine ancora presenti nel Mezzogiorno).
IV) I rapporti, già fin troppo tesi, degenerarono sino alla traumatica rottura. Il patriarca di Costantinopoli prese ad accusare la chiesa romana, rappresentata dalla delegazione, di usare il "Filioque" nel Credo, il pane azzimo nell'eucarestia e di essere incorsa in molte altre deviazioni dal rituale classico. La delegazione rispose appellandosi agli apocrifi decreti isidoriani (sconosciuti a Costantinopoli), che rivendicavano la supremazia papale. La conclusione di questa missione diplomatica si risolse in una reciproca scomunica: in quella della legazione latina vi erano accuse completamente infondate (ad es. si rimproverò ai bizantini di aver omesso il "Filioque" dal Credo, di aver permesso al clero di sposarsi contravvenendo alle tradizioni apostoliche, ecc.).
V) L'imperatore d'Oriente non voleva essere trascinato in quello scambio di ostilità ecclesiastiche, ma, dietro insistenza del patriarca, accettò di convocare un concilio per scomunicare i latini. I Normanni fecero il resto, rendendo impossibile la ripresa di nuovi negoziati. Col tempo le differenze tra cattolici e ortodossi si accentuarono, soprattutto nel campo dell'organizzazione ecclesiastica. L'Occidente vedeva nella chiesa una monarchia sacra e considerava il papa come la fonte assoluta di ogni autorità. Viceversa, i bizantini erano più favorevoli alla dimensione conciliare della chiesa e ritenevano l'imperatore investito di autorità direttamente da Dio.
CRISI DELLA SOCIETA' FEUDALE E NASCITA DEL CAPITALISMO COMMERCIALE
I) Subito dopo il Mille si verifica nella società europea occidentale, un risveglio in ogni forma della vita economica, politica, religiosa e culturale, che durerà almeno sino alla metà del '300 e che riguarderà soprattutto l'Italia settentrionale, la grande pianura europea lungo i fiumi navigabili, le Fiandre (Belgio). Nel Nord-Europa dominava la Lega Anseatica (Colonia, Amburgo, Brema, Lubecca, Danzica, Riga, di lingua tedesca) che commerciava con Russia, Paesi Scandinavi, Polonia, Olanda... Le condizioni che contribuiscono a provocare la crisi della società feudale e a favorire la formazione di nuovi centri organizzativi, come le città, le corporazioni di arti e mestieri, le università, sono le seguenti:
1) Rapido incremento demografico. La popolazione dell'Occidente europeo era andata progressivamente diminuendo dal III-IV sec. fino a toccare la punta massima di depressione nel sec. IX. Nell'XI sec. si ha un'inversione di tendenza, perché verso i centri urbani si dirigono sempre più numerosi i contadini che si liberano dalle condizioni servili del lavoro agricolo (fenomeno dell'urbanesimo). Essi sono richiamati dalle città che chiedono nuove forze lavorative e promettono ai lavoratori di diventare cittadini liberi. Le città, che dopo le grandi incursioni barbariche si erano spopolate (solo poche potevano contare più di 3.000 ab.), si ripopolano quando queste invasioni hanno fine (intorno al 1300 più di 60 città europee superavano i 10.000 ab.) e quando si raggiungono forme di sussistenza meno precarie, grazie allo sviluppo tecnologico e all'espandersi dei commerci. [Lo spopolamento non si era però verificato nell'Europa bizantina e musulmana]. 1.1) La popolazione europea passa dai 20-40 mil. circa dell'anno Mille, ai 50-70 mil. del 1300 (prima del 1348 la densità media era di circa 20-30 ab. per kmq). L'Italia, preceduta da Germania e Francia, non supera i 9 milioni di ab. [L'epidemia di peste del 1348 decimerà di 1/3 la popolazione europea]. La durata media della vita si eleva a 35 anni. Ha termine la pratica dell'infanticidio dei neonati di sesso femminile. La mortalità infantile resta però sul 40% in media, anche se viene compensata da una notevole natalità nelle campagne. 2) Evoluzione tecnologica e Sviluppo industriale. Tra l'XI sec. e il XII sec. si moltiplicano i dissodamenti-disboscamenti-bonifiche (dal 70 al 90% della popolazione continua a vivere nelle campagne). Si diffondono innovazioni tecniche molto importanti: aratro pesante a versoio, in grado di lavorare la terra in profondità, rovesciandone le zolle; collare a spalla (e non più sul collo) per il cavallo da traino e giogo frontale con l'attacco in fila per i buoi (il che aumenta la trazione di 4-5 volte); ferratura degli zoccoli; la rotazione triennale delle colture, per evitare l'isterilirsi della terra (prima la rotazione era biennale: un anno si seminava solo una metà del campo, l'anno dopo l'altra metà. Con la rotazione triennale, la parte A, in autunno, produceva frumento e segale, la parte B, in primavera, produceva avena, orzo, piselli, ceci, lenticchie e fave, la parte C era a riposo. L'anno dopo la parte A era seminata con colture primaverili, la parte B era a riposo, la parte C produceva cereali d'autunno. Così aumentava la produzione annuale di circa 1/3. Da notare che l'alimento-base era il pane, rara la carne); i mulini ad acqua e a vento, che impiegavano un'energia praticamente gratuita, anche se molto alti erano i loro costi di costruzione: la loro più importante applicazione fu la macina del grano. La moltiplicazione degli strumenti, specie quelli di ferro, implica la formazione di ceti artigiani che vivono in città (nascono i fabbri specializzati, che producono coltelli, falcetti, vanghe, vomeri...). Il settore industriale trainante è quello edilizio (cattedrali, chiese, castelli, ponti, granai, mercati, case per ricchi). Il legno viene progressivamente sostituito con pietra, mattone e ferro. Nel 1200 cresce notevolmente anche la produzione tessile (cotone, seta). 3) Il progresso della società agraria. Al centro di una grande trasformazione dei rapporti sociali ed economici nelle campagne vi è la grande massa dei contadini, che sono in ascesa perché da un lato migliorano in modo quantitativo e qualitativo le colture agricole, e dall'altro riescono a strappare il riconoscimento di diritti più adeguati ai nuovi ruoli produttivi. Sempre più frequenti si manifestano nelle campagne episodi di congiure o di aperte ribellioni contadine contro gli obblighi feudali. I servi della gleba sono sempre meno disposti a fornire lavoro e prodotti per mantenere le forze armate del signore feudale o per garantirgli un'esistenza agiata da parassita. Questi contadini rivendicano maggiore autonomia produttiva (p.es. la possibilità di vendere i loro prodotti agricoli in città o di gestire la terra pagando un affitto). Se i signori reagiscono con la forza, i contadini spesso fuggono verso le città, diventando operai salariati o artigiani. 3.1) Da un lato dunque tendono a formarsi dei contadini benestanti o piccoli imprenditori agricoli che, pur non avendo la proprietà della terra, riescono a strappare molte concessioni al nobile, organizzando la produzione per il mercato e accumulando capitali (essi pagano un affitto al nobile). Dall'altro però si forma una specie di proletariato agricolo -i braccianti- che in un certo senso viene messo ai margini da questa trasformazione dell'agricoltura. Essi non possono trarre il sostentamento dal proprio fondo agricolo e sono costretti a lavorare a giornata, compensati con un salario in natura o in moneta. 3.2) Le famiglie contadine continuano a vivere prevalentemente nei villaggi, attorno ai quali vi sono le terre arabili, non divise da alcuna recinzione permanente, in quanto, dopo la mietitura, tutti i campi vengono usati per i pascoli. In periferia ci sono i terreni incolti e i boschi, anch'essi sfruttati in comune per la caccia, pesca, legname, miele e frutti selvatici. La collaborazione tra le famiglie permetteva di affrontare i grandi lavori stagionali. L'introduzione dei rapporti capitalistici nelle campagne determinerà, col tempo, la netta separazione delle terre private e una loro gestione individuale, la diminuzione delle terre comuni, la produzione per il mercato, la specializzazione delle colture, l'uso di metodi intensivi di sfruttamento della terra e della manodopera salariata... 3.3) La trasformazione dei rapporti socioeconomici nelle campagne è legata anche all'uso della moneta che sostituisce lo scambio in natura (baratto). Ciò comporta la fine del rapporto personale di dipendenza tra servo e signore, e l'inizio di un rapporto contrattuale, dove i diritti-doveri reciproci vengono precisati e sottoscritti in appositi contratti. 4) I commercianti. Sono loro i promotori principali dei traffici marittimi, che avvengono inizialmente con molte difficoltà (calamità naturali, rapine, pedaggi feudali). I commercianti sono degli sradicati, espulsi dalle campagne per miseria o per insofferenza al servaggio, avventurieri amanti del rischio, con pochi scrupoli e una grande motivazione al profitto economico. Spesso sono di estrazione contadina, talvolta di origine nobile (come i cadetti, spiantati e ambiziosi). Sono loro che reperiscono, trasportano, difendono le merci, creando reti di distribuzione, organizzando flotte e carovane, istituendo mercati urbani e fiere, associandosi in corporazioni di mutuo soccorso e monopolistiche. I mercanti specializzati nel cambio dei soldi (cosa indispensabile nelle fiere, a causa della diversità monetaria), diventeranno i futuri banchieri. 5) Gli artigiani. La produzione agricola è sempre più integrata dai servizi che prestano i fabbri, falegnami, calzolai, tessitori, armaioli..., le cui botteghe si moltiplicano in città, attorno ai mercati. La divisione sociale del lavoro si afferma tra città e campagna e all'interno della stessa città, tra una specializzazione artigiana-professionale e un'altra. Anche gli artigiani si uniscono in Arti o Corporazioni, organizzate secondo una gerarchia professionale. In tal modo gli operai e i garzoni sono maggiormente tenuti sotto controllo. Il maestro era proprietario di una bottega, degli attrezzi, della materia prima e conosceva i segreti del mestiere. Queste associazioni detenevano l'esclusiva delle attività di loro competenza, controllavano gli orari e le condizioni di lavoro, vietavano la concorrenza tra le varie botteghe, impedivano la pubblicità e altre iniziative che potessero favorire una bottega particolare, proibivano adulterazioni e frodi, gestivano i fondi per assistere i lavoratori ammalati o infortunati (incluse le loro vedove e gli orfani). 6) Gli aristocratici. Si recano nelle città per godere le rendite ricavate dai feudi agricoli dati in affitto, per investire i loro redditi in attività produttive, per cercare protezione contro signori più potenti che continuano ad esercitare un dispotico dominio nelle campagne. Mirano anche a confiscare alla chiesa le terre coltivate (le terre del clero raggiungono, in genere, 1/3 del totale), affidandole poi a ricchi contadini, per averne un canone. I cadetti (esclusi dall'eredità) e i piccoli feudatari in rovina diventano mercenari, professionisti della guerra: saranno loro, insieme ai contadini impoveriti e ai mercanti speculatori, che parteciperanno in massa alle crociate. I grandi feudatari detestano profondamente la logica borghese del valore fondata sul lavoro, per cui tollerano certe attività solo perché possono operare su di esse vari prelievi (tasse, pedaggi, dazi...). 7) Ripresa urbana e commerciale nell'Italia centro-settentrionale. Prima in Italia e nei Paesi Bassi, poi nel resto dell'Europa occidentale, il risveglio dei centri cittadini determina la trasformazione delle città da centri amministrativi-militari-religiosi, il cui nucleo essenziale era costituito da una fortezza o da una cattedrale (in quanto dipendevano da un signore feudale o da un vescovo), a centri produttivi-economici, di scambio e di consumo, il cui nucleo essenziale è il mercato. In Italia, le città più importanti, all'inizio, sono quelle marinare o quelle poste lungo le vie fluviali: Pisa, Venezia, Genova. Esse divengono centri di un traffico di transito su lunghe distanze, aiutate, in questo, anche dall'espansione euroccidentale verso Oriente, con le Crociate (importano spezie, seta, tessuti pregiati, gioielli...ed esportano manufatti europei). 7.1) Venezia e Genova (in parte Pisa), sino alla fine del XIII sec. controlleranno quasi tutti gli scambi dell'Europa occidentale con il Levante, il Nord-Africa (soprattutto l'Egitto) e il Mar Nero: Genova garantiva i contatti del Mediterraneo con l'Europa nordoccidentale; Venezia con l'Europa centro-orientale. Pisani, genovesi e veneziani sono presenti in tutta Europa come amministratori delle finanze pubbliche, esattori delle imposte, direttori di zecche, gestori di uffici doganali e di miniere, fornitori dell'esercito e della corte, ma anche come manifatturieri, capitani di navi, mercanti, marinai... Essi incentivano tutte le classi sociali a ricorrere al prestito, diffondono le operazioni di cambio della valuta estera e le pratiche del credito, istituiscono il sistema bancario e del debito pubblico, introducono le lettere di cambio, con le quali si poteva pagare in qualunque moneta, senza le spese e i rischi del trasporto in contanti, sperimentano la vendita a rate. Verso il 1300 sono i primi a diffondere l'uso dell'orologio meccanico per regolare la giornata lavorativa. A garanzia dei loro crediti, ottenevano concessioni commerciali, esenzioni fiscali e doganali, diritti di monopolio. Crearono praticamente il capitalismo commerciale europeo. Vittime principali di questo successo furono gli ebrei, ma anche, per un certo periodo, tutti i mercanti stranieri che volevano penetrare nel Mediterraneo. Il declino dei borghesi italiani inizierà coll'emergere degli Stati nazionali, che vorranno gestire in proprio i commerci; proseguirà con la caduta di Costantinopoli nel 1453 ad opera dei feudali turchi; e si concluderà in seguito alla scoperta dell'America, la quale sposterà il baricentro dei traffici mondiali dal Mediterraneo all'Atlantico.
LA RIFORMA GREGORIANA
Nei manuali di Storia medievale, normalmente, la Riforma gregoriana viene vista in maniera positiva, poiché con essa -si dice- Gregorio VII seppe "por fine" all'anarchia ecclesiastica dei due secoli precedenti. E, altrettanto naturalmente, si fa capire che questo era l'unico modo per risolvere il problema dell'anarchia. Che un problema di anarchia effettivamente esistesse, nessuno può metterlo in dubbio. La chiesa romana era in balìa delle famiglie nobiliari più potenti della capitale. Tuttavia, gli storici raramente si chiedono le motivazioni socio-culturali di tale anarchia. Ragionando in termini esclusivamente politici, essi ne addebitano le cause allo scarso prestigio, alla indebolita autorevolezza della chiesa istituzionale: di qui il giudizio positivo nei confronti della svolta autoritaria di Gregorio VII. Lo storico, al massimo, giudica negativamente quegli aspetti dogmatici che oggi risultano, in virtù dell'avvenuta secolarizzazione dei costumi e dei valori, particolarmente sgraditi. Ma il valore della riforma in sé non viene messo in discussione. Assai raramente uno storico riesce a supporre che l'anarchia ecclesiastica avrebbe potuto essere risolta con un maggiore senso democratico della vita sociale, civile e quindi nell'ambito della stessa chiesa. Di regola lo storico dà per scontato che la chiesa non è capace di democrazia, in quanto non è mai stata (se non nella primissima fase) un'istituzione democratica; per cui egli ritiene inevitabile il ricorso alla forza quando si tratta di risolvere problemi di organizzazione interna (specie se questi portano all'anarchia). Gli storici ritengono che la chiesa cattolica, a livello istituzionale (cioè a prescindere dai suoi singoli esponenti) si sia sempre posta nella storia solo in maniera politica. Poste le cose in questi termini essi non possono che avere, nei confronti dell'anarchia, un giudizio analogo a quello della stessa chiesa. Gli storici (solo italiani?) fanno molta fatica ad accettare le due seguenti idee: 1) che la religione debba restare separata dalla politica (questa, per loro, è stata un'acquisizione del secolarismo, che la chiesa romana ha dovuto accettare obtorto collo); 2) che nell'ambito della religione sia possibile vivere un'esperienza democratica, cioè non anarchica (come nel protestantesimo) né autoritaria (come nel cattolicesimo). Ora, quali furono le cause dell'anarchia ecclesiastica italiana? Esse vanno cercate nel desiderio anticristiano, espresso quasi sin dalle origini, della chiesa romana, di poter disporre di un certo potere patrimoniale da considerarsi come fondamento del proprio potere politico. Non a caso la chiesa romana s'è trasformata, con la svolta costantiniana, da chiesa perseguitata a chiesa privilegiata, sino a diventare, già con Teodosio, chiesa persecutrice. Ufficialmente la chiesa romana come istituzione non s'è mai opposta a questo ruolo di potenza economico-politica: chi ha provato a farlo è stato o emarginato, o perseguitato o strumentalizzato. Uno storico, se vuole essere obiettivo, non deve mai limitarsi a costatare i fatti, cercando di dimostrarne la loro intrinseca necessità, ovvero l'impossibilità di seguire vie alternative. Occorre invece che si sforzi di chiarire i seguenti aspetti: 1. ogni fatto, al momento di porsi, non è necessario, ma frutto della libertà; 2. di fronte alla necessità di risolvere determinati problemi vi è sempre la possibilità di seguire più di una soluzione; 3. una soluzione diventa più probabile di un'altra, perché vengono compiute delle scelte, più o meno consapevoli, più o meno autonome; 4. quando si tratta di scegliere una determinata soluzione, le condizioni storiche ereditate dal passato esercitano inevitabilmente una loro influenza, la quale però non può essere considerata decisiva, in ultima istanza, ai fini della scelta da compiere; 5. una soluzione ad un certo punto viene presa perché le contraddizioni risultano insopportabili; 6. per trovare la soluzione migliore ci si può avvalere della "memoria storica" e/o del "desiderio di liberazione" (le due cose non sono in antitesi e possono non essere complementari: la "memoria" p.es. può venir meno, il "desiderio" no); 7. la decisione di adottare una soluzione che poi si rivela sbagliata, non pregiudica mai di per sé e definitivamente la possibilità di riadottare una soluzione migliore; 8. le migliori soluzioni (anche se sono sbagliate) sono quelle che vengono adottate col maggior consenso popolare, poiché esse educano le masse a credere nella democrazia. Nel caso della Riforma gregoriana gli storici addebitano le cause dell'anarchia ai seguenti fattori: 1. vescovadi, pievi, abbazie... venivano concessi secondo le regole del clientelismo (favori personali ecc.: oggi diremmo "voti di scambio"); 2. la gestione del patrimonio ecclesiastico non rispondeva alle esigenze dell'utilità sociale (è una conseguenza del punto precedente); 3. le stesse cariche ecclesiastiche spesso venivano comprate (simonia), erano oggetto di contesa tra le famiglie più in vista (assenza quasi totale di vere vocazioni); 4. alcuni storici aggiungono, inspiegabilmente, che forte era la corruzione dei preti cosiddetti "concubinari", considerando "anormale" il matrimonio dei preti: come se di fronte ai divieti ancora informali della chiesa istituzionale al matrimonio non fosse inevitabile passare dal matrimonio legittimo al concubinato monogamico. Gli storici apprezzano la Riforma gregoriana anche per un'altra ragione: con essa si sarebbe favorita l'unificazione di un territorio, eliminando i particolarismi tipici delle situazioni sociali anarchiche. In realtà l'unificazione (qualunque essa sia, anche nazionale) non può essere, di per sé, considerata migliore della frammentazione. Quel che bisogna guardare è il contenuto socio-politico delle cose: esistono unificazioni positive perché politicamente democratiche; altre negative perché realizzate in maniera autoritaria (senza considerare che ciò che appare politicamente "democratico" non è detto lo sia anche sul piano socio-economico). Stesso discorso vale per la frammentazione: una divisione democratica del territorio è sempre da preferire a una unificazione imposta con la forza delle armi. L'unificazione può essere accettata solo quando è il frutto di un processo popolare e quindi di una larga partecipazione democratica. Ma anche quando essa si realizza, è sempre a livello locale che si verifica quotidianamente l'uso del potere democratico.
AGOSTINISMO E RIFORMA GREGORIANA
L'agostinismo, intorno al mille, era entrato profondamente in crisi: la riscoperta dell'aristotelismo, sul piano ideologico, e la riforma autoritaria di Gregorio VII, sul piano politico (cui seguiranno, sul piano militare e commerciale, le crociate), furono le due risposte che la chiesa cattolica diede alla crisi dell'agostinismo. Sarebbe interessante, in tal senso, verificare concretamente il motivo per cui tale crisi abbia prodotto dei risultati così sconvolgenti per la religione (nei suoi aspetti etici e conciliari). L'agostinismo non è stato semplicemente "riformato" ma addirittura "soppresso", "dimenticato", come fosse una cosa irrimediabilmente superata. Al punto che la sua successiva riscoperta avverrà soltanto nell'ambito protestante, in maniera del tutto strumentale, al fine di giustificare la rottura col cattolicesimo. In ambito cattolico la riscoperta dell'agostinismo (si pensi al giansenismo) non è avvenuta senza influenze calviniste e senza un certo rifiuto per la dimensione politica della fede (il che di per sé non è negativo, se il credente s'impegna come cittadino nella società civile: era forse questo il caso dei giansenisti?). La rottura operata dal papato nei confronti dell'Alto Medioevo agostiniano fu traumatica, ma ancora più lo fu quella nei confronti dell'ortodossia bizantina (nel 1054). E' difficile non pensare, in tal senso, che fra i motivi che sollecitarono il movimento delle crociate non vi fosse anche quello (ufficioso) coltivato dall'intellighenzia clericale e integrista, di dare una "lezione armata" alla confessione che non aveva voluto accettare il primato di Pietro e di Roma.
MEDIOEVO. PAPATO E IMPERO
I) La minore età di Federico II, figlio di Enrico VI e Costanza d'Altavilla, nonché la crisi dell'impero dopo la sconfitta nella battaglia di Legnano contro i Comuni del nord-Italia, crearono le condizioni favorevoli al tentativo del papato di sostituirsi all'impero nell'esercizio della sovranità politica universale.
II) Il nuovo papa, Innocenzo III (1198-1216) si propose di rilanciare il programma teocratico di Gregorio VII, per il quale il potere politico dei sovrani cattolici proveniva da Dio attraverso la Chiesa: cioè nessun potere laico era legittimo senza il previo riconoscimento da parte della Chiesa. Di qui la teoria, elaborata da Innocenzo III, della Luna-Impero che riceve la sua luce dal Sole-Chiesa.
III) Il papa cominciò ad applicare questa teoria nella città di Roma, dove l'autorità politica era costituita dal prefetto, rappresentante dell'imperatore, e dal Senato, organo di governo del Comune. Il prefetto gli prestò giuramento, mentre il Comune accettò una costituzione che dava al papa il potere di nominare il senatore al quale era affidato il governo della città. Poi proseguì l'azione in quei territori dove più forte era l'influenza della Chiesa: Umbria, Marche e Romagna (che più tardi formeranno lo Stato della Chiesa). Aiutò i Comuni di queste regioni a liberarsi dalla tutela imperiale e li indusse a porsi sotto la sua protezione. Fece inoltre riconoscere a Costanza d'Altavilla, vedova di Enrico VI, la signoria feudale della Chiesa sul regno normanno e, alla morte di lei (1198), assunse la reggenza per conto del piccolo Federico, col proposito di dividere il regno di Sicilia dalla Germania.
IV) Sicilia, Aragona, Portogallo, Inghilterra, Francia, Svezia, Danimarca, Polonia, il regno di Gerusalemme e l'impero latino di Costantinopoli riconobbero la sovranità del papa, il quale, in cambio, appoggiò i movimenti espansionistici del mondo cristiano: a nord-est, dove i monaci-cavalieri dell'ordine Teutonico e di Portaspada procedettero con estrema violenza alla cristianizzazione dei Paesi Baltici, con l'aiuto delle città commerciali della Lega Anseatica (1202-1204) nel Mare del Nord (Amburgo, Danzica, Lubecca, Stettino, Brema ecc.); nel Mezzogiorno francese, dove scatenò la crociata contro gli Albigesi, ottenendo il feudo di Avignone; a oriente, dove bandì la 4a, 5a e 6a crociata contro i Turchi in Palestina; a occidente, dove bandì una crociata contro i Musulmani di Spagna, che si concluse a favore dei cristiani. Contro le eresie ricorse non solo allo strumento della crociata, ma anche a quelli dell'Inquisizione e degli Ordini mendicanti (soprattutto Francescani e Domenicani: quest'ultimi, a partire dal 1233, dirigeranno il Tribunale dell'Inquisizione).
V) Innocenzo III riuscì anche a coalizzare le forze di Federico II di Svevia e di Filippo II Augusto, re di Francia, sia contro il re inglese Giovanni Senza Terra, che aveva rifiutato di riconoscere come primate della Chiesa inglese un cardinale nominato dal papa, reagendo alla scomunica, che quest'ultimo gli aveva lanciato, con la confisca di tutti i beni della Chiesa inglese; che contro le rivendicazioni alla corona imperiale di Ottone IV di Brunswick (Germania), che, pur essendo del partito guelfo, non piaceva a Innocenzo III, avendo cercato di conquistare l'Italia meridionale. La vittoria della coalizione filo-papale rafforzò per un breve periodo di tempo l'idea della teocrazia, ma in seguito si rivelò alquanto effimera: sia perchè la Francia iniziava ad affermare le proprie tendenze espansionistiche ed assolutistiche anche ai danni del papato; sia perchè Federico II era quanto mai interessato alla costituzione di una monarchia siculo-italiana (spostando nell'isola il centro dell'Impero), pur avendo egli promesso al papa che, appena divenuto imperatore, avrebbe rinunciato alla corona siciliana; sia perchè infine Giovanni Senza Terra, per non perdere la propria corona, dopo la sconfitta militare, sarà costretto, a causa di una rivolta delle forze feudali e urbane unite, a concedere la Magna Charta Libertatum, la quale pone le premesse per la formazione dello Stato moderno, indipendente dalla Chiesa.
VI) Magna Charta Libertatum (1215) - Essa per la prima volta sancisce, sul piano della legittimità, che: 1) i rapporti tra il re e la nobiltà sono regolati non più da atti di forza o dalla consuetudine feudale, ma da un patto bilaterale, giurato e sottoscritto, che impegna a precisi obblighi i contraenti; 2) il patto è ritenuto unica fonte legittima cui fare riferimento in caso di rivendicazioni avanzate da una parte o dall'altra, e in casi di contestazione per eventuale abuso di diritti. Alla concessione della Magna Charta seguirà col tempo l'istituzione del Parlamento, organo di controllo dei poteri statali e di tutela delle libertà sancite dallo statuto. - Sul piano del merito essa prevede: 1) il re s'impegnava a non intromettersi nella elezione delle cariche religiose e a non impadronirsi dei beni ecclesiastici; 2) egli prometteva di non pretendere dai suoi vassalli (baroni, grande borghesia e alto clero) tributi straordinari senza il loro esplicito consenso; 3) garantiva che i membri di questi ceti sociali non potevano essere arrestati, dichiarati fuorilegge e sottoposti a confisca dei beni senza il giudizio di tribunali composti da uomini di grado e posizione uguali; 4) si permetteva ai mercanti stranieri la libera circolazione in Inghilterra; 5) si stabiliva l'unità di pesi e misure per tutta la nazione. - Nonostante che questo patto non concedesse alcun diritto alle classi sociali marginali, il re, sostenuto dal papa, si rifiutò di riconoscerlo, per cui esso, in un primo momento, non venne applicato alla lettera. In questo senso, forse ad esso fu data un'importanza più grande di quella che effettivamente ebbe, per quanto esso costituì un punto di riferimento cui sempre ci si richiamerà ogniqualvolta si tratterà di risolvere delle controversie tra monarchia e aristocrazia.
VII) Federico II (1220-1250). Intanto Federico II, uscito di minorità, cercò di unire al suo trono siciliano quello tedesco, e vi riuscirà dopo otto anni di dura lotta contro i guelfi di Ottone IV. Resosi tuttavia conto che il Meridione italiano rischiava di finire sotto l'egemonia del papato, decise di riorganizzare il regno di Sicilia, trasferendo qui il centro di tutte le sue iniziative politico-culturali ed economico-amministrative. I problemi maggiori che doveva affrontare erano l'anarchia feudale e il controllo di tutto il commercio insulare da parte delle repubbliche marinare centro-settentrionali.
VIII) La morte di Innocenzo III lo aveva liberato dai due impegni assunti in precedenza con la Chiesa: promuovere una crociata in Oriente e rinunciare alla corona siciliana dopo aver ottenuto quella tedesca. Uno dei successori di Innocenzo III, Gregorio IX, gli lanciò la scomunica per indurlo a fare la crociata e ad allontanarsi dal Meridione. Federico accettò, ma, invece di ricorrere alle armi, preferì venire a patti col sultano d'Egitto. Il papa non solo rifiutò l'accordo, confermando la scomunica, ma bandì anche contro di lui, durante la sua assenza, una crociata nel Meridione. Federico dovette ritornare subito in Italia e combattere contro l'esercito pontificio. La scomunica venne revocata dietro la promessa ch'egli avrebbe rispettato i privilegi della Chiesa nel regno di Sicilia -cosa che poi non fece. IX) In Sicilia Federico creò una monarchia feudale in cui l'equilibrio tra il re e i baroni e tutta l'amministrazione furono assicurati da un forte apparato burocratico alle dirette dipendenze della corona. In tal modo venivano ridotti al minimo molti privilegi politico-amministrativi della nobiltà e del clero (sostituì ad es. i tribunali ecclesiastici con i propri nel giudizio degli eretici). I funzionari, nominati dal sovrano (come le maggiori autorità cittadine: podestà, consoli...), non erano tedeschi ma della stessa Italia meridionale, istruiti presso un centro studi universitario che lo stesso sovrano fece aprire a Napoli. - Sul piano economico: 1) confiscò i fondi di cui poteva contestare i titoli di legittimità (così potè assicurarsi un demanio consistente); 2) impose un dazio fisso su tutti i beni esportati e importati; 3) creò alcuni monopoli statali commerciali (seta, canapa, ferro, sale). - Le forti entrate finanziarie gli permisero di realizzare un esercito mercenario regolare (composto anche da saraceni) alle sue dirette dipendenze, grazie al quale poteva fare a meno del contributo dei feudatari, anche se continuava a servirsi degli eserciti tedeschi. - Sul piano culturale sviluppò la fusione della tradizione bizantina, araba e normanna. La cultura era aristocratica e imitava i modelli provenzali francesi. Espressione più significativa: La scuola siciliana (primo esempio di volgare scritto). - Tutta l'opera politico-economico-amministrativa venne da lui codificata nelle Costituzioni di Melfi (1231), che per certi aspetti anticiperanno di molti secoli l'organizzazione degli Stati moderni, poiché esse miravano a trasformare lo Stato feudale in una ordinata monarchia assoluta, con la sudditanza di tutti i ceti a un unico potere centrale. X) Quando cercò di far valere questi principi anche nel resto della penisola, lo scontro con i Comuni più forti e indipendenti fu inevitabile. Federico infatti voleva limitare sia il potere feudale che quello cittadino. Senonché i Comuni si riuniranno in una nuova Lega Lombarda e, pur risentendo fortemente di lotte intestine tra guelfi e ghibellini, pur uscendo in un primo momento sconfitti militarmente dallo scontro con le forze imperiali, alla fine riusciranno a trionfare, grazie anche all'aiuto del papato, che lanciò una nuova scomunica contro di lui, determinando la rivolta sia dei grandi feudatari tedeschi, sia dei sudditi siciliani e meridionali, esasperati dal fiscalismo e dai vari monopoli statali. Dopo la sua morte, i possedimenti della sua dinastia vennero spartiti tra i principi tedeschi, e la Germania resterà sino all'unificazione nazionale divisa in principati territoriali. - Con la sua morte finisce per sempre l'idea di poter realizzare un Sacro Romano Impero, cioè una teocrazia universale guidata dall'Imperatore. Gli Stati centralizzati, nazionali, da un lato, e lo sviluppo urbano e mercantile, dall'altro -entrambi gelosi della loro indipendenza- erano diventati irreversibili. LA FINE DELL'UNIVERSALISMO PAPALE I) L'ultimo grande papa (dopo Gregorio VII e Innocenzo III, avversari, rispettivamente, degli imperatori Enrico IV e Federico II) che proseguì il programma teocratico secondo cui al pontefice spettava la supremazia su ogni autorità politica del mondo cristiano, fu Bonifacio VIII (1235-1303). Questo programma, sino a Bonifacio VIII, non aveva incontrato ostacoli molto grandi per una ragione molto semplice: i Comuni e i feudatari avevano sempre cercato di approfittare della controversia tra papato e impero per indebolire soprattutto quest'ultimo, sicuramente più forte della chiesa sul piano militare. II) Tuttavia, nella misura in cui l'Impero era costretto a cedere ampi poteri sia ai Comuni che ai feudatari (per non parlare delle emergenti monarchie nazionali), anche il potere universale della chiesa si trovava compromesso, indebolito: essa infatti non tarderà ad accorgersi di non avere la forza sufficiente per opporsi a chi aveva saputo ridimensionare le pretese dell'Impero. In particolare, la funzione politica universale della chiesa si poneva in netto contrasto con gli orientamenti delle monarchie nazionali. Di tutte le nazioni, quella che alla fine del '200 sembrava potersi meglio imporre contro il programma teocratico era la Francia. Soprattutto con Filippo IV il Bello (1268-1314) il centro del potere politico-istituzionale era passato nelle mani del re e del suo apparato burocratico, contro le resistenze autonomistiche del mondo feudale. III) All'origine del conflitto vi fu la richiesta di contributi finanziari da parte di Filippo IV, impegnato in una guerra contro l'Inghilterra. Il re volle imporre le tasse anche al clero francese, senza chiedere l'autorizzazione del papa. Bonifacio VIII rispose minacciando la scomunica, ma la rottura venne scongiurata grazie a un compromesso (il re, con una serie di provvedimenti, aveva ostacolato il normale flusso di denaro dalla Francia a Roma). Il compromesso però durò poco. Nel 1300 infatti Bonifacio VIII istituì un vescovado in Francia senza chiedere l'autorizzazione del re. Filippo IV fa arrestare il vescovo sotto l'accusa di lesa maestà. Il papa convoca un concilio a Roma per giudicare la condotta del re ed emana la bolla Unam Sanctam. Il re risponde proibendo ai vescovi francesi di uscire dal regno. Poi convoca per la prima volta gli Stati Generali (nobiltà, clero e borghesia) per istruire un regolare processo contro il papa, accusato di simonia, eresia ed assassinio del papa Celestino V. Il papa allora prepara una bolla di scomunica contro Filippo IV e di interdetto contro la Francia. Ma ormai è troppo tardi. Il re aveva deciso di far catturare il papa trasferendolo di forza in Francia. Gli abitanti di Anagni si oppongono efficacemente ai francesi, ma il papa, rientrato a Roma, muore pochi mesi dopo. Il suo successore, Clemente V, decide di trasferire la sede pontificia ad Avignone nel 1305. Il papato, per quanto al proprio interno riuscisse a confermare il principio della propria superiorità su tutti gli ordinamenti ecclesiastici, si doveva sottomettere alla politica francese (i papi avignonesi furono tutti francesi di nascita). IV) La dottrina politico-giuridica di quel tempo era arrivata alla convinzione che il potere politico doveva essere indipendente da quello religioso, in quanto proveniente direttamente da Dio e non dal papa (vedi ad es. Dante), e non solo doveva esserlo il potere politico dell'imperatore ma anche quello dei singoli re nazionali, che nei loro regni cominciavano a considerarsi degli "imperatori" (sviluppo del principio della "sovranità nazionale"). Marsilio da Padova, nel suo Defensor Pacis, arriverà addirittura a dire che imperatori e re derivano la loro autorità dal popolo, che anche la chiesa si fonda sulla sovranità popolare e che il papa è subordinato all'imperatore. V) Il grande scisma d'Occidente (1378-1417). Durante la cattività avignonese, i papi faranno di tutto per ridurre in soggezione i signori ribelli dello Stato pontificio. Solo nel 1377 il papato riuscirà a riportare la sede a Roma, ma appena questo avvenne scoppiò il grande scisma d'Occidente. Il pretesto che fece scoppiare lo scisma fu l'elezione del nuovo pontefice Urbano VI, cui si oppose il Collegio dei Cardinali, in maggioranza francesi, i quali dichiararono d'essere stati costretti a votarlo sotto la minaccia violenta del popolo, che reclamava un papa romano o almeno italiano. E così, tutti i cardinali ribelli elessero un antipapa, Clemente VII, che si insediò ad Avignone, dopo aver cercato inutilmente di sbarazzarsi di Urbano VI. La cristianità fu così divisa, con grande scandalo e confusione, in due partiti. La crisi, questa volta, era interna alla stessa istituzione ecclesiastica. VI) Per far cessare lo scandalo, molti cardinali delle due sedi si riunirono nel Concilio di Pisa (1409), ove decisero di deporre i due papi e di eleggerne un terzo, Alessandro V, con sede a Bologna. Ma gli altri due papi non vollero riconoscere come legittimo il concilio, il quale, secondo i canoni, doveva essere convocato dal papa e da lui presieduto. VII) Lo scisma poté essere risolto solo col successivo Concilio di Costanza (1414-18), che, convocato dall'imperatore Sigismondo con l'approvazione dei tre papi, decise: 1) di deporre i tre papi, eleggendone un terzo: Martino V; 2) di trasformarsi in un istituto permanente, ovvero in un organo costituente della chiesa (in grado di convocare altri concili), al fine di dare alla chiesa un ordinamento parlamentare, nel quale il potere monarchico del papa fosse subordinato a quella del concilio (Martino V tuttavia seguirà una politica ostile, anche se cauta, al movimento conciliare); 3) il concilio condannò le dottrine di Wycliff e mandò Huss al rogo, giudicati eretici (anticiparono le idee di Lutero). VIII) Il piccolo scisma d'Occidente (1439-49). La lotta tra le tesi papiste e quelle conciliariste determinò un altro scisma all'interno della chiesa. Eugenio IV, infatti, successore di Martino V, dopo aver convocato un concilio a Ferrara e poi a Firenze per discutere con la chiesa greca la riunificazione delle due confessioni (cattolica e ortodossa), chiese che quello ecumenico di Basilea (già convocato da Martino V per discutere il problema dell'autorità del papa) fosse sciolto (a Basilea infatti si stavano affermando le tesi conciliariste). I prelati di Basilea opposero un netto rifiuto, deposero Eugenio IV ed elessero papa Amedeo VIII duca di Savoia col nome di Felice V. Questa volta però ebbe la meglio il papa di Roma, poiché da un lato poté far valere a suo prestigio il ritorno della chiesa greca alla disciplina di Roma (i bizantini speravano nell'aiuto dei latini contro i turchi), dall'altro riuscì ad ottenere l'appoggio dell'imperatore germanico Federico III d'Asburgo, che chiuse d'autorità il concilio di Basilea. Il papato poté così ripristinare il suo primato sul concilio. Fallì invece la riunificazione con l'ortodossia, poiché la sconfessarono immediatamente le popolazioni e il clero orientali.

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