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IL SISTEMA FEUDALE - LA CHIESA NEL MEDIOEVO E L'IMPEROO
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STORIA DELLA CHIESA IN EPOCA FEUDALE - MEDIOEVALE |
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GELASIO E IL POTERE DEL PAPATO
Quando papa Gelasio I (492-496) scrisse all'imperatore bizantino Anastasio I
che il potere sacro dei vescovi era superiore a quello temporale dei re, non
lo fece certamente col proposito di ribadire il valore della sacra diarchia
(cioè l'equivalenza dei poteri), ma piuttosto con quello di affermare il
primato della chiesa sullo Stato e, in particolare, quello della sede romana
su tutte le altre.
Ciò che infatti Gelasio non riesce a spiegare è il motivo per cui
l'imperatore, essendo costituito per diritto divino, debba dipendere dai
vescovi nelle questioni religiose (al massimo avrebbe dovuto dipendere dai
concili ecumenici o universali, come d'altra parte tutti i vescovi).
Gelasio si serve della specifica competenza dei vescovi in materia di fede
(cui allora peraltro non erano estranei neppure i responsabili laici delle
istituzioni, essendo tutti educati sin da piccoli al cristianesimo), per
sostenere che l'imperatore, non avendo uguale competenza, deve considerarsi
subordinato alla chiesa.
La chiesa romana dunque -stando alla posizione di Gelasio- si sentiva tenuta
a rispettare le leggi imperiali solo nella misura in cui l'imperatore
ammetteva la propria subordinazione alla volontà pontificia. La
religione -qui è già chiarissimo- veniva usata come uno strumento di tipo
politico.
La questione per Gelasio non era di merito (nel senso che su talune cose gli
imperatori potevano anche manifestare opinioni eterodosse o discutibili), ma
era di metodo: qualunque affermazione dell'imperatore acquistava un valore
solo s'egli preventivamente manifestava obbedienza al pontefice. (In verità
Gelasio parla di "vescovi", ma poiché già vigeva la teoria della superiorità
di quello romano, le conseguenze era poi facile tirarle).
Nella concezione teologico-politica di Gelasio non c'è (come invece in
quella di tanti teologi bizantini) la convinzione che i due poteri divini
siano equivalenti o paritetici.
In Europa occidentale si comincerà a parlare di tale diarchia solo a partire
dall'epoca comunale, quando impero e chiesa romana erano già fortemente in
crisi, e ne parleranno solo gli anticlericali (p.es. Marsilio da Padova,
Dante Alighieri.), convinti di aver elaborato un principio innovativo.
Secondo Gelasio l'imperatore non poteva assolutamente intromettersi nelle
questioni di fede, cioè doveva rinunciare a priori al suo diritto di
cittadino-credente (diremmo oggi) di esprimere pareri e opinioni in campo
religioso (lasciando poi la decisione ultima a un Concilio cattolico). Egli
doveva svolgere unicamente la sua funzione di longa manus della chiesa.
Gelasio chiedendo ai credenti di obbedire all'imperatore solo in quanto
fiduciario della chiesa, poneva le basi dell'uso politico dell'arma della
scomunica.
LA COSCIENZA SPORCA DEL "FILIOQUE"
Probabilmente va considerato affrettato il giudizio negativo che nella sua
celebre Storia del cristianesimo, Ambrogio Donini diede sulle controversie
trinitarie del tempo di Ario. A suo parere, infatti, esse altro non erano
che "artificiose discussioni, prive di qualsiasi valore culturale"(ed. Teti
1977, p.267).
Oggi certamente, all'occhio secolarizzato dell'uomo moderno appaiono così,
anche se non dobbiamo dimenticare che, nel passato, dietro ogni dibattito
teologico si nascondevano precise implicazioni di natura politica e
culturale, che venivano poi dissimulate in varie maniere dalle forze che
prendevano o conservavano il potere.
D'altra parte, fino alla nascita del capitalismo industriale, la religione
ha sempre rappresentato il terminus ad quem di ogni riflessione speculativa:
la stessa filosofia borghese, per potersi imporre, con Cartesio, dovette
prima prendere le distanze dalla Scolastica. Questo per dire che dal punto
di vista storico anche quelle "artificiose discussioni" sulle
caratteristiche della Trinità cristiana, acquistano un'importanza tutt'altro
che trascurabile.
Lo dimostra il fatto che persino l'istituzione occidentale che più si è
cimentata in quelle diatribe -la chiesa cattolica- non ha resistito alla
tentazione, nel Catechismo Universale (CCC), di alterare volutamente la
verità storica sul problema, squisitamente teologico, della cosiddetta
"processione dello Spirito Santo".
Essa ha avuto il coraggio non solo di affermare che il Simbolo della fede
cristiana, e cioè il Credo di Nicea-Costantinopoli, è "tuttora comune a
tutte le grandi Chiese dell'Oriente e dell'Occidente"(195), ma persino di
falsificare tale Simbolo riportando solo quello latino con l'aggiunta del
Filioque (p.61).
Quanto "sporca" sia la coscienza della chiesa romana riguardo a tale
problema -che si trascina da più di un millennio-, è testimoniato da un
duplice fatto: da un lato, nella disamina dei dogmi del Simbolo relativi
allo Spirito Santo, non si fa cenno alcuno alle molteplici controversie
teologiche che il Filioque scatenò tra cattolici e ortodossi (questa parola
non è mai citata nel CCC); dall'altro tutta la trattazione dell'art.8,
"Credo nello Spirito Santo", è stata chiaramente condotta con l'intenzione
di dimostrare la veridicità del Filioque, per quanto il Simbolo venga
commentato solo nella parte che afferma la consustanzialità delle tre
persone divine, ovvero la inseparabilità dello Spirito dal Padre e dal
Figlio, che per i cattolici significa la diversità delle persone assorbita
nell'identità della loro natura.
La teologia ha indubbiamente, per il mondo moderno, solo un valore
simbolico, poiché i suoi concetti appaiono indimostrabili alla ragione e
credibili solo per fede; e non tanto perché l'esperienza cristiana ha smesso
di essere un fenomeno "socialmente ovvio", quanto perché l'evoluzione
dell'autocoscienza umana ha portato a considerare tale fenomeno
oggettivamente inadeguato, anche quando vuole apparire "socialmente ovvio".
Ormai sulla religione pesa un giudizio negativo che prescinde totalmente dal
comportamento individuale o collettivo dei credenti.
E' bene tuttavia che uno storico non consideri "insensati" i concetti della
teologia, ma "sensati" solo in relazione a un preciso contesto semantico (il
quale, a sua volta, non può essere considerato di per sé meno libertario o
meno umanistico di quello odierno, basato prevalentemente sull'autonomia
della naturale rationis).
Compito dello storico è appunto quello di non disperdere il patrimonio
culturale e intellettuale dell'umanità, in qualunque forma esso si presenti;
in questo senso è impossibile immaginarsi degli uomini discutere per secoli
su problemi oggi del tutto insignificanti. Il fatto che le soluzioni date a
quei problemi ci appaiano inutili ai fini dei nostri interessi,
probabilmente dipende dalla scarsa capacità che abbiamo di riattualizzare
"cose vecchie", ovvero di coltivare la "memoria storica" in forme originali,
non ripetitive. Non è solo questione di complessità del lavoro di ricerca,
ma anche di volontà di conservare il "meglio" del nostro passato. E'
questione insomma di liberarci dei pregiudizi con cui ci guardiamo alle
spalle.
La vicenda storica
Che cos'è il Filioque? Questa formula, cui diede un contributo decisivo il
vescovo di Siviglia, Isidoro, appare per la prima volta nel canone 3 del
terzo concilio di Toledo (589), il quale, paradossalmente, lanciò l'anatema
contro coloro che avessero dichiarato vera una fede diversa da quella
proclamata a Nicea (325) e Costantinopoli (381), senza sapere che già il
canone 7 del concilio ecumenico di Efeso (431) aveva deciso di vietare
tassativamente un "Simbolo della fede" diverso da quello decretato a Nicea e
a Costantinopoli! (il concilio di Calcedonia, nel 451, aveva rinnovato la
sanzione).
Tale qui pro quo si spiega probabilmente sia col fatto che i prelati
spagnoli di Toledo non avevano intenzione di sfidare l'autorità dei primi
concili ecumenici, sia col fatto che i testi greci erano sempre meno
conosciuti in Occidente. Una delle accuse che il cardinale Umberto da Silva
Candida, in occasione dello scisma del 1054, rivolgerà agli ortodossi sarà
proprio quella di aver omesso il Filioque dal Credo!
L'aggiunta del concilio di Toledo fu causata dallo scontro con i visigoti
ariani, onde accentuare maggiormente la "divinità" del Cristo, che l'eresia
ariana negava. Gli ariani consideravano lo Spirito una creatura del Figlio,
anch'egli a sua volta creato. Il Filioque non ebbe tanto lo scopo di negare
la subordinazione dello Spirito al Figlio, quanto di affermare l'uguaglianza
divina del Figlio col Padre nella relazione di origine riguardo allo
Spirito. Sarà poi il re spagnolo Recaredo a ordinare d'introdurre il
Filioque nel Simbolo di Nicea: il IV sinodo di Toledo, nel 633, lo approvò.
Nonostante che nel 681 il VI concilio ecumenico rinnovasse ancora il divieto
di modificare il Credo, l'interpolazione fu poi approvata dai concili locali
di Braga (675), Gentilly (767), Frioul (796), Aquisgrana (809), passando dal
Simbolo spagnolo-gotico a quello gallicano. Nel 794, al sinodo di
Francoforte, Carlo Magno (768-814) non solo inserì definitivamente nel Credo
gallicano l'aggiunta, ma ripudiò anche, con l'approvazione dei legati del
papa Adriano, le decisioni del Niceno II (787), che aveva canonizzato il
culto delle immagini(1). Era solo un pretesto per scatenare un conflitto con
l'impero bizantino, ma il papa Leone III, che successe ad Adriano, vi si
oppose. Tuttavia, grazie anche alla solerte mediazione del vescovo spagnolo
di Orleans, Teodulfo, Carlo Magno era riuscito a imporre a tutte le chiese
di Francia, Germania, Italia centro-settentrionale l'inserimento dell'eresia
nel Credo, incontrando solo l'opposizione di Alcuino e dell'arcivescovo di
Aquileia, Paolino.
Carlo Magno era personalmente interessato a quella introduzione per
provocare la controparte bizantina ed avere così un pretesto per affermare
la propria candidatura al titolo di imperatore del sacro romano impero. Non
dimentichiamo, infatti, che la sua incoronazione da parte di papa Leone III
avverrà senza richiedere l'autorizzazione del già esistente imperatore
bizantino. Tale arbitraria modalità servirà anche al papato per risolvere in
maniera politica le proprie rivalità giurisdizionali (di confine
territoriale) con le chiese d'Oriente.
Finché il nuovo Credo rimase una caratteristica delle chiese "barbariche"
(Gallia e Bretagna) l'Oriente ortodosso non interverrà mai. Le cose invece
cambiarono quando i prelati francesi, nel IX secolo, cominciarono a servirsi
del Filioque per sostenere l'originarietà del Credo latino e accusare i
vescovi bizantini di averlo alterato! Così, in un concilio dell'807 Carlo
Magno scomunicò l'impero rivale d'Oriente.
Gli orientali reagirono per la prima volta a Gerusalemme, nel Natale
dell'808. Qui, alcuni monaci delle Gallie si scontrarono coi confratelli
greci sulla questione del Filioque. I monaci delle Gallie espressero le loro
lagnanze al papa Leone III, il quale, invece di risolvere la questione
autonomamente, scrisse a Carlo Magno. Questi ordinò al vescovo Teodulfo di
redigere un trattato sullo Spirito Santo in difesa del Filioque, e convocò
nell'809 un sinodo ad Aix-la-Chapelle per far decretare che il Filioque era
una dottrina della chiesa cattolica e doveva mantenere il suo posto nel
Credo cantato durante la messa. Teodulfo sarà il primo a contrapporre il
Filioque ai Greci nei Libri Carolini.
Nel dicembre dello stesso anno Carlo Magno chiese al papa d'introdurre nel
Credo il Filioque. Pur approvando personalmente la processione ab utroque,
formulata nel sinodo di Aquisgrana (809), Leone III era però contrario
all'inserimento del theologumenon nel Credo: infatti ordinò che si incidesse
il Simbolo originario su due tavole d'argento -in greco e in latino- da
esporre nella basilica di San Pietro a Roma. Politicamente il papato era
favorevole alla posizione di Carlo Magno e, a tale proposito, era anche
disposto a condividere la modificazione del Credo (a partire da Leone Magno,
sulla scia della teologia di Agostino e di Ambrogio, nessun papa ebbe dubbi
sul valore del Filioque). Non dimentichiamo che lo Stato della Chiesa, nel
756, era nato in virtù dell'aiuto militare che i Franchi avevano concesso al
papato contro i Longobardi.
Tuttavia, sul piano più propriamente ecclesiale, la chiesa romana temeva che
quella eresia avrebbe potuto procurare divisioni e scismi, specie in quei
territori (ad es. i Balcani) che sperava di sottrarre all'influenza
bizantina. Il papato aveva bisogno d'essere appoggiato militarmente dal
nuovo impero occidentale che stava emergendo nelle Gallie, onde far valere
con sicurezza l'aggiunta nel Credo e il primato del pontefice e della sede
romana. Per sostenere la teoria del primato papale la chiesa romana, nei
secoli VIII e IX, elaborò addirittura dei falsi, in accordo con la monarchia
francese: il Sesto canone del concilio di Nicea, la Donazione di Costantino
e le Pseudo-Decretali di Isidoro. Proprio in virtù di tale teoria, il papato
non avrebbe certo potuto tollerare che, dopo essersi liberati dalla presenza
ingombrante dei bizantini, i Franchi cominciassero a rivendicare un'egemonia
cesaropapista.
La questione rimase in sospeso per alcuni anni, finché, durante la polemica
tra il papa Nicolò I e il patriarca Fozio, di nuovo fu al centro di accesi
contrasti. Fozio infatti non solo condannò l'aggiunta nel Credo, ma anche il
contenuto teologico del Filioque in sé. Tuttavia, solo nel 1014 l'imperatore
Enrico II, incoronato a Roma, prese la decisione d'imporre a tutto il mondo
latino il rito germanico della messa. Il papa Benedetto VIII accettò.
Bisanzio reagì sopprimendo il nome del papa dalle sue preghiere liturgiche.
La cristianità europea, fino a quel momento unita, sulle questioni
fondamentali della dogmatica, giungerà alla separazione definitiva nel 1054.
Tale rottura verrà formalmente ma non sostanzialmente superata solo nel
1965, in una dichiarazione congiunta di papa Paolo VI e del patriarca di
Costantinopoli (Istanbul) Atenagora, i quali si assunsero le reciproche
responsabilità dello scisma. (Prima del 1054 le divergenze di natura
disciplinare, giurisdizionale e di altro genere -come ad es. si possono
riscontrare nel sinodo Trullano II del 692, detto Quinisextum- non erano mai
sfociate in una rottura teologica).
La chiesa romana deciderà di canonizzare l'eresia nel concilio del Laterano
del 1215, sotto Innocenzo III, dopo il trionfo latino della quarta crociata
(1202-1204) sulla Costantinopoli ortodossa. Successivamente, nei concili
voluti per riunificare le due confessioni della cristianità (Lione nel 1274,
sotto Gregorio X, e Ferrara-Firenze nel 1439, sotto Eugenio IV), si è
cercato, da parte cattolica, d'indurre gli ortodossi ad accettare il Credo
modificato, ma senza successo. L'importanza del Filioque di colpo cessò dopo
il 1453, allorché Bisanzio fu conquistata dai turchi, e dopo l'affermarsi
delle idee umanistico-rinascimentali e protestantiche in Europa occidentale.
In seguito, i cosiddetti "uniati" (credenti cattolici di rito ortodosso) si
opporranno all'aggiunta, benché, ovviamente, non alla teologia ivi
implicita. Ancora oggi alcune chiese cattoliche di rito orientale presenti
in Occidente, e alcune comunità cattoliche di rito latino che vivono in
Oriente recitano il Credo senza il Filioque (in Grecia dal 1973).
Recentemente anche i vecchi-cattolici e gli anglicani sembrano essersi
orientati in questa direzione.
Per concludere
Qui naturalmente non si ha intenzione di ripercorrere l'iter delle
controversie teologiche che per secoli hanno diviso ortodossi e cattolici,
anche perché -come già detto- il problema vero, per uno storico, non è
quello di "ripetere" i fatti o le idee del passato, ma quello di
riattualizzarli (il che richiede tempo, studi approfonditi e, soprattutto,
apertura mentale).
Indubbiamente la confessione ortodossa, su questo argomento, esprime una
posizione di maggiore equilibrio e profondità, dovuta probabilmente al fatto
ch'essa, a differenza della chiesa cattolica, ha sempre cercato di
salvaguardare il messaggio più antico della tradizione cristiana, che era di
tipo comunitario ed escatologico, rinunciando a trasformarsi in
un'istituzione di potere, concorrenziale a quella degli Stati politici.
Tuttavia non è nel nostro interesse prendere le difese dell'ortodossia
contro il cattolicesimo, poiché ogni religione è, in ultima istanza,
oggettivamente, una forma di illusione. Per cui, se anche si riuscisse a
eliminare il principale impedimentum dirimens sulla via della conciliazione
dogmatica fra cattolici e ortodossi, rimarrebbe il dato incontrovertibile
dell'assoluta precarietà della religione qua talis ai fini della risoluzione
dei problemi umani.
Al massimo, osservando laicamente i contenuti di quella diatriba, si può
affermare che le tesi ortodosse rispecchiano un maggior senso della
democrazia, del rispetto dei valori umani, della diversità e specificità
delle persone. Più di così lo storico non può dire. D'altra parte, il
lettore può facilmente rendersi conto da solo che la formulazione
dell'eresia filioquista è stata, sin dal suo nascere, strettamente connessa
alle questioni politiche, non solo perché con essa l'impero carolingio ha
cercato un pretesto per separarsi da quello bizantino, ma anche perché,
ideologicamente, il Filioque è a un tempo causa ed effetto d'una precisa
concezione cattolico-romana della politica.
II
La tesi di Wojtyla
Ora, prima di procedere ad un'analisi delle implicazioni culturali e
politiche dell'eresia filioquista, abbandonando il terreno della storia, è
forse bene precisare che alla falsificazione dei fatti operata dal
Catechismo Universale non si è giunti a caso. Sin dal 1981 papa Wojtyla ha
più volte ribadito (conformemente a una tradizione teologica che si rifà al
Concilio Vaticano II) la necessità di considerare equivalenti i due Credo
cristiani. "Qui ex Patre Filioque procedit" e "Qui a Patre per Filium
procedit" sono state considerate dal pontefice, e non solo da lui
ovviamente, due definizioni sostanzialmente analoghe (cfr "La civiltà
cattolica" del 17.1.1981).
Nella Lettera (del 25.3.1981) all'episcopato della chiesa cattolica per il
1600o anniversario del I concilio di Costantinopoli, Wojtyla, riportando
l'esatta traduzione del Credo, adottato definitivamente nel II concilio di
Costantinopoli, spiega che sulla formulazione del Simbolo "sono nate
numerose interpretazioni, anche divergenti"(parag. 2), ma che, nonostante
ciò, la chiesa romana è rimasta fedele alla verità originaria.
Wojtyla in sostanza non nega la differenza, semplicemente non le attribuisce
alcuna particolare importanza, lasciando così intendere che il Filioque
altro non era stato che un adattamento (di forma) alle esigenze della chiesa
mutatesi col tempo. Non c'è insomma contraddizione insanabile (come invece
per gli ortodossi), in quanto la formula del Credo sancita nel 381 era
legata -queste le testuali parole del pontefice- alle "peculiarità
espressive dell'epoca"(ib.), e quindi soggetta a ulteriori, inevitabili
modifiche. In sostanza, dire che lo Spirito procede "solo dal Padre" e dire
che procede "anche dal Figlio" sono due cose identiche (cfr. la bolla di
unione coi Greci, Laetentur coeli, del 6 luglio 1439, al concilio di
Firenze).
Da qui alla decisione, presa nel CCC, di non parlare neppure del Filioque,
fingendo di darne per assodata la presenza nel Credo originario, il passo è
stato breve, e i cattolici, che da tempo non s'interessano minimamente (se
non nelle "alte sfere") di tali questioni, non hanno avuto modo di fare
obiezioni di sorta.
Forse pochi in Occidente sanno che proprio a causa di
quell'aggiunta -considerata dagli ortodossi l'eresia, in assoluto, più
grave- Oriente e Occidente, sul piano teologico, cominciarono a separarsi.
Così, ad es., la pensa V. Lossky in La teologia mistica della Chiesa
d'Oriente (ed. Il Mulino 1967) e, prima di lui, tra gli esegeti moderni,
l'arciprete A. Lebedev, il filosofo L.P. Karsavin e il teologo C. Yannaras.
Più conciliante invece è la posizione dei teologi B. Bolotov e A.
Stawrowsky, che sostanzialmente si basano sulle tesi di S. Bulgakov.
Wojtyla naturalmente evitò con cura nel 1981 di sottolineare che nei concili
successivi al Costantinopolitano I, e cioè di Efeso (431) e di Calcedonia
(451), la chiesa "indivisa" aveva espressamente vietato di compiere
qualsiasi alterazione alla formulazione del Credo, decretando altresì che la
comunione fra le varie chiese locali dipendeva dall'accettazione della fede
niceno-costantinopolitana. Il suo ecumenismo, infatti, risente ancora dei
limiti del passato, allorquando nei confronti della confessione ortodossa
l'unico vero problema, per i cattolici, era come annettersela.
La riflessione culturale
Tra le cause-conseguenze culturali inerenti all'accettazione occidentale
dell'eresia filioquista va annoverata quella, gravissima, dell'incapacità a
distinguere i concetti di "essenza" ed "energia" (che allora gli ortodossi
intendevano riferire alla vita del Dio uno e trino e che oggi invece -sulla
scia di Feuerbach- dobbiamo intendere in senso ontologico, riferendo quei
concetti all'essenza stessa dell'uomo).
La suddetta distinzione, laicamente trasformata, comporta la percezione
dell'essere umano come di un ente in ultima istanza "indicibile", poiché le
sue manifestazioni esteriori non coincidono del tutto con la sua natura
interiore. Esterno ed interno non sono completamente coincidenti. L'interno,
in parole povere, è sempre più ricco dell'esterno, come la coscienza lo è
dell'esperienza.
Oltre a tali aspetti di natura filosofica, la questione del Filioque
potrebbe offrire ampio materiale di discussione anche alla psicanalisi. Il
Figlio che si fa "come" il Padre, perché "geloso" del rapporto che il Padre
ha con lo Spirito (che è la parte femminile della trinità divina)... Il
Figlio che facendosi "come" il Padre, in realtà lo estromette dal suo
rapporto con lo Spirito... Il Figlio che, dopo aver estromesso il Padre,
pretende di poter "gestire" lo Spirito come fosse una sua personale
proprietà... Cos'è tutto questo se non una riedizione in veste religiosa del
classico complesso di Edipo?
Già si è detto che il Filioque è la fonte di tutte le "eresie" cattoliche
rispetto all'ortodossia, le più importanti delle quali sono quelle relative
all'ufficio del pontefice (come ad es. il primato di Pietro e della
giurisdizione universale di Roma, l'infallibilità ex-cathedra, la
superiorità sul concilio o il concetto di "vicario di Cristo").
Se vogliamo, il Filioque è stato il primo tentativo riuscito, in ambito
cristiano, di strumentalizzare la religione, stravolgendone il contenuto
dogmatico-tradizionale, per una mera esigenza di potere politico. Tutto
l'apparato giuridico-normativo della chiesa cattolica è funzionale alla
giustificazione dell'abuso filioquista. Senza esagerare si può sostenere che
il Filioque è alla base di tutta la cultura della violenza, della
sopraffazione, del maschilismo... tipica dell'Occidente cattolico e
protestante (i protestanti non hanno mai messo in discussione il Filioque).
Esiste persino uno stretto rapporto fra i due dogmi su Maria (Immacolata
concezione e Assunzione) e il Filioque, poiché come in questa eresia il lato
"femminile" della Trinità, e cioè lo Spirito (in ebraico ruah è di genere
femminile), viene abbassato al ruolo di semplice esecutore della volontà del
Figlio, che si arroga la pretesa di sostituire il Padre (che rappresenta,
simbolicamente, nella tradizione cristiana e non solo cristiana, l'origine
delle cose, la fonte da cui tutto promana ecc.), così nei due suddetti dogmi
su Maria, si è cercato, da parte del "Figlio autoritario" (personificato dal
papa), di recuperare l'immagine svilita della "femminilità", dimostrando,
con ciò, che la chiesa romana non può sussistere su princìpi esclusivamente
maschilisti.
Il Figlio, o meglio, il suo vicario in terra, il papato, che attraverso
l'eresia filioquista si era liberato della presenza ingombrante del Padre
(la memoria di un passato), per avere sullo Spirito (le varie manifestazioni
della fede) un'egemonia assoluta, sembra essersi accorto, coi due dogmi su
Maria, che tale egemonia non è possibile, per cui, in luogo dello Spirito,
ha creato un suo sostituto, Maria, divinizzata appunto per sostituire lo
Spirito di Dio, il quale, benché "sequestrato" dal Figlio, continua ad avere
la pretesa di "soffiare dove vuole". Il papa arriva ad avere con Maria lo
stesso rapporto dispotico e privilegiato che il Cristo cattolico, "ribelle"
al Padre, ha voluto avere con lo Spirito.
Il Filioque tra vero e falso ateismo
Come si può notare, dalle cose fin qui dette, il Filioque appare anche come
una forma embrionale di ateismo "volgare", in quanto, se è vero che in virtù
di esso si sono giustificati gli abusi più vergognosi, è anche vero ch'esso
riflette una percezione della realtà sociale molto più laica di quel che non
si creda. Il Filioque, infatti, è stato anche il tentativo di togliere alla
concezione ortodossa della divinità quel carattere di sacralità che aveva,
trasformando la fede religiosa in uno strumento di emancipazione dalla
tradizione. Il cattolico è ateo, rispetto al credente ortodosso, proprio in
quanto "cattolico".
I protestanti cercarono di reagire agli abusi filioquisti (teocrazia papale
ecc.), affermando il "primato dello spirito" (vedi ad es. i concetti di fede
nella grazia divina, il libero esame o il sacerdozio universale: tutti
princìpi che nell'ambito del cattolicesimo-romano hanno un valore assai
relativo). Ma i protestanti non rappresentano altro che il rovescio della
medaglia (cioè l'anarchia in luogo della monarchia assoluta, la spontaneità
in luogo della disciplina, il carisma in luogo dell'istituzione...). Avendo
destoricizzato completamente la figura teologica del "Padre" (in quanto non
fanno riferimento ad alcuna tradizione storica), i protestanti sono certo
votati a un ateismo migliore, più conseguente di quello cattolico, ma, non
avendo piena coerenza scientifica, non sono in grado di creare una vera
alternativa, sul piano sociale, al cattolicesimo.
La chiesa protestante è alternativa a quella cattolica in quanto,
appoggiandosi alla prassi borghese, è riuscita a prevalere sul terreno
dell'economia. Ma la crisi progressiva del capitalismo può essere facilmente
strumentalizzata dalla chiesa cattolica, anche in funzione
anti-protestantica. E non a caso, delle tre religioni cristiane, la
protestante è quella più in crisi, cui si cerca di supplire, soprattutto
negli Stati Uniti, mediante comunità e sètte esoteriche, misteriche,
pseudo-orientali e così via.
Di fatto, né il cattolicesimo, laicizzando l'ortodossia, è riuscito a creare
una società veramente democratica, a causa dei suoi presupposti (feudali) di
classe irrisolti, né il protestantesimo, laicizzando ulteriormente il
cattolicesimo, è riuscito, coi suoi presupposti borghesi di classe, nel
medesimo intento. Ciò a testimonianza che sulla base della progressiva
razionalizzazione dei contenuti religiosi è impossibile elaborare un
umanesimo sociale integrale, senza compiere una contemporanea rivoluzione
politico-democratica.
Forse oggi il problema più interessante, all'interno dell'ideologia
cristiana, è quello di come giungere all'ateismo passando per l'ortodossia.
Questa confessione rappresenta l'esigenza più alta di tutto il
cristianesimo, in quanto rappresenta il tradimento più sofisticato
dell'originario messaggio politico di Gesù (è il tradimento che si può
reperire soprattutto nei testi attribuiti agli apostoli Marco, Giovanni e
Paolo).
Per poter veramente "ammazzare" il cristianesimo -come diceva Gramsci-
occorre non solo realizzare gli ideali ch'esso ha promosso invano, ma anche
gli ideali che ha tradito (nascondendoli agli occhi dei credenti):
altrimenti ci sarà sempre la possibilità che una religione rinasca.
Il vero ateismo -sul piano metafisico- non passa né attraverso il tradimento
dell'immagine di "Figlio" (operata dai cattolici), né attraverso il
tradimento dell'immagine di "Spirito" (operata dai protestanti), ma
attraverso il tradimento dell'immagine di "Padre" (operata dagli ortodossi).
Cioè dobbiamo riprendere il significato simbolico del concetto di "Padre"
per superarlo una volta per tutte, liberandoci da questa condizione di
dipendenza psicologica e culturale. Solo in tal modo l'ateismo sarà
consapevole e determinato.
Per poter recuperare la valenza simbolica del concetto di "Padre", con cui
si è tradito il messaggio di Cristo, che non contemplava in origine questo
concetto, dobbiamo decodificare l'espressione di Giovanni: "Dio è amore". Il
concetto di dio è stato utilizzato da Giovanni per rimediare al fallimento
del progetto rivoluzionario del Cristo. L'identificazione infatti porta alla
conclusione che dio è ovunque, in particolare è là dove esiste "amore".
Questa grandissima testimonianza di Giovanni, che apre le porte
all'universalità e all'ecumenicità del messaggio cristiano, esprime anche il
tradimento più alto del vero messaggio di Cristo, per il quale
l'identificazione non era fra "amore e dio" ma fra "liberazione e uomo".
L'ortodossia -a differenza del cattolicesimo che, puntando tutto sul
cristomonismo, ha fatto coincidere la vita religiosa con il sacrificio e
l'obbedienza; e a differenza del protestantesimo che ha fatto coincidere la
vita religiosa con la libertà interiore e la ricerca intellettuale della
verità-, l'ortodossia pretende, ancora oggi, di essere la massima
realizzazione, in figura, del principio dell'amore (a prescindere
naturalmente dalla realizzazione pratica dei suoi singoli fedeli).
Ebbene, noi dobbiamo dimostrare coi fatti che il principio dell'amore
(universale) può essere vissuto meglio senza religione cristiana, in maniera
assolutamente laica, a partire dalla liberazione degli uomini dalle
ingiustizie e dalle oppressioni. Se noi riusciremo in questo (che è
l'obiettivo più grande di tutto il genere umano), la religione cristiana
scomparirà da sola, spontaneamente, a causa della sua intrinseca inutilità e
falsità.
(1) La distinzione tra "adorazione" e "venerazione" delle immagini sacre
venne fraintesa in Europa occidentale proprio a causa di una cattiva
traduzione degli Atti del concilio del 787, sulla base della quale,
successivamente, Carlo Magno, nei suoi famosi Libri Carolini (789-791),
rifiutò il decreto di quel concilio.
Bibliografia:
- F. Dvornik, Lo scisma di Fozio, ed. Paoline 1953.
- P. Evdokimov, Lo Spirito Santo nella tradizione ortodossa, ed. Paoline
1983.
- ID., L'Ortodossia, ed. Il Mulino 1965.
- W. de Vries, Ortodossia e cattolicesimo, ed. Queriniana 1983.
- S. Bulgakov, Il Paraclito, ed. Dehoniane 1971.
- Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, vol.3, ed. Queriniana 1983.
- O. Clément, La rivolta dello Spirito, ed. Jaca Book 1980.
- J. Meyendorff, La chiesa ortodossa ieri e oggi, ed. Morcelliana 1962.
- L. Sartori (a cura di), Spirito Santo e storia, ed. AVE 1977.
Storia dello Scisma Oriente - Occidente
P. Ranson M. Terestchenko L. Motte
Alcune note di introduzione a cura del traduttore
Lo studio che presentiamo è costituito da due conferenze tenute dai Proff.
P. Ranson e M. Terestchenko presso una scuola superiore di Parigi. Quello
che colpisce il lettore in questi studi è l'assoluta novità
dell'impostazione data alla questione "scisma" per troppo tempo sconosciuta
agli studiosi ed anche agli occidentali che fossero semplicemente
interessati a questa storia, soprattutto a causa di storici in malafede che
hanno preferito tenere molti risvolti di questa storia artatamente celati al
fine di non permettere in alcun modo la messa in discussione delle origini
del papato e del Sacro Romano Impero. Non possiamo dimenticare, a questo
proposito, come tutte le case regnanti dell'Europa occidentale originassero
dall'Impero carolingio e dal sistema feudale la propria ragione di esistere
e che l'eventuale messa in discussione della validità, sul piano del diritto
storico dell'Impero carolingio, avrebbe messo conseguentemente in
discussione anche la loro sussistenza. Per ciò che riguarda il Papato, la
cosa è anche più evidente, in quanto la tesi difesa da Ranson e Terestchenko
è quella della "usurpazione" del trono ortodosso dell'antica Roma da parte
di vescovi eretici germano-franchi aventi come scopo primario il mantenere
prima il potere carolingio e poi, da Gregorio VII in poi, il proprio potere
politico da veri e propri imperatori romani (cfr. il "Dictatus Papae"del
1075). In un primo momento, il lettore italiano, abituato alla manualistica
storica scolastica, potrà rimanere veramente colpito, se non quasi
traumatizzato, da questa "Storia dello Scisma Oriente-Occidente", e arriverà
fors'anche a rifiutarla quasi visceralmente tanto tutti noi siamo abituati
alle nostre cognizioni di base e le riteniamo comode e tranquille anche per
la nostra coscienza un po' forse sonnolenta rispetto al nuovo, ma, una volta
fatto lo sforzo di operare in noi stessi una vera e propria "metanoia"
intellettuale ed accettando con serietà ed equanimità delle interpretazioni
diverse da quelle alle quali abbiamo sempre dato credito, allora dovremo
concludere col dare ragione ai nostri autori. Ciò potrebbe dare origine ad
una metanoia senz'altro un po' più grande di quella culturale, ma questa è
competenza di un Altro.
Lo studio che segue è tratto, per fraterna concessione del suo direttore L.
Motte, dai nn. 1 e 2 della rivista "LA LUMIERE DU THABOR" edita a cura della
FRATERNITE' ORTHODOXE St. GREGOIRE PALAMAS che ne detiene i diritti
letterari.
Daniele Gandini
1 - Il quadro politico e religioso: la Romanità.
Per affrontare con serietà la questione dello scisma, bisogna, in primo
luogo, schivare un primo ostacolo e cioè quello di vedersi negato il
fondamentale ruolo dogmatico di questa questione oggi. Codesta questione
rischia di essere rifiutata immediatamente da un punto di vista storico
poiché gli specialisti in ecumenismo hanno fatto tanto per ridurne la
portata fino al renderla una banale "questione di campanile" la cui
sussistenza oggi è del tutto anacronistica. Non abbiamo forse visto qualche
anno fa il Patriarca Atenagora dichiarare di aver perduto il suo diploma in
teologia manifestando così il suo disinteresse per gli aspetti dogmatici
dello scisma?
Per il padre Congar sono stati dei malintesi storici a provocare
l'allontanamento reciproco : "Lo scisma di Oriente ci appare consistere
nell'accettazione di uno stato di cose in cui ogni parte della cristianità,
vive, si comporta e giudica senza tener conto dell'altra. Allontanamento
quindi, provincialismo, situazione di non rapporti, stato di ignoranza
reciproca. Lo scisma d'oriente, si è realizzato a causa di un progressivo
estraniarsi delle parti e consiste oggi nell'accettazione di tale
estraniarsi." Secondo questa interpretazione, questo allontanamento ha avuto
delle cause geografiche, linguistiche e morali.
La principale causa geografica, si afferma seguendo lo storico belga
Pirenne, è la rottura delle vie di comunicazione tra oriente e occidente
dovuta alle invasioni musulmane.
La causa linguistica di questa misconoscenza reciproca è l'ignoranza del
greco in occidente e del latino in oriente. Culturalmente le due tradizioni
che non si capiscono più tra loro, sviluppano ciascuna autonomamente
dall'altra due visioni peraltro possibili del Cristianesimo. In Oriente, a
forza di risettaciare continuamente i Padri greci, la teologia diventa
"Bizantina" ; in Occidente, grazie ai carolingi, il dogma progredisce
approfondendo le "intuizioni originali" della Patristica latina.
Congar che vuol tirare tutte le conseguenze della sua analisi nell'ottica
dell'unione delle Chiese, ne deduce che il reciproco allontanamento può
essere superato dato che le condizioni sociologiche sono cambiate : la
società moderna è più "civilizzata", più capace di amore di quanto lo
fossero quelle di "Bisanzio" e dell'Occidente medioevale. Congar afferma
ugualmente che la grande scoperta di oggi, del tutto ignorata nel passato
dalla Chiesa, sarebbe l'amore : "Diciannove secoli di Cristianesimo si sono
interessati quasi unicamente a Dio. Oggi conosciamo il mondo e questo si
impone talmente a noi che certe affermazioni cristiane ci sembrano se non
vacillare, almeno essere surclassate dalle evidenze che ci vengono dalle
cose... Nulla è più significativo a questo riguardo del ritorno dell'amore,
anche se solo della parola amore, nella letteratura religiosa".
Il fondo di questa posizione "ecumenista" sulla storia dello scisma è
l'affermazione che i Padri abbiano ignorato, del tutto o in parte, l'amore e
che conseguentemente ogni vivente oggi si trovi, su questo punto, ad un
livello più alto di Sant'Atanasio, l'intransigente lottatore per la fede di
Nicea, di san Cirillo d'Alessandria, il "persecutore" di Nestorio, o di San
Massimo il Confessore che rifiutava ogni compromesso di fronte ai cinque
patriarchi diventati per un momento eterodossi.
Si vede dunque fino a che punto queste tesi sono dei veri e propri insulti
alla Teologia dei Padri quando si afferma che l'amore è "una scoperta
recente" e che è stata una mancanza di amore ad essere la causa delle grandi
polemiche dei padri contro gli eretici.
Questo concetto, ammesso oggi da numerosi cattolici e anche da molti
"ortodossi", si fonda su di una visione della storia completamente falsa e
su tre postulati che ci proponiamo di discutere nel modo che segue :
Per prima cosa "Bisanzio" non esiste, è un'impostura o almeno una polemica
indegna di storici seri, il chiamare "bizantini" coloro che fino alla caduta
di Costantinopoli, Nuova Roma, e anche oltre, si sono sempre chiamati
"romani". Il Patriarca di Costantinopoli porta ancora oggi il titolo di
"Arcivescovo di Costantinopoli Nuova Roma".
Secondariamente l'opposizione culturale tra i Padri greci e latini si
giustifica solo col fatto che i germano-franchi hanno dato ad Agostino
d'Ippona un'autorità esclusiva a spese degli altri numerosissimi padri
latinofoni anteriori. Questa sedicente opposizione dunque è in gran parte
falsa e in luogo di distinguere tra padri latini e padri greci, bisogna
riconoscere l'unità della Fede tra padri latinofoni ed ellenofoni, tranne
Agostino, nell'interno del quadro geopolitico della romanità.
Infine non c'è stato scisma nel senso di separazione di due mondi, poiché
una cosa del genere sarebbe contraria alla definizione stessa di Chiesa, una
per natura, ma l'usurpazione della sede ortodossa di Roma da parte della
frazione francofila che ha dovuto agire per molti secoli prima di vincere la
Romanità in occidente.
La scienza storica europea chiama generalmente "bizantino" l'Impero Romano
del santo Imperatore Costantino il Grande attribuendo all'Impero questo
aggettivo a partire dalla fondazione di Costantinopoli, o a volte, a partire
da Giustiniano. L'origine di questa nuova civiltà sarebbe legata ad una
cosiddetta "orientalizzazione" dell'Impero Romano. In ogni caso tutti
affermano che l'Impero Romano diventa "bizantino" verso il V-VI secolo,
perché si ellenizza e perde la sua latinità originaria. D'altro canto questa
stessa scienza storica chiama "bizantino" il quadro culturale e teologico
dell'Impero, perché esso perde la sua specificità greca per modellarsi su di
una "mentalità bizantina" assai problematica. Già i due termini "Greci" e
"Bizantini" sono recenti e peggiorativi.
Il termine "greco" non viene in verità impiegato prima dell'VIII - IX secolo
, nel particolare clima politico e ideologico dell'epoca carolingia: Carlo
Magno vuole restaurare l'impero romano e a questo scopo gli è necessario
negare ogni legittimità al "Basileus" Ortodosso col fine precipuo di
spezzare il legame profondo esistente fra le popolazioni gallo-romane e
italo-romane da un lato e Costantinopoli dall'altro. Chiamare "greci" i
popoli dell'Impero è, per mezzo di un'impresa ideologica di notevole
ampiezza, rigettarli fuori dall'Occidente e praticamente identificarli con i
"Gentili", con i Greci antichi e cioè con i pagani di cui parla la
scrittura.
Alcuni anni più tardi, Nicola I, il primo papa germanofilo attaccato dai
vescovi italo-romani del sud dell'Italia e da quelli gallo-romani in
conflitto con il clero franco, tentò di raccogliere intorno a sé tutto
l'episcopato germanico e franco. Fece comporre dei trattati "contro gli
errori dei greci" che si rivelarono delle vere e proprie minacce nei
confronti della Fede cristiana. Nella mente di Hincmar e egli altri teologi
franchi di quest'epoca che pensavano di poter far progredire nel sottile la
teologia analizzando l'essenza di Dio con le categorie di Aristotele, il
termine "greco" è un insulto pieno di disprezzo : i "greci" sono insieme
indegni del nome di "cristiani", ignoranti in teologia e perfidi come degli
"orientali". Basta consultare i numerosi trattati "Contro gli errori dei
greci", da quello di Ratramno di Corbia fino a quello di Tommaso d'Aquino,
che queste raccolte di citazioni false e menzognere appaiono col chiaro ed
evidente scopo di presentare la sottigliezza diabolica del "Filioque" come
un segno di grande superiorità intellettuale dell'Occidente sui "greci". Tra
gli ortodossi romani dell'Impero quel termine era considerato una vera e
propria ingiuria; nel secolo XV anche un partigiano dell'unione con Roma al
Concilio di Firenze, quale l'Imperatore Giovanni Paleologo, rifiutò come
ingiurioso l'epiteto di "greco".
Ugualmente è da dirsi per il termine "bizantino"; nessuno si sognerebbe oggi
di chiamare i parigini "luteziani" dal nome dell'antico villaggio sul quale
è costruita l'attuale città così come noi facciamo usando quel vocabolo per
gli abitanti di Costantinopoli Nuova Roma. Il termine d'altronde è piuttosto
tardivo perché è solo nel XV secolo che un latinizzante uniata, Niceforo
Gregoras, l'utilizzò per la sua storia dei Romani intitolata "Storia dei
"Bizantini". Nei secoli XVI e XVII viene impiegato più frequentemente
soprattutto dagli Illuministi Francesi che ad esso diedero un valore
dispregiativo. Montesquieu e Voltaire parlano rispettivamente di "un'indegna
raccolta di declamazioni e di miracoli" e di "un tessuto di rivolte, di
sedizioni e di tradimenti" per descrivere l'Impero Romano di Costantinopoli.
Fino ad oggi questo termine ha conservato tale connotazione negativa e
abbiamo potuto vedere persino un professore della Sorbona arrabbiarsi al
solo nome del grande e Santo Fozio.
Quale che sia l'impronta di mille anni di passioni antiortodosse, resta il
fatto che la storia, nel suo sforzo necessario di rigore e di obbiettività,
non ha assolutamente il diritto di usare una terminologia uscita dalle
polemiche più violente dell'epoca carolingia o del XVIII secolo. Non ne
verrebbe di conseguenza la liceità di trattare i "tempi lunghi " della
storia universale partendo da concetti apparsi in momenti ben precisi di
lotte per lo più "provinciali" ? Non sarebbe più giusto chiamare i bizantini
col loro nome di Romani e di utilizzare gli aggettivi e i sostantivi propri
della loro Romanità? Non è forse ciò che fanno ancora oggi gli Arabi che li
chiamano "Rom" e "Romis"?
Innumerevoli sarebbero le sorgenti testuali di queste affermazioni e gli
storici potrebbero analizzare più adeguatamente il sentimento profondo di
unità culturale che avevano i Romani della Nuova Roma nei confronti del
passato sia "romano" (latino) sia "greco", sia antico sia cristiano. Per
esempio la Biblioteca di san Fozio sconcerta spesso il critico occidentale
che vi vede soltanto un prezioso libro di erudizione che evidenzia la
curiosità intellettuale del santo patriarca, quando invece i libri di Storia
Romana o di Filosofia greca gli erano così poco estranei quanto per un
francese del XX secolo lo sarebbero le opere di Racine o quelle di Moliere.
La storia antica era tanto vicina culturalmente a san Fozio quanto ne era
tenuta lontana, sul piano dei valori cristiani, come ne è testimonianza il
suo rifiuto all'intrusione del razionalismo umanista carolingio nell'interno
della dogmatica. Gli "umanisti" latini o greci non avevano un carattere di
esemplarità per un romano di Costantinopoli, più di quanto la nostra
infanzia lo abbia per l'adulto che siamo diventati.
Prendiamo un altro esempio più recente : qualcuno potrebbe obbiettarci il
fatto che la Grecia continentale, una volta liberata dal giogo dei Turchi,
non ha scelto il nome di "Romanità". Nei fatti questa è l'eccezione che
conferma la regola : sono state le potenze occidentali a imporre il termine
"greci" per tagliare via gli ortodossi continentali dai loro fratelli
dell'Anatolia ed impedire così ogni rivendicazione dell'Asia minore, in
quanto i Turchi dovevano essere risparmiati e protetti per ragioni di
politica internazionale. Le conseguenze di questa politica furono più tardi
i massacri di Asia minore del 1923 durante i quali truppe francesi ed
inglesi assistettero indifferenti allo sterminio delle popolazioni
cristiane. Nel XIX secolo, in ogni caso, la scelta dei termini greci ed
elleni fu combattuta dagli Ortodossi ostili alla rinascita di un
neo-paganesimo elleno; il grande poeta Costis Palamas fu il cantore della
romanità di fronte alle tesi del gruppo neo-greco di Korais incapace di
dimostrare l'esistenza di una coscienza nazionale neo-greca autonoma. Oggi
il teologo di fama mondiale Giovanni Romanidis, professore all'Università di
Tessalonica, è diventato il difensore dell'idea e della coscienza romana
ortodossa.
Il Padre Giovanni Romanidis ha in particolare denunciato la grande
contraddizione della scienza storica europea che presentiamo di seguito : da
un lato si afferma che l'impero è diventato "bizantino" perché è diventato
"elleno" o "greco"; dall'altro si spiega il passaggio dalla civilizzazione
ellenica dell'impero romano - quella ad esempio dei grandi Cappadoci - alla
civilizzazione bizantina con la perdita del carattere propriamente elleno di
questa civilizzazione. Così l'Impero Romano diventa "bizantino" perché si
ellenizza e la civilizzazione ellenica diventa "bizantina" perché cessa di
essere ellena.
Si vede così quanto sia grande la confusione presso gli storici e i teologi
occidentali che parlano ora di "bizantini" ora di orientali ora di greci per
indicare un impero che si è sempre chiamato nella stessa maniera : Romano.
Sarebbe dunque un vero progresso il rifiutare questi termini dispregiativi
di "greci" e di "bizantini" che non hanno nemmeno il merito di chiarire i
fatti storici. Se si ritornasse alla denominazione di "romano" e di romanità
ortodossa", l'efficacia scientifica sarebbe grande almeno su tre punti:
1] Lo storico avrebbe un filo conduttore coerente per considerare la storia
del mondo mediterraneo nella sua totalità : l'impero romano viene invaso da
popolazioni barbare che impongono il loro dominio in modo piuttosto
differente ; in occidente questa dominazione consiste in una sorta di
imitazione parodistica e nell'usurpazione delle antiche strutture romane e
cristiane ; presso i musulmani si stabilisce invece un modello di
dominazione non parodistico e le due culture, cristiana e musulmana,
restano, seppure in una certa misura parallele ed ostili. I punti d'incontro
essenziali sono particolarmente interessanti e sono incomprensibile al di
fuori di questa unità culturale romana, in particolare quando si parla del
periodo carolingio, delle crociate e del Concilio di Firenze. Quest'ultimo
avvenimento è spesso trascurato dagli storici quando invece riveste
un'importanza quasi paradigmatica. Bessarione inventa e diffonde ben presto
l'umanesimo insieme pagano e papista; San Marco d'Efeso rifiuta
assolutamente, in nome della Romanità Ortodossa, l'infallibilità del papa e
dell'uomo europeo; Pletone riscopre una ellenicità fondata sul ritorno dei
culti pagani, ritorno ostile tanto alla romanità quanto all'Europa.
2] La storia non dovrebbe cercare una "latinità" che non esiste sempre. Le
differenti costruzioni della latinità in Occidente - Carlo Magno e
successori - sarebbero meglio comprese se fossero studiate come utopie o
come ideologie nate per facilitare il dominio sull'antica Romanità
Ortodossa.
3] La lotta patetica dei Romani d'Occidente contro i Barbari potrebbe infine
essere studiata in una prospettiva di lunga durata invece di svanire
curiosamente dopo i Merovingi. In particolare la volontà degli Italo-Romani
del sud d'Italia o della Sicilia, dei provenzali, degli aquitani, degli
spagnoli romanizzati, tutti ortodossi, di preservare la loro cultura e la
loro fede potrebbe essere studiata in quest'ottica.
Infine la storia delle idee scaturirebbe dalla storia degli avvenimenti,
poiché il senso di infallibilità che caratterizza, secondo il padre Justin
Popovic, l'uomo europeo, progredirebbe nello stesso tempo delle forze
politiche e religiose proprie all'Occidente medioevale e classico : il
papato e la monarchia assoluta.
La storia di ciò che si denomina lo "scisma" del 1054 sarebbe da questo
punto di vista un archetipo, lo studieremo nel prossimo capitolo e vedremo
come l'abbandono dei termini antiscientifici di "bizantini" e di "greci"
permette di modificare le opinioni tradizionali o ecumeniste sullo "scisma".
2 - Lo scisma del 1054
Nel primo capitolo abbiamo mostrato brevemente che la necessità del "Dialogo
Ecumenico" conducevano a dare una spiegazione insoddisfacente sia per la
teologia sia per la storia dello scisma del 1054.
Sul piano teologico il dibattito è stato impoverito perché è stato ridotto
ad essere soltanto una disputa di parole; in particolare il filioque è
presentato come il frutto fortunato di un approccio puramente latino ed
occidentale alla teologia che, dati i postulati, non mette in pericolo la
teologia classica dei padri. Si impiega allora il vocabolario vago dei
sentimenti e delle emozioni , come fa, ad esempio Olivier Clement quando
parla della "grandezza propriamente religiosa del filioque" e delle
"intuizioni originali del Filioquismo". Brevemente, in mancanza di un
vocabolario concettuale sufficientemente elaborato, l'Oriente, meno
speculativo, e l'Occidente, troppo razionalista forse, non si sarebbero
capiti.
Si è allora andati alle cause puramente storiche che presto sembrano essere
soltanto una serie di casi sfortunati; prevale allora l'interpretazione
psicologica: a ciascuno si fa un dovere, dopo aver messo tra parentesi tutti
i problemi, di trovar scortese la propria parte. Così Clement scrive del
patriarca Michele Cerulario: "Il patriarca bizantino Michele Cerulario era
uno spirito rozzo, incapace di discernere l'essenziale dall'accessorio e di
elevarsi ad una concezione ecumenica della Chiesa"; e Congar dice del
cardinale Umberto che era "un uomo rigido e combattivo" e la sua Bolla di
scomunica è un monumento di inimmaginabile incapacità di comprensione". A
forza di "dialogo", è la storia che rischia di diventare incomprensibile se
si resta sulle alte sfere della "casualità psicologica".
In realtà l'aspetto storico e l'aspetto teologico sono legati, soprattutto a
partire dall' VIII secolo quando la teologia del filioque, della redenzione
e generalmente il metodo teologico uscito dall'agostinismo appaiono come
l'ideologia dei Franchi e dei Germani i cui antenati hanno invaso la
romanità occidentale e che hanno avuto bisogno di tre secoli per costituirsi
in Stato. Lo "scisma" non è soltanto una rottura, uno strappo nel tessuto
cristiano dovuto ad una separazione teologica tra Roma e l'Oriente, ma
piuttosto l'usurpazione della sede ortodossa dell'antica Roma operata dai
Germano-Franchi e tendente al rapimento dell'ultimo Papa Ortodosso ed alla
sua sostituzione con un papa germanico filioquista, Sergio IV.
Descriveremo ora in breve le grandi tappe di questa usurpazione che sono le
tappe di una lotta tra l'elemento romano, gallo-romano e italo-romano, da un
lato e i barbari goti, longobardi, vandali o franchi dall'altro.
L'origine lontana, il dato fondamentale che celava in germe le divisioni
ulteriori, sono le invasioni barbariche, non tanto per il carattere eretico
ariano della religione di questi popoli, quanto per la loro incapacità di
costituirsi in stato o almeno di modellare una religione capace di
rimpiazzare quella che volevano distruggere. Dopo i primi massacri e grazie
alla resistenza eroica dei vescovi, dei preti e di tutto il popolo martire
gallo-romano, dal momento della morte del re Eurico, il progetto di
sostituire la "Romanità" con una "Goticità" dovette essere abbandonato. Anzi
al contrario numerosi capi barbari presero gli abiti e i titoli romani per
guadagnare un po' di legittimità presso le popolazioni.
Ciò però non vuol dire che il sentimento nazionale delle popolazioni
asservite sia scomparso rapidamente, come hanno affermato certi storici
(Fustel de Coulange). In realtà, dopo il naufragio del potere politico
romano, la rappresentanza legale così come l'autorità morale sul popolo
romano viene ad essere assunta dalla Chiesa che diventa il luogo di
resistenza di tutti coloro che vogliono conservare la tradizione e
l'identità romane. In questo tormentato periodo, oltre al ruolo dei grandi
vescovi del V e del VI secolo come Fausto di Riez o Cesario d'Arles, il
patriarca dell'Antica Roma assume la funzione di Etnarca del popolo Romano
d'Occidente. E' lui infatti che resta in contatto con l'Imperatore di
Costantinopoli. Si sa quanto Gregorio il Grande seppe preservare i diritti
dei Romani in quell'epoca così tormentata e drammatica, al punto che non
esitava, nei suoi Moralia a paragonare la Romanità occidentale con Giobbe.
Certamente l'Impero Romano d'Oriente non aveva mai cessato di rivendicare,
malgrado le difficoltà , la sua parte occidentale. I Romani d'Oriente e
d'Occidente erano solidali, ma da Giustiniano a Basilio I la fortuna
militare di Costantinopoli non fu sempre favorevole. Le divisioni interne
dei barbari e quel periodo oscuro che fu l'epoca merovingia, assicurarono
tuttavia alla Chiesa una molto relativa tranquillità: i barbari non potevano
accedere facilmente allo stato ecclesiastico e la sinodalità della Chiesa,
conforme ai Canoni Apostolici, era rispettata grazie alla grande maggioranza
di Romani liberi nelle città gallo-romane. Sarà necessario l'immenso sistema
di deportazione e di messa in schiavitù dei Romani che si chiama
feudalesimo, perché i Franchi diventino maggioritari nell'elezione dei
Vescovi.
Già le scuole monastiche che, fondate un tempo dai discepoli di San Giovanni
Cassiano, di Onorato di Arles e di Fausto di Riez, formavano i vescovi
romani, erano state annientate ad opera di Carlo Martello e di Pipino il
Breve. A causa dell'anarchia politica merovingia, il carattere sinodale
della Chiesa fu parzialmente soppresso per essere ristabilito solo a favore
dell'episcopato franco.
La grande crisi iconoclasta che lacerò l'Impero in Oriente, permise ai
Franchi di godere delle divisioni interne dei romani d'Oriente e dell'Italia
meridionale. In effetti, dopo l'inizio dell'VIII secolo, l'Italia romana e
la Chiesa Ortodossa dell'Antica Roma restarono pericolosamente isolate, nel
momento in cui, sotto il principato di Leone Isaurico e poi sotto i suoi
successori, le icone furono distrutte e gli iconofili perseguitati. Poiché
il papa Gregorio II rifiutava di promulgare gli editti imperiali che
ordinavano la distruzione delle Icone, l'Italia fu isolata dall'Oriente e
presa come in una tenaglia fra gli imperatori eretici e i Franchi.
I Franchi erano iconoclasti, fondamentalmente, e ugualmente lo erano i
Longobardi e certi vescovi dell'Italia del nord come Claudio di Torino.
Tuttavia gli Ortodossi partigiani delle Icone erano numerosi in Gallia, nel
clero e nell'episcopato di tradizione romana. In Oriente, grazie alla
imperatrice Irene, essi riusciranno a prevalere e a imporre il VII Concilio
Ecumenico che i vescovi franchi di Carlo Magno non riconosceranno e contro
il quale si leveranno.
La questione del filioque fu altrettanto grave. Il filioque non è una
formulazione antica, come generalmente si afferma, che risalirebbe al III
Concilio di Toledo. Data invece dalla fine del secolo VII o dall'inizio
dell'VIII ed era contestato molto in Occidente all'inizio del IX dai vescovi
gallo-romani: al contrario i franchi ne facevano il simbolo di una rinascita
intellettuale che in realtà appariva ben modesta. Il Concilio di Aix la
Chapelle è una notevole testimonianza di questa lotta tra l'elemento romano
e l'elemento franco. Per prima cosa questo Concilio mette in evidenza il
carattere recente del filioque.
In effetti i rappresentanti del Concilio di Aix informarono il Papa che il
Simbolo della fede cominciava ad essere cantato con il filioque nel palazzo
di Carlo Magno e che si trattava di un dogma nuovo. Il Concilio di Aix non
poté concludere nulla e si divise in due partiti contrari. Carlo Magno, il
campione del filioque, non poté in realtà imporre la sua opinione e il
Concilio si sciolse prima della sua fine. Così scrive Adam Zernicaw: "Gli
incontri sullo Spirito Santo furono numerosi con gli uni che dicevano che lo
Spirito santo procedeva anche dal Figlio e gli altri che li
contraddicevano". Ciascuno dei due partiti fece appello al Papa Leone III
che non solo si oppose all'aggiunta del filioque, ma in più ordinò che il
Credo di Nicea-Costantinopoli fosse inciso su due piastre d'argento, in
greco ed in latino, nella chiesa di San Pietro.
Questa sconfitta di Carlo Magno dimostra che il potere dei Franchi cadeva di
fronte all'autorità del Papa Ortodosso dell'Antica Roma. Bisogna ben
comprendere che per Carlo Magno il contenuto dogmatico non era essenziale,
ma il filioque era per lui il simbolo del progresso compiuto nei confronti
dei "Greci" in teologia grazie all'applicazione delle categorie razionali
alla Santa Trinità. Era per lui la prova della superiorità culturale dei
Franchi su coloro che chiamava spregevolmente i "Greci".
Il vecchio Leone III, sebbene fosse riuscito a resistere sulla Fede, aveva
tuttavia permesso a Carlo Magno di riportare una vittoria definitiva sul
piano politico facendosi incoronare "Imperatore dei Romani" e cioè lo aveva
lasciato usurpare il potere legittimo dell'Imperatore di Costantinopoli
sulle popolazioni romane di Occidente. La versione germano-franca
dell'incoronazione di Carlo Magno che si trova sui manuali di storia
occidentali è una vera mistificazione, poiché essa è fondata unicamente sul
racconto dell'ideologo franco Eginardo che afferma che sarebbe stato Leone
III ad aver voluto di sua iniziativa incoronare un Carlo Magno piuttosto
reticente. In realtà con questa cerimonia in cui la potenza del re franco
fece violenza al Papa Ortodosso Leone III, Carlo Magno voleva instaurare una
nuova concezione della legittimità del potere.
Il racconto di Eginardo che non osa addossare a Carlo Magno la
responsabilità dell'avvenimento, prova al contrario che nel IX secolo i
barbari non erano riusciti ad instaurare altra legittimità che quella del
popolo romano. Invece la pretenziosa teologia del filioque e la concezione
carolingia del potere aggiunte al fatto che la dottrina agostiniana sulla
predestinazione sembrava poter far considerare predestinata la razza dei
Franchi, gettarono le fondamenta principali del Medio evo occidentale.
La necessità di lottare contro gli Arabi nell'Italia meridionale e
l'occupazione militare franca della Roma Antica vi aveva fatto nascere, come
in un microcosmo, una situazione simile a quella dell'Occidente: un partito
franco ed un partito romano vi lottavano.
Dalla morte di Leone III all'anno 858, il popolo ortodosso di Roma riuscì ad
imporre un suo candidato , malgrado le minacce dell'imperatore germanico.
Già dal momento dell'elezione di Leone III grandi furono l'ansietà ed anche
il terrore per una rappresaglia franca. L'elezione di Benedetto III fu
interrotta dal partito germanico che impose per un momento il proprio
candidato Anastasio, ma la folla assediò le porte della basilica
costantiniana ove si teneva il sinodo incaricato di eleggere il nuovo papa.
Alla morte di Benedetto fu eletto il primo papa germanofilo Nicola I.
L'imperatore germanico Ludwig accorse e fece svolgere l'elezione alla sua
presenza. Prestissimo Nicola I volle imporre la sua autorità su tutta la
chiesa e applicò alla sua tiara e al suo regno la dottrina della
predestinazione. Scrisse al patriarca della Nuova Roma, San Fozio il Grande,
che "la Chiesa di Roma aveva meritato il diritto al potere assoluto ed aveva
ricevuto il governo di tutte le pecorelle di Cristo".
Un po' più tardi, furioso di non aver ottenuto il riconoscimento delle sua
innovazioni da San Fozio, scrisse direttamente al popolo, al clero e
all'Imperatore di Costantinopoli delle lettere piene di ostilità e di odio
in cui il patriarca è chiamato "Signor Fozio" , "adultero", "omicida" ed
"ebreo". In Bulgaria benediceva la missione del vescovo Formoso, uno dei
capi del partito filogermanico, ed autorizzava l'aggiunta del filioque al
Credo nonché altre riforme o pratiche tipiche delle chiese franche.
Questo atteggiamento provocò la reazione della Chiesa di Costantinopoli e
San Fozio, d'accordo con il suo Sinodo, inviò un'enciclica a tutte le Chiese
nella quale denunciava la situazione creata in Bulgaria e il dogma del
filioque.
Un concilio si tenne a Costantinopoli nell'867, alla presenza dei delegati
dei patriarchi orientali, che anatematizzò le dottrine denunciate da san
Fozio, in particolare l'eresia del filioque e la sua aggiunta al Credo di
Nicea-Costantinopoli in Bulgaria. Più di mille firme testimoniarono contro
il dogma franco che, come afferma San Fozio, scinde la Santa Trinità in due,
poiché instaura due sorgenti nella Divinità, finendo così nel paganesimo.
Dopo la partenza per l'esilio del patriarca Fozio, il papa Nicola I fece
organizzare a Costantinopoli nell'869 un concilio di 18 vescovi nel quale la
persona di San Fozio fu condannata, senza che nessuna eresia gli potesse
essere rimproverata.
Bisogna dire che Nicola I in Roma non osò mai imporre il filioque per paura
del popolo romano fedele alla Fede Ortodossa. Nicola I d'altronde non
cessava di trovare difficoltà con i romani dell'Italia del Sud e anche con
quelli delle Gallie che erano rimasti scossi dalla sua concezione
totalitaria dell'antica "etnarchia". Quando morì, era ormai sostenuto solo
dai teologi franchi filioquisti che egli aveva mobilitato contro il
patriarca e l'imperatore di Costantinopoli, senza peraltro fare il nome di
San Fozio la cui scienza e santità erano note ai romani ortodossi della
Gallia.
Dopo un papa di transizione, Adriano, il partito romano ebbe nuovamente il
sopravvento e l'arcidiacono Giovanni, divenuto Giovanni VIII, salì al trono
patriarcale di Roma. Giovanni VIII che la storiografia occidentale ha
lasciato per molto tempo da parte - e ciò in parte a causa della
falsificazione delle fonti, ormai ammessa dagli storici -, fu un grande papa
della Romanità, della statura dei Leone Magno e dei Gregorio Magno.
Gerarca attento e prudente, fino alla morte dell'imperatore Ludwig II
nell'875, seppe utilizzare il partito germanico, senza pur dare ad esso un
ruolo decisionale. Al momento però nel quale la minaccia germanica scomparve
con la morte dell'imperatore, depose, scomunicò e anatematizzò i vescovi
"nicolaiti" che avevano aggiunto il filioque in Bulgaria ed in particolare
il vescovo Formoso. Scelse un candidato all'impero tra i carolingi, il re di
"Francia" Carlo il Calvo che era il più moderato e il più lontano
dall'Italia e gli impose una "donazione" che liberava le elezioni dei papi
dalla presenza dei legati imperiali. Così tentava di preservare Roma da un
nuovo Nicola imposto dal partito germanofilo.
Dopo la disfatta e la morte di Carlo il Calvo, lasciò in sospeso la
successione che egli cercava di controllare, muovendo i vari candidati gli
uni contro gli altri. Fallì alla fine perché il re Carlo il Grosso invase
Roma e fece avvelenare Giovanni VIII che fu poi finito a colpi di scure.
Questo periodo di tempo che Giovanni VIII riuscì a dare al trono dell'antica
Roma, se da un lato fece entrare la capitale in un periodo di disordini e di
incertezze, dall'altro doveva contribuire a cambiare l'aspetto delle cose.
Da una parte la disorganizzazione politica in Italia provocata dalla vacanza
del trono imperiale occidentale permise alle truppe di Basilio I di avanzare
in modo decisivo in Italia e di liberare momentaneamente i romani della
regione ; dall'altra parte i legati di Giovanni VIII poterono assistere e
riconoscere le decisioni del Concilio dell'879 presieduto da San Fozio, di
nuovo in possesso del suo trono patriarcale.
A questo concilio tutti patriarchi vennero rappresentati e San Fozio fu
riconosciuto da tutto il mondo quale Patriarca della Nuova Roma. Così colava
a picco tutta l'opera di Nicola I. L'inalterabilità del Simbolo della fede e
la condanna di ogni aggiunta furono proclamate ufficialmente benché Giovanni
VIII avesse domandato che i franchi non venissero nominati e ciò per
prudenza. I legati della Chiesa di Roma chiamarono l'aggiunta del filioque
un "inqualificabile insulto ai Padri", Giovanni VIII scrisse una lettera a
San Fozio nella quale condannava in termini velati, ma fermi, i
germano-franchi e l'aggiunta del filioque: "Noi li mettiamo dalla parte di
Giuda, poiché essi hanno lacerato le membra del Cristo". Questo concilio
dell'879 che riconobbe l'ecumenicità del VII Concilio ebbe tutti i caratteri
di un Concilio Ecumenico e la chiesa Ortodossa lo riconosce ormai come
l'VIII Ecumenico.
Il pontificato di Giovanni VIII segna dunque un momento decisivo e mal
conosciuto della storia dello "scisma", perché rappresenta l'ultima grande
resistenza dei romani dell'antica Roma e dell'Occidente nei confronti della
spinta germano-franca contro il trono ortodosso di Roma.
Il periodo che va dalla morte di Giovanni VIII all'inizio del secolo IX è
sistematicamente rappresentato in Occidente come un periodo di corruzione e
di anarchia a causa del ruolo che in quest'epoca hanno avuto i laici nella
scelta dei papi. I soli papi che trovano grazia agli occhi degli storici,
sono quelli rivolti verso i regni sorti dai carolingi. In realtà questo
periodo è presentato come un periodo particolarmente turbolento perché i
romani dell'antica Roma conservavano un controllo relativo sulla loro
Chiesa.
Come scrive G. Romanidis : "Per due secoli, dagli anni tra il 784 e l'809,
quando i Franchi condannarono il VII Concilio Ecumenico, fino al 1019 o 1014
quando il Filioque fu definitivamente introdotto nel simbolo a Roma, gli
Ortodossi Latini lottarono duramente in Italia per conservare la Fede del
VII e dell'VIII Concilio Ecumenico". Effettivamente fino all'inizio del
secolo XI il Filioque non fu mai aggiunto al Credo e, finché Roma riconobbe
il VII e l'VIII Concilio Ecumenico , la comunione non fu rotta fra le sedi
orientali e l'antica Roma. Durante questo periodo i Franchi che temevano una
rivolta di tutti i Romani dell'Occidente non osarono attentare direttamente
al Patriarca dell'antica Roma.
Quando però l'impero germanico fu ristabilito, l'ultimo Papa Ortodosso
Giovanni XVIII fu deportato in un monastero dell'Italia meridionale e Sergio
IV che doveva il suo trono all'Imperatore tedesco Enrico II, professò il
Filioque nella lettera di intro-nizzazione che indirizzò al Patriarca di
Costantinopoli Sergio II. Quest'ultimo, per decisione conciliare, cancellò
allora il nome del papa dai dittici della Grande Chiesa e non vi fu mai
rimesso. A Roma il filioque fu ufficialmente aggiunto dal papa Benedetto
VIII che era nipote dell'Imperatore tedesco. Ancora una volta il clero ed il
popolo reagirono ma dovettero questa volta inchinarsi di fronte all'autorità
di Benedetto VIII perché fu durante l'incoronazione di Enrico II di Germania
che il Credo fu letto con l'aggiunta.
L'usurpazione del Trono ortodosso dell'antica Roma così si compiva e il
popolo romano d'Occidente, senza né capo, né difese, dovette sopportare le
persecuzioni che fecero ad esso subire i grandi papi del feudalesimo come
Gregorio VII.
Ciononostante ci furono per molto tempo ancora in maniera sparsa delle
resistenze e si sa da un testo di Alessandro di Hales che nel 1240 e cioè
226 anni dopo l'aggiunta del filioque di Benedetto VIII si cantava ancora in
certe chiese il Credo senza l'aggiunta. Si può dire tuttavia che nel 1014 la
resistenza di quattro secoli dei Romani di Occidente si conclude e che così
una nuova struttura ecclesiale, totalmente estranea all'antica e che porta
tutte le caratteristiche del feudalesimo, sostituisce totalmente il Papato
ortodosso di Leone, di Gregorio e di Giovanni VIII.
L'incidente del 1054 a Costantinopoli che dà il suo nome allo "scisma", non
è dunque, come si è detto, che un permesso di inumazione. Si sa che il 15
Luglio 1054 durante la Liturgia celebrata alla presenza del patriarca
Michele Cerulario, Umberto, legato del Papa Leone IX, fece irruzione in
Santa Sofia e pose sull'altare un libello in cui rimproverava gli
"orientali" di aver tolto il Filioque dal Credo. Accusava inoltre il
Patriarca Michele di essere nemico dello Spirito e nemico di Dio. Il
patriarca riunì un Concilio e anatematizzò "questo scritto empio e stupido".
Il Patriarca Pietro di Antiochia al quale il Cerulario scrisse, confermò la
decisione della Chiesa di Costantinopoli e tutti gli altri Patriarchi
Orientali fecero la stessa cosa seguendo in ciò quanto avevano deciso al
momento del Concilio dell'879.
Gli avvenimenti ulteriori confermano che il termine usurpazione è il più
adeguato per descrivere la politica ecclesiastica dei Franchi e dei Germani.
Le crociate sono infatti in un modo ancora più chiaro dei tentativi di
rimpiazzare i Vescovi Ortodossi delle sedi orientali con dei Vescovi
"latini", cioè Franchi. L'uniatismo fu ugualmente la continuazione con mezzi
più o meno diretti della stessa politica e solo recentemente la conoscenza e
lo studio dei testi hanno permesso un'interpretazione sfavorevole
all'Occidente dello "scisma".
E' questo ristabilimento dei fatti che l'Ecumenismo tenta di relativizzare,
appoggiandosi sull'ostilità o sul disprezzo quasi ereditario nei confronti
di tutto ciò che è "bizantino" o "greco", ma esso, lasciando nell'oblio la
resistenza dei suoi antenati romani ortodossi, non può giustificare codesta
relativizzazione se non nascondendo dei fatti storici e disprezzando in
maniera quasi totale la lotta politica e teologica dei Romani Orientali
durante le Crociate e durante i secoli XIV e XV quando san Gregorio Palamas
e San Marco d'Efeso si presentarono come i campioni della Tradizione Romano
Ortodossa di fronte alla Teologia orgogliosa dei Franchi prodotto di
elucubrazioni razionali e fantastiche.
Ai nostri tempi in cui la civiltà sorta dal preteso "Rinascimento" è in
molte parti contestata, l'ecumenismo viene considerato da molti ortodossi
come un ultimo tentativo del Papato, isola feudale in mezzo al mondo
moderno, di salvare "l'infallibilità" dell'uomo europeo ed impedire il
ritorno dei "Romani d'Occidente" alla teologia tradizionalmente romana degli
ortodossi e cioè alla teologia dei Tre Dottori.
(Versione italiana da La Pietra nn.3-4/1999)
DAL MILLE ALLA FINE DEL 1200
Quadro politico
Le due istituzioni politiche maggiormente rappresentative, in questo
periodo, sono l'Impero romano-germanico e la Chiesa cattolico-romana. La
corona imperiale è detenuta prima dalla casa di Franconia (1024-1125) e poi
dalla casa di Svevia (1152-1250), entrambe della Germania. Sotto la dinastia
francone le vicende politiche più significative, a livello europeo, furono:
1) la lotta dell'impero contro il papato per le investiture del clero
(vescovi e abati),
2) il grande scisma tra cattolici e ortodossi,
3) le crociate in Medio Oriente contro i musulmani,
4) l'emanazione da parte dell'impero della Costitutio de feudis (1037).
Sotto la dinastia sveva le vicende più importanti furono:
1) la prosecuzione delle crociate,
2) l'annessione imperiale del regno normanno nell'Italia meridionale,
3) la lotta dell'impero contro i Comuni (Milano, Pavia, Genova, ecc.),
4) la lotta dell'impero e della chiesa contro le eresie.
A) La lotta per le investiture (1059-1122)
I) Verso la metà dell'XI sec. il papato si era notevolmente rafforzato,
superando la profonda crisi in cui era caduto nei secoli IX e X. Le forti
proteste contro il concubinato del clero, la simonia, cioè la vendita di
funzioni, cariche e beni ecclesiastici per denaro, l'ignoranza e
l'indifferenza per la religione, lo costrinsero a prendere posizione.
II) Soprattutto due aspetti avevano contribuito a mettere in crisi la
chiesa:
1) il papa, in conseguenza del privilegio che l'imperatore sassone Ottone I
aveva preteso, doveva, prima di essere consacrato, ricevere la conferma
dell'imperatore, mentre, in conseguenza di un ulteriore decreto voluto da un
altro imperatore, Enrico III, doveva ottenere da quest'ultimo la
designazione prima di essere eletto;
2) i vescovi, in conseguenza della politica di Ottone I, che li aveva già
investito del governo delle città e dei feudi (vescovi-conti), avrebbero
dovuto ricevere l'investitura temporale (mediante la spada) dall'imperatore
e quella ecclesiastica (mediante l'anello e il pastorale) dal papa, ma
l'imperatore, approfittando della subordinazione del papato alla sua
volontà, si era col tempo arrogato anche l'investitura ecclesiastica, cioè
l'elezione stessa dei vescovi e degli abati.
III) La protesta contro questa situazione critica venne condotta su due
piani:
1) quello ereticale delle ribellioni popolari urbane (ad es. la Patarìa) che
si richiamavano agli ideali evangelici di povertà, fraternità e comunione
dei beni, contro gli abusi e la corruzione dell'alto clero;
2) quello del monachesimo cluniacense: un movimento che. sorto nel monastero
francese di Cluny, coinvolse gli ordini regolari dei benedettini,
cistercensi, certosini, camaldolesi, ecc., nonché una buona parte del clero
secolare e del laicato cattolico.
IV) Il papato optò per la seconda alternativa, senza rinunciare a un'intesa
con la Patarìa (dal nome del quartiere milanese ove abitavano i tessitori e
i commercianti di panno) per minare l'indipendenza dei vescovi lombardi nei
suoi confronti. I monaci di Cluny volevano difendere l'ideale di una chiesa
"guida suprema" della cristianità, con a capo il potere indiscusso del
pontefice. Gli ordini religiosi che parteciparono a questo movimento
chiesero d'essere posti sotto la diretta potestà del papa, per sottrarsi
all'autorità del vescovo diocesano o del signore laico locale. La loro
riforma morale voleva essere molto rigida e intransigente. Sul piano
teologico si servirono delle cosiddette Decretali dello pseudo-Isidoro, un
falso documento composto verso la metà del IX sec. Si tratta di una raccolta
di testi apocrifi nei quali si parla del potere del vescovo di Roma su tutti
gli altri vescovi, si nega il diritto ai sovrani laici d'intromettersi negli
affari della chiesa e si parla della loro sottomissione al potere
ecclesiastico. Per la prima volta viene avanzata l'idea dell'infallibilità
del papa. Questo documento era stato preceduto nell'VIII sec. da un altro
falso, fatto passare per autentico: la cosiddetta Donazione di Costantino,
in cui si sostiene che l'imperatore Costantino concesse al pontefice le
insegne imperiali e tutte le città italiane, Roma compresa, mentre lui si
trasferiva a Costantinopoli.
V) Nel 1059 si tenne a Roma il grande Concilio del Laterano, col quale si
promulga una serie di decreti per condannare la simonia, il concubinato,
ogni forma di lassismo morale e di indisciplina del clero. Si stabiliscono
inoltre nuove norme per l'elezione del pontefice: la scelta e l'elezione del
candidato viene riservata al Collegio dei cardinali, cioè ai vescovi
titolari di diocesi, di chiese o di cariche fondamentali della chiesa di
Roma e della campagna romana circostante (la nomina dei cardinali era
riservata al papa). Al resto del clero e al popolo romano veniva
riconosciuta la facoltà di manifestare il proprio consenso mediante
acclamazione. L'elezione del pontefice era così sottratta ad ogni ingerenza
della nobiltà romana e dell'imperatore, e venivano altresì rifiutati i
suddetti privilegi di Ottone I e di Enrico III. Per affrontare l'inevitabile
scontro con l'impero tedesco, il papato si alleò militarmente con la potenza
normanna, stanziata nel sud dell'Italia, e minacciò di scomunicare le
autorità laiche che avessero continuato a concedere le investiture.
VI) Il conflitto tra papato e impero assunse toni drammatici quando vennero
a confronto il papa Gregorio VII e l'imperatore Enrico IV. Il papa, infatti,
con i suoi decreti, chiamati Dictatus papae (1075), non voleva solo abolire
ogni ingerenza laica nella vita ecclesiastica, ma voleva anche conferire al
vescovo di Roma l'esercizio di un primato assoluto su tutte le autorità
ecclesiastiche e secolari. Il suo programma teocratico prevedeva:
1) infallibilità della chiesa romana,
2) universalità del pontefice e sua superiorità sui concili (soltanto a lui
spettava il potere di nominare i vescovi e di emanare prescrizioni
ecumeniche),
3) potere del papa di deporre gli imperatori e di scioglierne dal giuramento
di fedeltà i sudditi.
VII) Viceversa, Enrico IV faceva leva su una tradizione ben radicata
nell'Occidente, secondo cui l'autorità del potere imperiale proviene
direttamente da Dio e non dal papa. Oltre a ciò, Enrico IV temeva che
l'attuazione della riforma gregoriana lo privasse di tutti i possedimenti
ecclesiastici che dipendevano dalla sua corona.
VIII) Le delibere dei Concili ecclesiastici a favore della riforma
gregoriana non furono rispettate né da Enrico IV, né dalla maggioranza
dell'episcopato di Germania, Francia, Inghilterra e Italia. Enrico IV anzi
convocò una Dieta di vescovi tedeschi a Worms per far dichiarare decaduto
Gregorio VII. La risposta fu immediata: il papa scomunicò l'imperatore,
sciogliendo i sudditi dall'obbligo di fedeltà. Di ciò approfittarono subito
molti principi tedeschi ostili a Enrico IV, il quale così si vide costretto
a sottoporsi all'umiliazione di mendicare, nella veste di un comune
penitente, la revoca della condanna: cosa che ottenne dopo tre giorni di
penitenza presso il Castello di Canossa, in Toscana, ove Gregorio VII s'era
rifugiato temendo un attacco militare dell'imperatore. Il pontefice cedette
anche perché da molte parti gli erano pervenute delle proteste per la
scomunica lanciata contro l'imperatore.
IX) Tornato in Germania, Enrico IV soffoca l'opposizione interna, ripristina
la prassi delle investiture imperiali del clero e scende in Italia con un
forte esercito. A Roma si fa incoronare imperatore da un antipapa che aveva
fatto eleggere in precedenza. I Normanni vengono in soccorso di Gregorio
VII, ma, dopo aver cacciato l'imperatore, saccheggiano così duramente la
città che la cittadinanza costringe il papa a rifugiarsi a Salerno, dove
morirà dopo un anno.
X) La lotta per le investiture prosegue con i successori di entrambe le
parti e si conclude con il Concordato di Worms (1122), con cui Enrico V
riconosce la separazione delle due investiture: l'elezione del pontefice
resta riservata al Collegio dei cardinali, quella dei vescovi e degli abati
diventa di esclusiva prerogativa del clero; all'imperatore fu riconosciuta
la facoltà di concedere l'investitura temporale (o politica) solo a quei
vescovi o abati già eletti secondo la legge canonica: solo in Germania
l'imperatore poteva concedere l'investitura temporale prima di quella
ecclesiastica.
XI) In conclusione:
1) la politica episcopale degli imperatori germanici, iniziata da Ottone I,
era definitivamente fallita;
2) una parte dei feudatari (laici ed ecclesiastici) approfittò della
debolezza dell'impero per consolidare il proprio dominio, ampliando i
confini territoriali: il che diede origine ai cosiddetti "principati
territoriali" (territori isolati politicamente ed economicamente in cui poi
si frantumerà la Germania);
3) la chiesa cattolica era diventata un organismo centralizzato e
autoritario, sovrapposto alla comunità dei credenti e guidato da un monarca
eletto dall'apparato dirigente della curia romana, vertice di una gerarchia
ecclesiastica disciplinata;
4) in molte città dell'Italia settentrionale, una volta indebolita
l'autorità del vescovo-conte, il vuoto di potere viene colmato dagli stessi
cittadini, uniti da comuni interessi e resi più forti dallo sviluppo delle
loro attività economiche: di qui la formazione dei Comuni.
B) La Costitutio de feudis (1037)
I) Durante il governo della dinastia di Franconia, l'imperatore Corrado II
il Salico fu costretto a emanare la Costitutio de feudis, con cui
riconosceva anche ai feudatari minori (valvassori o vassalli dei baroni) il
diritto di trasmettere ai legittimi eredi i benefici dei quali avevano
ottenuto l'investitura. Ciò stava ad indicare che all'interno della classe
feudale i contrasti non riguardavano più soltanto le rivalità tra singoli
signori, ma si erano anche ampliati alla contrapposizione tra interi settori
della feudalità.
II) Il movimento di trasformazione interna del sistema feudale, pur
interessando tutto l'Occidente europeo, ebbe come epicentro l'Italia del
nord (vedi soprattutto i valvassori di Milano). Corrado II si mise dalla
parte di questi valvassori anche per ottenere nuovi appoggi alla corona
contro lo strapotere dei grandi feudatari laici ed ecclesiastici. Tuttavia,
il decreto non farà che accelerare la disgregazione dei poteri imperiali, in
quanto i piccoli feudatari, ottenuto il decreto, si allearono con le grandi
signorie contro l'impero. A quel tempo fu proprio questa alleanza, sostenuta
dai nuovi ceti mercantili, che riuscì ad impedire a Corrado II di imporre la
sua volontà sulla città di Milano. Addirittura la popolazione, cosciente
della propria forza, riuscì a liberarsi, poco dopo, anche della presenza
dell'arcivescovo, costringendo la grande nobiltà a formare un governo su
base comunale, cioè associativa.
C) Lo scisma cattolico-ortodosso (1054)
I) I rapporti tra l'Occidente cattolico e l'Oriente ortodosso (le due
correnti principali della cristianità europea medievale) cominciarono a
deteriorarsi quando il papato, nell'800, accettò di incoronare Carlo Magno
sovrano del Sacro Romano Impero d'Occidente, senza che si chiedesse alcuna
autorizzazione all'imperatore di Costantinopoli.
II) Successivamente gli imperatori carolingi e germanici presero ad accusare
i greco-ortodossi (bizantini) di eresia, al fine di giustificare il
trasferimento dell'impero a Occidente. Lo fecero in una maniera un po'
curiosa. Approfittando di una lotta contro l'eresia ariana in Spagna,
cominciarono a introdurre nel Credo cristiano l'espressione "Filioque" ("e
dal Figlio"), relativa alla processione dello Spirito, che per i cattolici
avviene anche "dal Figlio". Questo nel 589. In seguito l'aggiunta si diffuse
in tutto l'impero d'Occidente, tanto che nel 1014 l'imperatore Enrico II
indusse il papa a inserirla ufficialmente e definitivamente nel Credo.
Dopodiché gli imperatori d'Occidente presero ad accusare i bizantini
d'essere stati loro a omettere questa formula nel Credo! Naturalmente
un'accusa di tal genere faceva leva sull'estraneità che da secoli
caratterizzava i rapporti tra le due confessioni. In ogni caso, la questione
del "Filioque" servì da premessa ideologica per giustificare la rottura con
l'oriente cristiano.
III) Già si è detto che subito dopo il Mille, la chiesa romana cercò con la
lotta per le investiture di sottrarsi alla soggezione in cui la
costringevano gli imperatori occidentali. Questo mutato atteggiamento trovò
un riflesso anche nel suo modo di rapportarsi all'Oriente ortodosso.
Infatti, se a partire da Carlo Magno i suoi rapporti con l'Oriente erano
mediati dagli interessi dell'impero d'Occidente, ora essa pensa di staccarsi
dall'ortodossia in modo autonomo. E cominciò a farlo chiamando in Italia,
nel 1016, i Normanni, affinché l'aiutassero nella guerra contro gli arabi e
i bizantini nell'Italia meridionale. Ben presto però i Normanni si
aggiudicarono il controllo di tutto il sud (incluse le isole), minacciando i
territori dello stesso papato. Il quale così decise di inviare una
delegazione a Costantinopoli per chiedere due cose: l'aiuto militare
dell'imperatore e la subordinazione della chiesa ortodossa a quella
cattolica (in tal modo Roma poteva controllare tutte le diocesi bizantine
ancora presenti nel Mezzogiorno).
IV) I rapporti, già fin troppo tesi, degenerarono sino alla traumatica
rottura. Il patriarca di Costantinopoli prese ad accusare la chiesa romana,
rappresentata dalla delegazione, di usare il "Filioque" nel Credo, il pane
azzimo nell'eucarestia e di essere incorsa in molte altre deviazioni dal
rituale classico. La delegazione rispose appellandosi agli apocrifi decreti
isidoriani (sconosciuti a Costantinopoli), che rivendicavano la supremazia
papale. La conclusione di questa missione diplomatica si risolse in una
reciproca scomunica: in quella della legazione latina vi erano accuse
completamente infondate (ad es. si rimproverò ai bizantini di aver omesso il
"Filioque" dal Credo, di aver permesso al clero di sposarsi contravvenendo
alle tradizioni apostoliche, ecc.).
V) L'imperatore d'Oriente non voleva essere trascinato in quello scambio di
ostilità ecclesiastiche, ma, dietro insistenza del patriarca, accettò di
convocare un concilio per scomunicare i latini. I Normanni fecero il resto,
rendendo impossibile la ripresa di nuovi negoziati. Col tempo le differenze
tra cattolici e ortodossi si accentuarono, soprattutto nel campo
dell'organizzazione ecclesiastica. L'Occidente vedeva nella chiesa una
monarchia sacra e considerava il papa come la fonte assoluta di ogni
autorità. Viceversa, i bizantini erano più favorevoli alla dimensione
conciliare della chiesa e ritenevano l'imperatore investito di autorità
direttamente da Dio.
CRISI DELLA SOCIETA' FEUDALE E NASCITA DEL CAPITALISMO COMMERCIALE
I) Subito dopo il Mille si verifica nella società europea occidentale, un
risveglio in ogni forma della vita economica, politica, religiosa e
culturale, che durerà almeno sino alla metà del '300 e che riguarderà
soprattutto l'Italia settentrionale, la grande pianura europea lungo i fiumi
navigabili, le Fiandre (Belgio). Nel Nord-Europa dominava la Lega Anseatica
(Colonia, Amburgo, Brema, Lubecca, Danzica, Riga, di lingua tedesca) che
commerciava con Russia, Paesi Scandinavi, Polonia, Olanda... Le condizioni
che contribuiscono a provocare la crisi della società feudale e a favorire
la formazione di nuovi centri organizzativi, come le città, le corporazioni
di arti e mestieri, le università, sono le seguenti:
1) Rapido incremento demografico. La popolazione dell'Occidente europeo era
andata progressivamente diminuendo dal III-IV sec. fino a toccare la punta
massima di depressione nel sec. IX. Nell'XI sec. si ha un'inversione di
tendenza, perché verso i centri urbani si dirigono sempre più numerosi i
contadini che si liberano dalle condizioni servili del lavoro agricolo
(fenomeno dell'urbanesimo). Essi sono richiamati dalle città che chiedono
nuove forze lavorative e promettono ai lavoratori di diventare cittadini
liberi. Le città, che dopo le grandi incursioni barbariche si erano
spopolate (solo poche potevano contare più di 3.000 ab.), si ripopolano
quando queste invasioni hanno fine (intorno al 1300 più di 60 città europee
superavano i 10.000 ab.) e quando si raggiungono forme di sussistenza meno
precarie, grazie allo sviluppo tecnologico e all'espandersi dei commerci.
[Lo spopolamento non si era però verificato nell'Europa bizantina e
musulmana].
1.1) La popolazione europea passa dai 20-40 mil. circa dell'anno Mille, ai
50-70 mil. del 1300 (prima del 1348 la densità media era di circa 20-30 ab.
per kmq). L'Italia, preceduta da Germania e Francia, non supera i 9 milioni
di ab. [L'epidemia di peste del 1348 decimerà di 1/3 la popolazione
europea]. La durata media della vita si eleva a 35 anni. Ha termine la
pratica dell'infanticidio dei neonati di sesso femminile. La mortalità
infantile resta però sul 40% in media, anche se viene compensata da una
notevole natalità nelle campagne.
2) Evoluzione tecnologica e Sviluppo industriale. Tra l'XI sec. e il XII
sec. si moltiplicano i dissodamenti-disboscamenti-bonifiche (dal 70 al 90%
della popolazione continua a vivere nelle campagne). Si diffondono
innovazioni tecniche molto importanti: aratro pesante a versoio, in grado di
lavorare la terra in profondità, rovesciandone le zolle; collare a spalla (e
non più sul collo) per il cavallo da traino e giogo frontale con l'attacco
in fila per i buoi (il che aumenta la trazione di 4-5 volte); ferratura
degli zoccoli; la rotazione triennale delle colture, per evitare
l'isterilirsi della terra (prima la rotazione era biennale: un anno si
seminava solo una metà del campo, l'anno dopo l'altra metà. Con la rotazione
triennale, la parte A, in autunno, produceva frumento e segale, la parte B,
in primavera, produceva avena, orzo, piselli, ceci, lenticchie e fave, la
parte C era a riposo. L'anno dopo la parte A era seminata con colture
primaverili, la parte B era a riposo, la parte C produceva cereali
d'autunno. Così aumentava la produzione annuale di circa 1/3. Da notare che
l'alimento-base era il pane, rara la carne); i mulini ad acqua e a vento,
che impiegavano un'energia praticamente gratuita, anche se molto alti erano
i loro costi di costruzione: la loro più importante applicazione fu la
macina del grano. La moltiplicazione degli strumenti, specie quelli di
ferro, implica la formazione di ceti artigiani che vivono in città (nascono
i fabbri specializzati, che producono coltelli, falcetti, vanghe,
vomeri...). Il settore industriale trainante è quello edilizio (cattedrali,
chiese, castelli, ponti, granai, mercati, case per ricchi). Il legno viene
progressivamente sostituito con pietra, mattone e ferro. Nel 1200 cresce
notevolmente anche la produzione tessile (cotone, seta).
3) Il progresso della società agraria. Al centro di una grande
trasformazione dei rapporti sociali ed economici nelle campagne vi è la
grande massa dei contadini, che sono in ascesa perché da un lato migliorano
in modo quantitativo e qualitativo le colture agricole, e dall'altro
riescono a strappare il riconoscimento di diritti più adeguati ai nuovi
ruoli produttivi. Sempre più frequenti si manifestano nelle campagne episodi
di congiure o di aperte ribellioni contadine contro gli obblighi feudali. I
servi della gleba sono sempre meno disposti a fornire lavoro e prodotti per
mantenere le forze armate del signore feudale o per garantirgli un'esistenza
agiata da parassita. Questi contadini rivendicano maggiore autonomia
produttiva (p.es. la possibilità di vendere i loro prodotti agricoli in
città o di gestire la terra pagando un affitto). Se i signori reagiscono con
la forza, i contadini spesso fuggono verso le città, diventando operai
salariati o artigiani.
3.1) Da un lato dunque tendono a formarsi dei contadini benestanti o piccoli
imprenditori agricoli che, pur non avendo la proprietà della terra, riescono
a strappare molte concessioni al nobile, organizzando la produzione per il
mercato e accumulando capitali (essi pagano un affitto al nobile).
Dall'altro però si forma una specie di proletariato agricolo -i braccianti-
che in un certo senso viene messo ai margini da questa trasformazione
dell'agricoltura. Essi non possono trarre il sostentamento dal proprio fondo
agricolo e sono costretti a lavorare a giornata, compensati con un salario
in natura o in moneta.
3.2) Le famiglie contadine continuano a vivere prevalentemente nei villaggi,
attorno ai quali vi sono le terre arabili, non divise da alcuna recinzione
permanente, in quanto, dopo la mietitura, tutti i campi vengono usati per i
pascoli. In periferia ci sono i terreni incolti e i boschi, anch'essi
sfruttati in comune per la caccia, pesca, legname, miele e frutti selvatici.
La collaborazione tra le famiglie permetteva di affrontare i grandi lavori
stagionali. L'introduzione dei rapporti capitalistici nelle campagne
determinerà, col tempo, la netta separazione delle terre private e una loro
gestione individuale, la diminuzione delle terre comuni, la produzione per
il mercato, la specializzazione delle colture, l'uso di metodi intensivi di
sfruttamento della terra e della manodopera salariata...
3.3) La trasformazione dei rapporti socioeconomici nelle campagne è legata
anche all'uso della moneta che sostituisce lo scambio in natura (baratto).
Ciò comporta la fine del rapporto personale di dipendenza tra servo e
signore, e l'inizio di un rapporto contrattuale, dove i diritti-doveri
reciproci vengono precisati e sottoscritti in appositi contratti.
4) I commercianti. Sono loro i promotori principali dei traffici marittimi,
che avvengono inizialmente con molte difficoltà (calamità naturali, rapine,
pedaggi feudali). I commercianti sono degli sradicati, espulsi dalle
campagne per miseria o per insofferenza al servaggio, avventurieri amanti
del rischio, con pochi scrupoli e una grande motivazione al profitto
economico. Spesso sono di estrazione contadina, talvolta di origine nobile
(come i cadetti, spiantati e ambiziosi). Sono loro che reperiscono,
trasportano, difendono le merci, creando reti di distribuzione, organizzando
flotte e carovane, istituendo mercati urbani e fiere, associandosi in
corporazioni di mutuo soccorso e monopolistiche. I mercanti specializzati
nel cambio dei soldi (cosa indispensabile nelle fiere, a causa della
diversità monetaria), diventeranno i futuri banchieri.
5) Gli artigiani. La produzione agricola è sempre più integrata dai servizi
che prestano i fabbri, falegnami, calzolai, tessitori, armaioli..., le cui
botteghe si moltiplicano in città, attorno ai mercati. La divisione sociale
del lavoro si afferma tra città e campagna e all'interno della stessa città,
tra una specializzazione artigiana-professionale e un'altra. Anche gli
artigiani si uniscono in Arti o Corporazioni, organizzate secondo una
gerarchia professionale. In tal modo gli operai e i garzoni sono
maggiormente tenuti sotto controllo. Il maestro era proprietario di una
bottega, degli attrezzi, della materia prima e conosceva i segreti del
mestiere. Queste associazioni detenevano l'esclusiva delle attività di loro
competenza, controllavano gli orari e le condizioni di lavoro, vietavano la
concorrenza tra le varie botteghe, impedivano la pubblicità e altre
iniziative che potessero favorire una bottega particolare, proibivano
adulterazioni e frodi, gestivano i fondi per assistere i lavoratori ammalati
o infortunati (incluse le loro vedove e gli orfani).
6) Gli aristocratici. Si recano nelle città per godere le rendite ricavate
dai feudi agricoli dati in affitto, per investire i loro redditi in attività
produttive, per cercare protezione contro signori più potenti che continuano
ad esercitare un dispotico dominio nelle campagne. Mirano anche a confiscare
alla chiesa le terre coltivate (le terre del clero raggiungono, in genere,
1/3 del totale), affidandole poi a ricchi contadini, per averne un canone. I
cadetti (esclusi dall'eredità) e i piccoli feudatari in rovina diventano
mercenari, professionisti della guerra: saranno loro, insieme ai contadini
impoveriti e ai mercanti speculatori, che parteciperanno in massa alle
crociate. I grandi feudatari detestano profondamente la logica borghese del
valore fondata sul lavoro, per cui tollerano certe attività solo perché
possono operare su di esse vari prelievi (tasse, pedaggi, dazi...).
7) Ripresa urbana e commerciale nell'Italia centro-settentrionale. Prima in
Italia e nei Paesi Bassi, poi nel resto dell'Europa occidentale, il
risveglio dei centri cittadini determina la trasformazione delle città da
centri amministrativi-militari-religiosi, il cui nucleo essenziale era
costituito da una fortezza o da una cattedrale (in quanto dipendevano da un
signore feudale o da un vescovo), a centri produttivi-economici, di scambio
e di consumo, il cui nucleo essenziale è il mercato. In Italia, le città più
importanti, all'inizio, sono quelle marinare o quelle poste lungo le vie
fluviali: Pisa, Venezia, Genova. Esse divengono centri di un traffico di
transito su lunghe distanze, aiutate, in questo, anche dall'espansione
euroccidentale verso Oriente, con le Crociate (importano spezie, seta,
tessuti pregiati, gioielli...ed esportano manufatti europei).
7.1) Venezia e Genova (in parte Pisa), sino alla fine del XIII sec.
controlleranno quasi tutti gli scambi dell'Europa occidentale con il
Levante, il Nord-Africa (soprattutto l'Egitto) e il Mar Nero: Genova
garantiva i contatti del Mediterraneo con l'Europa nordoccidentale; Venezia
con l'Europa centro-orientale. Pisani, genovesi e veneziani sono presenti in
tutta Europa come amministratori delle finanze pubbliche, esattori delle
imposte, direttori di zecche, gestori di uffici doganali e di miniere,
fornitori dell'esercito e della corte, ma anche come manifatturieri,
capitani di navi, mercanti, marinai... Essi incentivano tutte le classi
sociali a ricorrere al prestito, diffondono le operazioni di cambio della
valuta estera e le pratiche del credito, istituiscono il sistema bancario e
del debito pubblico, introducono le lettere di cambio, con le quali si
poteva pagare in qualunque moneta, senza le spese e i rischi del trasporto
in contanti, sperimentano la vendita a rate. Verso il 1300 sono i primi a
diffondere l'uso dell'orologio meccanico per regolare la giornata
lavorativa. A garanzia dei loro crediti, ottenevano concessioni commerciali,
esenzioni fiscali e doganali, diritti di monopolio. Crearono praticamente il
capitalismo commerciale europeo. Vittime principali di questo successo
furono gli ebrei, ma anche, per un certo periodo, tutti i mercanti stranieri
che volevano penetrare nel Mediterraneo. Il declino dei borghesi italiani
inizierà coll'emergere degli Stati nazionali, che vorranno gestire in
proprio i commerci; proseguirà con la caduta di Costantinopoli nel 1453 ad
opera dei feudali turchi; e si concluderà in seguito alla scoperta
dell'America, la quale sposterà il baricentro dei traffici mondiali dal
Mediterraneo all'Atlantico.
LA RIFORMA GREGORIANA
Nei manuali di Storia medievale, normalmente, la Riforma gregoriana viene
vista in maniera positiva, poiché con essa -si dice- Gregorio VII seppe "por
fine" all'anarchia ecclesiastica dei due secoli precedenti. E, altrettanto
naturalmente, si fa capire che questo era l'unico modo per risolvere il
problema dell'anarchia.
Che un problema di anarchia effettivamente esistesse, nessuno può metterlo
in dubbio. La chiesa romana era in balìa delle famiglie nobiliari più
potenti della capitale.
Tuttavia, gli storici raramente si chiedono le motivazioni socio-culturali
di tale anarchia. Ragionando in termini esclusivamente politici, essi ne
addebitano le cause allo scarso prestigio, alla indebolita autorevolezza
della chiesa istituzionale: di qui il giudizio positivo nei confronti della
svolta autoritaria di Gregorio VII.
Lo storico, al massimo, giudica negativamente quegli aspetti dogmatici che
oggi risultano, in virtù dell'avvenuta secolarizzazione dei costumi e dei
valori, particolarmente sgraditi. Ma il valore della riforma in sé non viene
messo in discussione.
Assai raramente uno storico riesce a supporre che l'anarchia ecclesiastica
avrebbe potuto essere risolta con un maggiore senso democratico della vita
sociale, civile e quindi nell'ambito della stessa chiesa.
Di regola lo storico dà per scontato che la chiesa non è capace di
democrazia, in quanto non è mai stata (se non nella primissima fase)
un'istituzione democratica; per cui egli ritiene inevitabile il ricorso alla
forza quando si tratta di risolvere problemi di organizzazione interna
(specie se questi portano all'anarchia).
Gli storici ritengono che la chiesa cattolica, a livello istituzionale (cioè
a prescindere dai suoi singoli esponenti) si sia sempre posta nella storia
solo in maniera politica. Poste le cose in questi termini essi non possono
che avere, nei confronti dell'anarchia, un giudizio analogo a quello della
stessa chiesa.
Gli storici (solo italiani?) fanno molta fatica ad accettare le due seguenti
idee: 1) che la religione debba restare separata dalla politica (questa, per
loro, è stata un'acquisizione del secolarismo, che la chiesa romana ha
dovuto accettare obtorto collo); 2) che nell'ambito della religione sia
possibile vivere un'esperienza democratica, cioè non anarchica (come nel
protestantesimo) né autoritaria (come nel cattolicesimo).
Ora, quali furono le cause dell'anarchia ecclesiastica italiana? Esse vanno
cercate nel desiderio anticristiano, espresso quasi sin dalle origini, della
chiesa romana, di poter disporre di un certo potere patrimoniale da
considerarsi come fondamento del proprio potere politico. Non a caso la
chiesa romana s'è trasformata, con la svolta costantiniana, da chiesa
perseguitata a chiesa privilegiata, sino a diventare, già con Teodosio,
chiesa persecutrice.
Ufficialmente la chiesa romana come istituzione non s'è mai opposta a questo
ruolo di potenza economico-politica: chi ha provato a farlo è stato o
emarginato, o perseguitato o strumentalizzato.
Uno storico, se vuole essere obiettivo, non deve mai limitarsi a costatare i
fatti, cercando di dimostrarne la loro intrinseca necessità, ovvero
l'impossibilità di seguire vie alternative. Occorre invece che si sforzi di
chiarire i seguenti aspetti:
1. ogni fatto, al momento di porsi, non è necessario, ma frutto della
libertà;
2. di fronte alla necessità di risolvere determinati problemi vi è sempre la
possibilità di seguire più di una soluzione;
3. una soluzione diventa più probabile di un'altra, perché vengono compiute
delle scelte, più o meno consapevoli, più o meno autonome;
4. quando si tratta di scegliere una determinata soluzione, le condizioni
storiche ereditate dal passato esercitano inevitabilmente una loro
influenza, la quale però non può essere considerata decisiva, in ultima
istanza, ai fini della scelta da compiere;
5. una soluzione ad un certo punto viene presa perché le contraddizioni
risultano insopportabili;
6. per trovare la soluzione migliore ci si può avvalere della "memoria
storica" e/o del "desiderio di liberazione" (le due cose non sono in
antitesi e possono non essere complementari: la "memoria" p.es. può venir
meno, il "desiderio" no);
7. la decisione di adottare una soluzione che poi si rivela sbagliata, non
pregiudica mai di per sé e definitivamente la possibilità di riadottare una
soluzione migliore;
8. le migliori soluzioni (anche se sono sbagliate) sono quelle che vengono
adottate col maggior consenso popolare, poiché esse educano le masse a
credere nella democrazia.
Nel caso della Riforma gregoriana gli storici addebitano le cause
dell'anarchia ai seguenti fattori:
1. vescovadi, pievi, abbazie... venivano concessi secondo le regole del
clientelismo (favori personali ecc.: oggi diremmo "voti di scambio");
2. la gestione del patrimonio ecclesiastico non rispondeva alle esigenze
dell'utilità sociale (è una conseguenza del punto precedente);
3. le stesse cariche ecclesiastiche spesso venivano comprate (simonia),
erano oggetto di contesa tra le famiglie più in vista (assenza quasi totale
di vere vocazioni);
4. alcuni storici aggiungono, inspiegabilmente, che forte era la corruzione
dei preti cosiddetti "concubinari", considerando "anormale" il matrimonio
dei preti: come se di fronte ai divieti ancora informali della chiesa
istituzionale al matrimonio non fosse inevitabile passare dal matrimonio
legittimo al concubinato monogamico.
Gli storici apprezzano la Riforma gregoriana anche per un'altra ragione: con
essa si sarebbe favorita l'unificazione di un territorio, eliminando i
particolarismi tipici delle situazioni sociali anarchiche.
In realtà l'unificazione (qualunque essa sia, anche nazionale) non può
essere, di per sé, considerata migliore della frammentazione. Quel che
bisogna guardare è il contenuto socio-politico delle cose: esistono
unificazioni positive perché politicamente democratiche; altre negative
perché realizzate in maniera autoritaria (senza considerare che ciò che
appare politicamente "democratico" non è detto lo sia anche sul piano
socio-economico).
Stesso discorso vale per la frammentazione: una divisione democratica del
territorio è sempre da preferire a una unificazione imposta con la forza
delle armi.
L'unificazione può essere accettata solo quando è il frutto di un processo
popolare e quindi di una larga partecipazione democratica. Ma anche quando
essa si realizza, è sempre a livello locale che si verifica quotidianamente
l'uso del potere democratico.
AGOSTINISMO E RIFORMA GREGORIANA
L'agostinismo, intorno al mille, era entrato profondamente in crisi: la
riscoperta dell'aristotelismo, sul piano ideologico, e la riforma
autoritaria di Gregorio VII, sul piano politico (cui seguiranno, sul piano
militare e commerciale, le crociate), furono le due risposte che la chiesa
cattolica diede alla crisi dell'agostinismo.
Sarebbe interessante, in tal senso, verificare concretamente il motivo per
cui tale crisi abbia prodotto dei risultati così sconvolgenti per la
religione (nei suoi aspetti etici e conciliari). L'agostinismo non è stato
semplicemente "riformato" ma addirittura "soppresso", "dimenticato", come
fosse una cosa irrimediabilmente superata. Al punto che la sua successiva
riscoperta avverrà soltanto nell'ambito protestante, in maniera del tutto
strumentale, al fine di giustificare la rottura col cattolicesimo. In ambito
cattolico la riscoperta dell'agostinismo (si pensi al giansenismo) non è
avvenuta senza influenze calviniste e senza un certo rifiuto per la
dimensione politica della fede (il che di per sé non è negativo, se il
credente s'impegna come cittadino nella società civile: era forse questo il
caso dei giansenisti?).
La rottura operata dal papato nei confronti dell'Alto Medioevo agostiniano
fu traumatica, ma ancora più lo fu quella nei confronti dell'ortodossia
bizantina (nel 1054). E' difficile non pensare, in tal senso, che fra i
motivi che sollecitarono il movimento delle crociate non vi fosse anche
quello (ufficioso) coltivato dall'intellighenzia clericale e integrista, di
dare una "lezione armata" alla confessione che non aveva voluto accettare il
primato di Pietro e di Roma.
MEDIOEVO. PAPATO E IMPERO
I) La minore età di Federico II, figlio di Enrico VI e Costanza d'Altavilla,
nonché la crisi dell'impero dopo la sconfitta nella battaglia di Legnano
contro i Comuni del nord-Italia, crearono le condizioni favorevoli al
tentativo del papato di sostituirsi all'impero nell'esercizio della
sovranità politica universale.
II) Il nuovo papa, Innocenzo III (1198-1216) si propose di rilanciare il
programma teocratico di Gregorio VII, per il quale il potere politico dei
sovrani cattolici proveniva da Dio attraverso la Chiesa: cioè nessun potere
laico era legittimo senza il previo riconoscimento da parte della Chiesa. Di
qui la teoria, elaborata da Innocenzo III, della Luna-Impero che riceve la
sua luce dal Sole-Chiesa.
III) Il papa cominciò ad applicare questa teoria nella città di Roma, dove
l'autorità politica era costituita dal prefetto, rappresentante
dell'imperatore, e dal Senato, organo di governo del Comune. Il prefetto gli
prestò giuramento, mentre il Comune accettò una costituzione che dava al
papa il potere di nominare il senatore al quale era affidato il governo
della città. Poi proseguì l'azione in quei territori dove più forte era
l'influenza della Chiesa: Umbria, Marche e Romagna (che più tardi formeranno
lo Stato della Chiesa). Aiutò i Comuni di queste regioni a liberarsi dalla
tutela imperiale e li indusse a porsi sotto la sua protezione. Fece inoltre
riconoscere a Costanza d'Altavilla, vedova di Enrico VI, la signoria feudale
della Chiesa sul regno normanno e, alla morte di lei (1198), assunse la
reggenza per conto del piccolo Federico, col proposito di dividere il regno
di Sicilia dalla Germania.
IV) Sicilia, Aragona, Portogallo, Inghilterra, Francia, Svezia, Danimarca,
Polonia, il regno di Gerusalemme e l'impero latino di Costantinopoli
riconobbero la sovranità del papa, il quale, in cambio, appoggiò i movimenti
espansionistici del mondo cristiano: a nord-est, dove i monaci-cavalieri
dell'ordine Teutonico e di Portaspada procedettero con estrema violenza alla
cristianizzazione dei Paesi Baltici, con l'aiuto delle città commerciali
della Lega Anseatica (1202-1204) nel Mare del Nord (Amburgo, Danzica,
Lubecca, Stettino, Brema ecc.); nel Mezzogiorno francese, dove scatenò la
crociata contro gli Albigesi, ottenendo il feudo di Avignone; a oriente,
dove bandì la 4a, 5a e 6a crociata contro i Turchi in Palestina; a
occidente, dove bandì una crociata contro i Musulmani di Spagna, che si
concluse a favore dei cristiani. Contro le eresie ricorse non solo allo
strumento della crociata, ma anche a quelli dell'Inquisizione e degli Ordini
mendicanti (soprattutto Francescani e Domenicani: quest'ultimi, a partire
dal 1233, dirigeranno il Tribunale dell'Inquisizione).
V) Innocenzo III riuscì anche a coalizzare le forze di Federico II di Svevia
e di Filippo II Augusto, re di Francia, sia contro il re inglese Giovanni
Senza Terra, che aveva rifiutato di riconoscere come primate della Chiesa
inglese un cardinale nominato dal papa, reagendo alla scomunica, che
quest'ultimo gli aveva lanciato, con la confisca di tutti i beni della
Chiesa inglese; che contro le rivendicazioni alla corona imperiale di Ottone
IV di Brunswick (Germania), che, pur essendo del partito guelfo, non piaceva
a Innocenzo III, avendo cercato di conquistare l'Italia meridionale. La
vittoria della coalizione filo-papale rafforzò per un breve periodo di tempo
l'idea della teocrazia, ma in seguito si rivelò alquanto effimera: sia
perchè la Francia iniziava ad affermare le proprie tendenze espansionistiche
ed assolutistiche anche ai danni del papato; sia perchè Federico II era
quanto mai interessato alla costituzione di una monarchia siculo-italiana
(spostando nell'isola il centro dell'Impero), pur avendo egli promesso al
papa che, appena divenuto imperatore, avrebbe rinunciato alla corona
siciliana; sia perchè infine Giovanni Senza Terra, per non perdere la
propria corona, dopo la sconfitta militare, sarà costretto, a causa di una
rivolta delle forze feudali e urbane unite, a concedere la Magna Charta
Libertatum, la quale pone le premesse per la formazione dello Stato moderno,
indipendente dalla Chiesa.
VI) Magna Charta Libertatum (1215)
- Essa per la prima volta sancisce, sul piano della legittimità, che: 1) i
rapporti tra il re e la nobiltà sono regolati non più da atti di forza o
dalla consuetudine feudale, ma da un patto bilaterale, giurato e
sottoscritto, che impegna a precisi obblighi i contraenti; 2) il patto è
ritenuto unica fonte legittima cui fare riferimento in caso di
rivendicazioni avanzate da una parte o dall'altra, e in casi di
contestazione per eventuale abuso di diritti. Alla concessione della Magna
Charta seguirà col tempo l'istituzione del Parlamento, organo di controllo
dei poteri statali e di tutela delle libertà sancite dallo statuto.
- Sul piano del merito essa prevede: 1) il re s'impegnava a non
intromettersi nella elezione delle cariche religiose e a non impadronirsi
dei beni ecclesiastici; 2) egli prometteva di non pretendere dai suoi
vassalli (baroni, grande borghesia e alto clero) tributi straordinari senza
il loro esplicito consenso; 3) garantiva che i membri di questi ceti sociali
non potevano essere arrestati, dichiarati fuorilegge e sottoposti a confisca
dei beni senza il giudizio di tribunali composti da uomini di grado e
posizione uguali; 4) si permetteva ai mercanti stranieri la libera
circolazione in Inghilterra; 5) si stabiliva l'unità di pesi e misure per
tutta la nazione.
- Nonostante che questo patto non concedesse alcun diritto alle classi
sociali marginali, il re, sostenuto dal papa, si rifiutò di riconoscerlo,
per cui esso, in un primo momento, non venne applicato alla lettera. In
questo senso, forse ad esso fu data un'importanza più grande di quella che
effettivamente ebbe, per quanto esso costituì un punto di riferimento cui
sempre ci si richiamerà ogniqualvolta si tratterà di risolvere delle
controversie tra monarchia e aristocrazia.
VII) Federico II (1220-1250). Intanto Federico II, uscito di minorità, cercò
di unire al suo trono siciliano quello tedesco, e vi riuscirà dopo otto anni
di dura lotta contro i guelfi di Ottone IV. Resosi tuttavia conto che il
Meridione italiano rischiava di finire sotto l'egemonia del papato, decise
di riorganizzare il regno di Sicilia, trasferendo qui il centro di tutte le
sue iniziative politico-culturali ed economico-amministrative. I problemi
maggiori che doveva affrontare erano l'anarchia feudale e il controllo di
tutto il commercio insulare da parte delle repubbliche marinare
centro-settentrionali.
VIII) La morte di Innocenzo III lo aveva liberato dai due impegni assunti in
precedenza con la Chiesa: promuovere una crociata in Oriente e rinunciare
alla corona siciliana dopo aver ottenuto quella tedesca. Uno dei successori
di Innocenzo III, Gregorio IX, gli lanciò la scomunica per indurlo a fare la
crociata e ad allontanarsi dal Meridione. Federico accettò, ma, invece di
ricorrere alle armi, preferì venire a patti col sultano d'Egitto. Il papa
non solo rifiutò l'accordo, confermando la scomunica, ma bandì anche contro
di lui, durante la sua assenza, una crociata nel Meridione. Federico dovette
ritornare subito in Italia e combattere contro l'esercito pontificio. La
scomunica venne revocata dietro la promessa ch'egli avrebbe rispettato i
privilegi della Chiesa nel regno di Sicilia -cosa che poi non fece.
IX) In Sicilia Federico creò una monarchia feudale in cui l'equilibrio tra
il re e i baroni e tutta l'amministrazione furono assicurati da un forte
apparato burocratico alle dirette dipendenze della corona. In tal modo
venivano ridotti al minimo molti privilegi politico-amministrativi della
nobiltà e del clero (sostituì ad es. i tribunali ecclesiastici con i propri
nel giudizio degli eretici). I funzionari, nominati dal sovrano (come le
maggiori autorità cittadine: podestà, consoli...), non erano tedeschi ma
della stessa Italia meridionale, istruiti presso un centro studi
universitario che lo stesso sovrano fece aprire a Napoli.
- Sul piano economico:
1) confiscò i fondi di cui poteva contestare i titoli di legittimità (così
potè assicurarsi un demanio consistente);
2) impose un dazio fisso su tutti i beni esportati e importati;
3) creò alcuni monopoli statali commerciali (seta, canapa, ferro, sale).
- Le forti entrate finanziarie gli permisero di realizzare un esercito
mercenario regolare (composto anche da saraceni) alle sue dirette
dipendenze, grazie al quale poteva fare a meno del contributo dei feudatari,
anche se continuava a servirsi degli eserciti tedeschi.
- Sul piano culturale sviluppò la fusione della tradizione bizantina, araba
e normanna. La cultura era aristocratica e imitava i modelli provenzali
francesi. Espressione più significativa: La scuola siciliana (primo esempio
di volgare scritto).
- Tutta l'opera politico-economico-amministrativa venne da lui codificata
nelle Costituzioni di Melfi (1231), che per certi aspetti anticiperanno di
molti secoli l'organizzazione degli Stati moderni, poiché esse miravano a
trasformare lo Stato feudale in una ordinata monarchia assoluta, con la
sudditanza di tutti i ceti a un unico potere centrale.
X) Quando cercò di far valere questi principi anche nel resto della
penisola, lo scontro con i Comuni più forti e indipendenti fu inevitabile.
Federico infatti voleva limitare sia il potere feudale che quello cittadino.
Senonché i Comuni si riuniranno in una nuova Lega Lombarda e, pur risentendo
fortemente di lotte intestine tra guelfi e ghibellini, pur uscendo in un
primo momento sconfitti militarmente dallo scontro con le forze imperiali,
alla fine riusciranno a trionfare, grazie anche all'aiuto del papato, che
lanciò una nuova scomunica contro di lui, determinando la rivolta sia dei
grandi feudatari tedeschi, sia dei sudditi siciliani e meridionali,
esasperati dal fiscalismo e dai vari monopoli statali. Dopo la sua morte, i
possedimenti della sua dinastia vennero spartiti tra i principi tedeschi, e
la Germania resterà sino all'unificazione nazionale divisa in principati
territoriali.
- Con la sua morte finisce per sempre l'idea di poter realizzare un Sacro
Romano Impero, cioè una teocrazia universale guidata dall'Imperatore. Gli
Stati centralizzati, nazionali, da un lato, e lo sviluppo urbano e
mercantile, dall'altro -entrambi gelosi della loro indipendenza- erano
diventati irreversibili.
LA FINE DELL'UNIVERSALISMO PAPALE
I) L'ultimo grande papa (dopo Gregorio VII e Innocenzo III, avversari,
rispettivamente, degli imperatori Enrico IV e Federico II) che proseguì il
programma teocratico secondo cui al pontefice spettava la supremazia su ogni
autorità politica del mondo cristiano, fu Bonifacio VIII (1235-1303). Questo
programma, sino a Bonifacio VIII, non aveva incontrato ostacoli molto grandi
per una ragione molto semplice: i Comuni e i feudatari avevano sempre
cercato di approfittare della controversia tra papato e impero per
indebolire soprattutto quest'ultimo, sicuramente più forte della chiesa sul
piano militare.
II) Tuttavia, nella misura in cui l'Impero era costretto a cedere ampi
poteri sia ai Comuni che ai feudatari (per non parlare delle emergenti
monarchie nazionali), anche il potere universale della chiesa si trovava
compromesso, indebolito: essa infatti non tarderà ad accorgersi di non avere
la forza sufficiente per opporsi a chi aveva saputo ridimensionare le
pretese dell'Impero. In particolare, la funzione politica universale della
chiesa si poneva in netto contrasto con gli orientamenti delle monarchie
nazionali. Di tutte le nazioni, quella che alla fine del '200 sembrava
potersi meglio imporre contro il programma teocratico era la Francia.
Soprattutto con Filippo IV il Bello (1268-1314) il centro del potere
politico-istituzionale era passato nelle mani del re e del suo apparato
burocratico, contro le resistenze autonomistiche del mondo feudale.
III) All'origine del conflitto vi fu la richiesta di contributi finanziari
da parte di Filippo IV, impegnato in una guerra contro l'Inghilterra. Il re
volle imporre le tasse anche al clero francese, senza chiedere
l'autorizzazione del papa. Bonifacio VIII rispose minacciando la scomunica,
ma la rottura venne scongiurata grazie a un compromesso (il re, con una
serie di provvedimenti, aveva ostacolato il normale flusso di denaro dalla
Francia a Roma). Il compromesso però durò poco. Nel 1300 infatti Bonifacio
VIII istituì un vescovado in Francia senza chiedere l'autorizzazione del re.
Filippo IV fa arrestare il vescovo sotto l'accusa di lesa maestà. Il papa
convoca un concilio a Roma per giudicare la condotta del re ed emana la
bolla Unam Sanctam. Il re risponde proibendo ai vescovi francesi di uscire
dal regno. Poi convoca per la prima volta gli Stati Generali (nobiltà, clero
e borghesia) per istruire un regolare processo contro il papa, accusato di
simonia, eresia ed assassinio del papa Celestino V. Il papa allora prepara
una bolla di scomunica contro Filippo IV e di interdetto contro la Francia.
Ma ormai è troppo tardi. Il re aveva deciso di far catturare il papa
trasferendolo di forza in Francia. Gli abitanti di Anagni si oppongono
efficacemente ai francesi, ma il papa, rientrato a Roma, muore pochi mesi
dopo. Il suo successore, Clemente V, decide di trasferire la sede pontificia
ad Avignone nel 1305. Il papato, per quanto al proprio interno riuscisse a
confermare il principio della propria superiorità su tutti gli ordinamenti
ecclesiastici, si doveva sottomettere alla politica francese (i papi
avignonesi furono tutti francesi di nascita).
IV) La dottrina politico-giuridica di quel tempo era arrivata alla
convinzione che il potere politico doveva essere indipendente da quello
religioso, in quanto proveniente direttamente da Dio e non dal papa (vedi ad
es. Dante), e non solo doveva esserlo il potere politico dell'imperatore ma
anche quello dei singoli re nazionali, che nei loro regni cominciavano a
considerarsi degli "imperatori" (sviluppo del principio della "sovranità
nazionale"). Marsilio da Padova, nel suo Defensor Pacis, arriverà
addirittura a dire che imperatori e re derivano la loro autorità dal popolo,
che anche la chiesa si fonda sulla sovranità popolare e che il papa è
subordinato all'imperatore.
V) Il grande scisma d'Occidente (1378-1417). Durante la cattività
avignonese, i papi faranno di tutto per ridurre in soggezione i signori
ribelli dello Stato pontificio. Solo nel 1377 il papato riuscirà a riportare
la sede a Roma, ma appena questo avvenne scoppiò il grande scisma
d'Occidente. Il pretesto che fece scoppiare lo scisma fu l'elezione del
nuovo pontefice Urbano VI, cui si oppose il Collegio dei Cardinali, in
maggioranza francesi, i quali dichiararono d'essere stati costretti a
votarlo sotto la minaccia violenta del popolo, che reclamava un papa romano
o almeno italiano. E così, tutti i cardinali ribelli elessero un antipapa,
Clemente VII, che si insediò ad Avignone, dopo aver cercato inutilmente di
sbarazzarsi di Urbano VI. La cristianità fu così divisa, con grande scandalo
e confusione, in due partiti. La crisi, questa volta, era interna alla
stessa istituzione ecclesiastica.
VI) Per far cessare lo scandalo, molti cardinali delle due sedi si riunirono
nel Concilio di Pisa (1409), ove decisero di deporre i due papi e di
eleggerne un terzo, Alessandro V, con sede a Bologna. Ma gli altri due papi
non vollero riconoscere come legittimo il concilio, il quale, secondo i
canoni, doveva essere convocato dal papa e da lui presieduto.
VII) Lo scisma poté essere risolto solo col successivo Concilio di Costanza
(1414-18), che, convocato dall'imperatore Sigismondo con l'approvazione dei
tre papi, decise: 1) di deporre i tre papi, eleggendone un terzo: Martino V;
2) di trasformarsi in un istituto permanente, ovvero in un organo
costituente della chiesa (in grado di convocare altri concili), al fine di
dare alla chiesa un ordinamento parlamentare, nel quale il potere monarchico
del papa fosse subordinato a quella del concilio (Martino V tuttavia seguirà
una politica ostile, anche se cauta, al movimento conciliare); 3) il
concilio condannò le dottrine di Wycliff e mandò Huss al rogo, giudicati
eretici (anticiparono le idee di Lutero).
VIII) Il piccolo scisma d'Occidente (1439-49). La lotta tra le tesi papiste
e quelle conciliariste determinò un altro scisma all'interno della chiesa.
Eugenio IV, infatti, successore di Martino V, dopo aver convocato un
concilio a Ferrara e poi a Firenze per discutere con la chiesa greca la
riunificazione delle due confessioni (cattolica e ortodossa), chiese che
quello ecumenico di Basilea (già convocato da Martino V per discutere il
problema dell'autorità del papa) fosse sciolto (a Basilea infatti si stavano
affermando le tesi conciliariste). I prelati di Basilea opposero un netto
rifiuto, deposero Eugenio IV ed elessero papa Amedeo VIII duca di Savoia col
nome di Felice V. Questa volta però ebbe la meglio il papa di Roma, poiché
da un lato poté far valere a suo prestigio il ritorno della chiesa greca
alla disciplina di Roma (i bizantini speravano nell'aiuto dei latini contro
i turchi), dall'altro riuscì ad ottenere l'appoggio dell'imperatore
germanico Federico III d'Asburgo, che chiuse d'autorità il concilio di
Basilea. Il papato poté così ripristinare il suo primato sul concilio. Fallì
invece la riunificazione con l'ortodossia, poiché la sconfessarono
immediatamente le popolazioni e il clero orientali.
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