LA STORIA DELLA RUSSIA
E' la più antica e più alta creazione epica del genio russo, contemporanea
alle canzoni di gesta dell'Occidente: Canzone di Rolando, Cantare del Cid
Campeador.
Il canto fu composto da un poeta anonimo, vissuto alla corte di Igor intorno
al 1185, anno in cui avvenne la spedizione militare, durata tre giorni e tre
notti, di questo principe di Novgorod-Severskij contro la tribù nomade dei
Cumani o Polovtsy.
Questo testo fu scoperto - in una trascrizione fatta da un ignoto copista
del XVI sec. - solo nel 1795 dal conte Musin-Puskin, studioso di antichità
russe, e pubblicato nel 1800.
La suddetta copia manoscritta andò perduta nell'incendio di Mosca del 1812
(durante l'invasione napoleonica), dopodiché lunghe polemiche sorsero tra
gli studiosi, molti dei quali pensarono che il testo fosse un falso.
E' un poema della "riconquista", come i due suddetti Cantari, poiché si
vuole riprendere al nemico un territorio che apparteneva agli avi dei
Variaghi, ma mentre nelle opere occidentali l'ideologia religiosa è al
centro delle vicende, qui invece la fede è completamente assente dall'animo
di Igor. Il suo è un obiettivo puramente politico-economico.
Il Canto anzi affonda le proprie radici culturali in credenze pagane o
addirittura primitive, animistiche, poiché si concepisce ogni essere di
natura come "animato", come una forza che contribuisce, insieme ad altre, a
salvare o rovinare gli uomini. P. es. Jaroslavna non prega dio, dopo la
sconfitta del marito, ma il vento, il Dnieper e il sole. Lo stesso Igor
riesce a fuggire con l'aiuto di elementi naturali.
In generale vi è in questo poema un grande interesse per la descrizione
della natura: persino il mondo animale viene evocato con incredibile
esattezza nell'osservazione zoologica.
Il Canto, pervaso da uno spirito patriottico e umanitario (in questo senso è
anche una sorta di trattato storico-politico), narra la sconfitta di un
principe, ma si conclude con un certo senso dell'ottimismo, con
l'esaltazione dell'ardimento umano, anche perché Igor riuscirà a trovare una
felice soluzione al problema territoriale.
Da allora non sarà infrequente che i principi russi sposino donne cumane,
famose per la loro bellezza.
Contrariamente a quanto siamo soliti sapere dai manuali scolastici di storia
antica e medievale, le prime regioni che passarono al sistema economico
feudale non furono i regni romano-barbarici dell'Europa occidentale, ma, già
nel IV sec., la Transcaucasia e l'Asia centrale, strettamente legate ai
centri mondiali della civiltà schiavista dell'antica Europa e dell'antico
Oriente.
In Europa e in Asia Anteriore l'economia schiavista decadde in maniera
irreversibile verso la metà del primo millennio d.C. La nuova nobiltà poteva
arricchirsi solo depredando le popolazioni vicine e soprattutto a spese dei
membri delle proprie comunità, espropriandoli delle loro terre.
Lo Stato feudale russo si costituì verso la seconda metà del primo millennio
e, situato nella grande pianura dell'Europa orientale, divenne ben presto
uno dei più vasti del suo tempo.
La sua formazione risultò dal lungo processo di sviluppo delle tribù slave
orientali: gli slavi, chiamati, già al tempo di Tacito, col nome di
Venedi-Sarmati, erano infatti uno dei principali gruppi etnici d'Europa.
Nel VI sec. occupavano un immenso territorio che andava dal Danubio alla
Vistola e, pur essendo divisi in tre rami principali (Sclavini, Venedi e
Anti), possedevano comunanza di lingua, costumi e leggi.
La loro organizzazione sociale era basata sulla comunità familiare
patriarcale, quindi nel VI sec. erano all'ultimo stadio del regime
comunitario dei clan.
Il potere supremo era esercitato dall'assemblea del popolo e fin dai tempi
più antichi vivevano in democrazia.
Queste tribù, tuttavia, avendo deciso di superare la fase
clanico-gentilizia, tendevano a espandersi, venendo a conflitto con
popolazioni limitrofe, tra cui i bizantini. I quali, però, a differenza di
quanto accadeva in Europa occidentale nei confronti di altre popolazioni
cosiddette "barbariche", riuscirono a contenerne l'avanzata, permettendo
comunque loro di stanziarsi su una grossa fetta del proprio impero, a sud
del Danubio e nei Balcani, ove nacquero vari Stati, tra cui il regno
bulgaro, il principato di Serbia ecc.
Gli slavi si dedicavano prevalentemente all'agricoltura, basata sull'uso
dell'aratro e dei cavalli come animali da tiro; seminavano frumento, segala,
orzo, piante leguminose e fibrose; conoscevano la rotazione biennale e
triennale. Allevavano bovini, ovini e suini. Pesca e caccia erano largamente
diffuse, anche l'apicoltura. A livello artigianale praticavano filatura,
tessitura, conciatura di pelli e pellicce, conoscevano la ceramica e
l'argenteria, nonché l'uso del ferro. Dal VII al IX secolo si sviluppò
notevolmente il commercio degli slavi con oriente, Bisanzio, paesi baltici.
Nei secoli VIII e IX si assiste, tra queste popolazioni, alla formazione di
comunità di villaggio risultanti dall'unione di proprietari individuali
(piccole famiglie) che possedevano l'abitazione, gli strumenti e i prodotti
del loro lavoro e un appezzamento di terra coltivabile (erano i cosiddetti
mir). Continuavano a persistere forme di derivazione clanica, sempre più
ridotte, di proprietà collettiva della terra.
Alla fine del IX sec. appaiono i primi ricchi edifici fortificati, in cui
vivono possidenti agrari (i boiardi), per i quali lavorano servi così
ridotti a causa dei debiti e prigionieri di guerra costretti alla schiavitù.
Da nessuna parte tuttavia si verifica che lo schiavismo venga posto come
base dei rapporti produttivi. Praticamente l'antica Rus passò dalla fase
tribale a quella feudale saltando la fase schiavile.
La formazione di classi antagonistiche è documentata anche dal testo
giuridico Antichissima giustizia russa, redatto nell'XI sec., in cui si
comprende chiaramente che i legami di sangue vengono sempre più sostituiti
da quelli territoriali, che presumono determinati conflitti sociali. I
principi erano insieme capi militari e sacerdoti, e non usurpavano i diritti
delle assemblee popolari: l'insieme del popolo armato componeva le loro
truppe e il bottino di guerra veniva diviso tra i guerrieri, anche se le
terre comuni finivano soprattutto nelle mani dei ceti più benestanti, che se
le trasmettevano per via ereditaria.
Col tempo i principi, appoggiati dai boiardi, cominciarono ad appropriarsi
degli organi di autogoverno delle tribù e istituirono una forza armata
permanente, che facesse valere l'ordine pubblico e che permettesse di
condurre guerre vantaggiose solo a loro stessi. Si costituirono anche alcuni
elementi di un apparato statale che doveva servire per estorcere tasse dal
popolo.
Ormai le tribù slave si erano divise in due gruppi fondamentali, federati
tra loro: a sud i Poljani di Kiev (dominanti), i Severiani e i Vyatici; a
nord gli Sloveni di Novgorod (dominanti) e i Krivici. Il nome "Rus" proviene
dal popolo Rusy, che tra il VI e il IX sec. abitò il corso medio del Dniepr
e che venne sottomesso dai Poljani. Ma si pensa che possa derivare anche dal
finnico "rhos", che vorrebbe dire "scandinavo", cioè "varjago" e per
estensione "russo".
Praticamente lo Stato russo antico nasce dalla fusione dei due suddetti
gruppi tribali, che già stavano combattendo a sud contro i turchi Chazari
(di religione giudaica) e a nord contro i Varjaghi o Vareghi, provenienti,
quest'ultimi, dalla Scandinavia e dediti ad attività predatorie e
commerciali.
Dalla penisola scandinava essi erano scesi verso la grande pianura
dell'Europa orientale, situata tra il mar Baltico e il mar Nero, già verso
il IX sec. d. C. Questi Svedesi, Norvegesi, Danesi, e appunto Varjaghi, con
le loro agili navi si erano spinti anche in Francia, dove avevano formato il
ducato di Normandia (una delle basi fondamentali da cui poi raggiungeranno
la Britannia e l'Italia meridionale), e avevano raggiunto anche la
Groenlandia e le coste nord-americane.
Su questi Varjaghi s'è fantasticato alquanto, specie dopo la formulazione
della tesi cosiddetta "normannista", elaborata da storici tedeschi (Bayer e
Schlözen) al servizio della russa Accademia Imperiale, nel XVIII sec.,
secondo cui i Varjaghi non sarebbero altro che i Normanni di stirpe
germanica, che avrebbero sottomesso gli slavi, più primitivi di loro, e
fondato lo Stato russo.
A detta tesi il più grande studioso russo del Settecento, M. Lomonosov,
oppose la cosiddetta tesi "autoctonista", volta a dimostrare la slavicità
totale del primo Stato russo, facendo risalire l'origine del nome e della
stirpe dei Rus antichi Rossolani, un ceppo sarmatico che già all'epoca di
Erodoto, nel V sec. a.C., abitava le steppe dell'Europa orientale.
Una parte di vero tuttavia c'era nella tesi "normannista", poiché un
varjago, chiamato Rjurik, avrebbe fondato a Novgorod nell'860 la dinastia
dei Rjurikidi, destinata a regnare sino alla fine del 1500, mentre un suo
successore, il principe Oleg avrebbe organizzato nell'882 una campagna verso
sud, che si concluse con la conquista di Kiev e col trasferimento in questa
città del potere e dell'amministrazione esercitati a Novgorod. Kiev, posta
su una grande via di comunicazione fluviale - il Dniepr - e all'incrocio
delle grandi vie carovaniere, aveva raggiunto ben presto un alto grado di
sviluppo, soprattutto a motivo delle relazioni commerciali che poteva
coltivare con Bisanzio.
Oleg (882-912) fu appoggiato dalla nobiltà tribale slava e i Varjaghi,
essendo poco numerosi, si fusero, appena fondato lo Stato russo, con le
popolazioni slave autoctone. Egli sottomise molte tribù slave rimaste
indipendenti, e così i suoi successori: Igor (912-945), che fu ucciso dai
Drevljani, anche se questa popolazione fu definitivamente sottomessa dalla
moglie di lui, Olga (945-69), divenuta poi cristiana; Svjatoslav (965-972),
che sottomise i Chazari nel 965, e Vladimir (978-1015). Furono queste
conquiste che portarono alla formazione dello Stato russo antico, eliminando
le antiche divisioni tribali.
Le campagne contro Bisanzio, iniziate nei secoli VI e VII, ripresero vigore
nei secoli IX e X. Bisanzio, erede dell'universalismo romano in chiave
cristiana, guardava ai russi dall'alto della propria antica civiltà, con un
disprezzo venato di apprensione. I Russi venivano accomunati ai Chazari, ai
Turchi, ai Peceneghi per avidità e rozzezza.
Nel 907 Oleg riuscì addirittura a giungere fino alle porte di
Costantinopoli, imponendo un trattato di pace molto vantaggioso per la Rus
(p.es. era stata esentata dal pagamento dei dazi).
Il successore Igor fece altre due spedizioni: una nel 941, che si concluse
con la distruzione della flotta russa, e un'altra nel 944, terminata con la
stipulazione di un nuovo trattato di pace, successivamente consolidato dal
viaggio della principessa Olga a Costantinopoli nel 957.
Senonché i continui successi della Rus sulle coste del mar Nero inquietarono
Bisanzio, che mobilitò bulgari e peceneghi contro i russi. Per tutta
risposta il principe Svjatoslav penetrò in Bulgaria, ma le truppe del
basileus Zimisce riuscirono a sconfiggerlo nel 971, intimandogli, con un
trattato, di non attaccare più né i bulgari né i bizantini.
Sulla via del ritorno però Svjatoslav fu ucciso dai peceneghi e suo figlio
Vladimir volle riprendere le ostilità. Ma questa volta fu lo stesso
imperatore Basilio II a chiedergli aiuto contro un'insurrezione bulgara e
contro una rivolta di aristocratici latifondisti capeggiata da Bardas Fokas
(Barda Foca) in Asia Minore.
Dopo aver sistemato militarmente le cose (Fokas morì nella grande battaglia
di Abido nel 989), Vladimir in cambio chiese di sposare Anna, sorella di
Basilio e questi fu costretto ad accettare (da notare che la stessa
richiesta era stata rifiutata all'imperatore Ottone I).
Uno degli effetti più importanti delle relazioni russo-bizantine fu
l'adozione, da parte di Vladimir, del cristianesimo come religione dello
Stato russo, nel 988, anche se i primi russi furono battezzati già nel IX
sec. Egli inoltre istituì una metropolia russa dipendente dal patriarcato di
Costantinopoli.
Il paganesimo, che rifletteva la divisione in tribù, in due secoli fu
definitivamente rimosso. La scelta cadde sul cristianesimo ortodosso perché
l'impero bizantino, per struttura sociale e regime politico, era quello che
assomigliava di più allo Stato russo. D'altra parte la Rus poteva
tranquillamente accettare la nuova religione senza dover rinunciare alla
propria indipendenza politica.
Insieme al cristianesimo si diffuse nella Rus la scrittura e, con essa, la
possibilità di appropriarsi della cultura, particolarmente elevata, della
tradizione bizantina.
In seguito a questa importante intesa con Bisanzio crebbe enormemente
l'estensione delle relazioni internazionali di Kiev, in virtù soprattutto
dei legami commerciali e matrimoniali (di quest'ultimi gli annali registrano
ben 65 unioni con le dinastie bizantina, polacca, germanica, ungherese e con
la tribù dei Polovcy).
Lo Stato russo era ormai diventato uno dei più forti del mondo. Senonché,
proprio nei secoli XI e XII cominciò a svilupparsi una forte competizione
interna, tra vari centri politici locali e Kiev, al punto che il neonato
Stato russo rischiava di disgregarsi in molteplici Stati feudali autonomi.
La prima città dove apparvero tendenze centrifughe fu Novgorod, grande
centro commerciale e artigianale. E queste tendenze furono addirittura
appoggiate da vari figli di Vladimir, eccetto Svjatopolk (o Svatopluk), che
era succeduto al padre nel governo del paese.
Si scatenò inevitabilmente una lotta fratricida nel corso della quale
Svjatopolk uccise ben tre fratelli (tra cui Boris e Gleb, poi canonizzati),
finché un quarto, Jaroslav, aiutato dall'esercito di Novgorod, riuscì a
sconfiggerlo negli anni 1016-18. Successivamente, negli anni 1026-36, dopo
aver combattuto contro un altro fratello, egli s'impossessò del trono di
Kiev e di tutto il territorio della Rus.
Ma la vittoria di Jaroslav fu inutile, in quanto non poté affatto impedire
la progressiva frantumazione dell'antico Stato russo, anche perché le
rivolte feudali crescevano di continuo e i poteri costituiti si ostinavano a
difendere gli interessi delle classi privilegiate, tant'è che Jaroslav, pur
non volendolo, fu persino costretto, poco prima di morire nel 1054, a
dividere il paese tra i suoi tre figli: Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod. A
lui comunque si deve l'importante codificazione scritta del diritto civile
(che include anche quello ecclesiastico): la cosiddetta Russkaja Pravda.
Il triumvirato (1054-73) riorganizzò lo Stato russo a favore della grande
proprietà terriera, scatenando aperte ribellioni da parte delle classi
oppresse, a Suzdal nel 1024, a Kiev nel 1068 (dove il governatore fu
costretto a fuggire in Polonia) e nel 1071 a Beloozero (nella terra di
Rostov) e a Novgorod.
Bastò l'insurrezione di Kiev per far ripiombare la Rus in una serie di
guerre interminabili tra i vari principi e persino tra i figli di Jaroslav.
Ormai il potere centrale di Kiev era stato gravemente compromesso e di
questo approfittarono subito i nemici storici della Rus: i peceneghi e i
polovcy, di stirpe turca (quest'ultimi erano riusciti ad appropriarsi, verso
la metà dell'XI sec., delle terre dei peceneghi, costringendoli a riparare
in Ungheria).
Nel 1068 i nomadi Polovcy attaccano la Rus. Izjaslav e Svjatoslav sono
costretti a riparare a Kiev, ma qui matura l'ennesima rivolta contro i
boiardi. I figli di Jaroslav non vogliono mettersi dalla parte dei
contadini, i quali li costringono a fuggire.
Il ruolo guida della lotta russa contro i polovcy passò a Vladimir Monomaco
(1113-25), che non era di Kiev ma che fu chiamato dalla nobiltà di questa
città per sedare le insurrezioni popolari che minacciavano il potere dei
proprietari terrieri (i boiardi), nonché quello dei mercanti, degli usurai,
degli stranieri... Monomaco accettò e prese il controllo della città. dopo
aver sbaragliato anche i sostenitori dei discendenti di Svjatoslav, morto
nel 1113.
Le contraddizioni sociali ovviamente aumentarono, a tutto vantaggio dei
boiardi e dei mercanti. Con la forza delle armi Monomaco riuscì a imporre
dure leggi feudali, ma già alla morte del figlio, nel 1132, ripresero le
tendenze disgregative, che si prolungheranno sino ai primi anni del XIII
sec. Durante questo periodo lo Stato antico russo cessò definitivamente di
esistere.
Intanto Novgorod, con la rivolta del 1136-37 contro il principe Vsevolod,
riuscì a sbarazzarsi della tutela di Kiev, diventando una vera e propria
repubblica, in quanto i diritti e doveri dei principi si riducevano
essenzialmente alle funzioni militari. Tuttavia in questa città furono i
boiardi che col tempo riuscirono a impadronirsi delle istituzioni
repubblicane elettive.
Dallo sfacelo dello Stato russo antico nacquero due importanti formazioni
politiche: la terra di Vladimir e Suzdal, a nord-ovest, i cui maggiori
centri politici erano Rostov e Suzdal; e la terra di Galizia e Volynia a
sud-ovest.
Sotto il regno di un figlio cadetto di Monomaco, Jurij Dolgorukij, gli
annali citano per la prima volta la città di Mosca (1147), al centro di
un'area geopolitica sempre più importante, al punto che uno dei figli di
Jurij, Andrej Bololjubskij, dette inizio nel 1169 a una campagna militare
contro Kiev, riuscita vittoriosa, segnando la definitiva decadenza di questa
città feudale e del territorio ch'essa governava.
Andrej tentò anche di sottomettere Npvgorod, ma fu sconfitto nel 1170. E di
questo approfittarono i boiardi che, gelosi della loro autonomia e dei loro
privilegi, si sentivano minacciati dalla tendenza di Andrej di favorire i
ceti artigianali e mercantili, per cui lo eliminarono nel 1174.
Neppure suo fratello cadetto, Vsevolod Grande Nido (1176-1212), riuscì a
imporsi sui grandi proprietari terrieri, sicché l'anarchia feudale dilagò
incontrastata.
Nella seconda metà del XII sec. si fece molto grave la minaccia, già
incombente, di un'invasione delle tribù nomadi dei Cumani-Polovcy, che sin
dall'XI sec. si erano insediati nelle steppe tra il Volga e il Dnepr, e
miravano alla conquista delle città russe.
Nel 1184 i principi russi, sotto la guida di Svjatoslav, li avevano
sconfitti e in quell'occasione Igor, con la sua cavalleria, non vi aveva
potuto partecipare in tempo a causa del gelo. Forse per questa ragione egli,
l'anno successivo, mosso da impeto giovanile, aveva voluto affrontare da
solo, senza forti alleati, le tribù cumane. Il Canto della schiera di Igor
riporta appunto la sua sconfitta, la prigionia e la fuga.
Quanto alla terra di Galizia-Volynia, essa ebbe due principati che, dopo
essersi staccati da Kiev tra la fine dell'XI sec. e la metà del XII, si
unirono in un unico Stato nel 1199 sotto la guida di Roman Mstislavic
Volynskij (1199-1205), che dovette combattere duramente contro i boiardi.
Grazie alle migrazioni di coloni fuggiti dalle invasioni dei polovcy, questo
Stato si sviluppò notevolmente. Tuttavia, alla morte di Roman i boiardi, con
l'appoggio di Ungheria e Polonia, ripresero accanitamente la lotta, finché
il figlio di Roman, Daniil, nel 1236, riuscì ad avere la meglio. Ma anche
questa vittoria fu di breve durata, e non perché ripresero subito le lotte
feudali, quanto perché un'invasione catastrofica mise fine a qualunque
rivendicazione separatista: quella dei tataro-mongoli, i quali, guidati da
Gengis Khan, riusciranno a impadronirsi di tutti i territori russi, ad
eccezione del principato di Novgorod, e questo dal 1237 al 1480.
LA CULTURA
Prima dell'invasione dei tataro-mongoli la Rus non era a un livello di
cultura inferiore a quello degli altri paesi europei, se si escludono
l'Italia e Bisanzio.
La cultura russa, fin dalle sue origini, si è sviluppata in stretta
connessione con le culture di altri popoli, p.es. quelli ugro-finnici,
scandinavi, quelli delle steppe del sud della Russia, ma anche i bulgari, i
moravi, i boemi, i polacchi meridionali e soprattutto i bizantini. I
monumenti più antichi della scrittura finnica scoperti a Novgorod sono di
molti secoli più antichi di quelli ritrovati nella stessa Finlandia. A Kiev
vivevano gli estoni.
Fu soprattutto l'introduzione di un'unica scrittura, l'alfabeto cirillico,
che rivoluzionò lo sviluppo della cultura russa. L'alfabeto unico si rese
necessario con lo sviluppo della proprietà privata e dei commerci e delle
istituzioni statali.
Trapiantato dalla Bulgaria, insieme a tutte le tecniche correlate alla
scrittura, l'alfabeto cirillico fu adottato contestualmente alla religione
ortodossa di Bisanzio, grazie soprattutto all'iniziativa di due monaci
greci, Cirillo e Metodio.
Di tale civiltà, durata sino al XII sec. e travolta da un'invasione di
popolazioni mongoliche, sono rimaste varie cronache. Le prime cominciarono a
essere redatte tra il X e l'XI sec., a Kiev e a Novgorod.
Intorno al 1113 un grandissimo intellettuale, Nestor, monaco della
Kievo-Pecerskaja Lavra, diede loro una forma letteraria definitiva,
conosciuta col titolo di Cronaca degli anni passati, una vera e propria
enciclopedia della vita russa tra il IX e l'XI secolo.
Si deve tuttavia a lui purtroppo l'immagine fortemente negative delle tribù
claniche (Drevljani, Radimici e Vjatici), paragonate a bestie che praticano
la faida e la poligamia. mentre i Polyani di Kiev sono monogami e senza
faide.
L'arte della predicazione religiosa raggiunge, nell'XI sec., un alto grado
di perfezione, seguendo i canoni bizantini: basta leggersi il celebre
Sermone sulla Legge e sulla Grazia del metropolita Ilarion, che dipinge il
principe Vladimir come un novello Costantino e Jaroslav suo continuatore, in
una successione provvidenziale che, nei secoli a venire, sarebbe stata
interpretata in chiave messianica, sfociando nella teoria della translatio,
relativa all'eredità del patrimonio ortodosso da Bisanzio (seconda Roma) a
Mosca (terza Roma).
Molto importanti sono anche una serie di Vite dei primi santi russi: Boris e
Gleb.
Notevole per qualità letteraria è l'autobiografia scritta dal principe e
uomo di Stato, Vladimiro Monomaco.
Nel XII sec. la letteratura continuò a progredire in molte altre città
russe, grazie all'opera di monaci, preti di chiese urbane, priori di
conventi, vescovi, principi...
Ma il più importante monumento della letteratura russa del XII sec. resta Il
Canto della schiera di Igor, che evoca la sfortunata campagna di Igor
Svjatoslavic, principe di Novgorod-Severskij, contro i polovcy.
L'autore condanna recisamente le lotte feudali e chiama a raccolta i
principi russi per difendere la patria da un nemico comune.
L'esordio è una dichiarazione d'intenti: cantare le storie del tempo
presente riguardanti il principe Igor di Kiev, altro discendente di Oleg,
che vuole spingersi fino al Don e al mar Nero, riconquistando terre che
furono dei suoi avi, ora cadute in mano dei Cumani o Polovcy, per riprendere
i grandi commerci con Bisanzio e l'Oriente.
Le bande mongole dei Cumani si erano insediate tra il Volga a est, la costa
bagnata dal mare d'Azov a sud, la Sula (affluente del Dniepr) a Nord. Qui
vengono definite "pagane" non in contrapposizione a "cristiani", ma in
quanto "stranieri" e quindi nemici dei "figli di Russia".
La riconquista nasce da esigenze dinastiche, territoriali, economiche, priva
di quegli elementi religiosi che hanno tanta importanza p.es. nei poemi
dedicati al Cid Campeador. E questo nonostante che l'autore sia cristiano.
Tuttavia il principe evita di considerare il triste presagio che accompagna
la sua partenza: l'eclisse di sole, che viene descritta non come fenomeno in
sé ma per gli effetti di oscuramento che provoca sulla schiera in partenza.
Esempio, questo, di procedimento artistico usato altre volte nel poema, e
che rappresenta l'intervento delle forze della natura nelle vicende del
protagonista. Gli elementi della natura possono essere ostili o favorevoli,
mai indifferenti.
Il principe Igor unisce la sua schiera a quella del fratello Vsevolod di
Kursk, ma altri segni di malaugurio accompagnano la loro avanzata: tempesta
della notte, sinistri ululati di belve.
Inizialmente i Cumani fuggono scomposti verso il Don, coi loro carri che
gridano nella notte come cigni sbandati.
Ma poi decidono, il 3 maggio 1185, di affrontare l'avversario, che nel corso
della notte sembra avere la meglio.
Tuttavia, il giorno seguente i Cumani passano all'offensiva e accerchiano le
schiere russe. Dell'imminenza della sconfitta il poeta rende quasi l'incubo,
accennando agli albori sanguigni dell'alba, alle nuvole nere, ai fulmini
azzurri.
Appena catturato, Igor, viene pianto dalla sposa Jaroslavna, che immagina di
poter volare come il cuculo sino al Don. Nel suo lamento la donna, che non
ha eguali, per intensità, nella Canzone di Rolando o nel Cantare del Cid, si
rivolge ai vari elementi della natura, mettendone in luce la potenza
benefica: cerca aiuto, complicità.
Igor è prigioniero ma con la complicità di Vlur - un cumano che tradisce i
suoi - tenta la fuga, pur non essendo molto convinto di questa soluzione.
Tutti gli elementi della natura lo favoriscono.
Successivamente tra i due popoli interverrà un accordo suggellato da un
matrimonio politico tra il figlio di Igor e la figlia di uno dei capi
cumani.
L'accordo doveva servire anche per fronteggiare l'arrivo della potenza
mongola sempre più minacciosa. Russi e cumani furono sconfitti presso il
fiume Kalka (a nord del mar d'Azov) nel 1223, ma l'armata tartara non volle
infierire e invertì la marcia. Quindici anni più tardi i generali di Gengis
Khan avrebbero marciato su Kiev e imposto una dura dominazione per due
secoli.
L'ARTE RUSSA
Il Canto della schiera di Igor, del quale A. Borodin ha preso l'argomento
per una delle sue opere musicali ("Il principe Igor"), è un canto letterario
russo del secolo XII, difficile da classificarsi, in quanto nei secoli XII e
XIII vi furono vari tentativi di cercare forme poetiche nuove e
indipendenti, al punto che è possibile che alcuni canti non appartengano né
al folclore né alla tradizione dello slavo ecclesiastico.
Si tratta di un poema tecnicamente strutturato in una eccellente prosa in
rima, molto probabilmente destinato a essere letto con accompagnamento
musicale. nel quale il suo autore anonimo sviluppa un tema epico in modo
lirico. Forse esistevano altri poemi dello stesso genere, andati però
perduti.
Si tratta comunque d'un capolavoro di gran qualità, composto da qualche
cortigiano della Russia che aveva il suo centro culturale a Kiev.
E' stato scritto a pochi anni di distanza dagli avvenimenti narrati ed era
destinato a un pubblico che già conosceva gli avvenimenti (uomini di corte e
di armi), compagni di Igor nei banchetti, nella caccia, nella guerra.
Vi è una notevole precisione dei riferimenti storici, per cui è forte il
realismo e del tutto irrilevante l'esigenza di esaltare i fatti, usando le
tecniche enfatiche o descrivendo avvenimenti fantastici. Questo lo rende
molto diverso dalle "chansons de geste" occidentali, dai Canti dei
Nibelunghi e altre saghe del genere.
Si può considerare come una sintesi della canzone epica e dell'arte
dell'oratoria, e il suo autore dimostra che aveva molto ben assimilato da
una parte la tradizione dell'arte orale e folcloristica e dall'altra tutta
la cultura letteraria dell'epoca. In particolare si trovano fusi due generi
folclorici: la canzone e il "lamento", tipici della Rus' dei secoli XI-XII.
L'autore del canto possiede un acuto senso della natura e una coscienza
nazionale molto sviluppata. Le descrizioni dei successi sono vivide e
drammatiche; i versi lirici che narrano, per esempio, la pena della moglie
di Igor, sono emotivamente profondi e poeticamente freschi.
L'unità formale e la perfezione poetica del Cantare lo collocano al di sopra
di qualsiasi altra composizione dell'epoca. Ciò dimostra che nei secoli
XII-XIII la poesia russa aveva raggiunto un alto livello di perfezione e si
poteva paragonare a qualsiasi altra composizione simile europea (la Canzone
di Rolando, il Cid Campeador). Purtroppo lo sviluppo culturale russo fu
bruscamente interrotto dalle guerre e dall'occupazione straniera.
Il testo è formato da 218 gruppi di versetti.
Echi del Canto si possono trovare in poeti come V. Zhukovskij, K. Ryleev, A.
Majkov, A. Blok, M. Cvetaeva e V. Majakovskij.
Non conosciamo il nome dell'autore del Canto: alcuni critici pensano a un
cantore degli Olgovich, altri a un poeta della corte di Igor Séverski. In
ogni caso doveva trattarsi di un uomo colto, e se apparteneva alla classe
dominante doveva essere certamente un tipo sui generis, in quanto sembra
condividere aspirazioni del tutto popolari, si esprime in favore degli
interessi generali della Rus' e non manifesta alcun pregiudizio di casta
tipico della classe feudale.
Guerriero, politico o poeta che fosse, l'autore del Canto era senza dubbio
contemporaneo agli avvenimenti descritti, poiché la narrazione ridesta
ricordi dolorosi ancora vivi, e illustra la sfortunata spedizione di Igor in
modo tale da trasformarla in una vittoria dello spirito nazionale.
Prendendo ad es. la disfatta di Igor, l'autore si rivolge ai principi russi
invitandoli a difendere la loro terra contro i comuni nemici, rinunciando
alle contese territoriali.
L'autore è chiaramente un sostenitore del potere centralizzato, ma è capace
di esprimere le proprie idee con molto lirismo e dimostrando un alto senso
della democrazia.
L'autore si basa su fatti reali, che gli forniscono sia il canovaccio che
gli eroi dell'opera, tuttavia il principale personaggio del poema resta la
"terra russa", che è terra natìa, terra non solo in senso materiale, ma
"popolo che la abita", col suo destino. E' terra soprattutto "viva", come
testimoniano le descrizioni pittoriche della natura, resa partecipe degli
avvenimenti narrati: animali, alberi, fiori, erba... sono come animati da
sentimenti umani, dalla capacità di distinguere, di parteggiare per il bene
e di odiare il male, di avvisare gli uomini delle sciagure incombenti e di
partecipare con loro al dolore e alla gioia.
L'autore esprime una sincera compassione per la gente semplice, celebra il
coraggio e l'audacia dei guerrieri, si rattrista per le vedove che piangono
i mariti uccisi in battaglia, racconta le sventure subite dal popolo dopo la
sconfitta di Igor. Basta leggersi il ritratto di Jaroslavna per
convincersene: la moglie di Igor, coi suoi sentimenti di fedeltà, devozione,
disponibilità al sacrificio, rappresenta i tratti migliori delle donne
russe.
CANTO DELLA SCHIERA DI IGOR
DI IGOR FIGLIO DI SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG
Esordio nel ricordo di Bojan
Non sarebbe forse meglio, o fratelli, intonare in stile antico il racconto
della schiera di Igor, di Igor figlio di Svjatoslav?
Che invece questo canto esordisca secondo i fatti del nostro tempo, e non
secondo la fantasia di Bojan. Ché il vate Bojan, se per qualcuno voleva
cantare un canto, si arrampicava come uno scoiattolo sugli alberi, correva
per la terra come un lupo grigio, volava sotto le nubi come un'aquila
azzurra.
Rievocava, diceva, le battaglie dei tempi andati. Lanciava allora dieci
falchi contro uno stormo di cigni, e quale che arrivava a segno intonava per
primo un canto in onore dell'antico Jaroslav, per l'ardito Mstislav che
trafisse Rededja davanti alle schiere circasse, al bel Roman figlio di
Svjatoslav.
Ma Bojan, o fratelli, non dieci falchi lanciava contro lo stormo di cigni:
ma posava le sue dita stregate sopra le corde viventi e quelle da sole
cantavano ai principi gloria.
Note
La parola slovo «parola, detto» si trova solo nel titolo. Nel Medioevo russo
questo termine indicava vari generi, dalla predica teologica all'epica
storica. Nel testo l'autore usa piuttosto i termini povesti «racconto» e
pesni «canto» (Bazzarelli 1991).
Igor Svjatoslavic (1151-1202), protagonista del poema, era figlio del
principe Svjatoslav Ol'govic di Cernigov. Principe del piccolo feudo di
Novgorod-Severskij; nel 1198 Igor succedette al padre sul trono di Cernigov.
I "fratelli" di cui qui si parla sono i componenti della corte o del seguito
del principe Igor, e quindi i suoi compagni di mensa, di guerra, di
caccia...
Bojan sembra sia stato un grande vate dell'antichità pagana; poiché cantava
inni di gloria per gli antichi principi, l'autore del Canto della schiera di
Igor non se la sente di imitarlo, in quanto dovrà intonare il doloroso e
sobrio poema di una sconfitta. Il termine antico-russo bylina, che
dall'Ottocento acquistò il significato di «canto epico», qui significa al
contrario «fatto reale». In tal senso l'autore appare come un "poeta del
tempo presente", mentre Bojan come un "usignolo del tempo andato".
Jaroslav Mudryj «il saggio», gran principe di Kiev (1019-1054), rese la
città una delle più progredite e prospere d'Europa. Di Mstislav Chrabryj,
fratello di Jaroslav, si narrava che avesse combattuto un duello con
Rededja, principe dei Circassi [Kasogi] (Cronaca degli anni passati [1022]).
Roman Svjatoslavic (+ 1019) fu invece colui che per primo chiamò i
Polovesiani in Russia come mercenari per risolvere una contesa contro il
fratello Oleg Svjatoslavic (+ 1096), nonno del principe Igor.
CANTO DELLA SCHIERA DI IGOR
DI IGOR FIGLIO DI SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG
Il presagio dell'eclisse
Cominciamo dunque, o fratelli, questo racconto dall'antico Vladimir
all'odierno Igor, il quale temprò la mente con la volontà, infiammò il cuore
con il coraggio, e ricolmo di spirito guerriero condusse le sue valorose
schiere oltre la terra russa, in terra polovesiana.
Alzò Igor lo sguardo al sole lucente e vide che da esso veniva un'ombra che
copriva le schiere.
E disse Igor alla sua druzina: - Fratelli e druzina, è meglio morire che
essere fatti prigionieri. Montiamo perciò, o fratelli, sui nostri veloci
destrieri per guardare l'acqua dell'azzurro Don!
S'infiammò al principe il cuore per il desiderio di guerra e la brama di
bere l'acqua dell'azzurro Don gli rese oscuro il presagio.
Disse: - Con voi o Russi, voglio spezzare la mia lancia sul confine del
campo cumano; voglio sacrificare la mia testa o bere con l'elmo l'acqua del
Don!
Note
Si tratta di Vladimir Svjatoslavic il Santo (+ 1015), il principe che
introdusse ufficialmente il Cristianesimo in Russia, uno dei discendenti di
quell'Oleg che nell'anno 882 aveva fondato il principato di Kiev.
I Polovesiani [Polovcy], anche detti Cumani, erano un popolo di ceppo
turanico che vivevano da nomadi nelle steppe meridionali della Rus'.
L'ombra che in questo verso si promana dal sole si riferisce all'eclisse di
sole che ebbe luogo il 1° maggio del 1185. Il fenomeno era considerato
presagio di sciagura. Ma per troppa brama di gloria, Igor non si rese conto
che la spedizione partiva sotto auspici sfavorevoli.
Druzina: la compagnia di guerrieri scelti che stava intorno al principe. (Da
drug «compagno», cfr. norreno drótt.)
«Guardare l'acqua dell'azzurro Don», «bere con l'elmo l'acqua del Don», la
metafora, nelle sue varie forme, indica il desiderio di Igor di arrivare
alle terre cumane, attraversate dal Don, e riconquistarle. Il Don era una
grande via di comunicazione fluviale e, poiché aveva uno sbocco nel Mar
Nero, permetteva scambi commerciali molto importanti con Bisanzio e
l'Oriente.
CANTO DELLA SCHIERA DI IGOR
DI IGOR FIGLIO DI SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG
La schiera di Igor marcia verso la battaglia
O Bojan, usignolo del tempo antico! Se fossi stato tu a celebrare queste
imprese, saltando come un usignolo sugli alberi, volando con la mente sotto
le nubi, congiungendo le due ali della gloria dei nostri tempi, percorrendo
il sentiero di Trojan, attraverso i campi e verso le montagne, così,
intoneresti questo canto per suo nipote Igor:
«Non la tempesta ha portato i falchi attraverso le ampie distese: stormi di
cornacchie fuggono verso il grande Don.»
Invece così avresti dovuto cantare, o profetico Bojan, nipote di Veles:
«I cavalli nitriscono oltre la Sulà, risuonano inni di gloria a Kiev,
squillano le trombe a Novgorod, si alzano gli stendardi a Putivl'.»
Note
«Congiungendo le due ali della gloria dei nostri tempi», cioè l'odierna
gloria di Igor con quella dei principi del passato (Bazzarelli 1991).
Su Trojan sono stati versati fiumi di inchiostro. La maggior parte degli
studiosi ritiene fosse un antico dio o eroe slavo, forse ispirato alla
figura dell'imperatore romano Traiano. Ma non sono mancate al riguardo
interpretazioni differenti. Nella sua traduzione, Poggioli, traduce con
riferimenti alla città omerica di Troia: «trascorrendo la traccia troiana
dal piano ai monti», giustificando la traduzione con una pretesa confusione
tra i Turchi (cioè i popoli turanici delle steppe) e i Teucri dell'epica
omerica (Poggioli 1954). Generalmente però esegeti e traduttori considerano
Trojan nome proprio: Angiolo Danti traduce «percorrendo il sentiero di
Trojan» (Danti 1979); ed Eridano Bazzarelli «correndo per il sentiero di
Trojan» (Bazzarelli 1991).
Il dio Veles, nella mitologia slava, è dio degli armenti e della poesia.
CANTO DELLA SCHIERA DI IGOR
DI IGOR FIGLIO DI SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG
L'incontro di Igor e Vsevolod
Igor aspetta Vsevolod, il caro fratello.
E gli disse Vsevolod, Toro Impetuoso:
«Unico fratello, unica mia luce, o tu, Igor! Siamo entrambi figli di
Svjatoslav!
«Sella, fratello, i tuoi veloci destrieri, ché i miei son già pronti,
sellati per te nei pressi di Kursk. E ti saranno compagni i miei esperti
guerrieri kuriani, al suono delle trombe fasciati, sotto gli elmi cullati,
sulla punta della spada allattati. A loro sono note le strade, conosciuti i
sentieri. Hanno gli archi ben tesi, aperte le faretre, le sciabole affilate.
Corrono nel campo come lupi grigi, per sé onore cercano e per il principe
gloria!
Note
Vsevolod Svjatoslavic (+ 1196), fratello di Igor, era principe di Kursk e di
Trubcevsk.
L'epiteto di Vsevolod, «Toro Impetuoso» [Buj Turu] si riferisce all'uro, il
toro selvatico che visse in Russia fino all'inizio del XVII secolo, quando
si estinse. L'espressione sembra sia una sorta di kenning per «eroe». Si
ritiene infatti che buj turu sia una forma antica da cui è derivato il
termine russo bogatyr' «cavaliere, eroe»; così infatti la traduzione in
russo moderno nella primissima edizione del poema (Musin-Puskin 1800).
Secondo l'ipotesi di Olzas Sulejmenov, alla base dell'espressione doveva
esservi la parola turanica batur «grande signore», assimilata poi
nell'antico russo nella forma bujturu, da cui bogatyr' (Sulejmenov 1975).
CANTO DELLA SCHIERA DI IGOR
DI IGOR FIGLIO DI SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG
Incursione delle schiere russe nel campo polovesiano
Allora montò il principe Igor sulla staffa d'oro e galoppò nel campo aperto.
Il sole gli sbarrò il cammino di tenebra. La notte gemette tempesta,
risvegliando gli uccelli. Si levò l'ululato ferino delle belve. Gridò Div
dall'alto di un albero, affinché lo udisse la terra straniera: la Vol'ga e
il litorale di Crimea, e Suroz, e l'Oltresulà, e il Chersoneso, e te, grande
idolo di Tmutorokan'!
I Polovesiani fuggono per ignoti sentieri verso il grande Don. Stridono i
carri nella notte, come cigni atterriti. Igor conduce la schiera verso il
Don.
Ma per sua sciagura dall'alto delle querce lo guata Div in forma di uccello.
Nei dirupi ululano i lupi alla tempesta, le aquile stridono chiamando le
belve al banchetto, ganniscono le volpi contro gli scudi scarlatti.
Sei già oltremonte, terra di Rus'!
A lungo s'abbuia la notte. L'alba si accende di luce. La nebbia ricopre i
campi. Si è assopito il trillo degli usignoli, il gracchiare delle
cornacchie si è destato.
Con gli scudi scarlatti i Russi ricoprono campi immensi, cercando per sé
onore e per il principe gloria.
All'alba di venerdì, travolsero le orde pagane dei Polovesiani e,
spargendosi come frecce per il campo, rapirono le belle fanciulle cumane, e
presero oro, e sete e preziosi broccati. E con mantelli, gualdrappe e
pellicce, con ogni gemmato tessuto cumano si misero a gettar ponti su paludi
e fangosi pantani.
Rosso stendardo, bianco gonfalone, vessillo scarlatto, argentea insegna per
il prode figlio di Svjatoslav!
Note
L'essere d'oro caratterizza ciò che è relativo ai principi. Così «staffa
d'oro», «trono d'oro», «elmo d'oro».
Nulla sappiamo su questo idolo di Tmutorokan'. Il testo utilizza il termine
bulvan «lottatore». Questa parola, di origine iranica, passò in seguito in
territorio turco: è infatti testimoniata nelle iscrizioni turaniche
dell'Orchon, in Siberia, nella forma balbal col significato di pietra
scolpita. Si riferisce forse alle cosiddette babi di pietra, rozze statuette
con sembianze femminili erette (forse) dai nomadi turchi nell'Ucraina
meridionale.
Chi o che cosa è questo Div che guata dall'albero in forma di uccello? Il
nome ricorda i daeva iranici. La parola che, seguendo la lezione di
Bazzarelli, viene qui tradotta con «guatare», cioè guardare in senso
maligno, nell'originale è il verbo pasti, propriamente un guardare nel senso
di «pascolare, custodire» (Bazzarelli 1991).
«Sei già oltremonte, terra di Rus'!» [O Ruskaja zemle! Uze za selomjanemu
esi!]. Il testo paleorusso è ambiguo. Il significato fondamentale di zemlja
è «terra» e traducendo così ci si mette dal punto di vista dei guerrieri che
hanno lasciato la loro patria. Ma zemlja si può tradurre anche come
«schiera» («sei già oltre i monti, schiera russa!»), e così ci si mette dal
punto di vista dell'autore del poema che vede i guerrieri allontanarsi dalla
patria per inoltrarsi in territorio nemico. Per quanto Bazzarelli consideri
esteticamente più valida la seconda interpretazione, sceglie la prima
traducendo: «O terra di Rus', sei ormai troppo lontana!» (Bazzarelli 1991).
Gli scudi russi del XII secolo erano ovoidali, in legno dipinto di rosso.
L'epiteto «pagano» [pogani] più volte ripetuta nell'Igor, non sembra avere
un significato ideologico, se non nell'indicare i nomadi della steppa in
quanto nemici esterni al mondo russo. Tuttavia si ricordi che il poema
stesso è, nel suo spirito, profondamente pagano (Kosorukov 1986, Bazzarelli
1991).
Mantelli, gualdrappe, pellicce, tessuti: il testo originale riporta qui dei
termini di origine turanica, inerenti alla cultura dei popoli delle steppe.
Il testo usa quattro diverse parole per indicare quattro tipi di insegne. I
termini sono di varia origine: scandinava (stjagu «stendardo»), mongola
(chorjugovi «gonfalone»), turanica (colka «insegna», propriamente «coda di
cavallo») e di nuovo, forse, scandinava (struzïe, cfr. norreno strangi
«fusto d'albero»). Si tratta di insegne o bandiere polovesiane.
Riscossa dei Polovesiani
Dorme nel campo l'ardito nido di Oleg, si è involato lontano! Ma non era
nato per subire l'offesa del falco, né quella dello sparviero, né la tua,
nero corvo cumano!
Corre Gzak, come lupo grigio, Koncak gli traccia il cammino verso il grande
Don.
L'indomani un'aurora di sangue annuncia la luce. Nere nubi avanzano dal
mare, vogliono oscurare i quattro soli, dentro vi fremono fosche saette.
Dovrà scoppiare una possente tempesta, dovrà scrosciare una pioggia di
frecce dal grande Don! Qui le lance si spezzeranno, andranno in pezzi le
spade contro gli elmi cumani, sul fiume Kajala, presso il grande Don!
Sei già oltremonte, terra di Rus'!
Ecco i venti, nipoti di Stribog, soffiano le frecce dal mare contro la
schiera valorosa di Igor. Rintrona la terra, scorrono torbidi i fiumi, la
polvere copre i campi, gridano gli stendardi:
«Avanzano i Polovesiani dal Don, dal mare e da ogni dove, le schiere russe
sono circondate. I figli di Bes riempiono di grida la steppa, i valorosi
Russi gli sbarrano il passo con gli scudi scarlatti!»
Per «ardito nido di Oleg» ci si riferisce ad Igor e Vsevolod, nipoti del
principe Oleg Svjatoslavic, signore di Tmutorokan'.
Gzak e Koncak erano i capi polovesiani che avevano organizzato
l'accerchiamento delle schiere russe. Come si vedrà anche oltre, Gzak è più
duro e inflessibile, Koncak più diplomatico: in seguito sua figlia sposerà
Vladimir figlio di Igor.
I «quattro soli» sono probabilmente i quattro principi russi che partecipano
all'impresa, cioè Igor Svjatoslavic, il fratello Vsevolod Svjatoslavic, il
figlio Vladimir Igorevic, e il nipote Svjatoslav Ol'govic, che all'epoca
aveva solo diciannove anni.
Non esiste un fiume Kajala nell'attuale toponomastica russa e non si sa bene
a quale corso d'acqua si riferisca il testo. Le identificazioni proposte
indicano vari affluenti del Don, a seconda che la schiera di Igor abbia
proceduto lungo l'una o l'altra sponda del fiume. Poggioli ad esempio
costruisce la sua traduzione identificandolo con un fiumicello Kajaly vicino
al Mar d'Azov (Poggioli 1954). Secondo un'altra ipotesi, invece, il Kajala
sarebbe da intendere non in senso geografico, ma metaforico, quale «fiume
del pianto», dal verbo kajati «piangere, soffrire» (Barsov 1899).
Stribog, forse dio dei venti.
«Figli di Bes» sono i Polovesiani. In antico russo Bes è il diavolo, ma
forse questo termine è derivato da quello di qualche antica divinità
turanica.
Vsevolod, Toro Impetuoso
O Vsevolod, Toro Impetuoso! Piantato in difesa, tu rovesci le frecce contro
i nemici, fai rintronare sugli elmi le spade di acciaio brunito.
Dovunque tu balzi, col tuo splendido elmo d'oro, là cadono le teste pagane
dei Polovesiani, dalla tua sciabola son frantumati gli elmi àvari. Per opera
tua, Vsevolod, Toro Impetuoso!
Che importano le ferite, fratelli, a colui che sprezzò onori e ricchezze,
l'aureo trono del padre nella rocca di Cernigov, e l'amore e le carezze
della sposa diletta, la bella figlia di Gleb?
Note
Seguendo la lezione di Bazzarelli, traduciamo con «brunito» il problematico
aggettivo paleorusso charaluznyj, che ricorre varie volte nel Canto della
schiera di Igor senza che ne sia data un'interpretazione convincente
(Bazzarelli 1991). La maggior parte degli autori ritiene che questo
aggettivo possa essere connesso con la parola turanica qara «nero», anche se
nella simbologia epica il colore nero non è applicabile alla sfera
russo-cristiana. La parola compare unicamente nel Canto della schiera di
Igor e una volta nell'Epopa d'Oltredon dove però è stata copiata dal Canto.
Gli Àvari di cui si parla, erano un popolo di origine mongolica ma di lingua
caucasica, frequenti alleati dei Polovesiani. I loro antenati erano giunti
in Russia attorno al V-VI secolo ma, dopo essere stati distrutti dai popoli
turanici, si rifugiarono nel Caucaso, dove vennero assorbiti dalle
popolazioni locali. I loro discendenti sono gli attuali Àvari del Daghestan,
di lingua adyghé-dido.
Brano non molto chiaro, che ha spesso costretto gli studiosi a operarvi
correzioni e aggiustamenti per cercare di porre rimedio a forme poco chiare.
Queste frasi, nelle varie interpretazioni, si riferiscono a Vsevolod, che
tutto dimentica nell'ardore della battaglia. Parte della perplessità degli
interpreti deriva dal fatto che non conosciamo molti dettagli della
biografia del personaggio.
Oleg, il seminatore di discordie
Sono lontani i tempi di Trojan, lontani gli anni di Jaroslav: ci furono le
imprese di Oleg, Oleg figlio di Svjatoslav. Ché Oleg invero con la spada
temprò la discordia, di frecce seminò la terra.
Saliva Oleg sulla staffa d'oro, nella città di Tmutorokan', e ne udiva il
suono il grande, vecchio Vsevolod, nipote di Jaroslav, mentre Vladimir a
Cernigov si turava le orecchie.
La brama di gloria trasse Boris figlio di Vjaceslav al giudizio e sul Kanin
gli fu steso un verde sudario per l'offesa arrecata ad Oleg, valente e
giovane principe.
Così dal fiume Kajala ordinò Svjatopolk che il padre suo fra destrieri
ungheresi fosse portato a Santa Sofia in Kiev.
Al tempo di Oleg figlio di Amara Gloria, si seminavano e crescevano le
discordie, periva la potenza dei nipoti di Daz'bog e nelle contese dei
principi si accorciava la vita alla gente.
Di rado il contadino cantava nell'arare la terra: più spesso i corvi
gracchiavano contendendosi tra loro i cadaveri e nella loro lingua le
cornacchie si chiamavano per invitarsi al banchetto.
Questo accadeva in quelle guerre e in quelle campagne, ma di una simile
impresa mai s'era udito parlare!
Note
Si delinea l'idea politica del Canto: le contese dei principi indeboliscono
l'unità della Rus', di qui il trionfo dei nomadi della steppa. E
l'iniziatore delle discordie fu proprio Oleg Svjatoslavic, principe di
Tmutorokan' e nonno di Igor, il quale partecipò alle lotte scatenatesi per
il gran principato, sterminando cugini e parenti, e per di più assoldando
come mercenari i Polovesiani.
A Tmutorokan', Oleg «saliva sulla staffa d'oro», partiva in testa alla sua
schiera per attaccare Vsevolod Jaroslavic, principe di Cernigov. Questi, che
si trovava a Kiev presso suo fratello, il gran principe Izjaslav Jaroslavic
(1024-1078), «sentiva il suono» delle schiere che avevano occupato la città
di cui era signore, ed a ben ragione era preoccupato e si disperava. Figlio
di Vsevolod era Vladimir Monomach (1053-1125), che nel 1113 sarebbe
diventato gran principe di Kiev, ma che, all'epoca dei fatti (1078),
risiedeva col padre a Cernigov. L'autore del Canto lo rappresenta,
ingiustamente, nell'atto di tapparsi le orecchie, rifiutandosi di prendere
posizione nella contesa. L'espressione usi zakladase è un gioco di parole
che può essere tradotto sia «chiudere le orecchie» sia «chiudere le porte».
Il senso è comunque quello: secondo l'autore del Canto, Vladimir fingeva di
non accorgersi di ciò che stava accadendo. Nella realtà storica tuttavia, il
giovane Vladimir prese parte alla contesa e combatté a fianco del padre.
Oleg Svjatoslavic si era alleato con il giovane Boris Vjaceslavic. I due
conquistarono Cernigov, ma ne furono presto cacciati dalle schiere congiunte
di Vsevolod e Izjaslav, coi quali erano i rispettivi figli Vladimir e
Jaropolk. Ci fu un gran massacro sul campo della Nezatiaja Niva (3 ottobre
1078), presso il fiumicello Kanin, in cui morirono molti nobili principi,
tra cui il giovane Boris (Cronaca degli anni passati [6586/1078]), a cui,
dice il Canto, fu steso un sudario d'erba sulla riva del fiume Kajala,
confondendosi forse col fiume Kanin.
Nella battaglia di Nezatiaja Niva cadde anche il gran principe Izjaslav
Jaroslavic. Secondo il Canto, il figlio Svjatopolk Izjaslavic ne fece poi
trasportare il corpo a Kiev, sospendendolo tra due cavalli ungheresi (i
quali erano apprezzati per il loro carattere docile e venivano impiegati per
trasportare i feriti). Nella Cronaca degli anni passati [6586/1078] è
scritto invece che all'epoca dei fatti Svjatopolk si trovava a Novgorod e
che fu l'altro figlio Jaropolk, che aveva partecipato alla battaglia a
fianco del padre, a trasportare il corpo di Izjaslav in Kiev. Vi sono qui
molte difficoltà di ordine filologico che, senza entrare in dettagli, hanno
costretto gli studiosi ad alcune correzioni del testo: ma il senso originale
sembra avere valore causativo. La difficoltà può venire superata ipotizzando
che Svjatopolk non abbia personalmente trasportato il corpo del padre ma lo
abbia fatto trasportare, cioè abbia dato l'ordine di traslare la salma.
Questo epiteto di Oleg, «figlio di Amara Gloria» [Gorislavic], non è da
tutti gli studiosi inteso in questo modo. Se è da gòre «amarezza» va bene
Amara Gloria, ma se fosse da gorè «alto, elevato» bisognerebbe tradurre
Eccelsa Gloria. L'epiteto si trova anche in altri documenti, come alcune
gramota e la Prima cronaca di Novgorod, senza che tuttavia sia possibile
sciogliere il dilemma. La maggior parte dei traduttori preferisce, dal
contesto, la prima opzione. (Bazzarelli 1991)
La parola zizni, che vuol dire letteralmente «vita», andrebbe qui
interpretata nel senso di «ricchezza» o di «potenza» (Danti 1979, Bazzarelli
1991).
Daz'bog è un'antica divinità slava dai tratti non ben definiti, forse un dio
del sole e della luce, oppure un dio elargitore di ricchezza. «Nipoti di
Daz'bog» sono i Russi: si veda il capitolo relativo agli dèi dell'antica
Russia [MITI].
La sconfitta di Igor
Dall'alba alla sera, dalla sera all'alba, volano frecce temprate, scrosciano
sciabole contro elmi, crepitano lance di acciaio brunito, nel campo
straniero, nella terra cumana.
Sotto gli zoccoli la nera terra è seminata di ossa, irrigata di sangue. Con
dolore nel campo sono periti in nome della terra di Rus'.
Qual strepito io sento, che cosa risuona lontano, prima dell'alba?
Igor volge indietro le schiere, ha pietà di Vsevolod, il caro fratello!
Combatterono un giorno, combatterono il secondo, il terzo giorno al meriggio
caddero le insegne di Igor.
Qui si separarono i fratelli, sulla riva del rapido Kajala. Qui più non
bastava il vino di sangue e misero fine al banchetto i bravi guerrieri:
diedero da bere ai compagni e caddero per la terra di Rus'.
Si piega l'erba per il dolore, a terra per il dolore si chinano gli alberi!
Note
Questo passo presenta qualche difficoltà e lo si può interpetare alla luce
del racconto della Cronaca degli anni passati, dov'è scritto che ad un certo
punto il principe Igor tornò indietro e vide Vsevolod circondato dai nemici.
Preso da pietà (egli stesso era ferito) pregò per il fratello. Secondo gli
studiosi è possibile che nel testo originario del Canto della schiera di
Igor invece di questa frase vi fosse un brano più ampio (Bazzarelli 1991).
Ci sembra più logico, tuttavia, che il poema procedesse, più che attraverso
un racconto puntuale, per rapidi e suggestivi richiami ad eventi che il
pubblico già conosceva.
Come spesso nell'epica, la battaglia è paragonata a un festino, anche se non
sono mancati tentativi di lettura più profonda. Analogamente, l'immagine
dell'erba e degli alberi che si piegano per il dolore, compare nella poesia
popolare russa a simboleggiare il sopraggiungere di una sventura (Peretc
1926, Bazzarelli 1991).
La discordia e il dolore opprimono la terra russa
Perché ormai, o fratelli, è sorto il tempo del dolore e la steppa ha
sopraffatto le schiere! Perché la sconfitta si è levata sulle le schiere del
nipote di Daz'bog; come una fanciulla è sorta sulla terra di Trojan e ha
agitato ali di cigno sul mare nemico, presso il Don; battendo le ali ha
disperso i tempi dell'abbondanza.
È venuta meno la lotta dei principi contro i pagani, ché disse il fratello
al fratello: «Questo è mio ed anche questo è mio!» Di ogni piccola cosa i
principi dicevano «è grande!», forgiando tra loro la discordia. Intanto i
pagani giungevano da ogni dove, vittoriosi in terra russa.
Oh, lontano s'involò il falco, sterminando gli uccelli fino al mare!
Più non risorgerà l'ardita schiera di Igor!
Dietro di lei gridò il dolore, e il pianto corse per la terra russa,
agitando il fuoco nel funebre corno!
Proruppero in lacrime le donne russe nel dire: «A noi ormai i cari sposi più
non è dato né in pensiero pensare, né in idea ideare, né con gli occhi
guardare, né oro e argento con la mano sfiorare.»
E gemette, fratelli, Kiev nel dolore, e Cernigov nell'avversità.
L'afflizione corse sulla terra di Rus', una grande mestizia si sparse nella
terra di Rus'. E mentre i principi forgiavano tra loro le discordie, i
pagani irrompevano vittoriosi nella terra russa, esigendo un tributo ad ogni
focolare.
Note
Come dice giustamente lo Stelleckij, il brano nel suo significato è del
tutto chiaro, a non essere chiare sono le immagini esteriori della metafora
(Stelleckij 1965). Perché la «sconfitta» [obida] sorge nell'aspetto di una
fanciulla, e perché costei ha ali di cigno, con cui disperde i tempi
dell'abbondanza? Gli studiosi non hanno raggiunto alcuna conclusione: si è
ricordato che il cigno era un animale totemico dei Polovesiani, che veniva
considerato simbolo di sciagura e che, tra i suoi significati simbolici, era
legato al regno dei morti. La fanciulla-cigno sarebbe il simbolo delle
disgrazie del popolo russo; in alcune storie tradizionali russe, la strega è
in grado di trasformarsi in cigno (come nella bylina di Michajlo Potyk),
così le valchirie del mito scandinavo che portavano camicie di cigno.
(Bazzarelli 1991).
Obida non è parola facile da interpretare nel contesto del Canto. Nella sua
traduzione, Poggioli rende questa parola con «violenza» (Poggioli 1954), ma
«offesa» traducono sia Danti che Bazzarelli. Come appunta quest'ultimo, la
parola obida, che in seguito è finita col significare «contesa»,
originariamente significava «offesa»; ovvero quel tipo di offesa, causata
dalle discordie tra i principi, che secondo il codice feudale andava
vendicata (Bazzarelli 1991). Nella nostra traduzione abbiamo preferito
distorcerne il significato per adattarla al contesto della battaglia che
Igor ha appena perduto contro i poloveisani e renderla così con «sconfitta».
«Battendo le ali ha disperso i tempi dell'abbondanza». Il manoscritto
originale riportava un verbo ubudi «svegliare, destare», ma poiché in tal
modo la frase veniva ad avere un senso contrario al contesto, si suole
emendare con upudi «cacciare, disperdere» (Potebnja 1914).
Vi è probabilmente un riferimento al pianto rituale che accompagnava i riti
funebri ed è stato ricordato che le prefiche accompagnassero i morti al
sepolcro lamentandosi e agitando fiaccole. Forse ci si può vedere anche un
riferimento ai roghi funebri dei tempi precristiani. (Bazzarelli 1991).
La parola che abbiamo tradotto con «tributo» è nel testo originale bela
«scoiattolo», in quanto nei tempi antichi, tra gli Slavi orientali, le
tassazioni consistevano appunto in pelli di animali.
Elogio di Svjatoslav
Questi due prodi, i figli di Svjatoslav, Igor e Vsevolod, ridestarono
l'ostilità: quell'ostilità che il terribile gran principe di Kiev, il loro
signore Svjatoslav, aveva a suo tempo assopito con la forza. Quale tempesta,
aveva fatto tremare i pagani con le sue possenti schiere; con spade di
acciaio brunito si era inoltrato in terra cumana, aveva calpestato colline e
dirupi, resi torbidi torrenti e paludi, strappato come un turbine il pagano
Kobjak dall'arco del mare, dalle ferree orde cumane. Ed era stato trascinato
Kobjak nella città di Kiev, fin nella vasta sala di Svjatoslav.
E ora i Tedeschi e i Veneziani, i Greci e i Moravi cantano gloria a
Svjatoslav ma compiangono il principe Igor, che ogni ricchezza ha
sprofondato nel Kajala, nel fiume cumano l'oro russo ha disperso.
Qui il principe Igor è smontato dalla sella d'oro ed è salito su quella del
prigioniero. Triste fu la gente. Sui bastioni delle città venne meno la
gioia.
Note
Igor e Vsevolod erano i figli di Svjatoslav Ol'govic (+ 1164), principe di
Cernigov. Invece, lo Svjatoslav di cui poche righe più sotto si canta
l'elogio, colui che aveva a suo tempo sconfitto i Polovesiani e aveva preso
prigioniero il loro signore Kobjak, era Svjatoslav III Vsevolodovic, che fu
gran principe di Kiev dal 1180 al 1194 (la spedizione di Igor fu nel 1185).
Abbiamo tradotto «il loro signore Svjatoslav» per evitare confusione, anche
se il testo ha otecu «padre». Naturalmente si intende in senso traslato,
quale signore feudale, e in traduzione abbiamo preferito sciogliere la
metafora.
Che all'epoca Tedeschi, Veneziani, Greci e Moravi si interessassero alle
beghe interne della Rus' kievana appare un po' improbabile...
Traduciamo qui, con Bazzarelli, l'espressione a vu sedlo koscïevo con «è
salito sulla sella del prigioniero». La parola koscej è stata variamente
interpretata: il significato più semplice sembra sia appunto «prigioniero»,
ma anche «schiavo, servo». Il termine deriva dal turco kosci «prigioniero»,
a sua volta da kos «recinto» (termine passato nel russo con identico
significato). Nel russo koscej vuol dire anche «uomo magro, scheletro» (da
kost' «osso») e, per estensione, «avaro» (Bazzarelli 1991). Si può anche
ricordare il personaggio di Koscej, lo «scheletro senza morte» delle fiabe
russe.
Il sogno di Svjatoslav
Intanto Svjatoslav ebbe un sogno confuso:
«Nella rocca di Kiev, questa notte, mi rivestivano sul far della sera di un
nero sudario sopra un letto di tasso, mi mescevano vino fosco mescolato a
dolore, dalle vuote faretre dei traduttori pagani una bella perla lasciavano
sul mio petto cadere.
«E cantano il lamento per me. Già hanno tolto la trave centrale nel mio
terem dalla cupola d'oro!
«Sin dalla sera, per tutta la notte, hanno gracchiato i corvi demoniaci
nelle paludi di Plesensk: venivano da Kisan' e verso il fosco mare
volavano.»
E dissero i boiari al principe: «Già il dolore, o principe, ha serrato la
tua mente, ché i due falchi sono volati lontano dal trono d'oro del padre, a
conquistare la città di Tmutorokan' o per bere con l'elmo l'acqua del Don.
Già le ali ai due falchi tarparono le sciabole cumane ed essi con catene di
ferro furono avvinti.
«Il terzo giorno vinse la tenebra, i due soli si oscurarono, si spensero le
due colonne di porpora; e con loro le due giovani lune Oleg e Svjatoslav si
avvolsero di tenebre, scomparvero nel mare e dettero gran tripudio alla
gente nemica.
«Sul fiume Kajala l'ombra ha coperto la luce e si sparsero i Polovesiani
come una cucciolata di ghepardi.
«Già il disonore ha sommerso la gloria, la schiavitù ha schiacciato la
libertà, già Div è piombato sulla terra di Rus' e le belle fanciulle dei
Goti cantano sulle rive del mare: cantano i tempi di Bus, celebrano la
vendetta di Sarokan. Ma noi, o druzina, siamo privi di gloria.»
Note
Nella versione originale, il testo diceva: «Intanto Svjatoslav ebbe un sogno
confuso nella rocca di Kiev», lasciando intendere che il gran principe
Svjatoslav si trovava a Kiev quando fece il suo lugubre sogno. Poiché,
stando alla Cronaca degli anni passati, il gran principe si trovava invece a
Karacev, sulla strada di Cernigov, gli studiosi hanno emendato la
punteggiatura in modo che, nella nuova traduzione, è il sogno a svolgersi
nella rocca di Kiev.
Tutta la scena è ricca di simboli e significati funerei. Il legno di tasso
ha un simbolismo sepolcrale, così il vino fosco (letteralmente sinij
«azzurro», cioè opposto al vino «verde» o novello), la perla gettata sul
petto del gran principe. I Tolkoviny erano i «traduttori», cioè membri di
tribù della steppa alleate dei principi russi che esercitavano varie
funzioni presso costoro, fra cui quella di interpreti.
Vi era in Russia e in Ucraina, fino a tempi relativamente recenti, la
tradizione secondo la quale rimuovere la trave centrale della casa aiutava
il morente nelle sue sofferenze d'agonia e permetteva all'anima di volar
via. Secondo alcuni interpreti, l'immagine di togliere la trave centrale
significherebbe anche scardinare la potenza di Kiev (Kosorukov 1986).
Si parla qui di bosuvi vrany «corvi demoniaci». L'aggettivo è forse derivato
da Bes, nome antico slavo del diavolo [32].
I due «falchi» sono ovviamente Igor e Vsevolod.
Nuove metafore. I due «soli» e quindi le due «colonne di porpora» sono Igor
e Vsevolod, le due «colonne di porpora», le due «giovani lune» dovrebbero
essere Vladimir figlio di Igor e il nipote Svjatoslav, anche se qui il
copista per qualche ragione (per errore?) cita Oleg. Renato Poggioli nella
sua traduzione evita di citare i nomi (Poggioli 1954).
Molte ipotesi zoologiche per spiegare qui questa metafora sui ghepardi, ma
che gli antichi russi conoscessero questi animali sembra attestato, oltre
che da un affresco di Santa Sofia in Kiev, anche dal fatto che il ghepardo
iranico (Acinonyx jubatus) veniva utilizzato nelle cacce tra i tartari e
anche tra i principi russi.
Ricompare qui il diabolico Div di cui abbiamo già detto sopra (19-21).
Le belle fanciulle gotiche si riferiscono probabilmente ai Visigoti che, già
dal II secolo, erano insediati sulle rive del Mar Nero e del Mar d'Azov e
che all'epoca erano vassalli dei Polovesiani. Si tenga presente che
popolazioni parlanti lingue germaniche orientali erano attestate in Crimea
ancora nel XVIII secolo.
Bus (in latino Boz) era il mitico capo degli Anti, antenati degli Slavi
Orientali (32). Vinto dal re goto Vinitharius nel 375, fu fatto prigioniero
e poi crocifisso insieme ai figli e settanta notabili (Jordanes: Storia dei
Goti [XLVIII]). Per altri studiosi, il Bus qui citato sarebbe un capo del
Polovesiani dell'XI secolo, noto per le sue scorrerie contro i russi.
Sarokan era un capo dei Polovesiani, nonno di Koncak. A suo tempo Vladimir
Monomach lo aveva vinto e respinto fino al Caucaso. Perciò ora Koncak ha
vendicato la sconfitta dell'avo.
L'aureo discorso del gran principe
Allora il grande Svjatoslav proruppe in un aureo discorso mescolato col
pianto:
«O nipoti miei, Igor e Vsevolod! Troppo presto cominciaste a offendere con
la spada la terra cumana, in cerca di gloria: ma nel disonore vi siete
battuti, nel disonore avete versato il sangue pagano.
«I vostri cuori arditi sono forgiati in acciaio crudele e nel furore
temprati. Perché avete fatto questo alla mia canizie d'argento?
«Più non vedo il forte potere, le ricchezze e le schiere del fratello mio
Jaroslav, con i nobili di Cernigov, i Moguti, i Tatrani, gli Selbiri, i
Topcaki, i Revughi e gli Olberi. Costoro senza scudi, coi soli pugnali,
gridando sbaragliano le schiere, facendo risuonare la gloria degli avi.
«Ma voi diceste: combattiamo da soli, da soli dividiamo la gloria futura e
la passata supereremo! Ma non è forse strano, o fratelli, che il vecchio
ringiovanisca? Quando un falco muta le penne, in alto caccia gli uccelli, né
lascia che saccheggino il suo nido. Ma ecco il male: i principi non mi
vengono in aiuto e il tempo si è volto in sciagura.
«Ecco che a Rimov gridano sotto le spade cumane, e Vladimir piange per le
ferite: dolore e angoscia al figlio di Gleb!»
Note
Zlato slovo «parola d'oro» è il discorso che il gran principe Svjatoslav
tiene rimpiangendo la sventurata impresa di Igor e le sue conseguenze. Non è
però evidente dove il discorso finisca. Bazzarelli ritiene si concluda là
dove dice «il tempo si è volto in sciagura» (71), ma altri ritengono che
anche l'appello ai principi che segue faccia parte dello zlato slovo.
«Nel disonore vi siete battuti...» dice Svjatoslav: Igor e Vsevolod hanno
infranto i patti di pace che il gran principe aveva stipulato con i
Polovesiani.
Jaroslav Vsevolodovic (1140-1198) era principe di Cernigov.
Sui Moguti, i Tatrani, gli Selbiri, i Topcaki, i Revughi e gli Olberi esiste
un'intera letteratura. Secondo alcuni si tratta di titoli o soprannomi di
personaggi altolocati di origine turanica (Malov), per altri di nomi di
tribù o gruppi etnici turco-tatari (Kors 1909, Menges 1951). Senza entrare
nei dettagli di un'analisi etimologica, è ragionevole considerare questi
nomi come quelli di gruppi di alleati o mercenari di varie etnie turaniche
al servizio del gran principe di Kiev e dei principi delle varie città russe
(Bazzarelli 1991). E sarebbero costoro che col solo pugnale (in russo
zasapoznik «che si tiene nello stivale») sarebbero in grado di sbaragliare
le schiere? Il dettaglio non sembra potersi attribuire a genti turaniche: e
quali «schiere» sbaraglierebbero, di quali «avi» la gloria farebbero
risuonare? Il passo è molto oscuro.
La città di Rimov venne saccheggiata da Koncak dopo la vittoria su Igor.
Dopodiché i Polovesiani assaltarono Perejaslav, di cui era signore Vladimir
Glebovic. Costui fu ferito mentre difendeva la città e morì due anni dopo
(1187).
Appello ai principi
Gran principe Vsevolod! Non dovresti accorrere da lontano solo col pensiero
a difendere il trono d'oro del padre! Tu solo puoi battere coi remi la
Vol'ga e attingere con l'elmo l'acqua del Don! Se tu fossi stato qui, o
principe, a un soldo si venderebbero le schiave e uno schiavo un centesimo!
Perché tu puoi lanciare vive lance di fuoco, con gli arditi figli di Gleb!
O tu, impetuoso Rjurik, e tu, Davyd! Non sono stati i vostri ardenti
guerrieri a nuotare nel sangue fino agli elmi d'oro? Non sono stati i vostri
valorosi eserciti a ruggire come tori selvaggi, straziati da sciabole
temprate, in terra straniera? Salite, o signori, sulla staffa dorata, per
vendicare l'offesa di questo tempo, per la terra di Rus', per le ferite di
Igor, valoroso figlio di Svjatoslav!
Jaroslav dall'ottuplice pensiero, principe di Galizia! Alto siedi sul tuo
trono dorato e reggi i monti ungheresi con le tue schiere ferrigne, e al re
magiaro sbarri la strada, chiudendo le porte al Dunaj, scagliando macigni
oltre le nubi, amministrando la giustizia fino al Dunaj. Scorrono le tue
minacce per le terre, tu apri le porte di Kiev; dall'aureo trono paterno tu
frecci i sultani oltre le terre; folgora dunque, o signore, anche il pagano
Koncak! Per la terra di Rus', per le ferite di Igor, valoroso figlio di
Svjatoslav!
E tu impetuoso Roman, e tu Mstislav! Ardimento e passione conducano la
vostra mente all'impresa!
In alto levato nell'intrepida impresa, come falco che si libra sui venti,
quando nel suo furore attacca gli altri uccelli. Avete corazze di ferro
sotto gli elmi latini. Per esse tremò la terra e molti popoli: Unni e
Lituani, Jatvinghi e Deremeli, Finni e Polovesiani: gettarono i loro
giavellotti e chinarono il capo sotto queste spade d'acciaio.
Ma ormai, o principe, per Igor si è spenta la luce del sole mentre
all'albero tristi son cadute le foglie: lungo la Ros' e la Sulà i nemici si
son spartiti le città, ma più non risorgerà l'ardita schiera di Igor!
Il Don ti invoca, o principe, e chiama i principi alla riscossa. Ma la
valorosa schiatta di Oleg non è più sul piede di guerra...
Ingvar e Vsevolod, e tutti e tre voi, figli di Mstislav! Serafini dalle sei
ali di non ignobile nido! Non per vittorie fratricide diventaste signori dei
vostri domini! Dove sono i vostri elmi dorati e le spade polacche e gli
scudi? Sbarrate le porte alla steppa con le frecce puntute, per la terra di
Rus', per le ferite di Igor, valoroso figlio di Svjatoslav!
Più non scorre la Sulà coi suoi flutti d'argento per la città di
Perejaslavl', né la Dvinà paludosa per la città di Polock, ma sotto il grido
di guerra pagano! Solo Izjaslav figlio di Vasil'ko fece risuonare le spade
affilate contro gli elmi lituani superando la gloria dell'avo Vseslav!
E cadde egli stesso sotto gli scudi scarlatti, falciato sull'erba
insanguinata dalle spade lituane. E disse, come con la sposa sul letto
nuziale: «La tua druzina, o principe, coprirono gli uccelli con le ali e le
fiere ne leccarono il sangue.»
Né c'era colà il fratello Brjacislav, né l'altro fratello Vsevolod. Da solo,
l'anima di perla esalò dal fiero corpo, attraverso l'aurea collana.
Divennero meste le voci, venne meno la gioia. Piangono le trombe a Gorodec.
O figli di Jaroslav e voi tutti nipoti di Vseslav! Tempo è di abbassare le
insegne e di riporre nel fodero le logore spade. Già vi siete allontanati
dalla gloria degli avi! Voi, con le vostre contese, cominciaste a far venire
i pagani nella terra di Rus', sui possedimenti di Vseslav. Per le lotte
intestine si scatenò la violenza dalla terra cumana!
Note
Vsevolod Jur'evic (1154-1212), nipote di Vladimir Monomach e principe di
Vladimir-Suzdal', fu il primo, tra i sovrani della città, a ricevere il
titolo di «gran principe», con dignità pari, dunque, a quella del signore di
Kiev. Nonostante manifestasse solo a parole molte buone intenzioni, non
intervenne a dare man forte al gran principe Vsevolod. Con «soldo» e
«centesimo» rendiamo due antiche monete kievane: la nogata (ventesima parte
di una grivna) e la rezana (cinquantesima parte di una grivna).
Rjurik Rostislavic (+ 1212) e Davyd Rostivlavic (+ 1197) sono figli di
Rostislav Mstislavic e nipoti di Vladimir Monomach. Rjurik era co-reggente,
con Svjatoslav, del principato di Kiev, e dopo la morte di questi divenne
unico sovrano di Kiev (1194). Davyd era signore di Smolensk: sua moglie era
una principessa cumana e per questo egli non aveva partecipato alla
spedizione del 1183 contro i Polovesiani.
Jaroslav di Galizia (1153-1187) era signore di una regione che, addossata ai
Carpazi, confinava con l'Ungheria. L'autore del Canto lo definisce
«dall'ottuplice pensiero», in quanto aveva fama di essere saggio e accorto.
I suoi antenati avevano a lungo lottato contro gli Ungheresi, ma Jaroslav,
nonostante il Canto affermi il contrario, rimase in pace con i suoi vicini,
anzi, sposò una figlia di Stefano III re d'Ungheria. «Aprire le porte di una
città» voleva dire conquistarla: infatti, nel 1159, Jaroslav di Galizia e
Mstislav di Volinia avevano conquistato Kiev, cacciandone il principe
Izjaslav.
Roman e Mstislav erano probabilmente due principi minori della Volinia,
parenti del principe Igor. Vi sono tuttavia altre possibili identificazioni.
L'elenco dei popoli contro cui Roman e Mstislav combatterono sembra
riferirsi a popoli che abitavano lungo la costa baltica. Jatvinghi e
Deremeli erano tribù baltiche che entrarono poi nella nazione lituana. Per
Unni si intendono probabilmente i Finni o gli Estoni. Soltanto i Polovesiani
sono turanici.
La valorosa schiatta di Oleg è quella dei principi che hanno accompagnato
Igor nella sua impresa.
Passo oscuro e tormentato il 79. Sembra che ci si riferisca ai fratelli
Ingvar Jaroslavic (+ 1202) e Vsevolod Jaroslavlic (+ 1185), principi di
Volinia, cugini del Roman sopra ricordato. Discendenti di Mstislav
Vladimirevic (figlio di Vladimir Monomach), si divisero i loro feudi
mediante un sorteggio e non combattendo tra loro. L'epiteto «dalle sei ali»,
proprio degli angeli Serafini, in certi poemi slavo-meridionali viene
attribuito anche a guerrieri ed eroi.
Di questo Izjaslav Vasil'kovic le cronache non dicono nulla: tutto ciò che
sappiamo di lui deriva da questo passo del Canto della schiera di Igor:
principe di Polock e forse in seguito di Gorodec (o Grodno), avrebbe
combattuto e sarebbe stato ucciso combattendo contro i lituani.
Il motivo del letto di morte associato al letto nuziale è tipico della
poesia popolare. Bazzarelli ricorda un canto ucraino in cui il cosacco
morente manda il suo cavallo ad avvertire la madre della sua morte: «Tu di',
cavallo, che io mi sono sposato, / che ho preso in moglie una bella ragazza
/ nel campo aperto, nella terra» (Bazzarelli 1991). L'immagine delle ali
degli uccelli e delle belve che leccano il sangue ha riscontri nella poesia
e nelle saghe scandinave (nelle kenningar la battaglia è chiamata «festino
dei lupi» o «dei corvi»).
Se nulla si sa di Izjaslav Vasil'kovic, nulla evidentemente si può
aggiungere dei suoi fratelli, Brjacislav e Vsevolod.
Jaroslavli «figli di Jaroslav» è una correzione, accettata dai maggiori
studiosi del poema, al posto dell'originale Jaroslave. Molte sono state le
congetture e le ipotesi, ma Jaroslavli risolve molti problemi. I figli di
Jaroslav il Saggio furono infatti sempre in contesa con i figli di Izjaslav,
che qui sono ricordati come «nipoti di Vseslav» (Bazzarelli 1991).
Vseslav, il principe stregone
Nella settima età di Trojan, gettò Vseslav le sorti per la fanciulla che
tanto desiderava. E promettendo astutamente i cavalli, volò fino alla città
di Kiev e con la lancia sfiorò il trono d'oro di Kiev.
Subito balzò lontano da Kiev, come belva feroce correndo a mezzanotte da
Belgorod, ammantato di azzurra bruma. Il mattino conficcò le asce, aprì le
porte di Novgorod e distrusse la gloria di Jaroslav.
Balzò qual lupo da Dudutki fino al fiume Nemiga. E là sulla Nemiga fanno
covoni di teste, trebbiano con catene di ferro, gettano le vite sull'aia,
vagliano le anime dai corpi.
In tristo modo furono seminate le sponde insanguinate della Nemiga, furono
seminate con le ossa dei figli di Rus'.
Il principe Vseslav amministrava la giustizia, e governava i principi delle
città, nella notte però galoppava come lupo, prima del canto del gallo
correva da Kiev fino a Tmutorokan' e tagliava la strada al grande Chors.
Per lui suonavano a mattutino le campane di Santa Sofia a Polock ed egli a
Kiev ne udiva i rintocchi.
Benché avesse un cuore di stregone in quel doppio corpo, nondimeno patì
sventure.
Per lui il vate Bojan per primo proferì queste parole: «Né all'astuto, né al
sapiente, né all'esperto stregone è dato sfuggire il giudizio di Dio».
Note
Che cosa significa l'espressione «nella settima età di Trojan»? Sono state
avanzate al riguardo decine di interpretazioni: una settima èra? il settimo
secolo? Angiolo Danti nella sua traduzione espunta la riga, Eridano
Bazzarelli traduce «nell'ultimo tempo di Trojan» intendendo il passo - forse
non a torto - come se significasse «negli ultimi tempi del paganesimo»
(Bazzarelli 1991). Riguardo a Trojan rimandiamo capitolo sulle divinità
slave [MITO].
È Vseslav Brjacislavovic di Polock (1044-1101), il principe-stregone, di cui
tratta la Cronaca Laurenziana. La madre l'aveva generato da un volchvu, uno
stregone. Di lui si diceva fosse in grado di trasformarsi in animale, come
un lupo mannaro e pare che la figura bylinica di Volch Vseslav'evic sia
costruita sulla sua. Tormentata la sua biografia: secondo il testamento di
Vladimir il Santo, i principi di Polock non dovevano occuparsi che della
loro città, ma nel 1067 Vseslav conqusitò Novgorod e l'abbandonò al
saccheggio. Per vendicarsi, i fratelli Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod,
figli di Jaroslav, conquistarono Minsk e infierirono sui loro abitanti.
Sconfitto in battaglia, Vseslav dovette fuggire. I tre Jaroslavici tuttavia
lo invitarono a concordare una tregua, giurando di non fargli nulla. Invece
lo catturarono a tradimento e lo gettarono in un carcere a Kiev. Fu allora
che i Polovesiani irruppero nel territorio di Kiev saccheggiandolo. Il
popolo di Kiev chiese al gran principe Izjaslav cavalli e armi per
sconfiggere gli invasori, ma Izjaslav rifiutò. Allora i kievani insorsero,
liberarono Vseslav e lo nominarono gran principe della città. Izjaslav fuggì
in Polonia ma nel 1069 tornò alla testa di un esercito polacco, guidato da
re Boleslao II. Vseslav fuggì, si attestò dapprima a Belgorod, un sobborgo
di Kiev, ma poi tornò a Polock, da dove continuò a guerreggiare
incessantemente contro gli Jaroslavici e contro Vladimir Monomach. La
«fanciulla che tanto desiderava» sembra sia una metafora indicante la stessa
città di Kiev, di cui Vseslav ambiva essere gran principe. Egli riuscì a
soddisfare la sua ambizione («con la lancia sfiorò il trono d'oro di Kiev»),
ma per poco tempo.
«Il mattino conficcò le asce», seguiamo qui la lezione di Eridano Bazzarelli
(Bazzarelli 1991). Il luogo infatti è assai corrotto durante le varie
copiature. La parola di più difficile interpretazione è strikusy, che viene
solitamente intesa con «asce» in base ad una possibile relazione con un
termine di origine germanica (cfr. antico alto tedesco strîtachus «ascia da
combattimento») (Snegirëv 1838, Potebnja 1878). Altri studiosi hanno
proposto una correzione di strikusy in su tri kusy (Lichacëv 1950, Jakobson
1958), da cui la traduzione alternativa di Angiolo Danti «con tre tentativi
stracciò la fortuna» (Danti 1979).
Dudutki è una località non identificata, forse vicino a Novgorod. Vari
autori, tra cui Roman Jakobson, hanno proposto emendamenti e correzioni del
testo, dando alla parola diversi significati.
L'interpretazione più comunemente accettata di questo passo è che Vseslav si
trasformasse effettivamente in un lupo durante la notte e corresse da Kiev a
Tmutorokan'. Anche se l'immagine non differisce da quella di molte altre
metafore animali presenti nel Canto, tutto quello che sappiamo del
personaggio del principe-stregone Vseslav ci autorizza a pensare che
l'autore stia qui descrivendo effettivamente un caso di licantropia.
Riguardo a Chors, antico dio slavo della luna o del sole, rimandiamo al
capitolo sulle divinità slave [MITO].
«Doppio corpo» è probabilmente un modo per intendere la licantropia di
Vseslav il quale poteva assumere a piacere un corpo umano o un corpo di
lupo. Alcuni filologi hanno proposto tuttavia di correggere vu druze tele
«nel doppio corpo» in vu druze tele «nel corpo valoroso». Ma si tratta di
una congettura inutile e fuorviante, considerato il valore magico del
personaggio, oltre che meno intensa dal punto di vista poetico (Bazzarelli
1991).
È il vate Bojan a pronunciare l'epitaffio di Vseslav. La traduzione da noi
seguita è quella di Bazzarelli, dove si legge «né l'astuto, né il saggio, né
l'esperto stregone» (Bazzarelli 1991). In precedenza Danti traduceva «né
allo scaltro, né all'abile, né all'uccello agile» (Danti 1979). Il problema
sta nella parola piticiju «uccello», che L.A. Bulakovskij ha proposto di
emendare in piticyn «stregone» (Bulakovskij 1978).
Il pianto della terra di Rus'
Oh, pianga la terra di Rus' ricordando gli anni passati e i principi di una
volta!
Quell'antico e saggio Vladimir, impossibile inchiodarlo nel suo palazzo tra
i colli di Kiev. I suoi stendardi sono oggi quelli di Rjurik e quelli di
Davyd: ma disgiunti sventolano i drappi, le une contro le altre cantano le
lance!
Note
Di nuovo è Vladimir il Santo, che era stato ricordato all'inizio del poema e
torna qui, simmetricamente, a chiudere l'«amaro» elenco dei principi.
L'autore si riferisce alla distruzione della città di Rimov e al mancato
aiuto di Davyd Rostislavic a Vladimir Glebovic.
Il lamento di Jaroslavna
Si ode sul Dunaj la voce di Jaroslavna, piange al mattino qual gabbiano
solitario: «Volerò come un gabbiano lungo il Dunaj, nel Kajala bagnerò la
mia manica di seta e al principe tergerò le sanguinose ferite sul suo corpo
possente.»
Sul far dell'alba piange Jaroslavna sul bastione di Putivl' dicendo: «O
vento, venticello! Perché, signore, soffi nemico? Perché porti le frecce
unne sulla tua ala leggera contro i guerrieri del mio sposo? Non ti bastava
in alto, sotto le nubi soffiare, cullando le navi sull'azzurro mare? Perché,
signore, sull'erba della steppa hai dissipato la mia gioia?»
Sul far dell'alba piange Jaroslavna sul bastione di Putivl' dicendo: «O
Dnepr, figlio di Slovuta! Hai attraversato i monti di pietra passando per la
terra cumana. Hai portato su di te le navi di Svjatoslav fino al campo di
Kobjak. Porta, signore, fino a me il mio sposo, perché io non gli mandi le
mie lacrime sul far del mattino.»
Sul far dell'alba piange Jaroslavna sul bastione di Putivl' dicendo: «O sole
lucente, tre volte lucente. Sei per tutti così caldo e bello! Perché,
signore, hai disteso il tuo raggio ardente contro i guerrieri del mio sposo,
perché nell'arido campo i loro archi hai allentato, i loro turcassi
serrato?»
Note
Inizia qui uno dei brani lirici più belli e intensi di tutto il poema, il
lamento della giovane sposa del principe Igor. Il brano riprende i ritmi di
quel genere letterario della poesia popolare russa chiamato plac «pianto»,
che sembra fuso con intonazioni di preghiere pagane ancora vive ai tempi in
cui il poema fu scritto. Il brano è pagano, magico: il lamento è rivolto al
Vento, al fiume Dnepr, al Sole. È un canto originale, potente, bellissimo,
una delle vette poetiche del Canto della schiera di Igor. Un esempio di come
il poema della disfatta della schiera di Igor sia, al di sotto della
superficie cristiana, intriso di paganesimo.
Evfrosina Jaroslavovna era figlia di Jaroslav di Galizia, il principe
dall'ottuplice pensiero, e giovane sposa del principe Igor. L'autore del
Canto non la chiama per nome ma col patronimico Jaroslavna, forse per
sottolineare la sua ascendenza gentilizia.
La parola antico-russa zegziceju viene da molti commentatori tradotta con
«cuculo», basandosi sui paralleli con altri testi epici e vari dialetti
slavi e baltici. Ma secondo Bazzarelli (che cita vari filologi russi),
zigzicka è il nome, in alcuni dialetti ucraini, del gabbiano. E del resto il
termine «cuculo» suonerebbe di malaugurio, mentre il «gabbiano» renderebbe
molto meglio il senso del dolore e della solitudine della donna (Bazzarelli
1991).
Secondo Tatiscev, uno storico del '700, Jaroslavna non si trovava a Putivl'
ma a Novgorod Seversk, da cui si sarebbe poi regata a Putivl' per accogliere
Igor fuggiasco. Né la presenza di un fiume Dunaj ci illumina, giacché questo
termine è molto vago, indicando a seconda delle occasioni il Don, il Donec,
il Dnepr o addirittura il Danubio. Forse l'autore del Canto ignorava dove
Jaroslavna si trovasse effettivamente, ma è certo che dipingerla sul
baluardo di Putivl' è stata una possente trovata poetica.
«Bagnerò la mia manica di seta». Il termine bebrjanu significa letteramente
«di castoro», ma sembra avesse anche il significato «di seta». Oggi i
commentatori preferiscono tradurre la parola con quest'ultimo valore, che
tra l'altro è attestato negli scoli di un esemplare ottocentesco del Canto
della schiera di Igor.
Questo epiteto del fiume Dnepr, chiamato «figlio di Slovuta» [Dnepre
Slovuticju] si trova in altri racconti e poemi epici antico-russi e ucraini.
Lo Slovuta è un affluente del Pripjat' che è, a sua volta, un affluente del
Dnepr. Qui però l'autore fa una contaminazione poetica tra il nome Slovuta e
la parola slava «gloria».
La fuga del principe Igor
S'increspa il mare di mezzanotte, avanzano turbinando le nuvole, al principe
Igor Dio indica la strada dalla terra cumana alla terra russa, dov'è il
trono d'oro degli avi. I bagliori del tramonto si sono spenti.
Igor dorme. Igor veglia. Igor misura col pensiero la terra dal grande Don al
piccolo Donec.
A mezzanotte Ovlur fischia chiamando i cavalli oltre il fiume. Intima al
principe di prepararsi.
Il principe Igor non c'è più!
Grida, rintrona la terra, fruscia l'erba! C'è agitazione tra i carri
polovesiani.
Fugge intanto il principe Igor, ermellino tra i canneti, bianca anatra
sull'acqua, balza sul veloce destriero e da esso salta giù come lupo grigio,
corre fino alla valle del Donec, volando come un falco sotto le nubi, strage
di oche e cigni facendo per colazione, pranzo e cena.
Se Igor volava come falco, trottava Vlur come lupo, scuotendo di dosso la
gelida rugiada. E sfiancarono i veloci destrieri.
Note
«Mare di mezzanotte» [more polunosci] sembra sia metafora per indicare il
nord (Kosorukov 1986), forse il cielo boreale, anche se sono state date
altre interpretazioni. Traduzioni: «a mezzanotte il mare trabocca» (Poggioli
1954); «spumeggiò il mare a mezzanotte» (Danti 1979); «il mare di mezzanotte
si è agitato» (Bazzarelli 1991).
La frase russa iduti smirci muglami è stata interpretata e tradotta in vari
modi. Non è chiaro cosa siano questi «turbini come nuvole» che avanzano dal
«mare di mezzanotte». Danti traduce nel modo più semplice «avanzano turbini
a forma di nubi» (Danti 1979); Poggioli con più fantasia s'inventa
«s'avanzano trombe marine» (Poggioli 1954). Bazzarelli segue la poetica
lezione di Kosorukov secondo cui l'espressione adombrerebbe un'aurora
boreale (Kosorukov 1986) e traduce di conseguenza «si alza l'aurora boreale»
intendendo che in tal modo Dio (o un dio) avrebbe indicato a Igor la via
della fuga e della salvezza (Bazzarelli 1991).
Ovlur (più avanti Vlur) era un guerriero polovesiano, figlio di una russa.
Aiutò Igor a fuggire perché in contrasto con certi capi dei Polovesiani.
Igor lo ricompenserà poi dandogli feudi e cariche. Il testo dice che,
fischiando, Ovlur avrebbe chiamato «il cavallo» [komoni], ma tradurre «i
cavalli» sembra più logico. È stata anche proposta una correzione secondo la
quale Ovlur avrebbe in realtà chiamato uno «scudiero» [komonini]
(Bulakovskij 1978). La correzione potrebbe anche essere accettabile dal
punto di vista logico, ma non bisogna alterare il testo senza necessità.
Nella sua fuga, il principe Igor viene paragonato a molti animali
(ermellino, anatra, lupo, in seguito falco). Le analogie con quanto si
narrava della trasformazione in lupo di Vseslav (87) rimangono tuttavia solo
formali. Igor non ha poteri stregoneschi: è la forza poetica, in questo
caso, ad evocare la trasfigurazione.
Dialogo del principe Igor col fiume Donec
Disse il Donec: «O principe Igor! Non piccola è la tua gloria, mentre a
Koncak vergogna e gioia alla terra di Rus'!»
Igor disse: «O Donec, non piccola è la tua gloria, per aver cullato il
principe sulle tue onde, avergli steso erba verde sulle tue sponde
d'argento, averlo avvolto di calde brume sotto un albero verde, per averlo
vegliato come un'anatra sull'acqua, come un gabbiano sull'onda, come una
folaga nel vento!
«Non così,» disse, «il fiume Stugna che con scarsa corrente, dopo aver
superato gli altri ruscelli e torrenti, si apre verso la foce. Il principe
Rostislav inghiottì nel suo fondo. Presso la buia riva, piange la madre di
Rostislav, piange la madre del giovane principe Rostislav, intristiti
appassiscono i fiori, per l'angoscia si piegano gli alberi a terra.»
Note
È qui il fiume Donec a parlare possente al principe Igor, che gli risponde.
La forza pagana del poema anima gli elementi della natura e del paesaggio,
del cielo e della terra, rendendo possibile il loro dialogo con gli uomini.
Igor si riferisce ad un episodio storico. Nella Cronaca degli Anni Passati,
all'anno 1093, si narra che il gran principe Vladimir Monomach e il suo
ventiduenne fratello Rostislav, sconfitti dai Polovesiani, dovettero fuggire
ma, nell'attraversare il fiume Stugna, Rostislav annegò.
Gzak e Koncak inseguono il principe Igor
Non sono state le gazze a gracchiare, ma Gzak e Koncak che inseguono il
principe Igor.
Non gracchiano i corvi, tacciono le cornacchie, non strillano le gazze. Solo
strisciano i serpi. E i picchi coi colpi del becco indicano la direzione del
fiume. Con canti gioiosi gli usignoli annunciano l'alba.
Dice Gzak a Koncak: «Se il falco vola al nido, il giovane falco frecceremo
con le nostre frecce d'oro.»
Dice Koncak a Gzak: «Se il falco vola al nido, il falchetto incateneremo con
una bella fanciulla.»
E dice Gzak a Koncak: «Se lo incateneremo con una bella fanciulla, a noi poi
non rimarrà né il falchetto né la bella fanciulla, allora cominceranno ad
abbattere i nostri uccelli nella distesa cumana.»
Note
Il principe Igor fuggì dal campo polovesiano il 21 giugno 1185. Forse in
concomitanza del ritorno di Gzak e Koncak da una spedizione fallita contro
Perejaslavl'. Sembra che i due qan, irritati per il fallimento, avessero
cattive intenzioni nei confronti del principe.
Il dialogo di Gzak e Koncak, nel quale affermano il loro proposito di
«incatenare il falchetto con una bella fanciulla» si riferisce al fatto che
in seguito, Vladimir Igorevic, il figlio del principe, rimasto prigioniero
presso i Polovesiani, sposò (anche in base a precedenti accordi) la figlia
di Koncak. Vladimir tornò in patria due anni dopo, nel 1187, con la moglie e
un bambino.
Ancora una volta, la parola a Bojan
Così disse Bojan nel cantare le imprese dei figli di Svjatoslav, Bojan il
cantore dei tempi passati, di Jaroslav e di Oleg e della sposa del kagan':
«È doloroso per te, o testa, senza il corpo, ed è pesante per te, o corpo,
senza la testa.»
Così per la terra di Rus' senza Igor.
Note
Il vate Bojan fa la sua ultima apparizione in un altro luogo oscuro del
poema, passo che ha avuto molti tentativi di interpretazione, nessuno dei
quali veramente convincente. Invece di na chody «le imprese di», alcuni
interpreti hanno voluto leggere i Chodyna «e Chodyna», inventandosi un altro
mitico cantore e vate, collega di Bojan. Ma si tratta di una lettura
fragilissima, anche perché di questo fantomatico «Chodyna» non si ha alcuna
notizia. Tra i nostri traduttori, Danti è il solo a interpretare il verso in
tal senso, traducendo «dissero Bojan e Chodyna» (Danti 1979). Con maggior
cautela e buon senso, Poggioli traduce semplicemente «disse e predisse
Bojan» (Poggioli 1954), mentre Bazzarelli traduce «così disse Bojan il vate
nel cantare le imprese di...» (Bazzarelli 1991) ed è sua la lezione che
abbiamo seguito.
La «sposa del kagan'» introduce un altro luogo oscuro. Kagan' era un titolo
dei Chazari e dei Bulgari che però veniva attribuito anche ai principi
russi. Qui ci si riferisce forse alla principessa Ol'ga (+ 969), sposa e poi
vedova del gran principe Igor Rjurikevic, che vendicò ferocemente, facendo
strage dei Drevljani, per poi essere canonizzata in seguito alla sua
conversione al cristianesimo (Bazzarelli 1991). Poggioli espunge il passo
dalla sua traduzione.
Il ritorno del principe Igor
Il sole splende in cielo, il principe Igor è in terra di Rus'.
Cantano le fanciulle sul Dunaj, intrecciano le voci dal mare fino a Kiev.
Igor scende per la via di Boricev fino a Nostra Signora della Torre. Le
province sono felici, le città liete.
Brano trionfale che conclude il poema. Dopo essere tornato a Novgorod
Severskij, Igor si era poi recato a Kiev, presso il gran principe
Svjatoslav, dove si era tenuta un'assemblea dei principi. Questo sole che
splende nel cielo, queste fanciulle che cantano sul Dunaj, si riferirebbero
non tanto al ritorno del principe dalla prigionia, quanto alla conclusione
positiva di un accordo dei principi russi (Rybakov).
Ora Igor esce da Kiev e percorre la via di Boricev, che metteva in
comunicazione la parte alta della città con la parte bassa (è l'attuale
Andreevskij spusk «discesa di Sant'Andrea», dove si trova tra l'altro la
casa natale di Michajl Bulgakov). La chiesa di Nostra Signora della Torre
era stata costruita nel 1132, al tempo del gran principe Mstislav, ed era
così chiamata perché vi si venerava un'icona bizantina, detta appunto della
Madonna della Torre. Secondo alcuni interpreti, Igor si sarebbe recato in
questa chiesa perché era forse il 15 agosto, festa della Dormizione della
Vergine.
Fine del poema
Abbiamo intonato un cantico ai vecchi principi, ora ai giovani si deve
cantare: «Gloria a Igor figlio di Svjatoslav, e a Vsevolod Toro Impetuoso, e
a Vladimir figlio di Igor!»
Salute ai principi e alla druzina, che si battano per i Cristiani contro le
schiere pagane.
Gloria ai principi e alla druzina!
Amen
Note
In questa chiusa - ameni - del poema i fautori di un'interpretazione pagana
del poema, tra cui Bazzarelli, leggono la presenza di un'interpolazione
cristiana. Tuttavia, non solo amen è una chiusa di rito, che dà carattere
sacrale e profondo a ciò che era stato detto o declamato, ma nel suo
significare «così sia» si riferisce all'augurio di salute e gloria dei
principi russi e alla loro vittoria contro le schiere pagane.
FONTI:
Il cantare della gesta di Igor, a cura di R. Poggioli, ed. Einaudi, Torino
1954
Il canto dell'impresa di Igor, a cura di E. Bazzarelli, ed. Rizzoli, Milano
1991
L'epopea del principe Igor in Alda Giambelluca Kossova, All'alba della
cultura russa, ed. Studium, Roma 1996.
Il canto della schiera di Igor, in B. Meriggi, Le Byline, canti popolari
russi. ed. Accademia, Milano 1974
E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, ed. Sansoni
E. Lo Gatto, Storia della Russia, Firenze 1946
D. Likhaciov, Un capolavoro della letteratura russa, in "Calendario del
popolo" n. 480/1985
V. Gitermann, Storia della Russia, Firenze 1980
F. Dvornik, Gli Slavi, Padova 1974
R. Picchio, Letteratura della Slavia ortodossa
R. Picchio, Storia della letteratura russa antica, Milano 1959
D. Tschizewskij, Storia dello spirito russo, Firenze 1965
A. M. Amman, Storia della chiesa russa e dei paesi limitrofi, Torino 1948
J. Chrysostomus, Storia della chiesa russa, Milano 1985
Mirskij, Storia della letteratura russa
Propp, L'epos eroico russo.
Rivista "Rassegna sovietica". nn. 2-3/1985
Pubblicato con permesso del sito
Bifröst: Viaggio nel paese dei miti e delle leggende" - www.bifrost.it
Traduzione e note: Holger Danske e Koscej Vessmertij
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