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STORIA RUSSA - GIOTTO - CATTEDRALE DI CHARTRES
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LA STORIA DEL MEDIOEVO, STORIA DELLA RUSSIA, LA PITTURA DI GIOTTO, LA CATTEDRALE DI CHARTRES |
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CONTRO L'ORDA D'ORO
Prima dell'invasione tataro-mongola, la Rus' era a un livello di cultura
analogo a quello di altri paesi europei, fatta eccezione dell'Italia e di
Bisanzio, eredi della civiltà classica antica. In particolare, sotto
l'influenza cristiano-bizantina, si erano notevolmente sviluppate
l'architettura, il mosaico, l'affresco, l'iconografia e la miniatura.
La prima sconfitta dei russi contro i mongoli di Gengis khan si ebbe nel
1223: da allora, sino al 1380 (battaglia di Kulikovo), la Rus' conobbe un
periodo di totale prostrazione.
L'unico principato che riuscì a salvarsi dai saccheggi e dalle distruzioni
fu quello di Novgorod, sulle cui terre passava l'importante via commerciale
che collegava il Nord dell'Europa alla Rus' e all'Oriente. Per questa
ragione i feudatari svedesi, con due ordini religiosi cavallereschi tedeschi
(Portaspada e Teutonici), tentarono di conquistarla, ma furono sconfitti dai
russi nella cosiddetta "battaglia dei Ghiacci" del 1242.
I tatari riuscirono a dominare per così tanto tempo la Rus' perché seppero
tenerla divisa, favorendo le rivalità tra i principi feudali.
La prima città che manifestò una chiara volontà di riscatto dal dominio
mongolo fu Mosca, situata in una posizione geografica strategica e favorita
dalle qualità personali dei propri sovrani. Essi infatti riuscirono a
frenare l'espansionismo del Regno di Lituania contro la Rus' negli anni
1360-1380.
Il principato di Mosca si sviluppò in due direzioni:
concentrando la terra nelle mani dei feudatari laici ed ecclesiastici;
favorendo notevolmente l'artigianato e il commercio.
In tal modo potevano aspirare alla creazione di uno Stato russo unitario,
sia la nobiltà feudale, che sperava così di accrescere la propria potenza,
sia gli strati sociali commerciali, che avevano bisogno di una libera
circolazione delle merci.
Nel 1380 i tatari decisero di muovere guerra contro il Gran principato di
Mosca, per ristabilire il loro dominio, ma furono duramente sconfitti nella
battaglia di Kulikovo.
Tuttavia, questa vittoria non fu sufficiente per cacciare i mongoli dalla
Rus. Per tre ragioni:
non tutti i grandi principati russi accettavano l'idea di doversi
sottomettere a Mosca;
il principato di Mosca non vedeva altro modo per sconfiggere i tatari che
quello di centralizzare tutti i poteri sotto di sé;
all'interno del suddetto principato alcune forze politiche volevano la
centralizzazione dei poteri secondo il modello della monarchia ereditaria;
altre invece volevano che si continuasse con l'antico sistema di successione
al trono, secondo cui alla morte del principe il potere doveva passare al
fratello cadetto.
La situazione cominciò a sbloccarsi verso la metà del sec. XV. Sotto il
regno di Vasilj l'Oscuro ("oscuro" perché accecato dal rivale) si
verificarono due fatti importanti:
il Granducato di Mosca riuscì a imporre con la forza il principio della
monarchia ereditaria e divenne un unico territorio sottomesso all'autorità
del solo gran principe (persino Novgorod dovette riconoscerlo);
il clero russo e il gran principe si rifiutarono di riconoscere l'assenso
che il metropolita russo Isidoro aveva dato, assieme al clero greco e
all'imperatore bizantino, all'Unione tra le due chiese: cattolica e
ortodossa, sancita al Concilio di Firenze nel 1439, nell'imminenza
dell'attacco turco a Costantinopoli. Isidoro fu deposto e il concilio dei
vescovi russi, nel 1448, elesse il primo metropolita non designato dal
patriarca di Costantinopoli, proclamando così l'autonomia della chiesa
russa. E il patriarcato di Mosca diverrà erede di quello di Kiev.
Alla fine del XV sec. la Russia era diventata il più grande degli Stati
europei. Nel 1477 la repubblica aristocratica di Novgorod fu definitivamente
sconfitta sul piano militare dalle forze di Ivan III. Gli altri principati
ancora indipendenti subirono la stessa sorte. La definitiva liberazione
della Russia dal giogo tataro avvenne dopo il 1480.
LA RUSSIA NELLA SUA ICONA
L'arte della Russia antica è sostanzialmente religiosa ed è compresa nei
secoli X-XVII.
Con la conversione della Russia al cristianesimo (fine sec. X), divenuto
religione di stato, si adottarono i modelli della cultura bizantina, che
erano altamente evoluti nel mondo feudale europeo.
Le città in cui si concentra l'attività degli iconografi sono Vladimir, Kiev
e soprattutto Novgorod (la "Firenze russa").
In particolare a Novgorod, rimasta relativamente libera dal giogo tataro, si
sviluppa una scuola nazionale iconografica che progressivamente si rende
indipendente dai canoni bizantini, pur senza metterne in discussione la
concezione della luce, della prospettiva, delle proporzioni.
Il boom dell'arte iconografica russa si verifica nei secoli XIV e XV,
sostanzialmente sulla base di tre fattori:
lo sviluppo politico-civile della Russia ortodossa e nazionalista, che
ritrova fiducia nelle proprie tradizioni;
la spiritualità dei grandi asceti russi, riunitisi soprattutto attorno al
monastero della s. Trinità di s. Sergio di Radonez (1313-92), il quale era
chiaramente favorevole a una riscossa militare antimongola (non
dimentichiamo che tutti i maggiori iconografi erano monaci);
l'arrivo in Russia da Bisanzio di un pittore, Teofane il Greco, le cui
notevoli capacità artistiche fecero scuola agli iconografi russi, tra cui
appunto Rubljov.
Le icone di Teofane si caratterizzano per un tratto incredibilmente sicuro,
per la capacità di ottenere effetti psicologici altamente espressivi con
mezzi molto modesti.
Grazie al suo maggiore discepolo, Rubljov ("novello Giotto"), si afferma il
superamento della tradizionale arte bizantina (volti allungati, barbe corte,
a volte leggermente appuntite, occhi particolarmente grandi ecc.) in una
nuova iconografia, detta appunto "russa" (volti più larghi, barbe lunghe,
occhi asiatici ecc.). Persino il volto di Cristo assume lineamenti russi.
Nell'architettura il passaggio si verifica soprattutto nella concezione
della cupola: da rotondeggiante che era diventerà appuntita, a forma di
bulbo di cipolla.
Tuttavia, la differenza maggiore nell'iconografia riguarderà la particolare
importanza che i russi, soprattutto con Rubljiov, ma anche con Dionisio,
vorranno dare ai sentimenti umani, al mondo interiore dei loro protagonisti,
di contro al carattere austero, rigoroso, oggettivo, ai limiti del
convenzionale tipico dell'iconografia tardo-bizantina.
Si ha insomma l'impressione che nella nuova arte russa i pittori si sforzino
di rappresentare più la psicologia dei personaggi (il lirismo delle loro
emozioni) che non il contenuto teologico del contesto in cui essi si
muovono.
Quest'arte, tuttavia, già sul finire del XVI sec. lascia intravedere i segni
della sua decadenza. Divenuta status-symbol del potere politico e religioso,
l'icona di trasforma in un oggetto di lusso, dove la forza creativa
dell'artista si concentra sul gusto per l'ornato, sulla ricchezza delle
vesti dei santi, sulle sontuose decorazioni del trono sul quale siede il
Cristo, ecc. Il vigore cromatico inevitabilmente si affievolisce. Si
arriverà addirittura a imprigionare l'icona di una rivestitura dorata o
argentata, rendendola così una sorta di opera di gioielleria.
Nel XVIII sec. l'arte sacra verrà progressivamente sostituita dall'arte
realistica, di contenuto
ICONA E ICONOGRAFIA La pittura di icone storicamente nasce dalla tecnica
dell'affresco, ma si è evoluta in maniera abbastanza complessa, soprattutto
per la preparazione della tavola, che non deve incurvarsi e deve essere
resistente agli agenti atmosferici.
La stesura dell'oro sul disegno, fatto a matita e poi inciso con un ago,
costituisce lo sfondo. Poi l'artista dipinge servendosi di colori fatti con
polveri naturali mescolate al giallo d'uovo.
Quando la pittura è terminata, si applica sulla superficie uno strato
protettivo, composto del migliore olio di lino e di varie resine, come
l'ambra gialla. Questa vernice imbeve i colori e ne fa una massa omogenea,
dura e resistente.
Alla sua superficie vengono fissate le polveri, e questo col tempo dà alla
massa una tinta scura. Se la si toglie, i colori appaiono al di sotto nel
loro splendore originale.
Essendo non soltanto il frutto di un'ispirazione artistica e di una certa
libertà nella tecnica, ma anche l'espressione di una tradizione ecclesiale,
le icone -stando al 2° Concilio di Nicea- possono essere considerate
autentiche solo se vi è un consenso della chiesa.
Il luogo liturgico fondamentale delle icone è il tempio e, nel tempio,
anzitutto l'iconostasi, cioè la parete che separa i fedeli dal santuario ove
si celebra il sacrificio.
Di regola gli iconografi sono dei monaci cui l'igumeno ha concesso
l'autorizzazione a dipingere.
Nel mondo slavo e bizantino la contemplazione delle icone aveva (ed ha) un
valore salvifico pari a quello della lettura delle Sacre Scritture. Di qui
l'accesa disputa passata alla storia col nome di "iconoclastia".
Tre sono le caratteristiche fondamentali di tutte le icone:
la luce naturale non ha alcun valore, ma sia essa che tutti i colori terreni
sono soltanto luce e colori riflessi; nell'icona quindi non c'è ombra o
chiaroscuro; il fondo e tutte le linee, le sottolineature d'oro vogliono
proprio significare una luce sovrannaturale;
la prospettiva è rovesciata, poiché le linee si dirigono in senso inverso
rispetto a chi guarda, cioè non verso un punto di fuga dietro il quadro, ma
proprio verso un punto esterno, che avvicina le linee allo spettatore, dando
l'impressione che i personaggi gli vadano incontro (i profili infatti non
esistono, se non per indicare i peccatori, né la tridimensionalità, in
quanto la profondità viene data solo spiritualmente, dall'intensità degli
sguardi);
le proporzioni delle figure, la posizione degli oggetti, la loro grandezza
non sono naturali (pesi e volumi non esistono), ma relative al valore delle
persone o delle cose: non esiste naturalismo o realismo (cioè la
ritrattistica), ma solo simbolismo.
Il corpo, sempre slanciato, sottile, con testa e piedi minuscoli, è
disegnato a tratti leggeri, e il più delle volte segue le linee delle volte
del tempio, in quanto la pittura dipende dall'architettura.
Tutto comunque è dominato dal volto, perché è da qui che il pittore prende
le mosse. Gli occhi sono molto grandi, fissi, a volte malinconici, sotto una
fronte larga e alta; il naso è allungato, le labbra sono sottili, il mento è
sfuggente, il collo è gonfio. Tutto per indicare ascesi, purezza,
interiorità...
Altro aspetto frequente che si trova nelle icone è la simmetria, che indica
un centro ideale al quale tutto converge.
In Europa occidentale l'iconografia è rimasta sostanzialmente di tipo
bizantino sino a Duccio di Boninsegna e Giotto, cioè sino al momento in cui
si è cominciato a introdurre la prospettiva della profondità, il chiaroscuro
naturalistico, il realismo ottico, perdendo così progressivamente il
carattere misterico e trascendente delle rappresentazioni sacre.
ANDREJ RUBLJOV
La prima voce nazionale nella storia della pittura russa
Le testimonianze biografiche su Andrej Rubljov sono eccezionalmente scarse.
La data della sua nascita è stata fissata, con approssimazione, al 1360. Non
si sa dove nacque. Poche delle sue opere si sono conservate fino ai nostri
giorni.
Le fonti storiche lo descrivono come "un uomo buono e pacifico, pieno di
serenità e limpidezza, attento studioso delle opere artistiche dei suoi
predecessori".
Di regola, gli antichi artisti russi non firmavano le loro opere, e le
cronache citano i loro lavori solo in casi straordinari, cioè quando i
committenti erano principi o alte autorità ecclesiastiche.
Viceversa, di Rubljov parlano cronache, leggende e il suo nome si è
tramandato nei secoli. La sua giovinezza cade nell'epoca in cui la Russia
umiliata dai tatari, vede, dopo la famosa battaglia di Kulikovo (1380), il
rifiorire delle sue forze morali, politiche e culturali. Rubljov è tra
quegli artisti che furono trascinati da questa ondata creativa.
Il primo accenno a Rubljov che troviamo nelle cronache risale al 1405, anno
in cui fu invitato a partecipare alla decorazione dell'iconostasi della
cattedrale dell'Annunciazione del Cremlino. Il suo nome segue quello di due
artisti più anziani, il famoso Teofane il Greco e lo starez Prochor di
Gorodec.
Durante il suo soggiorno moscovita, Rubljov creò anche un capolavoro d'arte
della miniatura: il Vangelo di Chitrovo.
Il 25 maggio 1408 il principe di Mosca Dmitrievic invia a Vladimir, la più
antica città in terra russa, i migliori artisti moscoviti, tra cui appunto
Rubljov, con l'incarico di ridipingere l'antica cattedrale dell'Assunzione,
decaduta durante i secoli di dominazione tatara.
Nel terzo decennio del XV sec. egli fu legato, per diversi anni, al
monastero della Trinità di S. Sergio di Radonez, che stava risorgendo dopo
la distruzione compiuta dai tatari nel 1409.
Sul luogo della chiesa di legno fu eretta, con pietra bianca, la cattedrale
della Trinità, conservatasi fino ai giorni nostri, nel monastero di s.
Sergio (oggi Zagorsk, nei pressi di Mosca). Per le icone e gli affreschi i
pittori designati nel 1424-26 furono soprattutto Rubljov e il suo
inseparabile amico Danil Cjornyj.
A questo periodo risale la sua famosa Trinità, il cui restauro è del 1904
(essa faceva parte dell'iconostasi della cattedrale; oggi si trova nella
Galleria Tetrjakov).
Lunghi anni come monaco Rubljov trascorre nel monastero di Andronikov, una
delle più antiche località di Mosca e grande centro culturale di fine sec.
XIV.
Verso la fine del terzo decennio del XV sec., in questo monastero si eresse
una cattedrale dedicata al "Salvatore non dipinto da mano umana", ora
considerata uno dei monumenti architettonici più antichi di Mosca. La
decorazione della cattedrale del Salvatore è l'ultima opera di Rubljov.
L'artista morì nel 1430, nello stesso monastero. Il luogo dove fu sepolto ci
è ignoto. Nel XVIII sec. esisteva ancora l'epigrafe tombale, che poi
scomparve.
Nel 1551, sotto il regno di Ivan il Terribile, allorché i problemi artistici
divennero questione di prestigio statale, fu emanata dal Concilio dei Cento
Capitoli un'ordinanza che prescriveva l'obbligo di dipingere le icone sul
modello di quelle di "Andrej Rubljov e degli altri celebrati pittori".
Il territorio del monastero di Andronikov è stato a lui consacrato e ospita
ora il Museo d'arte russa antica che ne reca il nome.
L'ICONA DELLA TRINITÀ
PREMESSA
Intorno agli anni 1420-22 il discepolo di s. Sergio di Radonez, s. Nicone,
incaricò i due grandi iconografi Rubljov e Cjornyj, di adornare di icone e
di affreschi la cattedrale della s. Trinità, che era stata costruita dopo la
distruzione compiuta dai tatari, nel 1409, del famoso monastero.
Gli affreschi della cattedrale non si sono conservati, ma l'iconostasi,
giunta fino a noi, costituisce un'assoluta rarità. Unanimemente considerata
la più bella icona russa, la Trinità faceva appunto parte di questa
iconostasi.
L'icona della Trinità raffigura l'episodio biblico dell'ospitalità di
Abramo. In Genesi 18,1-15 apparvero ad Abramo e Sara tre angeli per
annunciare loro la nascita di un figlio. I Padri e tutta la tradizione della
chiesa hanno sempre visto in questo episodio una prefigurazione della
Trinità.
Sul piano artistico l'icona non nasce dal nulla. P.es. in un mosaico del VI
sec. della chiesa di S. Vitale di Ravenna viene trattato lo stesso soggetto,
anche se non in forma così accentuatamente simbolica e idealizzata.
Nonostante la tradizione bizantina sia sempre stata molto restia a dipingere
la divinità, a partire dall'XI sec. si comincia a rappresentare la figura
del Padre come un'altra figura umana accanto a quella del Cristo.
Tuttavia, è solo con la Trinità di Rubljov che l'uguaglianza pittorica delle
due figure raggiunge livelli così elevati, e soprattutto è solo con Rubljov
che la terza figura, lo Spirito Santo, abbandona il simbolismo della
colomba -tipico delle raffigurazioni trinitarie- per assumere esplicitamente
una sembianza umana del tutto simile a quelle delle altre due figure.
Il Concilio dei Cento Capitoli (1551) dichiarerà tale icona modello
universale della rappresentazione della Trinità.
Nel 1904 la commissione di restauro ha tolto gli ornamenti metallici d'oro
che la ricoprivano e l'ha ripulita, cosnervandola nel museo Tretjakov di
Mosca.
L'intera produzione artistica di Rubljov, che si è conservata, è tornata ad
essere visibile negli affreschi scoperti a Vladimir nel 1918 dalla Sezione
per gli affari dei musei.
Per la sua acutezza eccezionale del senso del bello, l'icona della Trinità
di Rubljov viene oggi considerata dalla critica un capolavoro dell'arte
mondiale di tutti i tempi, in grado di suscitare ammirazione anche in chi è
estraneo alla religiosità.
LE ALTRE OPERE DI RUBLJOVDmitrij Solunskij (part.). Dipinta nel 1405. La
snellezza, la morbida grazia differenziano il giovane Dmitrij dalle severe e
grandiose figure di Teofane il Greco. I tratti del volto pensieroso sono
fini e gentili. È un tipo russo, non orientale.
La Vergine (part.). Dipinta nel 1408. L'esile Madonna s'inchina davanti al
Cristo. Il suo aspetto è pieno di dolore e di silenzio. La grazia femminile
è sottolineata dalle fluenti linee della testa e delle spalle, che
conferiscono a tutta la figura leggerezza e raffinata eleganza.
Il Giudizio Universale: il Salvatore in gloria (part.). Dipinta nel 1408.
Paludato d'oro, in un atteggiamento pieno di forza e di slancio, il Cristo
fluttua libero e leggero in una mandorla azzurra. Sfiorando col piede il
cerchio, è come se ne uscisse, rendendo la figurazione satura di movimento.
Il Salvatore in gloria (part.). Dipinta nel 1408. Il Cristo figura qui come
seconda persona della Trinità. È assiso su un trono invisibile, iscritto in
figure geometriche che racchiudono i volti alati delle intelligenze
incorporee e i simboli degli evangelisti.
Il Pantocratore (part.). Dipinta tra il 1410 e il 1420. Incarna l'immagine
ideale del Cristo russo. La sua bellezza e baldanza sono tipicamente russe e
nel suo aspetto tutto è finemente tracciato.
L'arcangelo Michele (part.). Dipinta tra il 1410 e il 1420. Nella lirica
pensosità dell'arcangelo s'indovinano una dolce malinconia e la
contemplazione del sublime.
Giovanni Battista (part.). Dipinta tra il 1410 e il 1420. L'immagine è piena
di calma e di concentrazione. Le sopracciglia diritte, ravvicinate alludono
alla tensione del pensiero. La contemplazione è interpretata da Rubljov come
rigida ascesi.
L'apostolo Paolo (part.). Dipinta tra il 1410 e il 1420. Per Rubljov
l'apostolo è considerato come "saggio maestro d'amore", come ideale umano
universale del pensatore.
I testi fondamentali cui si è fatto riferimento sono: V. N. Lazarev, L'arte
russa delle icone, ed. Jaca Book, Milano 1996; V. Ivanov, Il grande libro
delle icone russe, ed. Paoline, Roma 1987; P. N. Evdokimov, Teologia della
bellezza, ed. Paoline, Roma 1981; E. Trubeckoj, Contemplazione nel colore.
Tre studi sull'icona russa, ed. La casa di Matriona, Milano 1977.
Contrario all'interpretazione di Evdokimov è N. Greschny, L'icone de la
Trinité de Rubljov, ed. Lion de Juda, 1986.
A. Vetelev, La teologia della "Trinità" di Rubljov, in "Russia cristiana",
n. 137/1974.
I F.lli Fabbri ed., nella collana "I maestri del colore", hanno stampato nel
1966 una rassegna delle opere di Rubljov.
Da questo libro: A. Tarkovskil, Andrej Rubljov, ed. Garzanti, è stato tratto
l'omonimo film. Ma vedi anche, A. Koncalovskij - A. Tarkovskij, Rublev, il
pittore di icone. Romanzo cinematografico, ed. Maggioli.
La Galleria Tretjakov può essere visionata, in lingua italiana, nel volume
di V. Volodarskij, presso le ed. Progress 1977 di Mosca.
Di carattere più generale si consiglia, E. Sendler, L'icona, immagine
dell'invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica, ed. Paoline, Roma
1989; H. e M. Schmidt, Il linguaggio delle immagini. Iconologia cristiana,
ed. Città Nuova, Roma 1988; E. Panofsky, Il significato delle arti visive, e
Studi di iconologia, entrambi dell'ed. Einaudi; E. Gombrich, Immagini e
simboliche, ed. Einaudi (pp. 3-37); M. G: Muzj, Trasfigurazione.
Introduzione alla contemplazione delle icone, ed. Paoline, Roma 1988; P.
Evdokimov, L'ortodossia, ed. Il Mulino, Bologna 1966 (pp. 312-337).
Nella rivista "Rassegna sovietica" (4/1983) si può trovare l'art. di V.
Nikol'skij, Storia dell'arte russa, in cui si parla di Rubljov. Nella
rivista "Il Corriere dell'Unesco" un importante contributo su Kiev, 1500 di
cultura (n. 4/1982). Più in generale, nella rivista "Oriente cristiano" il
saggio Sviluppo e prestigio delle icone alla fine del Medioevo, di T.
Velmans (n. 1-2/1982), l'intervento di P. Gianfriddo, L'icone (n. 1/1983) e
quello dell'archim. Daniele (Gelsi), Le icone, evocatrici dei misteri
liturgici (n. 2/1983).
Un'interessante monografia sulla storia della Russia si può trovare presso
la Giunti, J.P. Arrignon - F. Guida, La Russia ha mille anni (inserto
allegato alla rivista "Storia e Dossier", n. 15/1988).
Sull'argomento specifico della iconografia italiana si rimanda al vol.
L'Altomedioevo (della serie Pittura in Italia), ed. Electa 1995 (in
particolare l'intervento di Anthony Cutler).
Tra i classici, G. Damasceno, Difesa delle immagini sacre, ed. Città Nuova,
Roma 1983.
Su Andrej Rubljov:
http://hannover.park.org/Guests/Russia/moscow/sergiev/rublev.html
http://redsun.cs.msu.su/moscow/rublev/rublev.html
Sul cristianesimo orientale
Su Bisanzio in Italia
Sulla confessione ortodossa:
www.ortodossia.it
digilander.iol.it/ortodossia/
orthodoxworld
www.geocities.com/Heartland/Plains/9226/
altri siti
Sulla Russia:
http://www.geocities.com/Athens/Oracle/6118/RussianPage.html
Sul film di Tarkovsky
http://www.aspide.it/piazza/poiesis/andreij.htm
Sull'arte bizantina
http://it.geocities.com/finestrasullinfinito
STORIA DELL'ICONOCLASTIA
Durante il primo stadio di espansione delle icone (VI-VII sec.), né
l'amministrazione delle chiese né i teologi erano intervenuti per favorire
il culto delle immagini, che doveva il suo successo alle credenze sparse in
larghi strati popolari fin da epoche remote.
Tuttavia, proprio nel 725 fu emanato dal basileus Leone III Isaurico il
primo editto che ordinava la rimozione delle icone dalle chiese. Formalmente
il motivo fu che stava dilagando la superstizione; in realtà si stava
cercando un pretesto per tenere la chiesa subordinata allo Stato e per
stabilire un compromesso tra cristianesimo e islam al fine di contenere
l'espansione di quest'ultimo.
"Gli Arabi, che da decenni percorrevano in lungo e in largo l'Asia Minore,
non portavano a Bisanzio solo la spada, ma anche la loro cultura, e insieme
a questa, la loro caratteristica ripugnanza nei confronti della riproduzione
delle sembianze umane. L'iconoclastia nasceva così nelle regioni orientali
dell'impero da un caratteristico incrocio di un'accezione rigorosamente
spirituale della fede cristiana, con le dottrine di settari iconoclasti e le
concezioni delle antiche eresie cristologiche, come anche gli influssi di
religioni non cristiane, il giudaismo e soprattutto l'Islam"(G. Ostrogorsky,
Storia dell'impero bizantino, Einaudi, Torino 1975).
Tra gli oppositori più significativi vi era papa Gregorio II che fu punito
da Leone III con la confisca di importanti territori: il che indusse la
chiesa romana a rivolgersi decisamente verso i Franchi (come noto, nell'800
il papato incoronerà Carlo Magno col titolo di imperatore del sacro romano
impero, in aperta violazione del diritto imperiale bizantino, e di lì a poco
scatenerà la questione dogmatica del Filioque per potersi separare
definitivamente anche sul piano ideologico).
Il periodo iconoclasta terminò al Concilio Niceno II del 787 e
definitivamente nell'843, dopo la morte dell'imperatore Teofilo, cui
successe la moglie Teodora. Finalmente si era capito, grazie soprattutto
alle teologie di Giovanni Damasceno, Teodoro Studita e Niceforo di
Costantinopoli, non solo che parola e immagine hanno la stessa dignità, ma
anche che la venerazione dell'immagine va distinta dall'adorazione di ciò
che essa rappresenta.
Nel corso del X secolo la chiesa s'impossessò dell'iconografia (ma anche
della miniatura e della pittura murale) come di una bandiera, capace di
servire, ancor meglio dei testi, la sua ideologia. Decisivo infatti fu il
contributo di questa forma di trasmissione dell'ideologia per la conversione
di popoli come quello bulgaro, serbo e russo.
Oriente ed Occidente avevano dunque combattuto insieme l'errore iconoclasta,
ma l'atteggiamento successivo fu molto diverso: l'Occidente ha preferito la
strada del razionalismo, relegando progressivamente ai margini dell'arte
cristiana il simbolismo.
La nuova iconografia di Giotto assecondò questa esigenza, creando un ciclo
di immagini di argomento sacro, ma di natura esclusivamente narrativa, in
ottemperanza all'estetica occidentale dei libri carolini, che dava una
giustificazione didattico-estetica della presenza delle immagini ma non del
loro culto. Esse erano sacre per la fede soggettiva dello spettatore o
dell'autore, non per un'oggettiva ispirazione concessa all'artista credente,
né tanto meno per essere quello che a Bisanzio erano state considerate:
presenze vive che guardavano, non materia morta che era guardata.
GIOTTO
In Italia, le ultime tracce della cultura bizantina si conservarono
soprattutto nella pittura religiosa, che venne rivoluzionata da Giotto. Il
maggior centro della cultura bizantina, in tutta l'Europa occidentale, era
Venezia, dove si cercava di modificare quella tradizione iconografica
restando però fedeli, in linea di massima, a certe regole stilistiche
fondamentali. Invece in Toscana il superamento fu netto, sia a livello
formale che di contenuto.
Giotto s'inserisce in una tradizione ben precisa, che trova il massimo di
compromesso possibile fra la salvaguardia dei canoni bizantini e le esigenze
di modernità della borghesia: quella di Cimabue, che aveva esasperato a tal
punto la maniera orientale di dipingere da rendere inevitabile, con Giotto,
il suo definitivo eclissarsi.
In effetti, la pittura bizantina italiana del XIII sec. rappresentava -agli
occhi della borghesia e di quella generazione di artisti sorti in ambito
borghese- un passato troppo remoto perché valesse la pena conservarlo
limitandosi a modificarlo, attualizzandolo, in alcune sue parti (come
appunto aveva fatto Cimabue). L'esigenza che s'imponeva era quella di una
revisione radicale e totale dei canoni iconografici tradizionali.
Il processo di svecchiamento di questi canoni fu in Occidente molto lento,
perché la pittura d'icone era un'arte molto antica e complessa (alcuni
studiosi ritengono che le sue origini risalgano alle maschere funebri
egiziane): essa implicava non solo una grande perizia tecnica ma anche
un'alta spiritualità da parte dell'iconografo (in Oriente il valore di ogni
opera pittorica era relativo al modo come essa sapeva conservare la memoria
del passato).
Nell'Italia caratterizzata, più di ogni altra nazione europea, dallo
sviluppo mercantile dei rapporti di produzione, tale pittura rappresentava
la conservazione di rapporti sociali anacronistici, basati sul predominio
delle classi possidenti e aristocratiche. Lo stesso potere religioso
continuava a servirsi di quella pittura in contrasto con il suo progressivo
distacco dalla tradizione e dalla teologia bizantina. Se ne serviva non
tanto perché credesse nel suo valore artistico, quanto perché nessun'altra
pittura era in grado di reggere il confronto.
Esisteva quindi una duplice antinomia: una fra pittura bizantina e prassi
borghese, un'altra fra pittura bizantina e teologia cattolica. La chiesa
romana temeva che un mutamento improvviso di genere artistico potesse
compromettere la sua stabilità, ma ben presto si renderà conto (grazie
appunto all'impresa di Giotto) che un rinnovamento del genere avrebbe potuto
contribuire proprio a tale stabilità.
Per superare la tradizione orientale, Giotto recuperò le tradizioni latine
naturalistiche dell'Occidente, dando ad esse una significato conforme agli
interessi della piccola e media borghesia dell'epoca signorile (affreschi di
Assisi). Per poter imporre la sua ricerca, egli approfittò del momento in
cui la curia romana commissionò i lavori per la decorazione della basilica
superiore di Assisi.
All'inizio i lavori vennero eseguiti da alcuni famosi pittori d'ispirazione
bizantina, come Cimabue, Duccio, Torriti e altri pittori romani. In seguito,
nonostante l'avversione dei seguaci più intransigenti degli ideali
francescani di umiltà e povertà, e con l'appoggio di coloro che volevano
l'ordine maggiormente inquadrato nell'azione politico-religiosa della curia,
Giotto ebbe il nulla osta definitivo. Addirittura fruì della possibilità di
diventare unico protagonista del nuovo ciclo, per la parte inferiore della
navata, in virtù dell'iniziativa spregiudicata del nuovo generale dei
Francescani.
La serie giottesca delle storie di Francesco non ha carattere biografico o
agiografico, ma concettuale e dimostrativo, pur nel rispetto convenzionale
delle fonti storiche e leggendarie dell'epoca. La bellezza della sua arte -
dirà giustamente il Petrarca - si afferma più coll'intelletto che con gli
occhi. Il suo rinnovamento infatti è soprattutto ideologico e, in questo
senso, va considerato superiore a quelli avvenuti nell'architettura e nella
scultura di quel periodo.
Francesco, nei dipinti di Giotto, non ha l'umiltà disarmante ritratta dal
Cimabue, né quel carattere di "unicità" che si riscontra nei pittori della
scuola bizantina italiana; egli è piuttosto una persona piena di dignità e
autorità morale (la cui azione riformatrice trova un riflesso anche sul
terreno politico-istituzionale, in quanto il papato è visto da Giotto come
suprema garanzia di ortodossia del movimento francescano). Francesco è in
sostanza un riformatore etico-religioso della chiesa, legato a un grande e
pacifico movimento, senza pretese politico-eversive, che la curia non
avrebbe mai potuto riconoscere. Non è un uomo che rifiuta le norme sociali
del convivere borghese proponendo una concezione di vita alternativa, ma è
un uomo che si sforza di rendere più accettabile, più umana, la stessa vita
borghese.
Nella Rinuncia ai beni paterni Francesco appare come se fosse già stato
accettato dalla chiesa e, in mezzo agli astanti borghesi, solo il padre
(appunto in quanto "padre" e non anche in quanto appartenente a una
"classe") si scandalizza. La borghesia cioè sembra già essere consapevole,
proprio come la chiesa, che Francesco non sarebbe mai stato un
rivoluzionario. Essa era già convinta che la sua scelta di povertà sarebbe
stata fatta a titolo individuale, solo sul piano morale, per cui non avrebbe
implicato alcun mutamento sociale. Le ambiguità dello stesso movimento
francescano potevano facilmente indurre a formulare un'interpretazione del
genere. Nel Presepe di Greccio l'intesa fra chierici e notabili è ancora più
evidente. (per un'analisi del movimento francescano clicca qui)
Nel Dono del mantello al cavaliere povero non v'è traccia della povertà. Il
gesto è del tutto isolato. Il postulante non sembra affatto povero e neppure
Francesco. Il paesaggio, sullo sfondo, è borghese ed ecclesiastico: i due
poteri, che convivono in una felice sintesi, convergono entrambi nella
figura centrale del santo. Lo spazio, alla sua sinistra, è stato riempito in
maniera infelice da un cavallo a grandezza naturale, che sminuisce
l'importanza del santo. Il gesto caritatevole di Francesco peraltro è
rituale, formale, quasi dovuto o doveroso, non è spontaneo e neppure nasce
da esigenze sociali visibili. Francesco è senza discepoli, al centro, a
testimonianza che l'esperienza religiosa borghese può essere vissuta anche
in modo del tutto individuale.
Giotto infatti ha esaltato l'individuo singolo, legato alla natura, alla
storia, alla quotidianità dei rapporti borghesi e, paradossalmente, ha
finito col privilegiare il contesto spaziale, la costruzione geometrica,
lineare, prospettica. Le parti più importanti e difficili non sono le figure
o le teste dei protagonisti ma particolari secondari, decisivi però ai fini
della costruzione spaziale.
Tutte le sue innovazioni tecniche e stilistiche volevano essere in funzione
anti-bizantina: dalla visione plastica realizzata mediante il chiaroscuro,
al rapporto tridimensionale delle forme rispetto allo spazio,
dall'equivalenza tra figure e natura, alla subordinazione del colore al
disegno... Giotto non concesse nulla ai colori vivaci della tradizione
orientale, anzi decise di abolire la "luce" (espressa con l'oro),
sostituendola con la profondità dello spazio. La sua visione insomma è
plastico-spaziale.
La pittura bizantina esprimeva, in chiave profetica, il distacco dalle cose
terrene per un ideale irrealizzabile nel mondo; la pittura giottesca invece
aspira a realizzare una riconciliazione tra ideale e reale in nome
dell'esigenze di rinnovamento della borghesia. In luogo della simbologia
Giotto preferisce il realismo, in luogo della mistica spiritualità il
materialismo e il razionalismo.
Questo rinnovamento, di per sé, va considerato positivamente, almeno fino a
quando lo sviluppo borghese della società presenta dei tratti progressivi.
In effetti, non fa problema che Giotto, alla subordinazione dei personaggi
religiosi rispetto all'insieme architettonico del tempio, abbia sostituito
la subordinazione di tali personaggi alla società del loro tempo: il
problema semmai subentra allorché le contraddizioni della società borghese
diventano così acute da richiedere un'alternativa reale. Ecco, se in questo
senso si può tranquillamente affermare che Giotto ha saputo togliere
all'esperienza religiosa la sua presunta alternatività alla prassi borghese,
non si può dire con altrettanta certezza ch'egli abbia anche saputo
individuare un'alternativa laica, umanistica, veramente credibile, a tale
prassi.
Sin dall'inizio egli ha pensato di fare dell'esperienza francescana una
proposta di vita meno esigente di quella che in effetti fu, e più alla
portata della borghesia. Francesco infatti assume le sembianze, nella sua
pittura, non di un portavoce degli oppressi, ma di un mediatore fra masse e
potere, ufficialmente riconosciuto sia dal clero che dalla borghesia. Quel
"poverello d'Assisi" divenuto tale proprio in seguito a una polemica
anti-borghese, che pur mai si radicò in un'opposizione politica esplicita
(come ad es. in un Arnaldo da Brescia), si trasforma nella pittura di Giotto
in un'istituzione che legittima, seppure dal punto di vista moralistico
della piccola borghesia, la società divisa in classi. In pratica la pittura
di Giotto poteva benissimo diventare uno strumento utile alla grande
borghesia e alle classi egemoni, strettamente legate al potere della chiesa,
perché le classi medio-basse -dopo decenni di dura lotta politico-religiosa
condotta dai movimenti ereticali- riconvergessero verso le istituzioni.
La particolare grandezza di Giotto sta quindi nell'aver saputo superare la
crisi della pittura bizantina, che in Occidente (e soprattutto nell'Italia
del '200) non rispecchiava più in modo adeguato le caratteristiche
dell'esperienza socio-religiosa della borghesia, divenuta classe egemone in
molte città e signorie italiane. Egli ha saputo perfettamente riflettere, a
livello artistico, la progressiva laicizzazione della religiosità
tardo-medievale, ponendo così le basi di tutta la pittura moderna.
Tuttavia, il suo realismo e il suo naturalismo umanistico non hanno mai
raggiunto l'altissima profondità ideale e spirituale della migliore pittura
bizantina, né sono mai riusciti a evidenziare una reale alternativa laica
alla concezione di vita borghese. Giotto ebbe la pretesa di "umanizzare" o
"laicizzare" la religione, adeguandola alle esigenze della borghesia, ma non
è riuscito ad essere coerente con questa sua pretesa: non tanto perché si
limitò a dipingere unicamente soggetti religiosi (allora era inevitabile),
quanto perché non è riuscito ad andare sino in fondo nel suo originale
tentativo di modernizzazione.
Lo dimostra il ritorno (seppur limitato) ai moduli bizantini nel soggiorno
padovano, ove egli s'accorge che la sua rivoluzione era suscettibile di una
strumentalizzazione politica da parte del potere borghese ed ecclesiastico.
Egli a Padova (che era influenzata dalla tradizione bizantina di Venezia)
mira a superare, ma invano, quella strumentalizzazione accentuando gli
aspetti patetici, lirici, sentimentali della propria pittura. In questo
periodo fu molto sentito il suo rapporto con Dante, anch'egli profondamente
deluso dagli atteggiamenti della classe borghese fiorentina.
A Padova insomma c'è già la sfiducia nei confronti dell'agire borghese; c'è
già, in nuce, la crisi del '300, ovvero il progressivo rinchiudersi
dell'intellettuale e dell'artista borghese nel lirismo soggettivo,
aristocratico, lontano dalla storia, dalle vicende concrete del movimento
urbano.
L'ottimismo epico espresso ad Assisi, sconfitto dalla prosaicità della
prassi borghese, si tramuta, nelle pareti della Cappella degli Scrovegni con
le storie della Madonna e del Cristo, in uno sconsolato e tragico
pessimismo. Il suo capolavoro è il Compianto su Cristo morto, dove
disperazione e rassegnazione, pur nella compostezza dei gesti, appaiono
totali. Nella Pentecoste il fallimento dell'ideale è così evidente che
l'edificio ecclesiastico s'impone di prepotenza sugli apostoli, li
schiaccia, li comprime, alcuni di loro vengono addirittura nascosti. La
Pentecoste avviene all'interno di un'istituzione già ben definita, chiusa.
Nel Bacio di Giuda Gesù sembra che "debba" essere tradito e che la sua
volontà si realizzi proprio nel rispetto del destino che gli è stato
riservato. La sua estrema compostezza e rassegnazione lo indica. Tutto il
resto conta poco, è puramente coreografico. La figura centrale non è Cristo
ma Giuda, non è il "bene" ma il "male", non è la "speranza" ma la
"disperazione", proprio perché il "bene" non può trionfare su questa terra e
Pietro che recide l'orecchio di Malco appare come un illuso. Il gruppo di
guardie che catturano Gesù è fermo, compatto, tranquillo, sicuro di vincere:
ad esso si oppone soltanto l'incredibile imperturbabilità del Cristo.
La riconciliazione di Giotto con la realtà meschina, gretta, della
borghesia, si manifesta pienamente a Firenze, negli affreschi di Santa Croce
(cappella Peruzzi e Bardi). Il compromesso fra istituzioni e lirismo (vedi
anche l'incarico ricevuto da Bonifacio VIII per l'affresco del Giubileo) è
cercato da Giotto come una necessità, certo non come un'esigenza.
Questa volta a Francesco viene riservato lo stesso destino che a Padova egli
riservò al Cristo. Nelle Esequie di s. Francesco appare chiaro che le
istituzioni sono interessate solo a servirsi del "fenomeno", del personaggio
singolare (un esponente del potere verifica addirittura l'autenticità della
stigmata del costato), mentre i discepoli ne compiangono amaramente la morte
(fra gli stessi discepoli si distingue chiaramente il gruppo di quelli che
piangono dal gruppo di quelli che accettano con tranquillità la morte del
santo).
Che Giotto fosse un artista abilissimo nei suoi affari è risaputo: "fu forse
l'unico artista fiorentino del Trecento che abbia saputo diventare veramente
ricco" - ha scritto Antal. Affittava telai a tessitori troppo poveri per
procurarsi questi strumenti e ne traeva un profitto annuo del 120%,
aggirando così l'accusa d'essere un usuraio. E siccome operava anche come
mallevadore di prestiti, se il debitore non era in grado di pagare,
procedeva subito per le via legali e si arricchiva a loro spese: nel 1314 si
valse di sei legali in atti contro debitori morosi o insolventi. Era di
continuo occupato nell'esazione di crediti.
D'altra parte Giotto non ebbe mai nulla a che fare col movimento francescano
degli Spirituali ma solo con quello dei Conventuali, il potente ordine di
frate Elia. Egli si servì della pittura per emanciparsi dalle miserie della
vita contadina.
I critici, nei manuali di storia dell'arte in uso nelle scuole, trattano
poco degli aspetti riguardanti la funzione ideologica dell'arte, o dei
rapporti fra arte, storia, società, economia... L'interpretazione prevalente
è quella estetica, tecnica, stilistica, formale... Esattamente come nei
manuali di letteratura i nessi prevalenti sono semplicemente quelli di
lingua e stile.
Gli autori di questi manuali, siano essi classici come l'Argan o moderni
come il De Vecchi-Cerchiari, per quanto riguarda Giotto, non riescono a
cogliere il lato conservatore della sua pittura, sia perché hanno forti
pregiudizi nei confronti della pittura bizantina, sia perché -e questo è
peggio- sono strettamente legati alle concezioni borghesi del vivere
quotidiano.
Ad es. le ieratiche icone vengono generalmente definite prive di pathos,
perché troppo rigide, piatte o bidimensionali, senza prospettiva, senza
spazio, troppo convenzionali, troppo simboliche per essere vere, totalmente
prive di movimento peso volume... Si è persino arrivati a criticare gli
iconografi bizantini per la loro mancanza di conoscenze anatomiche! E questo
nonostante che la riscoperta della pittura bizantina sia avvenuta in Russia
sin dall'inizio del XX sec. (si pensi solo all'importanza di Rubljov) e in
Italia già verso la metà degli anni '70 del Novecento.
Il fatto è che ci sono alcuni miti da sfatare che permangono inalterati da
secoli e che rarissimamente si mettono in discussione. Il primo in assoluto
è quello secondo cui con Giotto sarebbe nata la cosiddetta pittura
"realistica"; in realtà è nata la pittura "astratta".
Poiché è stata la pittura giottesca (ivi inclusi i critici ad essa
contemporanea) a considerare "astratta" quella bizantina, oggi i critici
ribadiscono il medesimo principio, senza rendersi conto che se la pittura
bizantina poteva apparire "astratta" a una cultura che non rifletteva più i
valori che supportavano quella pittura, la pittura giottesca appariva
"astratta" proprio a quella medesima cultura. I pittori bizantini, p.es.,
rifiutavano il concetto di "prospettiva" perché avevano intuito che con essa
si toglieva intensità allo sguardo.
Bisogna dunque intendersi sul concetto di "astrazione", poiché la pittura
giottesca è solo apparentemente più vicina ai canoni del "realismo" e del
"naturalismo". Infatti questa pittura è astratta, e lo sarà tutta quella che
proseguirà sulla sua scia, proprio in quanto anzitutto pretende di offrire
una rappresentazione della realtà basata su dei rapporti matematici.
A partire dalla sua pittura lo spazio viene raffigurato come un "corpo
cavo", dove la profondità non è più data dall'intensità degli sguardi dei
soggetti, ma dalla prospettiva, che diventa misurabile, appunto perché
geometrica, matematica. Giotto appare come un architetto che dipinge.
Le sue figure diventano significative solo in quanto sono inserite in un
contesto prospettico, e in questo la prevalenza non viene più concessa
all'umano ma allo spazio che lo deve contenere, e in tale spazio non
esistono, propriamente parlando, personaggi più significativi di altri, anzi
spesso le raffigurazioni di animali o di cose naturali possono risultare più
incisive di quelle degli esseri umani.
La profondità della scena rappresentata non è più "spirituale" ma "fisica".
La realtà non viene presa così com'è per essere trascesa (cosa che faceva
l'iconografia bizantina), ma per essere giustificata. Giotto ha inaugurato
l'antropocentrismo - e qui sta il suo merito - ma di una classe particolare:
quella borghese, che di umanistico non ha nulla.
La sua pittura, pur essendo basata su dei rapporti matematici e quindi
oggettivi, risulta alquanto individualistica, nel senso che la scena da
dipingere viene situata in un contesto creato arbitrariamente dall'artista.
Lo spazio viene strutturato sulla base di un punto di vista soggettivistico,
che determina un rapporto intellettualistico con la realtà. Tant'è che il
contenuto religioso dell'opera giottesca è in definitiva irrilevante
rispetto alla forma con cui si è scelto di rappresentarlo.
Giotto infatti, pur trattando temi religiosi, non vuole parlare di questi
temi, ma usando questi temi egli vuole introdurre un modo diverso di vedere
la realtà, un modo che è "religioso" nella forma e "borghese" nella
sostanza, e volendo rappresentarli in questa maniera forzata, è costretto a
trasformare l'aspetto religioso in una banalità. Dice Hegel, nella sua
Estetica: "A causa di questa tendenza venne perdendosi, relativamente
parlando, quella grandiosa, sacra austerità posta a fondamento nei gradi
maggiori dell'arte precedente. Il mondano prese posto e si estese; e,
secondo lo spirito del tempo, anche Giotto, accanto al patetico, accolse il
burlesco".
L'artista non fa più parte di una tradizione consolidata, che deve
trasmettere, ma di questa tradizione coglie i punti deboli per operare, in
virtù del proprio genio personale, un'inversione di tendenza. Giotto infatti
si basa su degli antecedenti che porta a piena maturazione e inaugura un
modello di pittura che farà scuola per gran parte della pittura occidentale.
Il suo non è stato un intervento estemporaneo, anche se indubbiamente egli
ha operato una rottura radicale, mai tentata prima di lui, e che risulterà
irreversibile per la pittura italiana ed europea. La piena maturazione del
processo da lui inaugurato avverrà solo nel '400, con l'Umanesimo.
Si badi, qui non si vuole mettere in discussione il fatto che la pittura
religiosa bizantina andasse superata sulla base di canoni umanistici e
naturalistici; si vuole semplicemente costatare che la scelta operata da
Giotto, che è all'origine della pittura moderna, non può essere considerata
una vera alternativa alla pittura bizantina. Con Giotto nasce il tentativo
di emanciparsi dalla religione dal punto di vista della classe mercantile. E
da questo punto di vista non è possibile un vero e proprio superamento della
religione. Tra borghesia e religione vi è sempre stato un compromesso e una
reciproca strumentalizzazione.
Sotto questo aspetto sarebbe interessante se in futuro potesse nascere una
pittura capace di unificare la profondità ontologica della tradizione
bizantina con la razionalità laico-umanistica della tradizione giottesca. O
comunque sarebbe interessante se tradizioni opposte potessero convivere
pacificamente, cercando nella reciproca diversità elementi di crescita
comune.
AFFRESCHI FAMOSI DI GIOTTO
Il compianto su Cristo morto
(1303-05, Padova, Cappella degli Scrovegni)
Rinuncia ai beni paterni
(1295-1300, Assisi, Basilica superiore di S. Francesco)
S. Francesco dona il mantello al povero cavaliere
(1290-95, Assisi, Basilica superiore di S. Francesco)
VASARI CIRCA GIOTTO:
GIOTTO, Pittor Fiorentino
Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale
continuamente per essempio serve a quegli che, cavando il buono da le parti
di lei piú mirabili e belle, di contrafarla sempre s'ingegnano, il medesimo
si deve avere a Giotto. Perché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle
ruine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli
solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quella ch'era
per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamar buona.
E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta
avesse forza d'operare in Giotto sí dottamente, che 'l disegno, del quale
poca o nessuna cognizione avevano gli uomini di que' tempi, mediante sí
buono artefice, ritornasse del tutto in vita. E nientedimeno i principii di
sí grande uomo furono nel contado di Fiorenza, vicino alla città xiiii
miglia.
Era l'anno mcclxxvi nella villa di Vespignano uno lavoratore di terre, il
cui nome fu Bondone, il quale era tanto di buona fama nella vita e sí
valente nell'arte della agricoltura, che nessuno che intorno a quelle ville
abitasse era stimato piú di lui. Costui, nello aconciare tutte le cose, era
talmente ingegnoso e d'assai, che dove i ferri del suo mestiero adoperava,
piú tosto che rusticalmente adoperati e' paressino, ma da una mano che
gentil fussi d'un valente orefice o intagliatore, mostravano essere
esercitati. A costui fece la natura dono d'un figliuolo, il quale egli per
suo nome alle fonti fece nominare Giotto.
Questo fanciullo, crescendo d'anni, con bonissimi costumi e documenti
mostrava in tutti gli atti, ancora fanciulleschi, una certa vivacità e
prontezza d'ingegno straordinario ad una età puerile. E non solo per questo
invaghiva Bondone, ma i parenti e tutti coloro che nella villa e fuori lo
conoscevano. Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di x anni, gli aveva
Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno
quando in un luogo e quando in un altro l'andava pasturando, e venutagli
inclinazione da la natura dell'arte del disegno, spesso per le lastre, et in
terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di
naturale, o vero che gli venissi in fantasia.
E cosí avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, transferendosi
per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò
nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore
pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco
apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo
nessuno altro che dallo estinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue,
e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco. Rispose
il fanciullo che, se il padre suo ne fosse contento, ch'egli contentissimo
ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di
singular grazia glielo concesse.
Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il
fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della
natura, che ne' tempi suoi sbandí affatto quella greca goffa maniera, e
risuscitò la moderna e buona arte della pittura, et introdusse il ritrar di
naturale le persone vive, che molte centinaia d'anni non s'era usato. Onde,
ancor oggi dí, si vede ritratto, nella cappella del Palagio del Podestà di
Fiorenza, l'effigie di Dante Alighieri, coetaneo et amico di Giotto, et
amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran
pittore impresse; come tratta Messer Giovanni Boccaccio in sua lode, nel
prologo della novella di Messere Forese da Rabatta e di Giotto.
Furono le sue prime pitture nella Badia di Fiorenza, la cappella dello altar
maggiore, nella quale fece molte cose tenute belle; ma particularmente in
una storia della Nostra Donna, quando ella è annunziata da l'Angelo, nella
quale contrafece lo spavento e la paura, che nel salutarla Gabriello la fé
mettere con grandissimo timore quasi in fuga. Et in Santa Croce quattro
cappelle, tre poste fra la sagrestia e la cappella grande: nella prima, e
dove si suonono oggi le campane, vi è fatto di sua mano la vita di San
Francesco, e l'altre due, una è della famiglia de' Peruzzi e l'altra de'
Giugni, et un'altra dall'altra parte di essa cappella grande.
Nella cappella ancora de' Baroncelli è una tavola a tempera, con diligenza
da lui finita, dentrovi l'Incoronazione di Nostra Donna con grandissimo
numero di figure picciole et un coro d'angeli e di santi, fatta con
diligenzia grandissima, et in lettere d'oro scrittovi il nome suo. Onde gli
artefici, che consideraranno in che tempo questo maraviglioso pittore, senza
alcun lume della maniera, diede principio al buon modo di disegnare e del
colorire, saranno sforzati averlo in perpetua venerazione.
Sono ancora in detta chiesa altre tavole, et in fresco molte altre figure,
come sopra il sepolcro di marmo di Carlo Masupini aretino, un Crocifisso
con la Nostra Donna e San Giovanni e la Magdalena a' piè della Croce. E da
l'altra banda della chiesa, sopra la sepoltura di Lionardo Aretino, una
Nunziata verso l'altare maggiore, la quale è stata ricolorita da altri
pittori moderni, come nel refettorio uno albero di croce e storie di San
Lodovico et un Cenacolo; e nella sagrestia, ne gli armarii, storie di Cristo
e di San Francesco.
Nel Carmino, alla cappella di San Giovanni Batista, lavorate in fresco tutte
le storie della vita sua, e nella Parte Guelfa di Fiorenza una storia della
fede cristiana in fresco, dipinta perfettissimamente. Fu condotto ad Ascesi
a finir l'opera cominciata da Cimabue, dove passando da Arezzo lavorò nella
pieve la cappella di San Francesco sopra il battesimo, et in una colonna
tonda, vicino a un capitello corinzio antico bellissimo, dipinse un San
Francesco e San Domenico. Al duomo fuor d'Arezzo una cappelluccia, dentrovi
la Lapidazione di Santo Stefano con bel componimento di figure.
Finite queste opere si condusse ad Ascesi, a l'opra cominciata da Cimabue,
dove acquistò grandissima fama, per la bontà delle figure che in quella
opera fece, nelle quali si vede ordine, proporzione, vivezza e facilità
donatagli dalla natura e dallo studio accresciuta, percioché era Giotto
studiosissimo e di continuo lavorava. Et allora dipinse nella chiesa di
Santa Maria de gli Agnoli e, nella chiesa d'Ascesi de' frati minori, tutta
la chiesa dalla banda di sotto. Sentí tanta fama e grido di questo mirabile
artefice Papa Benedetto XII da Tolosa che, volendo fare in San Pietro di
Roma molte pitture per ornamento di quella chiesa, mandò in Toscana un suo
cortigiano, che vedesse che uomo era questo Giotto e l'opere sue, e non
solamente di lui, ma ancora degli altri maestri che fussino tenuti
eccellenti nella pittura e nel musaico.
Costui, avendo parlato a molti maestri in Siena, et avuti disegni da loro,
capitò in Fiorenza per vedere l'opere di Giotto e pigliar pratica seco; e
cosí una mattina, arrivato in bottega di Giotto che lavorava, gli espose la
mente del papa et in che modo e' si voleva valere dell'opera sua. Et in
ultimo lo richiese che voleva un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità.
Giotto, che cortesissimo era, squadrato il cortigiano prese un foglio di
carta et in quello, con un pennello che egli aveva in mano tinto di rosso,
fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un
tondo sí pari di sesto e di proffilo, che fu a vederlo una maraviglia
grandissima. E poi, ghignando, volto al cortigiano gli disse: "Eccovi il
disegno".
Tennesi beffato il mandato del papa, dicendo: "Ho io avere altro disegno
che questo?" Rispose Giotto: "Assai e pur troppo è quel che io ho fatto:
mandatelo a Roma insieme con gli altri e vedrete se sarà conosciuto".
Partissi il cortigiano da Giotto, e quanto e' pigliasse mal volentieri
questo assunto, dubitando non essere uccellato a Roma, ne fece segno co 'l
non esser satisfatto nel suo partire; pure, uscito di bottega e mandato al
papa tutti e' disegni, scrivendo in ciascuno il nome e di chi mano egli
erano, tanto fece nel tondo disegnato da Giotto e nella maniera che egli
l'aveva girato, senza muovere il braccio e senza seste, fu conosciuto dal
papa e da molti cortigiani intendenti quanto egli avanzasse di eccellenzia
tutti gli altri artefici de' suoi tempi.
E perciò, divulgata i questa cosa, ne nacque quel proverbio familiare e
molto ancora ne' nostri tempi usato: "Tu sei piú tondo che l'O di Giotto".
Il quale proverbio non solo per il caso donde nacque si può dir bello, ma
molto piú per il suo significato, che consiste nella ambiguità del tondo,
che oltra a la figura circulare perfetta significa ancora tardità e
grossezza d'ingegno.
Fecelo dunque il predetto papa venire a Roma, onorandolo grandemente e con
premi riconoscendolo, dove fece la Tribuna di San Pietro et uno angelo di
sette braccia, dipinto sopra l'organo, e molte altre pitture, parte
ristaurate da altri a' nostri dí, e parte nel rifondare le mura nuove,
disfatte, e traportate da lo edificio del vecchio San Piero fin sotto
l'organo; come una Nostra Donna che era in su un muro, il quale, perché
ella non andasse per terra, fu tagliato attorno et allacciato co' travi e
ferri, e murata di poi per la sua bellezza dalla pietà et amore che portava
all'arte il gentilissimo Messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, con
altre restaurazioni moderne di pittura e di stucchi per abellire questa
opera di Giotto.
Fu di sua mano la nave del musaico, fatta sopra le tre porte del portico,
nel cortile di San Pietro, la quale fu sí maravigliosa, et in quel tempo di
tal disegno, d'ordine e di perfezzione, che le lode universalmente datele da
gli artefici e da altri intendenti ingegni meritamente se le convengono. Fu
chiamato a Napoli dal Re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara,
chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle, nelle quali molte storie del
Vecchio e Nuovo Testamento si veggono. Dove ancora, in una cappella, sono
molte storie dell'Apocalisse, ordinategli (per quanto si dice) da Dante,
fuor uscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti.
Nel Castello de l'Uovo fece ancora molte opere, e particularmente la
cappella di detto Castello.
E fu sí da quel re amato, che oltra la pittura pigliò grandissimo piacere
del suo ragionamento, avendo egli alcuni motti et alcune risposte molto
argute, come fu quando dicendogli un giorno il re che lo voleva fare il
prim'uomo di Napoli, "E per ciò", gli rispose Giotto, "son io alloggiato
vicino a Porta Reale per esser il primo di Napoli". Et un'altra volta,
dicendogli il re: "Giotto, s'io fusse in te, ora che fa caldo, tralasserei
un poco il dipignere", rispose: "Et io, se fussi in voi, farei il medesimo".
Fecegli dunque fare molte cose in una sala che il Re Alfonso Primo ruinò per
fare il castello, e cosí nella Incoronata. Dicesi che gli fu fatto dal re
dipignere per capriccio il suo reame, per che Giotto gli dipinse uno asino
imbastato, che teneva a' piedi un altro basto nuovo e, fiutandolo, faceva
segno di desiderarlo; e su l'uno e l'altro basto era la corona reale e lo
scettro della podestà.
Domandato dunque Giotto da 'l re, nel presentargli questa pittura, de 'l
significato di quella, rispose tali i sudditi suoi essere e tale il suo
regno, nel quale ogni giorno nuovo signore desideravano. Ora, partitosi da
Napoli, fu intertenuto in Roma dal Signor Malatesta da Rimini, che
condottolo nella sua città moltissime cose nella chiesa di San Francesco gli
fece dipignere; le quali da Sigismondo, figliuolo di Pandolfo, che rifece la
chiesa tutta di nuovo, furono guaste e rovinate. Fece ancora nel chiostro di
detto luogo, a l'incontro della facciata della chiesa, la istoria della
Beata Michilina a fresco, che fu una delle piú belle et eccellenti cose che
Giotto facesse, per le leggiadrissime considerazioni che ebbe questo
rarissimo artefice nel dipignerla.
Perché, oltra la bellezza de' panni, e la grazia e la vivezza delle teste de
gli uomini e delle donne, che sono vivissime e miracolose, egli è cosa
singularissima una giovane che v'è, bellissima quanto piú esser si possa, la
quale, per liberarsi da la calumnia dello adulterio, giura sopra di un
libro, con gli occhi fissi negli occhi del proprio marito, che giurar la
faceva per diffidanza d'un figliuol nero partorito da lei, il quale in
nissun modo che suo fusse poteva credere.
Costei (cosí come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso) fa
conoscere, con la pietà della fronte e de gli occhi, a coloro che
intentissimamente la contemplano, la innocenzia e la simplicità sua, et il
torto che se le faceva in farla giurare, e nel publicarla a torto per
meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quel ch'espresse questo
ingegnosissimo artefice in un infermo di certe piaghe; dove tutte le femmine
che vi sono dattorno, offese dal puzzo, fanno certi torcimenti schifosi, i
piú graziati del mondo.
Et in un altro quadro vi si veggono scorti bellissimi fra una quantità di
poveri attratti; et è maravigliosissimo l'atto che fa la sopradetta beata a
certi usurai, che le sborsano i danari della vendita delle sue possessioni,
per dargli a' poveri, e le pare che i denari di costor putino; e vi è uno
che, mentre quegli annovera, pare ch'accenni al notaio che scriva, e co 'l
tenere le mani sopra i denari, fa conoscere, con garbatissima
considerazione, l'affezzione e l'avarizia sua. Mostrò Giotto in tre figure,
che in aria sostengano l'abito di San Francesco, figurate per l'obedienza e
la pazienzia e la povertà, molta bella maniera di panni, i quali con bello
andare di pieghe, morbidamente colorite, fanno conoscere a coloro che le
mirano, che egli era nato per dar luce all'arte della pittura.
Ritrasse di naturale il signor Malatesta in una nave, che pare vivissimo; et
alcuni marinai et altre genti che, di prontezza e di affetto nelle
attitudini loro, fanno conoscere l'eccellenzia di Giotto, come si vede in
una figura, che parlando con alcuni si mette una mano al viso, sputando in
mare. E certamente, fra tutte le cose fatte da Giotto in pittura, questa si
può dire essere una delle migliori, perché non vi è figura, in cosí gran
numero di figure, che non abbia in sé grandissimo e bell'artificio, e non
sia posta con capricciosa attitudine.
E però non mancò il Signor Malatesta, vistosi nascere nella sua città una
delle piú belle cose del mondo, premiarlo e magnificamente lodarlo. Finiti i
lavori di quel signore, pregato da un prior fiorentino, che allora nella
chiesa di San Cataldo, in quella città, era da' suoi superiori mandato, che
egli volesse dipignerli, fuor della porta della chiesa, un San Tomaso
d'Aquino che a' suoi frati leggesse la lezzione, esso per l'amicizia che
seco aveva non mancò di satisfarlo, faccendoli una pittura molto lodevole. E
di quivi partito andò a Ravenna, et in San Giovanni Vangelista fece una
cappella a fresco lodata molto.
Tornossi poi con grandissimo onore e con grandissima facultà a Fiorenza,
dove in San Marco fece un Crocifisso in sul legno grande lavorato a tempera,
maggiore che 'l naturale, in campo d'oro, il quale fu messo a mano destra in
chiesa; et un simile ne fece in Santa Maria Novella, sul quale Puccio
Capanna suo creato in compagnia di lui lavorò, et ancora oggidí è locato
sopra la porta maggiore nell'intrata della chiesa.
Dipinse in fresco nel medesimo luogo un San Lodovico, sopra al tramezzo
della chiesa a man destra, sotto la sepoltura de' Gaddi; e ne' frati
umiliati in Ogni Santi una cappella e quattro tavole. E fra l'altre una,
dentrovi una Nostra Donna, con molti angeli attorno et il figliuolo in
braccio; et un Crocifisso grande in legno, da 'l quale Puccio Capanna,
pigliando il disegno, molti per tutta Italia ne lavorò, avendo presa molto
la pratica e la maniera di Giotto.
Nel tramezzo della chiesa in detto luogo è appoggiata una tavolina a
tempera, dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno e
vivacità dentrovi la Morte di Nostra Donna, con gli Apostoli che fanno
l'essequie, e Cristo che l'anima in braccio tiene; da gl'artefici pittori
molto lodata, e particularmente da Michel Agnolo Buonaroti, attribuendole la
proprietà della storia essere molto simile al vero. Oltra che le attitudini
nelle figure con grandissima grazia dello artefice sono espresse. E
veramente fu in que' tempi un miracolo il vedere in Giotto tanta vaghezza
nel dipignere e considerare ch'egli avesse appreso quest'arte senza maestro.
Avvenne che, per aver Giotto nel disegno fatto una bellissima pratica, li fu
fatto fare molti disegni, e non solamente per pitture, ma per fare delle
sculture ancora; come quando l'Arte de' Mercatanti volse far gettar di
bronzo le porte del Batisteo di San Giovanni, egli disegnò per Andrea Pisano
tutte le storie di San Giovanni Batista, ch'è quella porta che volta oggi
verso la Misericordia.
Ma quanto e' valesse nella architettura lo dimostrò nel modello del
campanile di Santa Maria del Fiore, che essendo mancato di vita Arnolfo
Todesco, capo di quella fabrica, e desiderando gli operai di quella chiesa,
e la Signoria di quella città, che si facesse il campanile, Giotto ne fece
fare co 'l suo disegno un modello di quella maniera todesca che in quel
tempo si usava, e per averlo egli ben considerato, inoltre disegnò tutte le
storie che andavano per ornamento in quella opera.
E cosí scompartí di colori bianchi, rossi e neri in sul modello, tutti que'
luoghi dove avevano andare le pietre et i fregi, con grandissima diligenzia,
et ordinò che 'l circuito da basso fussi in giro di larghezza de braccia
100, ciò è braccia 25 per ciascuna faccia e l'altezza braccia 144; nella
quale opera fu messo mano l'anno mcccxxxiiii e seguitata del continuo, ma
non sí che Giotto la potessi veder finita, interponendosi la morte sua.
Mentre che questa opera si andava fabricando, fece egli, nelle Monache di
San Giorgio, una tavola, e nella Badia di Fiorenza, in uno arco sopra la
porta di dentro alla chiesa, tre mezze figure, oggi dalla ignoranzia d'uno
abbate fatte imbiancare per illuminare la chiesa.
Nella sala grande del Podestà di Fiorenza, per mettere paura a i popoli
dipinse il commune ch'è rubato da molti; dove in forma di giudice con lo
scettro in mano a sedere lo figura, e le bilance pari sopra la testa, per le
giuste ragioni ministrate da esso, et aiutato da quattro figure, dalla
Fortezza con l'animo, dalla Prudenzia con le leggi, dalla Giustizia con
l'armi e dalla Temperanza con le parole; pittura bella et invenzione
garbata, propria e verisimile.
Partissi di Fiorenza per fare nel Santo di Padova alcune cappelle, dove
molto dimorò, perché fece ancora nel luogo dell'arena una Gloria Mondana, la
quale gli diede molto onore. Et a Milano trasferitosi quivi ancor lavorò, et
a Fiorenza ritornatosi, alli viii di gennaio nel mcccxxxvi rese l'anima a
Dio, onde da gli artefici pianto et a' suoi cittadini assai doluto, non
senza portarlo alla sepoltura con quelle esequie onorevoli che a una tanta
virtú com'era quella di Giotto si convenissi, et a una patria come Fiorenza,
degna d'uno ingegno mirabile come il suo. E cosí quel giorno non restò uomo,
piccolo o grande, che non facesse segno con le lacrime o co 'l dolersi della
perdita di tanto uomo. Il quale, per le rare virtú che in lui risplenderono,
meritò, ancora che e' fosse nato di sangue vile, lode e fama certo
chiarissima.
Il campanile di Santa Maria del Fiore fu seguitato e tirato avanti da Taddeo
Gaddi suo discepolo, in su lo stesso modello di Giotto. Et è opinione di
molti, e non isciocca, che egli desse opera alla scoltura ancora,
attribuendogli ch'e' facesse due storiette di marmo che sono in detto
campanile, dove si figurano i modi et i principii dell'arti, ancora che
altri dichino solamente il disegno di tali storie essere di sua mano. Restò
in memoria della sua sepoltura in Santa Maria del Fiore, dalla banda
sinistra entrando in chiesa, un mattone di marmo, dove è sepolto il corpo
suo.
I discepoli suoi furono Taddeo sopradetto e Puccio Capanna, che in Rimini
nella chiesa di San Cataldo de' frati predicatori, dipinse un voto d'una
nave che par che affoghi nel mare, con gente che gettano le robe nel mare.
Et evvi Puccio di naturale, fra un buon numero di marinari.
Fu ancora suo discepolo Ottaviano da Faenza, che in San Giorgio di Ferrara,
luogo de' monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; et in Faenza sua
patria, dove egli visse e morí, dipinse nello arco sopra la porta di San
Francesco una Nostra Donna con San Piero e San Paulo.
E Guglielmo da Forlí, che fece molte opere, e particularmente la cappella di
San Domenico nella sua città. Furono similmente creati di Giotto Simon
Sanese, Stefano Fiorentino e Pietro Cavallini romano, et altri infiniti, i
quali molto alla maniera et alla imitazione di lui s'accostarono.
Restò nelle penne di chi scrisse a suo tempo, e poi, tanta maraviglia del
nome suo, per esser stato primo a ritrovare il modo di dipignere, perduto
inanzi lui molti anni, che dal Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici,
facendosi egli di questo maestro ogni giorno piú maraviglia, meritò d'avere
in Santa Maria del Fiore la effigie sua scolpita di marmo; e dal divino uomo
Messer Angelo Poliziano lo infrascritto epitaffio in sua lode, acciò che
quegli che verranno eccellenti e rari in qual si voglia professione, debbino
valorosamente esercitarsi per avere di sí fatte memorie, meritandole, in
lode loro dopo la morte, come fe' Giotto:
ILLE EGO SVM PER QVEM PICTVRA EXTINCTA REVIXIT
CVI QVAM RECTA MANVS TAM FVIT ET FACILIS
NATVRAE DEERAT NOSTRAE QVOD DEFVIT ARTI
PLVS LICVIT NVLLI PINGERE NEC MELIVS
MIRARIS TVRRIM EGREGIAM SACRO AERE SONANTEM?
HAEC QVOQVE DE MODVLO CREVIT AD ASTRA MEO
DENIQVE SVM IOTTVS. QVID OPVS FVIT ILLA REFERRE?
HOC NOMEN LONGI CARMINIS INSTAR ERIT.
FONTI:
M. Baxandall, Giotto e gli umanisti, ed. Jaca Book, Milano 1994
G. Bozzolato, Il Palazzo della Ragione a Padova, Istituto Poligrafico dello
Stato
S. Bandera Bistoletti, Giotto. Catalogo completo, Firenze 1989
B. Zanardi-C. Frugoni, Il cantiere di Giotto, ed. Skira
F. Flores d'Arcais, Giotto, ed. Federico Motta
G. Basile, Storie francescane, ed. Electa
G. Bonsanti, Giotto, Padova 1985
C. Brandi, Giotto, Milano 1983
L. Bellosi, Giotto, Firenze 1981
L. Bellosi, La pecora di Giotto, ed. Einaudi, Torino 1985
H. Thode, Francesco d'Assisi e le origini dell'arte del Rinascimento in
Italia, ed. Donzelli
Da Giotto al Mantegna, catalogo della mostra a cura di L. Grossato, Padova,
Palazzo della Ragione, 1974
G. Previtali, Giotto e la sua bottega, ed. Fabbri, Milano 1974
Giotto e il suo tempo, atti del convegno internazionale di studi per il VII
centenario della nascita, Roma 1971
F. Bologna, Novità su Giotto. Giotto al tempo della cappella Peruzzi, ed.
Einaudi, Torino 1969
L'opera completa di Giotto, a cura di E. Baccheschi, Milano 1967
M. Bacci, Giotto, Firenze 1966
F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel
primo Quattrocento, ed. Einaudi, Torino 1960
E. Battisti, Rinascimento e Barocco, ed. Einaudi, Torino 1960
Studi di storia dell'arte n. 3/94
LA SCUOLA DI CHARTRES
Nel XII secolo, a Chartres (Francia), nasce l'omonimo movimento filosofico.
I discepoli di questo movimento sostengono che la filosofia non può essere
opera di un uomo, qualunque sia il suo ingegno, ma, come accade per la
scienza, il suo progredire deriva dalla paziente collaborazione delle
generazioni che vi si dedicano nella loro successione temporale.
Quindi, proprio a Chartres, in una delle più grandi scholae episcopali
cittadine, per opera di grandi vescovi e chierici, il mondo intero riappare
sotto una nuova immagine, grandiosa ed energica.
I tratti inconfondibili di tale scuola sono: grande impegno nella ricerca
filosofica, difesa della cultura letteraria e studio attento degli autori
classici. Maestri di altissimo livello culturale dirigono e dettano
lectiones nella cattedrale.
Alla grandezza culturale si accompagna la varietà di campi da essi
prediletti: il diritto, la grammatica, la retorica, la fisica e la politica,
con grandi e varie figure di dotti; "la schola" è la prima grande
affermazione di una cultura "aperta".
La biblioteca raccoglie libri di discipline insolite, che provengono in
copia e in traduzione da terre lontane. Sono testi di medicina che
provengono da Salerno e Montecassino, di astrologia e medicina provenienti
dall'Islam, di diritto etc.
Alcuni di questi volumi sono del tutto nuovi per la "schola" e tra questi si
distinguono: il commento di Calcidio al "Somnium Scipionis", il frammento
del "Timeo platonico", il "De natura deorum" di Cicerone e "L'auctoritas" di
Boezio.
Dopo il Medioevo monastico, la scuola sembra, infatti, riprendere un nuovo
colloquio con i più grandi filosofi antichi: Platone, Virgilio, Cicerone;
inoltre arrivano a Chartres traduttori e visitatori dell'Islam.
Lo spirito chartrense è, quindi, uno spirito di curiosità, d'osservazione,
d'investigazione che splende alimentato dalla scienza greco-araba.
La sua sete di conoscenza si espanderà talmente che il più celebre dei
volgarizzatori del secolo, Onorio detto D'Autun la riassumerà in una formula
stupefacente: "L'esilio dell'uomo è l'ignoranza; la sua patria, la scienza"
(J. Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, ed. Mondadori, Milano 1993, p.
61).
I chierici-maestri credono, anzitutto e profondamente nell'"Humanitas"; cioè
credono che l'uomo sia qualcosa di essenziale all'universo e di centrale nel
mondo.
Questa idea-guida è comune a tanti maestri impegnati in diversi campi del
sapere. Essi rifiutano l'antica idea di San Gregorio e di moltissimi monaci,
secondo la quale l'uomo non era inizialmente previsto nei piani della
creazione e che questi fu creato fortuitamente da Dio dopo la rivolta degli
angeli, come loro sostituto.
Al contrario, per questi maestri l'uomo non è un "ripiego" della creazione,
ma sin dal principio è nei piani di Dio come scopo del mondo, che Dio crea
per lui.
Gli scultori gotici, anche nell'adornare la cattedrale di Chartres,
s'ispirano, come ovunque, a questo nuovo modello, che è l'uomo stesso.
In questo umanismo è presente una seconda grande idea-guida comune: la
cultura come costruzione umana.
Il centro del mondo è l'uomo, non il bruto; è l'essere che usa
effettivamente la ragione, non quello che la rifiuta, preferendo solo
sradicare foreste. Ora la ragione è anzitutto brama di sapere. In questa
ansia di sapere i maestri sono stati preceduti dagli antichi: essi sono il
grandioso punto di partenza puramente umano dal quale il dotto può prendere
il volo.
"Noi siamo", diceva Bernardo di Chartres, iniziatore della scuola, "come
nani seduti sulle spalle dei giganti". I giganti sono i filosofi, i grandi
remoti antenati del chierico-maestro, che ricomincia daccapo a far cultura.
Questi antichi sono grandi figure, nei quali saggezza e curiosità fan
tutt'uno:
il saggio Salomone, Alessandro spinto ad esplorare (non a conquistare) il
mondo dalla brama di "sapere" e non di potere, infine Virgilio,
l'esploratore
di ciò che sta al di là della vita, il regno stesso dei defunti.
Con questi antichi l'idea stessa di Auctoritas cambia accento: da imperioso
e misterioso comando, diventa modello da imitare per andare oltre.
Dunque, anche nella cultura, come nella nuova città, il compito è quello di
costruire, più che non quello di ricostruire. Le basi esistono.
Da qui la terza idea-guida dell'umanismo di Chartres: come l'uomo è centro
del mondo, come la cultura è una costruzione che si leva anche oltre la
Traditio, così il centro dell'uomo è la ratio e l'uomo può costruire solo
mediante la ratio. Sulle spalle dei giganti antichi, anche se nani, gli
uomini potranno vedere più cose e più lontano. L'Auctoritas si trasforma in
un aiuto per la ratio che vuole andare oltre, vedere più lontano.
IL NATURALISMO CHARTRENSE
La base di questo naturalismo è la fede nell'onnipotenza della natura. Per i
chartrensi la natura è prima di tutto una potenza fecondante, perpetuamente
creatrice, dalle inesauribili risorse, è, quindi, Mater generationis.
L'uomo, come affermano Guglielmo di Conches, discepolo di Bernardo di
Chartres e Bernardo Silvestre, essendo natura e potendo comprendere la
natura per via della ragione, può anche trasformare la natura con la propria
attività.
L'uomo, quindi, diventa l'artigiano che trasforma e crea, homo faber,
cooperatore della creazione con Dio e con la natura. "Qualunque opera", dice
Guglielmo di Conches, "è opera del creatore, opera della natura, o dell'uomo
artefice che imita la natura".
LO STILE GOTICO E CHARTRES
L'arte gotica fu sostanzialmente un'arte architettonica e s'impose a
Chartres tra il 1194 ed il 1245 nella costruzione della cattedrale normanna.
La cattedrale fu costruita in un quarto di secolo su un preesistente sito
sacro (molto probabilmente di religione celtica).
Fine supremo dell'arte gotica è illuminare. Illuminare in senso materiale e
in senso spirituale. La principale preoccupazione dell'architetto è di
"catturare" il massimo della luce possibile.
Caratteri principali dell'architettura gotica sono: la volta ogivale e
l'arco
a sesto acuto. In sostanza si ha una dominanza delle linee verticali, quasi
ad indicare la tensione dell'uomo medievale verso l'alto, verso i cieli. Il
gotico non è solo arte delle cattedrali, ma anche arte monastica. Fu diffusa
dai Cistercensi e adottata dagli Ordini Mendicanti che però evitarono gli
ornamenti.
Gli ordini Monastici e Mendicanti vedevano in questo stile il significato
religioso.
Il più famoso mistero della cattedrale è rappresentato dal labirinto
(simbolo alchemico della via iniziatica): una raffigurazione del
pellegrinaggio a Gerusalemme. Nel percorso non è possibile smarrirsi, in
quanto esiste un unico cammino da percorrere, che condurrà al centro.
Dalla Francia il gotico seguì il suo inarrestabile cammino sino in Svezia e
in Ungheria. Perfino a Cipro abbiamo un esempio di architettura gotica come
la cattedrale di Nicosia.
In Italia si manifestò maggiore la simpatia per l'affresco che per la
vetrata. Interessanti espressioni dello stile gotico sono la Basilica di San
Francesco ad Assisi ed il Duomo di Milano, sui cui autentici caratteri
gotici però ancora si discute.
I TRE PORTALI
Nella Cattedrale i tre portali occidentali, dove le 24 statue-colonne e i
fregi dei capitelli provvedono a creare una divisione, sono considerati come
un unicum nel panorama dell'arte romanico-gotica.
Il timpano illustra la Nascita di Cristo, l'Ascensione e la Resurrezione.
Negli archivolti sono scolpiti i lavori di ogni mese e le arti liberali, con
allusione al fatto che una vita serena sulla terra deve unire al lavoro
manuale, eseguito mese per mese, l'attività intellettuale rivolta agli
studi.
Episodi tratti dalla vita di Cristo sono scolpiti sui capitelli, mentre le
"statue-colonne" rappresentano figure di re e regine dell'Antico Testamento
e i precursori di Cristo.
Nmerosi scultori contribuirono a questo capolavoro, anche se il vero grande
artista fu quello che scolpì il portale centrale, con quelle sue statue
allungate, ieratiche, come sospese tra cielo e terra, a imitazione delle
statue greche del periodo classico.
Queste statue costituirono un modello seguito in Francia e talora anche in
Spagna e in Inghilterra, ma nessuno riuscì a eguagliarne la qualità
artistica e l'intensità spirituale.
Chartres, insieme all'abbazia di S. Denis, non solo riflette pienamente lo
stile romanico, ma contiene in germe lo sviluppo futuro che avrebbe condotto
al gotico.
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