DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO
Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo furono senz'altro
indispensabili il perfezionamento della tecnica, la divisione del lavoro,
vasti mercati, grandi manifatture, concentrazioni di capitali... Ma oltre a
ciò, fu necessaria anche una buona dose di fiducia in un futuro migliore,
non molto lontano, quella di credere che, emancipandosi dal servaggio o
dalla coercizione corporativa, si potesse diventare più liberi senza fare
alcuna rivoluzione sociale. In questo senso contadini e artigiani s'illusero
pensando che, per emanciparsi veramente, fosse sufficiente partecipare con
la borghesia alla rivoluzione politica antifeudale. L'illusione stava
appunto in questo, nel credere che dalla rivoluzione politica potesse
scaturire automaticamente anche quella sociale, cioè che una mera
rivendicazione giuspolitica di diritti fosse sufficiente per la democrazia
sociale.
Era giusto emanciparsi dalla condizione servile che il feudalesimo imponeva,
ma nel farlo bisognava assicurarsi di non finire in una condizione sociale
peggiore. In che modo? Impedendo alla borghesia di guidare da sola la
rivoluzione politica o comunque di non gestirne da sola i risultati
conseguiti.
L'individualismo così si è accentuato. Il benessere è aumentato solo per
pochi. E' vero, in Europa occidentale il benessere, col tempo, ha riguardato
sempre più persone, ma solo perché, grazie al colonialismo e
all'imperialismo, la miseria e l'indigenza sono state trasferite nel Terzo
Mondo. Se non ci fosse stata la conquista dell'America, dell'Africa e in
parte dell'Asia, l'Europa occidentale sarebbe andata incontro a una
catastrofe economica, o forse il Medioevo sarebbe stato più lungo, oppure, a
fronte delle insanabili crisi del capitalismo emergente, si sarebbe passati
dal feudalesimo al socialismo. L'Europa occidentale ha potuto supplire alla
mancanza di una "democrazia" interna (che l'Europa ortodossa dell'est invece
parzialmente aveva) grazie appunto al colonialismo.
Gli storici devono smetterla di considerare il capitalismo come un progresso
rispetto al feudalesimo. Il feudalesimo poteva evolvere verso il benessere
perfezionando gli strumenti produttivi, da un lato, e compiendo una riforma
agraria dall'altro, tale per cui i contadini fossero veramente padroni della
loro terra, così come tutti gli artigiani, associati in cooperativa,
avrebbero dovuto esserlo della loro corporazione, e gli operai della loro
manifattura. Non c'era alcun bisogno di sconvolgere un sistema produttivo
sostanzialmente legato alla natura con un sistema produttivo così
artificiale e disumano.
Il capitalismo ha provocato dei guasti d'incalcolabile portata: ha separato
il lavoratore dai mezzi di produzione (rendendo tutta la vita sociale e
privata profondamente alienante); ha separato il produttore dal consumatore,
mettendo quest'ultimo nelle mani dell'altro; ha subordinato tutto alla
logica del profitto e dell'interesse (rendendo cinici i rapporti umani); ha
creato delle istituzioni statali, burocratiche e amministrative, politiche,
giudiziarie e militari che tolgono agli individui qualunque forma di
libertà, di sicurezza e di responsabilità; ha saccheggiato le risorse di
interi Paesi, regioni e continenti senza dare nulla in cambio, se non tutte
quelle cose che servono ad arricchire le metropoli occidentali; ha
danneggiato l'ambiente in maniera irreparabile, nell'illusione di poter
ricostruire con la scienza e la tecnica ambienti sostitutivi di quelli
naturali; ha scatenato centinaia di guerre, anche mondiali, con milioni e
milioni di morti. Come stupirsi se in queste condizioni vi sono state
nazioni legate al feudalesimo sino al secolo scorso e che dal feudalesimo
sono volute passare direttamente al socialismo?
Ovviamente non ha senso fare dei confronti con due sistemi così diversi: qui
si vuole soltanto precisare che non si può "condannare" il feudalesimo in
nome del capitalismo. Ogni sistema va esaminato per le proprie
contraddizioni interne. E' sulla base di queste contraddizioni che bisogna
cercare di capire quante possibilità c'erano di creare la transizione da un
sistema all'altro.
Perché la Cina o qualche Paese arabo non sono diventati capitalisti nel XVI
sec.? Se riusciremo a comprendere i motivi per cui né la Spagna né il
Portogallo sono diventate nazioni capitalistiche, pur avendo inaugurato il
moderno colonialismo, troveremo relativamente facile rispondere alla
suddetta domanda.
La storia ha dimostrato che per entrare nella via del capitalismo non è
sufficiente avere una tecnologia abbastanza sviluppata o dei commerci molto
avanzati, oppure delle contraddizioni feudali molto forti: occorre anche una
mentalità, una forma di cultura particolare. Questa mentalità è mancata alla
penisola iberica, troppo cattolica per essere pienamente, consapevolmente
capitalistica, ed è mancata alle due grandi nazioni asiatiche: Cina e India,
caratterizzate da due religioni della rassegnazione: Induismo e Buddismo.
Nei tempi in cui sono nati il capitalismo e il colonialismo, l'ideologia
dominante, in Europa occidentale, era quella religiosa (prima cattolica, poi
protestante). E' qui che vanno ricercati i motivi sovrastrutturali che hanno
permesso un fenomeno così perverso.
Con uno studio molto approfondito si dovrebbe scoprire in quali enunciati
teorici della teologia e della filosofia cattolica e protestante, si possono
rintracciare le motivazioni culturali che hanno spinto gli uomini (anche
inconsciamente) ad accettare il capitalismo e il colonialismo, nonché quelle
motivazioni che (questa volta consapevolmente) sono state usate per
giustificare la nuova formazione sociale. Cioè vanno ricercate quelle
motivazioni che sono servite per legittimare direttamente o indirettamente
(involontariamente) il capitalismo, e quelle motivazioni che sono state
usate per contrastarlo praticamente o per condannarlo solo teoricamente.
Questo significa che non è più possibile scindere lo studio della storia da
quello dell'ideologia (dominante, soprattutto), sia essa di tipo filosofico,
religioso o politico. La storia deve diventare anzitutto la storia
dell'economia in stretta correlazione con la storia del pensiero, nel senso
weberiano che l'economia va vista come riflesso del pensiero, e nel senso
marxiano che il pensiero va visto come riflesso dell'economia.
Le scelte, tra una formazione sociale e l'altra, tra una modalità e l'altra
all'interno di una stessa formazione, si fanno sempre in un contesto di
relativa libertà, altrimenti saremmo costretti ad ammettere l'inevitabilità
della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Certo, vi possono essere
dei processi sociali ed economici che oggettivamente, se non intervengono
delle controtendenze, possono portare al capitalismo, ma se ad un certo
punto non v'è un determinato consenso sociale (di massa), questi processi
non vanno avanti. Gli uomini possono dare un consenso inconsapevole a certi
fenomeni, ma sino a un certo punto, poiché ogni fenomeno contiene in sé
delle contraddizioni che a posteriori possono essere individuate e superate
(il superamento è tanto più facile quanto più è veloce l'individuazione e
decisa la volontà). E' assolutamente falso affermare che la storia è un
"processo senza soggetto".
Il determinismo economico non è certo in grado di spiegare il motivo per cui
il capitalismo s'è sviluppato proprio in Europa occidentale e soprattutto
nell'area geografica di religione protestante. E neppure è in grado di
spiegare perché i Paesi di religione cattolica sono diventati capitalisti
conservando solo la "forma" della loro religione. Questo non sta forse a
dimostrare che fra cattolicesimo e protestantesimo non esistono differenze
sostanziali, nel senso che l'uno non è che il rovescio dell'altro?
Solo così riusciremo a capire il motivo per cui i Paesi che non hanno
conosciuto né il cattolicesimo né il protestantesimo si sono adeguati più
facilmente alla realtà del socialismo, e perché i Paesi che non hanno
conosciuto alcuna forma di cristianesimo, fanno molta fatica ad adeguarsi al
capitalismo, volgendo piuttosto la loro attenzione verso il socialismo. Non
è forse vero che il socialismo democratico vuole essere il recupero,
ovviamente in forma diverse, più consapevoli, dello spirito del comunismo
primitivo?
Il cristianesimo è la religione col più alto tasso di ambiguità della
storia. La sua dialettica, le sue contraddizioni, soprattutto fra teoria e
pratica, sono assolutamente inconcepibili per qualunque altra religione. Non
è infatti immaginabile, in maniera naturale e spontanea, che si possano
affermare le cose più sublimi di questo mondo e nello stesso tempo compiere
le azioni più abominevoli. Occorre un livello di alienazione, di
sdoppiamento della personalità, particolarmente elevato, non meno grande del
livello di profondità di pensieri e di sentimenti.
Il cristianesimo ha dato all'umanità un'autoconsapevolezza prima
impensabile. Ma, proprio per questo motivo, le ha dato anche una sicurezza,
un coraggio, una fiducia in se stessa che nessun'altra religione ha mai
saputo dare. Ora, ci si rende facilmente conto che se si vive questa
sicurezza non per migliorare le cose, ma per giustificare un contesto
caratterizzato da valori o da comportamenti negativi, il risultato che si
ottiene col cristianesimo sarà infinitamente più disastroso. Se l'ideologia
cristiana non viene vissuta in un contesto sociale comunitario (ma questo
implica una revisione totale dell'interpretazione e delle modalità
applicative dei vangeli), la tendenza sarà sempre quella ad usare il
cristianesimo per colmare in misura irrazionale l'insopportabile scarto
esistente fra metodo e contenuto.
TEORIA DEL CROLLO DEL FEUDALESIMO
Quando si parla di "crollo del feudalesimo", non si può affermare che le
cause principali sono state quelle esterne al sistema, e cioè il commercio,
il valore di scambio, il denaro ecc.
La causa principale del crollo di un sistema antagonistico, generalmente va
cercata nell'antagonismo stesso. Ovviamente questo non significa che nella
lotta delle classi, quella oppressa non possa servirsi di elementi esterni
al sistema (o marginali, periferici) per influire negativamente su quelli
interni, accelerandone la dissoluzione.
Quando si afferma che il feudalesimo crollò a causa del sempre crescente
lusso della nobiltà, la quale, avendo bisogno di contanti, prese a sfruttare
massicciamente i contadini, che fuggirono verso le città; quando cioè si
afferma che la causa del crollo fu il commercio a lunga distanza, non ci si
rende conto di confondere la causa con l'effetto. Lo sviluppo del commercio
infatti è già una conseguenza della crisi del feudalesimo, che è interna al
sistema.
Se non si accetta questa spiegazione, si deve poi attribuire al caso il
crollo di un sistema antagonistico, non avendo alcuna fiducia nelle capacità
di lotta delle classi oppresse.
Il secondo servaggio, cui andarono incontro alcune nazioni o alcune regioni
di alcune nazioni europee, nel momento in cui in altre nazioni (o in altre
regioni) s'andava sviluppando il capitalismo, dipese appunto
dall'arretratezza della cultura, che non sapeva trovare un'alternativa al
servaggio né in modo borghese, né in modo democratico, ma soltanto
modificando il rapporto feudale, trasformando cioè la rendita in natura in
rendita monetaria, ovvero il servo della gleba in un mezzadro, oppure
creando una proprietà fondiaria di tipo usuraio. Questo fu possibile anche
perché il commercio liquidò la classe dei piccoli contadini indipendenti.
Il capitalismo industriale delle nazioni borghesi indusse i feudatari ad
adeguarsi alle circostanze, ed essi lo fecero sulla base della loro
arretrata cultura. La rendita monetaria non faceva che acutizzare le
contraddizioni del feudalesimo.
In Asia invece continuò a prevalere la rendita in natura e da questa
rendita, attraverso la lotta di classe, si passò al socialismo.
VERA E FALSA DEMOCRAZIA
E' semplicistico pensare allo sviluppo del fenomeno comunale medievale come
a uno sviluppo dell'idea di democrazia.
In realtà si può parlare di democrazia solo nel senso che i ceti urbani più
ricchi cercavano di opporsi allo strapotere dei latifondisti, chierici o
laici che fossero.
E vi fu sviluppo della democrazia anche là dove i Comuni lottarono contro
l'idea di sacro romano impero (questa lotta agli storici appare,
generalmente, come uno scontro tra poteri, decentrati gli uni, centralizzati
gli altri). Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che fu sempre un
confronto tra poteri forti, per una diversa distribuzione di aree di
competenza e di dominio.
Il popolo aderì e si sacrificò convinto di poter trarre dei vantaggi da
questo scontro cruento, ma fu, come al solito, ingannato dalle classi
egemoni.
Questo è un cliché che si ripete tantissime volte nella storia. Basterebbe
studiare la storia per concetti per arrivare a comprenderla senza neppure
entrare nei dettagli.
Ogni idea e ogni struttura che la rappresenta hanno la loro evoluzione:
quando questa giunge verso il culmine, per poi imboccare la strada
discendente, raramente le istituzioni accettano di farsi superare dal nuovo,
e si piomba così nell'involuzione, dove i progressi acquisiti vengono di
fatto ridimensionati se non perduti. Non si cedono mai spontaneamente i
poteri acquisiti. Di qui le inevitabili e sanguinose conflittualità.
Purtroppo la storia ci dice anche che ogni idea e ogni struttura è soggetta
a corruzione e non c'è modo di porre le basi per alcuna esperienza di lunga
durata, e questo pare tanto più vero quanto più si esaminano le cosiddette
"civiltà", dove al massimo ci si misura sulla lunghezza dei mille anni,
mentre nella cosiddetta "preistoria" la longue durée si misurava sulle
decine di migliaia di anni.
L'Italia comunale, sotto questo aspetto, non arrivò mai a realizzare la
democrazia, proprio perché sul piano economico non arrivò mai a realizzare
il socialismo. Tant'è che se da un lato si arrivò ad affermare una certa
autonomia dal potere feudale (locale o quello universale dell'imperatore),
dall'altro si finì coll'imporre alle zone rurali una forte dipendenza dalle
esigenze urbane.
Non ha senso parlare di democrazia politica quando non si può parlare di
contestuale democrazia economica. L'importanza della democrazia economica è
stata scoperta dal socialismo, prima utopistico poi scientifico, non certo
dal liberalismo, le cui idee economiche sono semplicemente quelle della
proprietà privata, della competizione, del monopolio e del libero scambio
ecc.
La presenza di uno Statuto comunale può di per sé far pensare a una forma
politica vicina alla democrazia, ma se si guarda p.es. al fatto che alla
stesura di tali Statuti partecipavano solo quelli che disponevano di un
certo patrimonio, per il quale potevano ottenere cariche politiche o
amministrative, si capisce facilmente come lo sviluppo del fenomeno comunale
(che è stato tipico dell'Italia borghese e che caratterizza ancor oggi buona
parte del capitalismo nazionale) fu in realtà un movimento interno ai ceti
borghesi.
Non avendo fatto la riforma protestante il capitalismo italiano è rimasto
per così dire circoscritto entro limiti di uno sviluppo industriale a
gestione familiare. Il timore di cadere in un capitalismo selvaggio è stato
scongiurato da una gestione borghese nei limiti (divenuti sempre più
elastici) della morale cattolica.
L'Italia non è diventata una grande potenza industriale quando doveva
diventarlo e oggi che potrebbe diventarlo, avendo abbandonato nella sostanza
(se non nelle forme) ogni riferimento alla morale cattolica, non ne ha più
le possibilità materiali, in quanto, nel frattempo, nuovi soggetti politici
ed economici sono emersi sulla scena internazionale e questi non le
permetterebbero di espandersi oltre un certo livello.
IL RUOLO DELL'IDEOLOGIA
Nel capitalismo il diritto apparentemente è più importante della forza, ma
nella realtà il diritto è in funzione della forza, cioè la forza economica
del proprietario privato, per imporsi sul cittadino, ha bisogno di
travestirsi coi panni del diritto. Perché questa finzione?
Nel feudalesimo la teologia serviva per consolare il servo della gleba che
subiva un rapporto violento, basato sulla forza, cioè sulla cosiddetta
coercizione extra-economica. Il contadino era costretto a lavorare e a
produrre plusvalore perché il feudatario lo minacciava con la sua forza. E
la chiesa lo consolava promettendogli d'intercedere presso il feudatario e
garantendogli la fine di quel rapporto nell'aldilà. La teologia veniva
usata, nello stesso tempo, per legittimare quel rapporto e per cercare di
renderlo più sopportabile.
La differenza tra diritto e teologia sta nel fatto che il primo ha la
pretesa di garantire la libertà sulla terra e non nel cielo. Sia il diritto
che la teologia agiscono prima e dopo i fatti dell'economia, al fine di
promuoverla e di legittimarla, ma il diritto vuole apparire come uno
strumento di emancipazione della borghesia dalla teologia e dai rapporti
feudali. Solo in questo senso la borghesia può sperare che la "nuova
scienza" venga accettata dal servo della gleba, che, lottando contro il
feudalesimo lotta anche contro la teocrazia.
Il diritto rappresenta un'ipocrisia maggiore proprio perché sul piano
economico l'antagonismo tra proprietario e lavoratore si riproduce in forme
diverse ma non meno opprimenti. Il contratto, nel lavoro salariato, offre
l'illusione di una libertà superiore a quella della dipendenza personale
dell'epoca feudale, ma essendo di molto aumentati gli standard vitali, ora
per il contadino neo-operaio la rottura di quel contratto comporta
immediatamente una situazione disperata.
L'illusione borghese è superiore perché superiore è l'alienazione. Mentre
nel feudalesimo era la dipendenza personale che imponeva lo sfruttamento,
nel capitalismo invece è la libertà personale (giuridica) del lavoratore che
impone un diverso sfruttamento, uno sfruttamento così particolare che lo
stesso lavoratore è diventato una "merce" da acquistare sul mercato del
lavoro.
Il diritto ha svolto le stesse funzioni della teologia all'alba del
feudalesimo. Infatti, all'origine del rapporto feudale la teologia ebbe lo
scopo d'illudere lo schiavo sulla possibilità della libertà nel servaggio.
Tale cultura, invece che spingere gli schiavi alla rivolta contro i padroni,
li convinse ad accettare una diversa forma di rapporto di lavoro, facendo
credere loro che con un proprietario cristiano il rapporto sarebbe stato
meno oppressivo.
All'origine di una formazione sociale antagonistica, che segue un'altra
formazione antagonistica, deve per forza esserci una cultura illusoria, che
è tale anche senza saperlo, in perfetta buona fede e nella convinzione di
poter modificare qualitativamente l'oppressione sociale.
E' proprio questa cultura che impedisce la transizione democratica. Ma per
poterla impedire essa deve offrire l'illusione di poterla superare. Là dove
c'è un antagonismo in atto, lì deve esserci un'ideologia che lo giustifica:
in questo caso era il paganesimo. Oltre a ciò deve anche esserci
un'ideologia che lo contesta e che cerca di superarlo: in questo caso il
cristianesimo. E' stato appunto il cristianesimo che nel tentativo di
superare lo schiavismo ha contribuito alla nascita del servaggio. Lo storico
non deve fare altro che esaminare l'efficacia democratica delle ideologie
progressiste.
Il fatto che nell'Europa orientale il feudalesimo fu più stabile di quello
occidentale dipese dalla diversità delle culture: ortodossa e cattolica.
Nell'est-europeo ci fu meno contestazione nei confronti del servaggio (come
minore fu quella nei confronti dello schiavismo) perché meno forti erano le
contraddizioni antagonistiche. Quando queste contraddizioni divennero
insopportabili, si finì col rifiutare, con esse, anche la soluzione
capitalistica prospettata in occidente. Ciò sta appunto a significare la
superiorità della cultura est-europea.
Tuttavia, la stabilità del feudalesimo si verificò anche in Asia, cioè sotto
la cultura indo-buddista. Questo fatto può essere spiegato pensando alla
limitatezza di quella cultura, che non ha saputo elaborare autonomamente una
critica del feudalesimo. Questa cultura sarebbe stata incapace di elaborare
un'illusione così sofisticata come quella euroccidentale. La critica del
feudalesimo essa l'ha acquisita dopo essere venuta a contatto con la civiltà
borghese e l'ideologia socialista.
Il fatto che in Asia il capitalismo non si sia affermato come in Occidente
(a parte il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore,
Macao...), sta però a significare che il feudalesimo asiatico aveva
conservato delle tracce del comunismo primitivo o comunque del modo di
produzione asiatico, che è di tipo socialistico, seppure in forma
autoritaria e massificante.
In tal senso è parso più naturale (soprattutto in quelle nazioni ove
l'ideologia è più democratica e i rapporti sociali sono più collettivistici:
si pensi alla Cina buddista) il passaggio diretto dal feudalesimo al
socialismo. In Cina, Vietnam, Corea del Nord, Mongolia ecc. è avvenuta la
stessa cosa che è avvenuta nell'Europa orientale, solo che qui il passaggio
è stato mediato dal cristianesimo e non dal buddismo. Probabilmente è stato
lo scarso peso dato all'individuo singolo che ha indotto il socialismo
asiatico ad essere così burocratico e autoritario. Sarebbe interessante, in
questo senso, cercare di capire se lo stalinismo è una variante del
socialismo asiatico o se invece rappresenta un'anticipazione del socialismo
che si affermerà in Europa occidentale.
CAPITALISMO E CRISTIANESIMO
Come mai la rivoluzione borghese si è verificata prima che altrove in
un'area geografica dominata dalla presenza del cristianesimo? Cosa ha
impedito a tutte le altre religioni di conseguire i medesimi risultati?
Il motivo è semplice: il cristianesimo è la prima religione del mondo che
pone l'uomo al centro del processo storico-universale. Esso da un lato ha
ereditato l'ottimismo della cultura ebraica, la fiducia nelle capacità degli
uomini, organizzati collettivamente, di trasformare l'ambiente in cui
vivono, superando della cultura ebraica l'aristocraticismo dell'appartenenza
a un "popolo eletto", a una delle dodici tribù, alla "nazione santa" ecc.
(il che comportava chiusure e settarismi); dall'altro ha ereditato il
cosmopolitismo dei popoli pagani (greco-romani soprattutto), superandone
l'individualismo e l'intellettualismo: limiti che portavano a credere nei
concetti passivi di "destino", "fato" ecc.
Tutte le altre religioni hanno conservato un rapporto migliore con la
natura, senza preoccuparsi più di tanto di "fare storia". In ciò esse
possono riflettere una maniera individualistica o collettivistica di vivere
i rapporti sociali: quel che è certo è che esse appaiono più "religiose" (in
senso tradizionale) del cristianesimo. La religione tradizionale esprime
infatti una sorta di rapporto magico con la natura, che è avvertita più
potente dell'uomo. Col cristianesimo invece il rapporto si ribalta: è l'uomo
a essere considerato più forte.
SCHIAVISMO FEUDALESIMO E CAPITALISMO
La principale contraddizione antagonistica della nostra epoca è quella
determinata dall'economia: i proprietari privati accumulano capitali per
acquisire un potere politico. Quanti più ne accumulano, tanto più è grande
il potere politico. Per poter realizzare tale scopo il capitalista è
disposto a tutto. Nei confronti del capitale, del denaro, vi è completa
soggezione.
Nell'antichità feudale e schiavista la contraddizione antagonistica
prevalente non era di natura così astratta, così artificiale, così
sofisticata: era di natura "fisica". Quanti più schiavi o servi della gleba
si possedevano (da far lavorare come contadini e artigiani), tanto più
potere politico si disponeva.
Il feudalesimo, in tal senso, è stato molto più vicino allo schiavismo che
non al capitalismo. Il capitalismo ha potuto formarsi dentro il feudalesimo
euroccidentale, ma ad un certo punto ha dovuto rompere con la "fisicità" di
quella forma d'antagonismo per poterne creare una nuova. In un certo senso
il capitalismo ha simbolizzato, materializzandolo nella forma astratta del
capitale, lo sfruttamento del servo della gleba. Ha cioè dovuto trasformare
una contraddizione "fisica" (la dipendenza personale del servaggio) in una
contraddizione "economica" (la falsa libertà personale del lavoratore
salariato).
Il capitalismo è stato costretto a questa finzione perché la resistenza del
servo della gleba alla contraddizione "fisica" era ormai diventata molto
grande ed essa non avrebbe permesso la riedizione, più o meno simile, di
quell'antagonismo. L'antagonismo, di fronte alla consapevolezza della
necessità del suo superamento, ha dovuto perfezionarsi per poter
sopravvivere. In quest'ottica andrebbero analizzati tutti i movimenti
contadini di protesta anteriori a quelli borghesi.
Il denaro resta un'astrazione anche quando permette di acquisire un potere
politico. Esso non avrà mai la concretezza di uno schiavo o di un servo
della gleba. Si possono accumulare capitali all'infinito (sempre che gli
operai lo permettano), non si può sfruttare uno schiavo o un servo oltre un
certo limite: sia perché si rischia di farlo morire (e di ciò si può non
tener conto solo se gli schiavi o i servi a disposizione sono in grande
quantità), sia perché l'accumulo di derrate alimentari superiori al
fabbisogno del proprietario è per forza di cose limitato, specie se esse
sono deperibili.
Con l'uso del denaro, inteso come scambio equivalente delle merci, tutti
questi problemi sono stati superati. Allo sfruttamento "estensivo",
relativo, della manodopera si è sostituito quello "intensivo", assoluto (che
diventa relativo solo se la manodopera si oppone con la forza allo
sfruttamento).
L'economia ha sostituito la fisicità dell'antagonismo, non solo acuendo lo
sfruttamento del lavoratore, ma estendendone anche i confini geografici.
Interi popoli della terra sono entrati nella storia del capitale solo come
"sfruttati". Il servaggio non poteva avere un'esigenza di universalità,
poiché il rapporto di dipendenza personale, per quanto gerarchizzato fosse,
non conosceva la possibilità di usare il denaro come equivalente universale,
cioè non aveva la capacità di servirsi di una finzione a livelli così
elevati. Oggi tuttavia per la prima volta un'opposizione all'antagonismo può
diventare di tipo universale.
Ci si può chiedere se in futuro non esisterà un'altra forma di antagonismo,
ancora più sofisticata di quella economica, che possa permettere
l'acquisizione di un potere politico. Una forma analoga a quella stalinista
o maoista, basata su una sorta di potere carismatico (soggettivo) della
persona e ideologico (oggettivo) dell'istituzione ch'essa rappresenta. Una
forma cioè che dopo essere maturata in un'esperienza collettivistica
s'imponga in maniera individualistica, servendosi del collettivismo in modo
burocratico e militarizzato. L'acquisizione del potere a partire da ideali
di giustizia sociale e di libertà, e poi l'uso del potere acquisito contro
questi stessi ideali: ecco la sostanza dello stalinismo. Solo delle
motivazioni interiori (non legate quindi al denaro né alla proprietà di
alcunché) possono determinare un rivolgimento del genere.
I VANTAGGI DEL CAPITALISMO
Gli storici devono cominciare a chiedersi se i vantaggi ottenuti con lo
sviluppo della società borghese, subito dopo il crollo del feudalesimo,
potevano essere considerati sufficienti a legittimare la necessità di una
definitiva transizione, ovvero se gli svantaggi correlati a questa
transizione non furono così grandi da escludere l'idea che non vi fosse
un'altra soluzione alla crisi del feudalesimo.
In effetti, oggi appare sempre più chiaro che il capitalismo non è che una
variante dello schiavismo (così come d'altra parte lo era il servaggio): le
differenze sono più formali (cioè giuspolitiche) che sostanziali (cioè
socioeconomiche). La differenza tra capitalismo e feudalesimo sta
nell'illusione della libertà o della ricchezza e naturalmente nei mezzi
materiali con cui si cerca di alimentare tale illusione. Nel feudalesimo la
libertà dipendeva da una ricchezza che si acquisiva per nascita: solo a
partire dalla crociate gli esclusi da qualunque forma di eredità (ad es. i
cadetti), cercarono di far fortuna come i borghesi.
Ricchezza e libertà coincidono sia nello schiavismo, che nel servaggio e nel
capitalismo: nel primo caso il metro di misura è il numero degli schiavi che
si possiede (ma si conosceva anche la ricchezza fondiaria e quella
commerciale); nel secondo caso il metro di misura è la terra; nel terzo è il
capitale.
Il capitalismo, aumentando l'illusione della libertà, è stato, dal punto di
vista dell'onestà intellettuale, un regresso rispetto allo schiavismo
romano, dove l'illusione era minima. Il capitalismo non ha fatto che
accentuare al massimo l'illusione del servaggio, sostituendo la religione
con mille altre droghe. Senza contare il fatto che il capitalismo, per
sopravvivere, ha necessariamente bisogno di colonie da sfruttare, mentre il
feudalesimo -almeno sino alle crociate- si limitava a uno sfruttamento del
lavoro interno. Da ultimo bisogna tener conto che il capitalismo, per
alimentare le proprie illusioni, ha bisogno di usare strumenti imponenti e
sofisticati, che comportano una notevole distruzione ambientale (e su scala
planetaria).
Il marxismo da sempre ha detto che il capitalismo sarebbe stato l'ultima
illusione. La storia però ha dimostrato che ne può esistere un'altra ancora
più sofisticata (sul piano politico-ideologico): quella del socialismo
amministrato, di Stato (che è una riedizione del servaggio, e che oggi si
trova ancora in Cina).
Dobbiamo in sostanza chiederci che possibilità aveva il capitalismo di
svilupparsi senza il colonialismo (iniziato praticamente con le crociate,
cioè con un'ideologia religiosa -quella cattolica- ben marcata). E' forse
giusto esaltare gli aspetti antifeudali del capitalismo, quando, per
affermare tali aspetti, esso ha avuto bisogno di inaugurare nuove forme di
sfruttamento e di oppressione (su larga scala)? I progressi conseguiti sul
piano tecnico, materiale, scientifico sono sufficienti per giustificare il
superamento del feudalesimo? E' possibile cioè che dal servaggio, attraverso
la lotta politica, non si potesse passare a un'altra forma di società
civile, realmente democratica?
Perché nell'Europa orientale è potuta avvenire la transizione dal
feudalesimo al socialismo (seppure di Stato), senza passare per il
capitalismo? La risposta, probabilmente, va cercata nello sviluppo diverso
delle tre ideologie religiose: cattolica, protestante e ortodossa, o
comunque nel diverso tipo d'influenza che queste ideologie hanno esercitato
sui rapporti sociali. Non a caso l'inizio dei rapporti borghesi è avvenuto
in Europa occidentale, quando si era definitivamente consumata la rottura
tra Occidente cattolico e Oriente ortodosso. Solo che lo sviluppo di tali
rapporti ha trovato la sua maggiore coerenza nell'area protestantica non in
quella cattolica. La chiesa romana, infatti, essendo eminentemente politica,
non tollera che si formi al proprio interno una classe che in nome del
capitale possa minacciarne il potere. La chiesa romana è una chiesa feudale
il cui potere economico è sostanzialmente legato alla terra.
L'ideologia cattolica non favorisce di per sé i rapporti borghesi, ma non ha
neppure in sé la forza (morale) per escludere tale evoluzione: essa cerca
solo di usare la forza politica per opporsi alla borghesia, ma questo ha
potuto farlo in Italia sino all'unificazione nazionale, in Francia sino alla
Rivoluzione dell'89, ecc. La capacità di opporsi idealmente al capitalismo è
diminuita, nel cattolicesimo, in misura proporzionale al suo distacco
dall'ortodossia. Il protestantesimo, dal canto suo, ha potuto perorare al
100% la causa della borghesia perché, rompendo col cattolicesimo, ha evitato
di ricollegarsi all'ortodossia (infatti ha eliminato il concetto di
"tradizione"). E così oggi è solo la chiesa cattolica che ancora s'illude di
poter realizzare sul piano politico una "terza via" tra socialismo e
capitalismo. Né l'ortodossia, né, per motivi diversi, il protestantesimo si
sono mai preoccupati di questa cosa.
Nei Paesi protestanti, sul piano etico, si sono realizzati dei rapporti
umani individualistici e cinici, perché basati sul denaro; nei Paesi
cattolici ancora ci si illude che l'ideologia religiosa abbia in sé il
potere d'impedire che si formino dei rapporti del genere. Il persistere di
concetti come "Stato assistenziale" o "garantista", "capitalismo popolare"
ecc. sono appunto il frutto di questa illusione.
In Italia le forze conservatrici, che da mezzo secolo stanno al potere (e
che dicono d'ispirarsi al cattolicesimo e che fino a qualche tempo fa
s'illudevano di poter "umanizzare" il capitalismo), si sono sempre
meravigliate, lamentandosene, della grande forza (almeno sul piano
quantitativo) delle masse comuniste. In realtà, tale forza trovava la sua
ragion d'essere proprio nella presenza autorevole, nel nostro Paese, del
cattolicesimo, il quale, nonostante i suoi dualismi, ha saputo trasmettere,
per un certo periodo di tempo, l'esigenza di un ideale di giustizia anche in
quei soggetti usciti dalla chiesa cattolica. Paradossalmente, proprio
l'affermazione del socialismo avrebbe permesso agli ideali del cattolicesimo
di sopravvivere meglio (seppure ovviamente in forma laicizzata). Tuttavia,
la chiesa cattolica non ha mai accettato questa soluzione (almeno in
Occidente), proprio perché è una chiesa sostanzialmente legata al potere
politico: essa ha sempre preferito considerare come suo principale nemico il
comunismo invece del capitalismo. Salvo poi lamentarsi, con ipocrisia, che
dopo il crollo degli ideali comunisti non s'intravede più in Occidente una
lotta politica per la giustizia. Viceversa, nel Terzo mondo la chiesa
cattolica (slegata dal potere istituzionale) ha preferito mettersi in
rapporto con le ideologie socialiste.
E' curioso che il crollo "storico" del socialismo stia trascinando con sé
anche quello "ideale" del cattolicesimo. Tuttavia il vero crollo "storico"
del cattolicesimo avverrà soltanto quando il socialismo avrà realizzato gli
ideali della democrazia sociale e dell'umanesimo integrale. Prima di allora
il destino del cattolicesimo occidentale sarà sempre più quello di
trasformarsi, all'ovest, in un'ideologia analoga a quella protestantica (con
qualche settore interessato all'ortodossia), e al sud in un'ideologia legata
agli ambienti di sinistra.
L'INQUISIZIONE
MISTERI
DELL'INQUISIZIONE
ED ALTRE SOCIETA' SEGRETE DI SPAGNA
V. De Fréréal
CON NOTE STORICHE ED UNA INTRODUZIONE
di Manuel de Quendias
E CON ESTRATTI DI UNA LETTERA
RELATIVA A QUEST'OPERA
DI Edgardo Quinet
Nuova edizione Italiana
Milano - Francesco Pagnoni , editore-tipografo 1867
Trascrizione dagli originali, in due e quattro volumi, pubblicati in lingua
italiana nel 1847 a Parigi, e nel 1867 a Milano.
Quest'opera pregevolissima è oramai di Pubblico Dominio e di libera
circolazione (freeware), essendo trascorsi oltre 70 anni dalla morte
dell'autore.
A cura di Claudio Della Valle http://web.tiscali.it/geremia2000
Principali chiavi di ricerca per trovare, in ogni tempo e luogo, tracce di
Claudio Della Valle e dei suoi lavori su Google o altri motori di ricerca.
Inserire, comprese le virgolette:
"Claudio Della Valle" - "Il canto della Sorgente" - "Il luogo di
Geremia" -
"Della resurrezione dei morti" - "In nome del pane" - "Lettera a un
cristiano mai nato" - "Sulla via del ritorno" - "Riflessioni ed ipotesi
sull'Apocalisse
di S. Giovanni"
INTRODUZIONE.
Venti secoli fa la terra era soggetta ai tiranni, cioè ai re ed ai preti,
che, valendosi delle diverse religioni che professavano, rendevano schiave
le nazioni, e le governavano. Gesù Cristo non aveva recato per anco al mondo
i divini precetti che dovevano rigenerarlo. Ei non era ancor morto sur una
croce per dare la libertà alla terra.. L'evangelo non esisteva.
Da quel tempo in poi l'evangelo è stato a tutti insegnato.
Non contenti ad aver lasciato alle nazioni la dottrina del loro divino
Maestro, gli apostoli ed i discepoli di Gesù Cristo sono morti per
difenderla.
Nei primi secoli del Cristianesimo, i pontefici e i preti cristiani hanno
camminato nel sentiero che avevano loro segnato gli apostoli, com'essi, han
proclamato la fede cristiana sotto la scure dei carnefici, ed il sangue dei
mártiri ha fruttificato.
La metà del mondo abbracciò il cristianesimo; ma a quei tempi, sì gloriosi
per la specie umana, succedettero ben tosto secoli d'iniquità.
Finché durò la persecuzione, i pontefici e i preti cristiani furono umili e
forti; cessata la persecuzione, i papi, dapprima sì poveri, divennero presto
ricchi e potenti. Coloro che non ha guari erano obbligati a vivere senza
asilo, a predicare sulle montagne e a celebrare l'uffizio divino nei cavi
delle rupi, ebbero un regno temporale, magnifici templi e una corte più
splendente di quella dei re. La croce per essi non fu più un'arme
sufficiente a combattere l'errore e a sottomettere i popoli alla fede di
Cristo. Ebbero armi come i re della terra, e combatterono con la spada
coloro ch'era mestieri vincere colla dolcezza.
Di mártiri divennero carnefici!
D'allora in poi lo spirito di Dio gli abbandonò, l'orgoglio e l'ambizione
dominarono l'anima dei preti del Signore. Essi non furono più gli umili
ministri di un Dio crocifisso, ma i vili cortigiani di un papa. Roma non fu
più la città santa, ma la città dell'orgia, un bordello, secondo l'energica
espressione di Dante[1].
In poco tempo Roma Cristiana divenne più pagana di quello che fosse stata ai
tempi di Nerone e di Caligola; non fu più la capitale del mondo cristiano,
ma un immondo lupanare, in cui i leviti del Signore profanavano ogni giorno
la loro sacra veste.
Il palazzo dei papi divenne il palazzo della lussuria, ed un ricovero di
ciurmadori. I cardinali e i vescovi, questi successori dei predicatori della
Giudea, trasformati in principi della terra, non si prostrarono più nella
polve dei templi, umiliandosi e pregando pel loro gregge; ma in quei templi
ebbero troni, ov'erano incensati come iddii, ove s'inebriavano di profumi e
d'armonia, ove spiegavano la pompa fastosa e fascinatrice delle cerimonie
d'un
culto che Cristo non avrebbe riconosciuto se fosse ridisceso sulla terra.
In tal modo il clero romano, obliando il ciclo nei sollazzi mondani, si fece
adorare per molti secoli in luogo del Dio vivente; e siccome il Vangelo
condannava la sua condotta, egli vietò ai popoli la lettura del Vangelo[2].
Nel volgere di questi tempi, i popoli camminavano silenziosi incontro
all'avvenire;
la Spagna, incivilita dai Mori, coltivava con successo le arti e
l'industria;
le lettere rinascevano in Italia, l'Alemagna si preparava alla riforma, e
l'Inghilterra
fremeva già d'entusiasmo ai primi vagiti della nascente libertà.
Roma, finalmente, si svegliò dal suo letargo al rumore che i popoli facevano
per rompere le loro catene; essa vide la potenza sfuggirle di mano. Allora,
invece di prostrarsi e dimandare perdono a Dio d'un passato colmo
d'iniquità,
che fece il capo della Chiesa, il successore di san Pietro?.Creò
l'Inquisizione[3].
Da quel giorno il clero cattolico, fatto certo di regnare col terrore e
colla forza, sdegnò d'ingannare l'umanità, dominata per tanto tempo dalla
sua ipocrisia, e ne divenne il flagello. D'allora in poi lottò apertamente
contro il progresso dei lumi. Mercé le sue cure, l'Inquisizione avanzò
bentosto tutte le speranze di Roma, e diede al potere temporale dei papi una
estensione di cui non sapremmo formarci oggidì che una debole idea.
L'Inquisizione, da lunga pezza preparata ai rigori che fino dal terzo secolo
dell'era cristiana i papi avevano esercitato contro i popoli, preparata
eziandio dal Concilio di Verona nel 1184, l'Inquisizione ebbe cominciamento
soltanto col secolo decimoterzo ( 1208 ).
Fu istituita in Francia sotto il pontificato d'Innocenzio III, e
regolarizzata da Domenico de Guzman, che impose a questa istituzione la
regola di sant'Agostino. Alcuni anni più tardi, l'Inquisizione aveva varcato
le Alpi, e regnava su quasi tutta l'Italia. Finalmente nel 1232, Gregorio IX
indirizzò all'arcivescovo di Tarragona, in Catalogna, un breve col quale
gl'ingiungeva
di stabilire l'Inquisizione nella sua diocesi. Alcuni monaci domenicani
furono rivestiti della carica d'inquisitori; ben presto tutta la Spagna dovè
sobbarcarsi a questo odioso giogo. Tuttavia gli Spagnoli han lottato senza
posa per due secoli contro i progressi di questa orribile istituzione, e
contro la sua invasione. Ma nel 1484, un priore fanatico, Tommaso di
Torrequemada, secondano l'avara ambizione di Ferdinando d'Aragona,
introdusse l'Inquisizione in Castiglia e in Aragona, dove non era ancor
penetrata, e si fece nominare grande inquisitore generale. Torrequemada
appunto diè principio a quella lunga serie d'inaudite persecuzioni le quali
non cessarono in Spagna che al giungere dei Francesi nel 1808; allora
veramente cadde l'Inquisizione colla potenza morale della Chiesa spagnuola,
dopo avere stanca la Spagna per più di tre secoli d'agonía.
In questo lungo e sanguinoso periodo, il secolo decimosesto è quello che
offre i quadri più ricchi di opposizioni e di contrasti all'osservazione
dello storico.
Questo secolo, che ha veduto i regni di Carlo V e di Filippo II, ha
assistito alla fine di quello di Torrequemada, ed a quelli degl'inquisitori
generali Deza e Cisneros; questo secolo, infine, è stato testimone delle
lotte del vero spirito cristiano contro l'oscurantismo e la simonia di
Roma.
Da una parte erano Lutero, Zelantone e Zwingli che mostravano al mondo gli
abusi della Chiesa Romana, confondevano la scompigliata teologia dei monaci,
e regalavano all'Alemagna ed alla Svizzera quel largo codice di uguaglianza
e di libertà che comincia a' piè dell'altare e termina ai gradini del trono.
Dall'altra san Giovanni d'Avila, Luigi di Granata, san Giovanni di Dio,
monaci arditi nelle loro dottrine, ma animati dal vero spirito degli
apostoli, che lottavano colla dolcezza e la carità contro l'intolleranza e i
vizi di Roma, ed erano colpiti dall'Inquisizione ad onta del loro candore
evangelico, e della loro pia moderazione.
Eravi finalmente quel gran re, Carlo V, che proteggeva l'Inquisizione, da
lui aborrita, onde farsene un appoggio, perciocché da accorto politico
comprendeva che la riforma la quale abbatteva la potenza dei papi, non si
sarebbe arrestata che dopo avere abbattuta la potenza dei déspoti.
Leggendo la storia dell'Inquisizione, e specialmente quella del secolo
decimosesto, si giunge a persuadersi di questa sentenza: che la grand'arte
di Roma e di saper sempre collegare la causa dei re alla propria, e quando
essa non può regnare con la forza, regnare coll'astuzia e col proselitismo.
Non ne rimane che aggiungere una parola: Roma non ha cambiato spirito; essa
ha sempre numerosi agenti che per impercettibili ramificazioni distende come
un'ampia rete sul mondo; essa non ha più gl'inquisitori, ha i Gesuiti.
Il secolo cammina, si dice; ma si guardi bene, che la pendenza retrograda
diverrà lubrica e facile se accordasi al clero ciò che domanda, il monopolio
dell'insegnamento.
Lasciamo una o due generazioni crescere ed informarsi fra le mani dei
discepoli di Loyola, e si vedrà quello che diverranno i lumi, la felicità e
la libertà del mondo. I mali del passato debbono essere di scuola per
l'avvenire.
Leggasi il passato dell'inquisizione, presentato sotto colori sì veri e
drammatici da V. de Féréal, nei Misteri dell'Inquisizione di Spagna, e si
vedrà come divenga insensibilmente terribile e formidabile una potenza
occulta che non lavora a pro dell'umanità, ma avendo in mira solo una cosa.
Quest'opera, rigorosamente storica, malgrado la sua forma drammatica, sarà
forse l'obbietto di molti attacchi, e darà luogo a più d'una calunnia contro
il lavoro, contro l'autore e contro noi, che l'abbiamo commentata. E' questa
l'opinione d'un uomo che, calunniato ingiustamente egli stesso, conosce a
fondo i nemici della causa che l'autore difende: noi vogliamo parlare di E.
Quinet.
Ecco ciò che risponde l'illustre scrittore alla domanda che gli abbiamo
diretta di appoggiare l'autore col suo nome, ricusandoci l'onore che gli
chiedavamo.
"...-Voi che siete dabben'uomo e straniero, pensate sempre che il pubblico
saprà il vero; ma no: sarà ingannato.Io non dubito del talento elevato
dell'autore
dei Misteri dell'Inquisizione; ma basta che l'immaginazione entri per
qualche cosa in quel libro, basta, in una parola, che sia un romanzo, per
esser certi che se il mio nome vi comparisse, il libro sarebbe
immediatamente calunniato. Vi avrei servito molto male, e avrei agito contro
la mia causa; ogni personaggio, il più innocente ancora, sarà travisato,
dispregiato, rivoltato, avvelenato, il pubblico non andrà a ricercare la
verità; vedrà soltanto elevarsi contro di me una massa di menzogne, alle
quali sarà impossibile il rispondere; poiché, lo ripeto,ad avversari sleali
come i miei non posso chiudere la bocca che colla Storia semplice, senza
ornamento né invenzione d'arte.
Quando m'avete domandato per la prima volta che il mio nome andasse innanzi
alla vostra opera, trattatavasi d'un lavoro puramente storico; poscia il
vostro pensiero si è sviluppato, e siete pervenuto ad una forma più completa
e più popolare. Ma se fino da principio mi aveste richiesto: -Volete
fiancheggiare del vostro nome un bel romanzo storico sull'Inquisizione?- Vi
avrei risposto con mio grande rincrescimento: -Voi mi chiedete una cosa
impossibile, che non farei né per un mio fratello né pel mio figlio!.--
E più in basso continua:
-Se si vedesse l'odiato mio nome a capo d'un libro, si renderebbero i miei
princìpi e la mia causa responsabili di tutte le calunnie che si andassero
accumulando. I vostri personaggi diverrebbero tanti mostri, e si direbbe che
io gli ho coperti colla mia veste di professore dell'Università. Sareste
attaccato da tutti i miei nemici..-
E più in basso ancora, l'autore dell'Ultramontanismo, dolendosi di non
poterne appoggiare come noi lo brameremmo, ci fa l'onore di aggiungere:
-Quando l'amicizia e la stima che m'ispirate non me lo comandassero, (di
soddisfare il vostro desiderio ove mi fosse possibile), io vi sarei condotto
dal talento sì vero e sì variato dell'autore, del quale io non ho letta
pagina che non siami sembrata considerevole. In questo e nella reale vostra
cooperazione sta il successo -
-Firmato E. Quinet-
Noi dobbiamo dunque tutto aspettarci dai nemici della verità. Per risponder
loro anticipatamente, dichiariamo qui che l'autore dei Misteri
dell'inquisizione
e noi, non abbiamo avuto altro scopo che premunire il nostro paese contro
gli abusi cui può trascinare lo spirito dominatore del clero: i quali, se
non pervenissero ad immergere la Francia nelle sventure di ogni specie che
hanno per tanto tempo oppresso gli Spagnuoli, potrebbero almeno introdurvi
quelle segrete dissensioni, quelle lotte intestine, frutto di una limitata e
mal diretta educazione, che fanno da ruggine ai vincoli sociali; che
esacerbando poco a poco gli spiriti, li allontanano gli uni dagli altri, e
preparano quei terribili combattimenti dell'intelligenza e della materia, a
cui si frangono la forza e la prosperità delle nazioni.
Manuel de Quendias
I. Il quartiere di Triana.
Verso la metà del secolo decimosesto, durante il regno di Carlo V, la
popolazione di Siviglia, questa gaia e festevole capitale dell'Andalusia,
era a poco a poco divenuta cupa, silenziosa e mesta. Indarno la città
moresca faceva pompa, ai raggi di splendido sole, dei suoi vasti terrazzi
coperti d'arbusti e di fiori; dei suoi eleganti balconi, ove s'intrecciavano
delle liane verdi e fiorite, delle graniglie rosse e dei gelsomini di
Virginia dalle larghe corolle aurate.
La sera non udivasi più, sotto i balconi, la voce dei cavalieri innamorati
congiunta agli striduli accordi del mandolino; e se nelle ore deliziose
della notte, qualche timida fanciulletta osava ancora mostrarsi sul suo
terrazzo, e respirare la fresc'aura e profumata che s'elevava dalle rive del
Guadalquivir, essa passava taciturna e grave come ombra, e dal muto suo
labbro non uscivano più che sospiri soffocati, invece di quel dolce riso
delle fanciulle, di quell'armoniosa melodia di linguaggio, che sulle labbra
delle donne fa somigliare ad una musica soave la lingua degli Spagnoli.
Dappertutto il terrore aveva, da lunga stagione, alzato il suo sinistro
stendardo; non più ciarle di famiglia, non più riunioni patriarcali; la
diffidenza ed il timore paralizzavano i più dolci sentimenti dell'anima. Il
padre temeva del figlio, del fratello il fratello, l'amico del proprio
amico; perciocché si tremava in quell'epoca di trovar sempre nell'individuo
meglio diletto una spia o un accusatore. Niuno era sicuro né della propria
fortuna, né della vita; l'uomo viveva giorno per giorno, non osando
attaccarsi a nulla, respingendo in fondo al cuore ogni slancio di generosità
o di tenerezza, non trovando neppure consolazione o speranza in Dio, quel
grande consolatore di tutte le miserie; perciocché non ardiva più invocarlo
nella libertà della propria coscienza, essendo incerto se l'espressione
della preghiera, o la manifestazione della sua fede fosse l'espressione
legale approvata dal tribunale supremo dell'Inquisizione: sacro usurpatore,
che voleva che si adorasse Iddio alla sua maniera, ovvero, trasformandosi
egli stesso in Dio, si arrogava diritti infiniti ed una funesta possanza sui
corpi e sulle anime; tiranno spietato che cercava, con tutti i mezzi
possibili, di raggiungere l'unico suo scopo, il dominare. L'Inquisizione era
allora all'orribile apogeo della sua potenza; aveva per capo il cardinale
Alfonso Manriquez, arcivescovo di Siviglia. Questo rapido colpo d'occhio era
necessario per la intelligenza dei capitoli che seguono.
Ora riportiamoci al 15 febbraio dell'anno 1534.
Potevano essere sette ore di sera, e le strade di Siviglia, innanzi rumorose
ed animate, erano già silenziose ed oscure, benché occorresse l'epoca del
carnevale. Solamente a quando a quando alcuni monaci di sordido aspetto
s'incrociavano
nelle strade con qualche gitano vagabondo; alcuni famigliari del
Sant'Uffizio,
spioni vigilanti, si salutavano passando con un segno sacramentale[4], e gli
abitanti del quartiere di Triana[5] si affollavano alle entrate del ponte di
barche gettato sul Guadalquivir, che riunisce la città a quest'immenso
sobborgo, immonda sentina, ove, anco ai nostri dì, pullula la feccia della
popolazione Sivigliana.
Fra le persone che a quell'ora attraversavano il ponte di Triana, si vedeva
un uomo di alta statura, vestito d'un cappuccio di monaco predicatore. La
sua fronte, spaziosa e grave, era piuttosto calma che austera; i suoi grandi
occhi neri, pieni di dolcezza, benché l'entusiasmo ed il pensiero vi
facessero brillare delle fiamme, e il suo labbro taciturno era l'impronta
dell'eloquenza e della poesia. Raggiava su quel volto l'energia di san Paolo
e la dolcezza dell'amato discepolo.
Quest'uomo camminava lentamente, come fosse preoccupato da alti pensieri, e
nella profonda non curanza delle cose terrene nella quale pareva immerso, ei
non vedeva i passeggeri che si urtavano appresso a lui, né coloro che,
venendo dalla medesima direzione in cui egli andava, potevano urtare lui
stesso nella semi-oscurità della notte.
Giunto all'altra parte del ponte, si fermò un istante, incerto se prendere
la destra o la sinistra delle due strade che formavano una biforcazione
davanti a lui. Ma siccome a questa indecisione poco formulata si mischiavano
preoccupazioni d'altro genere, il monaco, dominato senza dubbio da un'idea,
rimase pensoso e senza moto al medesimo posto. In tal guisa somigliava ad un
uomo che attende ad un abboccamento piuttosto, che ad un filosofo meditante;
e specialmente in quell'epoca, pochi, in vedendo il monaco così immobile,
avrebbero compreso che non faceva che ubbidire ad una posa del suo pensiero.
Il quell'istante, un uomo decentemente vestito sboccò dalla strada a dritta,
nominata allora la via dei Gitani, cioè dei Boemi, si fermò alcuni momenti
sull'angolo della via, guardando da tutti i lati come se cercasse qualcuno;
poscia, visto il religioso, si diresse lentamente verso di lui.
Giunto a pochi passi di distanza dal frate predicatore, ei si fermò di
nuovo; il monaco non lo vedeva ancora.
Il laico si avvicinò d'un passo, e pronunziò a voce bassa questa parola.
-Hito[6]-.-
Al suono di quella voce il monaco alzò bruscamente la testa, guardò un
istante l'uomo che gli aveva parlato, e rispose gravemente con un'altra
parola:
-Coraza[7]-.-
-Dio[8] mi manda-, soggiunse l'incognito.
-Dio ha ogni potere sugli uomini-, rispose il monaco.
-Vostra Reverenza può seguirmi-, proseguì il laico.
Il religioso ubbidì, e si pose a camminare al lato della sua guida con
sembiante così tranquillo, così naturale, come se cotesto incidente non
fosse stato impreveduto; lasciandosi guidare come docile fanciullo, ed
osservando scrupolosamente l'imperioso chiton[9], comandato dal terrore che
inspirava l'Inquisizione, e che è rimasto sinistro proverbio fra gli
Spagnoli.
L'incognito ed il monaco seguirono insieme la via dei Gitani: strada lunga,
nera e tortuosa, dove non si vedeva altra luce che quella delle numerose
taverne schierate lungo di essa, dalle quali usciva un rumore stridulo e
confuso, miscuglio di voci discordi ed avvinate.
Il popolaccio di Siviglia godeva in quel momento dei suoi sollazzi, e
s'inebriava
di manzanilla e di pajarete, che beveva a lunghi sorsi nelle chiquitas,
bicchieri lunghi e stretti, di forma quadrata, ancora in uso nelle bettole
andalusiane.
Giunto verso il fondo della strada, il laico si fermò davanti ad una taverna
meglio illuminata delle altre; e indicando la porta al suo compagno, gli
fece cenno d'entrare.
Il religioso varcò senza esitare la soglia di quel luogo orribile; poiché
allora non era cosa rara il vedere dei monaci in una taverna. Del resto
sappiamo che nella Spagna eglino si sono in ogni tempo mischiati a tutte le
cose sudice e riprovate. Da ciò senza dubbio il disprezzo e l'odio che gli
hanno perseguitati e scacciati.
Il frate entrò nella taverna.
Era una sala bassa, lunga ed oscura, colle pareti nere ed affumicate,
coperte qua e là di larghe fessure, di colore più chiaro delle quali,
contrapposto ai tuoni più cupi della muraglia, formava su quel fondo nero un
mosaico di geroglifici.
Delle panche grossolane e zoppe si stendevano tutto all'intorno di questa
sala, davanti a lunghe tavole, nere e sporche, alle quali però il continuo
sfregamento dei gomiti aveva dato una specie di vernice.
Sulle mura, a metà altezza della soffitta, si erano appiccicate molte
immagini grossolane, rappresentanti le numerose madonne che la Spagna adora,
e delle scene orribili d'atti-di-fede. Al di sotto di ciascuna immagine
ardevano due piccole candele, grosse come un cannello di penna, od un lume a
olio, affumicato e puzzolente. Questi lumi, che ardevano del continuo,
formavano durante tutta la notte la illuminazione della taverna.
Alle travi della soffitta erano fissati a vite molti uncini di ferro a più
branche, da cui pendevano qua e là dei prosciutti, del lardo affumicato,
della carne fresca, dei cappelli d'uomini ed anco dei mantelli; questi
uncini servivano da attacca-cappe ai clienti della bettola.
A vedere tutte quelle persone, schifose nell'aspetto, monaci, zingare,
gitani e famigliari dell'Inquisizione, avvegnacché vi fosse di tutto in
quella taverna; a vederle, dico, assise intorno a lunghe tavole, alla
tremula luce delle candele, coperte di un singolare vestiario, si sarebbe
detta un'assemblea di demoni seduti sotto le forche in mezzo ad una
catacomba.
Il suolo, terroso, grigiastro ed umido, non rimbombava sotto i sandali dei
monaci o i piè nudi dei gitani; il frastuono delle voci rauche somigliava ad
una lunga salmodia. Quel luogo immondo tanto inspirava terrore, quanto
disgusto. Tali erano le taverne del sobborgo di Triana[10].
Il frate andò ad assidersi all'estremità della sala, a capo di una tavola in
cui non era alcuno, poscia invitò il suo compagno a porsi al suo lato.
-Subito-, disse l'incognito; -ma bisogna prima ch'io parli alla Graziosa-. E
indicò una fanciulla ch'era in piedi, pochi passi distanti da loro, sulla
porta d'uno stanzino che le serviva di cucina.
La Graziosa, sorella del taverniere, era una giovane e bruna andalusiana,
mezza gitana, dalle gambe sottili e rotonde, coperte appena fin sotto alla
polpa da una corta sottana rossa. Lunghi capelli neri, un po' ondati,
cadevano, divisi in due treccie, da ciascun lato della sua testa sino al di
sotto della sua vita snella, ed una larga striscia di nastro color d'arancio
era attaccata al di sopra della nuca per mezzo di lunghi spilli colla testa
d'acciaio, le cui mille faccette brillavano come stelle.
L'incognito le si fe' incontro famigliarmente, e le disse con accento breve
ed a mezza voce:
-Graziosa, è venuto Francesco?-
-Non ancora-, rispose l'Andalusiana, -ma non può tardare, ho mandato mio
fratello Giovacchino ad avvertirlo che la signora Dolores uscirà di casa a
mezzanotte; Francesco deve venire a raggiungervi qui, come pure questo
sant'uomo
che Dio[11] onora della sua confidenza-.
Nel tempo stesso la Graziosa gettò uno sguardo curioso sulla bella ed
imponente figura del religioso.
-E' lui-, disse l'incognito,-è il confidente intimo dell'illustrissimo e
reverendo padre Pietro Arbues; l'ho incontrato a piè del ponte di Triana,
come me l'aveva annunziato Sua Eminenza, e non aspettiamo che Francesco per
la esecuzione del nostro progetto, se tuttavia la signora Dolores mantiene
la sua parola-.-
-Essa uscirà, signore-, riprese la Graziosa, -le ho portato io stessa una
lettera del suo fidanzato, che Sua Eminenza ha fatto, per passatempo,
scrivere da Pietro di Saavedra[12]-.-
-E la fanciulla ha acconsentito così subito ad un appuntamento?-domandò lo
sconosciuto, che d'ora innanzi chiameremo Enrico.
-Rifiutò da principio-, disse la Graziosa; -ma la lettera era così
pressante! Si trattava della vita del suo sposo, e la fanciulla ha promesso
tutto ciò che ho voluto. Essa deve recarsi questa sera nel luogo indicato.
Vi persuaderete facilmente-, aggiunse la sorella di Giovacchino, -che io non
sono stata estranea alla sua determinazione, e che vi ho cooperato con tutto
il mio potere-.-
-Sia lodato Iddio!-sclamò Enrico con simulata compunzione, -tu sei una vera
strega, Graziosa! E, in fede mia, Sua Eminenza non poteva scegliere meglio
di te per farne l'istrumento della sua santissima ed immutabile volontà. Tu
comprendi bene che il nostro santo inquisitore non ha altro scopo che quello
di strappare al demonio l'anima di questa giovine, impedendo il suo
matrimonio con don Estevan de Vargas, il quale si dice sia figlio di un
marràno[13] e nipote d'un moresco-,-
-Oh! questo è vero-, disse la Graziosa, facendo un gran segno di
croce. -Monsignore è un sant'uomo, ei non agisce che a fin di bene. Ma non
mi dite che sono una strega-, soggiunse tutta spaventata; -una tal parola
non deve uscire dalla bocca di un famigliare del Sant'Uffizio; poiché in
premio del mio zelo a servire la santissima Inquisizione, questa parola
potrebbe mandarmi a figurare nel primo grande atto-di-fede che avrà luogo
per celebrare le vittorie del re Carlo, nostro amatissimo padrone-.-
-Andiamo, càlmati, Graziosa, tu sei troppo buona cattolica e troppo fedele
alla santa Inquisizione per averne timore. Quanto prima avremo, è vero, un
grande atto-di-fede; e non sarà il primo dacché il nostro amatissimo signore
e re Carlo è salito sul trono: ebbene, io ti prometto il miglior posto nella
gran loggia della piazza maggiore, per vedere arrostire tutti quei cani
d'eretici-.-
-Davvero?-gridò la giovine andalusiana, battendo graziosamente le sue mani
l'una coll'altra. -O signor Enrico! Si dice che vi saranno più di quindici
eretici bruciati, ed un gran numero a cui Sua Eminenza farà grazia, purché
facciano abiurazione e vogliano morire da buoni cristiani; costoro saranno
strangolati prima d'esser dati alle fiamme[14]. Oh! Che bella vista! Signor
Enrico, mi farete vedere tutto, non è vero?--
-Te lo giuro-, rispose il famigliare, -in nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo, e col permesso del santissimo inquisitore di Siviglia. Sarà
una cosa magnifica-, aggiunse Enrico, contento di veder la gitana animarsi
di tanto zelo pel Sant'Ufficio.
Ma se avesse guardato attentamente il volto dell'Andalusiana, avrebbe veduto
le sue labbra vermiglie impallidire in modo impercettibile, il suo occhio
vivace e brillante, pieno di un vago terrore, e sotto il giustacuore di
velluto nero avrebbe, un poco più dappresso, sentito il suo cuore pulsare a
colpi ineguali e celeri.
La sorella di Giovacchino non poteva, rimontando ai suoi antenati, trovare
molto lungi da essa la sorgente d'un puro sangue cattolico per essere
veramente tranquilla di contro all'Inquisizione, della quale era divenuta,
per paura, l'umile serva; e, poco rassicurata dall'aria bacchettona ed
ipocrita del soldato di Cristo[15], esclamò con sembiante esaltato, che si
sforzava di rendere ridente:
-Oh! Che bella vista. Oh! che bella vista dev'essere!-
In quell'istante, essa vide i grandi occhi neri del frate fissi sopra di
lei. Il monaco non aveva perduto una sillaba della sua conversazione, né un
solo movimento della sua fisionomia....
-Danne del vino, ragazza mia-, disse il famigliare.
E la povera graziosa, contenta di fuggire agli sguardi penetranti del
religioso e a quella garrulità per la quale tremava ad ogni istante di
tradire i suoi terrori, la Graziosa, vivace e leggera, andò a cercare una
brocca piena di vino, che pose davanti a Sua Reverenza.
Mentre Enrico avanzava uno sgabello di legno per assidersi di faccia al
religioso, un nuovo personaggio entrò nella taverna. Il nuovo arrivato si
avvicinò al famigliare, ed accennando il monaco con lo sguardo,
-E' questo il nostro santo commissario?-domandò con un tuono di voce melato.
-Egli stesso, signor Francesco-, rispose Enrico.
Il religioso si alzò ed incrociò le sue mani sul petto. Il nuovo venuto fece
il medesimo gesto, il monaco le incrociò quindi in senso inverso, poi
s'inchinò
verso Francesco come per salutarlo. Francesco fece, da parte sua lo stesso
movimento, di maniera che, inchinandosi, le loro fronti si toccarono
leggermente.
Era quello il saluto distintivo dei famigliari del Sant'Uffizio.
Ma Francesco non rimase contento di questi segni di riconoscimento; scoprì
il suo petto, e sotto il suo giustacuore, mostrò una placca d'argento, che
aveva la figura di un Cristo rovesciato. In mezzo al petto del Cristo
brillava un sole, simbolo della luce, divisa derisoria dell'Inquisizione,
questa messaggera di errore e di annientamento.
A quest'ultimo segno il monaco non rispose.
Francesco gettò sopra Enrico un cupo sguardo di diffidenza.
Enrico alzò le spalle con aria convinta e noncurante.
-Non è dei nostri, ti dico-, replicò Francesco, -e noi siamo traditi;
traditi, intendi?-proseguì egli, serrando fortemente il pugno d'Enrico; e la
sua fisionomia esprimeva una collera feroce.
Tutto questo era detto a voce bassa, ma non tanto che i frequentatori della
taverna non si fossero avveduti di un movimento di agitazione che annunziava
una contesa. Tutti gli occhi si diressero allora verso il religioso, che,
rimasto tranquillo ed impassibile, sembrava essere testimone piuttosto che
attore di questa strana scena.
Alcuni all'aspetto del frate, la cui figura imponente inspirava il rispetto,
osarono mormorare, e minacce contro Enrico e Francesco uscirono dalla bocca
di quei banditi.
Quantunque sicuri della loro vendetta, in caso d'insulto, i famigliari
dell'Inquisizione
non si avvisavano di venire ad una rissa cogli abitanti del quartiere di
Triana: essi li conoscevano assai per sapere che per la difesa di un monaco
si farebbero tutti tagliare a pezzi; ma vi era qualche cosa che al popolo
imponeva più dei preti e dei monaci, cioè l'Inquisizione.
Con astuzia infernale, Francesco, volgendosi verso i bevitori, gli sguardi
ed i gesti dei quali esprimevano intenzioni ostili:
-Fratelli-, gridò, -sarete voi così cattivi cattolici da difendere un nemico
dell'Inquisizione?-
A questa parola terribile, d'Inquisizione, avreste veduto curvarsi tutte le
teste, ed un pallore livido far luogo all'animazione dei volti: si sarebbe
detto la folgore caduta in mezzo a quegli uomini rozzi e turbolenti. Niuno
di essi osò più dire una parola.
Allora il frate, senza fare attenzione né alla collera di Francesco né allo
stupore dei banditi della taverna, si alzò gravemente, e si diresse verso la
porta, in mezzo ad un cupo silenzio.
-Come!- esclamò Francesco, -lo lascerete voi fuggire così? Nessuno di voi si
muoverà ad avvertire i birri del Sant'Uffizio?--
-Io, io!- gridò la Graziosa, spaventata.
Nello stesso tempo si slanciava verso la porta, volendo schivare col suo
zelo il pericolo che temeva sempre per sé medesima; ma nel tempo ch'essa
andava ad alzare il saliscendi, il monaco gettò su di essa uno sguardo lungo
e profondo; e la Graziosa, affascinata, giunse le mani cadendo in ginocchio
davanti all'uomo di Dio.
Per un impulso simultaneo, i banditi tesero le loro braccia verso di lui,
come per implorare il suo soccorso contro un potere occulto che non osavano
sfidare.
Allora il monaco, volgendosi con aria maestosa verso quella assemblea muta e
raccolta, la benedisse con uno sguardo celeste, e slanciandosi nella strada,
si dileguò senza che nessuno, senza che Francesco stesso, avesse pensato a
trattenerlo.
-Siamo stati traditi, imprudente!- disse Francesco indirizzandosi ad Enrico,
immerso, come gli altri, in un profondo stupore.
-Ei non sa niente!-, replicò Enrico.
-Ebbene, all'opera dunque!- gridò Francesco rassicurato;
-non abbiamo bisogno di un terzo per questo-.
E i due soldati di Cristo uscirono insieme dalle taverna.
II. Il palazzo della Garduña.
All'estremità del quartiere di Triana esisteva un'antica casa diroccata, di
stile moresco, le cui rovine servivano di rifugio agli augelli notturni[16].
Mendici senza asilo, incuranti gitani, dormivano sovente fra le pietre in
quelle tiepide notti che, in Andalusia, rendono inutile ogni riparo; e nei
giorni invernali, delle vecchie, accoccolate al sole, venivano a cercare
dietro a quelle ruine un riparo contro il vento del Nord.
Alle larghe proporzioni delle rovinate muraglie, a certi ornamenti
architettonici perfettamente conservati, potevasi riconoscere agevolmente
che ivi era esistito un volta un vasto e sontuoso palazzo; poiché in mezzo a
quegli avanzi, un lungo colonnato elegante e leggiero sosteneva una vôlta
disseminata di arabeschi d'una perfetta conservazione. Un muro quasi
intatto, quantunque in apparenza di fragile costruzione,circondava questo
colonnato, che aveva dovuto ornare una splendida sala; una porta di
rimarchevole solidità ne difendeva l'entrata.
Qua e là fra i rottami crescevano alcuni arbusti selvaggi;
delle gramigne dai fiori d'un color rosa pallido, dei mucchi di viole a
ciocche dai soavi profumi, dei boschetti di rose e di lauri selvaggi, i cui
densi cespugli gettavano sulla nudità di quelle ruine la loro verdura
ombrosa e vivace.
Questo luogo bizzarro serviva di sala di riunione alle assemblee dei membri
della Confraternita de la Garduña[17]; era il palazzo del maestro
dell'ordine.
Tutti color che hanno letto le novelle di Cervantes si rammentano del tipo
deliziosamente grottesco di Monipodio, il capo dei ladri di Siviglia.
Nell'epoca
di cui parliamo, vale a dire più di cinquant'anni innanzi a Cervantes, una
confraternita di ladri, protetti da alcuni membri della polizia, esisteva
già in Spagna.
Questa bizzarra istituzione, la cui origine risale al cominciamento del
secolo decimoquinto, aveva allora per capo in Siviglia un uomo singolare,
dall'aspetto ad un tempo grave e sarcastico, dal linguaggio oscenamente
pittoresco; tipo tradizionale del resto, almeno nel carattere, e che si
trovava ancora in Spagna nel 1821.
La stessa sera di febbraio 1534, in cui avevano avuto luogo le cose riferite
nel capitolo precedente, una scena non molto curiosa e molto più originale
aveva luogo nel palazzo del maestro della Garduña.
Erano circa dieci ore; la porta solida e pesante del palazzo della Garduña,
girando sui cardini, permise il passaggio ad una trentina d'individui di
ogni sesso e d'ogni età. Entrarono silenziosamente ed in ordine, osservando
scrupolosamente i diritti del rango e della gerarchia.
Nel mezzo della sala benissimo illuminata di torcie di ragia fissati ad
anelli impiantati nelle colonne, stava il maestro dell'ordine.
Era un uomo di alta statura, forte, e di sistema osseo molto sviluppato; il
suo viso olivastro, solcato da alcune cicatrici, offriva un singolare
miscuglio di astuzia, d'audacia, di sangue freddo, e talvolta, quando si
degnava sorridere, di sarcasmo e d'ironia. La sua voce maschia e grave aveva
un accento energico, e quando comandava, la forza della sua volontà
imprimeva al suo sguardo ed al suo gesto una grande potenza di dominazione.
Ei portava una camicia di grossa tela ed una casacca bruna gettata sulle
spalle a guisa di mantello; delle zaraguelles, specie di brache di tela,
coprivano le sue cosce fino al di sopra del ginocchio. Le sue gambe, nude e
nervose, erano coperte di pelo, e i suoi piedi, larghi, piani e rugosi,
indizi di una bassa estrazione e d'una enorme forza fisica, erano calzate
d'alpargatas,
specie di sandali annodati attorno ai malleoli da una quantità di nastri.
Quest'uomo si chiamava Mandamiento[18].
I diversi personaggi che erano entrati nella sala fecero cerchio attorno al
maestro della Garduña y floreo[19].
Accanto a lui, e per ordine di merito, si posero l'uno alla sua destra e
l'altro
alla sua sinistra, due bravi nella forza dell'età. Il primo si chiamava
Manofina, a cagione della sua inarrivabile destrezza a dare, passando, un
colpo di pugnale senza che la sua vittima s'accorgesse donde partiva il
colpo, e del suo prodigioso talento di spadaccino e tiratore di pistola.
L'altro era detto Corpo di ferro. Aveva sofferto tre volte la tortura senza
confessare i suoi delitti, senza denunziare alcuno, e senza che il suo corpo
sembrasse risentirne danno.
Venivano in séguito due vecchietti, chiamati soffietti, nome che la società
dava a tutti quelli fra i suoi membri che, col favore di un esteriore
devoto, le servivano di spie e d'introduttori dovunque era da fare un furto.
Poscia delle vecchie donne, utili personaggi, chiamati Coperte; poscia
ancora alcuni capriuoli sotto vestimenta diverse; finalmente molte ragazze,
chiamate Sirene, che erano le cortigiane dei capi dell'ordine. Esse avevano
inoltre la missione di intenerire coi loro vezzi i giudici, i procuratori ed
anco gli scrivani, dai quali spesse volte dipendeva la vita dei fratelli
della Garduña. Spesso eziandio le loro seduzioni non riuscirono infruttuose
presso qualche canonico voluttuoso, o qualche priore lascivo, la influenza
dei quali allora era senza limiti tanto sulle cose temporali, quanto su
quelle spirituali.
Al di fuori del cerchio, ed un poco in disparte, stava modesto un
giovinetto, oggetto precipuo della riunione; si chiamava Graffio[20].
Il signor Mandamiento girò sull'assemblea uno sguardo potente, fece
devotamente un gran segno di croce, e borbottò un'orazione, volgendosi verso
un'immagine grossolana della santa Vergine attaccata al muro.
Tutti gli astanti l'imitarono.
Poscia Mandamiento parlò in questi termini:
-Nobili e valenti cavalieri del pugnale, fedeli soffietti, utili coperte,
seducenti sirene, caprioli leggieri ed altri membri di questa onorevole
confraternita, salute! Che Dio Nostro Signore, e la sua santa Madre vi
accordino la loro divina protezione, e vi scampino dagli uncini[21], dalle
fruste[22], dalle travi[23], dalle angosce[24] e dai vuomiti[25], sovente
mortali per voi, e sempre pericolosi per i vostri fratelli.
-io vi ho qui riuniti oggi per consultarvi sopra un fatto che interessa i
nostri diritti, e potrebbe compromettere la nostra società.
-Tutti sapete, o miei figli, che da quando lavorate sotto la mia direzione,
non abbiamo avuto a deplorare che un dozzina di volteggi[26], circa quaranta
passeggiate sull'asino[27], ed alcuni viaggi nella marina reale[28].
-Siviglia ne forniva sei volte tante ogni anno alle unghie della tigre[29]
prima che mi aveste nominato capo della vostra confraternita. Appena
settantacinque ganci[30] sono caduti quest'anno nella gola del lupo[31], e
sopra un trentina dei nostri fratelli che sono in questo momento fra i suoi
denti, ardisco affermare che vi saranno appena tre angustiati[32], cinque o
sei marinari[33], ed una dozzina di cavalcanti[34]. Penso che avremo
eziandio due o tre frustati, e altrettante nostre sorelle passate al
miele[35]; ma non abbiamo potuto impedirlo. Quando avremo tanti denari da
far dire più messe e meglio pagare le guardie del Sant'Uffizio, i nostri
affari anderanno altrimenti. Tale è oggigiorno, o miei figli, lo stato
fiorente della Garduña.
-Se vi ho richiamato alla memoria i miei piccoli servigi-, riprese
Mandamiento con una finta modestia, -non è per far pompa del debole talento
che Dio, Nostro Signore, di cui non sono che l'umilissimo strumento, si è
degnato compatirmi, ma per farvi comprendere che l'unione, la più stretta,
l'accordo
il più perfetto dee regnar tra di noi, affinché possiamo esercitare con
tutto il successo possibile la nostra utile professione, e meritare la stima
delle dame e dei cavalieri che ci fanno l'onore d'impiegarci. Passo allo
scopo di questa riunione-.
Nello stesso tempo il maestro girò attorno a sé lo sguardo scrutatore, ed
avendo veduto Graffio, chetava umilmente appoggiato contro una colonna, gli
fece cenno d'avvicinarsi.
Graffio si affrettò ad obbedire.
Il cerchi di persone che lo separava dal maestro si aprì per dargli
passaggio. Il giovine si avanzò, ed in pochi passi si trovò a portata del
signor Mandamiento.
Il maestro della Garduña prese il giovane per la mano, e mostrandolo
all'assemblea,
continuò così il suo discorso:
-Fratelli! I signori Manofina e Corpo di ferro hanno sorpreso questo giovane
sul peristilio della cattedrale, mentre eclissava[36] prima un fazzoletto da
tasca ad un gentiluomo, poi una borsa benissimo fornita al sagrestano d'un
convento di monache. Per dire il vero egli ha spiegato, in ciò fare, una
grande abilità, ma non è men vero che, non appartenendo alla nostra
confraternita, egli ha violato gli statuti del nostro ordine eclissando
senza averne l'autorità, e di più appigliandosi ai beni della Chiesa.
-I signori Manofina e Corpo di ferro, considerando le buone disposizioni ed
il talento precoce di questo giovane, talento che, per quanto essi dicono,
diverrà l'onore della Garduña, mercé Dio e le nostre buone lezioni,
Manofina e Corpo di ferro hanno amato meglio condurlo presso di noi che
gettarlo alla tigre, che forse avrebbe soffocate così felici disposizioni.
Tuttavia questo giovane ha violato i nostri statuti ed ha meritato un soffio
[37]-.
-Che ne pensate, signori?-disse Mandamiento, volgendo il suo sguardo
sull'assemblea.-
-Il maestro ha ragione-, mormorarono i banditi: -questo giovane ha meritato
un soffio -.
Manofina e Corpo di ferro fecero sentire un sordo grugnito, espressione di
mormorio e di malcontento.
-Canaglia maledetta-, brontolò Manofina,- qui è come al Rosario[38]: questa
turba risponde sempre amen.
«Una mano così abile-aggiunse Corpo di ferro.
«Un soffio! Un soffio! » replicarono alcune coperte, mostrando con un riso
di iena due o tre denti lunghi e vacillanti che ricascavano sul loro labbro
inferiore come i denti d'un cinghiale. Mandamiento rimaneva impassibile, ma
nulla gli sfuggiva di quello che seguiva intorno ad esso. Lasciò calmare
quell'agitazione, poi, volgendosi di nuovo all'assemblea,
«Qual è la vostra opinione, signori? »
disse con una voce che aveva più l'accento del comando, che quello della
deferenza. Tutti si tacquero, e quelle stupide fisionomie non espressero che
la passiva ed istintiva obbedienza che gli esseri volgari hanno sempre verso
gli uomini di genio.
Soltanto i due bravi gettarono sul capo uno sguardo obliquo, pieno di
malcontento e di odio.
Il maestro finse di non avvedersene, e volgendosi nuovamente verso
l'assemblea
,
«Signori » disse, «è mio avviso che in considerazione del genio precoce di
questo giovane, ed anco dei nostri onorevolissimi fratelli e signori
Manofina e Corpo di ferro,che lo proteggono, è mio avviso, dico, che
riceviamo questo giovane fra noi in qualità di fratello postulante[39], con
dispensa dall'anno di noviziato, e che, per meglio incoraggiarlo, gli
accordiamo tutti i privilegi ai quali han diritto coloro fra i nostri
apprendisti che si sono distinti durante il loro anno di prove, purché paghi
tutti i diritti che gli altri fratelli pagano alla confraternita, e che dia
il danaro a Dio. In una parola, io lo prendo sotto la mia protezione. Ed
ora »aggiunse il gran maestro con voce sonora, «se qualcheduno di voi ha da
fare osservazioni, parli »
Tutti si tacquero: alcune sirene gettarono sguardi di compiacenza su
Graffio, che era un bel ragazzo.
«Stupido gregge! » mormorarono i bravi.
«Ebbene! Signori », proseguì Mandamiento, «la vostra volontà è d'accordo con
la mia, ed io ve ne ringrazio ».
Allora, avanzandosi verso Graffio, lo prese di nuovo per la mano, lo
presentò individualmente a tutti gli astanti, che gli dettero
l'abbracciamento
fraterno. Il gran maestro gli fece lo stesso onore, poscia gli diede la
parola d'ordine e gl'insegnò i diversi segni e toccamento propri della
Compagnia. Finalmente gli rimise una pergamena sulla quale erano scritte le
cariche e i privilegi dei fratelli della Garduña[40].
Così, terminata la cerimonia, Graffio andò a mischiarsi ai suoi nuovi
compagni di uccisione e di rapina.
Quindi il maestro, togliendosi di tasca un pezzo di carta coperto di
scarabocchi,
- Fratelli », disse, - ecco l'ordine del giorno:
-Tre battesimi[41]da applicarsi più leggermente che sia possibile: uno ad un
bel giovanotto dai mustacchi neri, che passa tutte le sere a sette ore sul
ponte di Triana. E' un gentiluomo d'alta statura e di bella apparenza; porta
un mantello scarlatto. Questo battesimo sarà pagato cinquanta reali, più
cinquecento maravedis, se può esser applicato sul viso, in modo da marcare
ben l'individuo. La persona che paga è una signora molto bella e
giovanissima: per la qual cosa, signor Graffio, io mi riporto alla vostra
galanteria per il bel sesso, incaricando voi di questa faccenda.
-Ecco trentasette reali e mezzo che vi toccano, senza contare i cinquecento
maravedis di gratificazione che la signora vi darà, se potrete giungere a
fare nel viso del battezzato uno sfregio incancellabile; cosa facile, purché
soffreghiate la fatta ferita con un po' di sego sciolto nell'aceto -.
Nel medesimo tempo Mandamiento rimise a Graffio un'ampolla piena di un
liquore nerastro.
- Il secondo battesimo -, continuò il maestro. - pagato soltanto quaranta
reali, dev'essere amministrato a Sua Paternità il priore del convento dei
monaci della Mercede: egli ha tolto una penitente a Sua Beatitudine che
paga; essa darà quattro dobloni di gratificazione se si riuscirà a cavare un
occhio al suo priore; perciocché la penitente in questione nulla ama tanto a
questo mondo quanto i begli occhi.
- Io credo che, affine d'assicurarne il guadagno dei quattro dobloni, debba
incaricare di questo battesimo il signor Manofina e la sua diletta
Colubrina, la destrezza saprà condurre in luogo convenevole il reverendo
priore dei monaci della Mercede. Ecco trenta reali -, aggiunse, -e non
dimenticate la santa Vergine[42]. I quattro dobloni spettano alla sirena -.
-Sì, sì, io me ne incarico! - gridò quella fra le sirene che il maestro
aveva designato col nome di Colubrina. -Io me ne incarico, signor
Mandamiento! -
- Silenzio! Mia rosa dei boschi -, interruppe il maestro, arricciando i suoi
mustacchi: -noi conosciamo la tua destrezza ed il tuo attaccamento.
-Voi avete in essa una vera perla, figlio mio -, continuò volgendosi verso
il bravo: -conservatela e non la battete troppo -.-
-Sì, vero tesoro da conservarsi per gli altri -, mormorò il bandito con una
espressione di brutale gelosia.
-Andiamo, andiamo -, disse il maestro; - abbiate dunque più attaccamento per
la causa comune signor Manofina -.
Il garduño si tacque, ma gettò sulla sirena degli sguardi di diffidenza e di
collera.
La Colubrina gli si avvicinò, e passando il suo braccio in quello di lui, si
mise a guardarlo teneramente in viso con i suoi grandi occhi fiammeggianti.
-Andiamo, Manofina mio -, ella disse, -non t'inquietare. Non sai che io non
amo che te? -
Il viso del bravo si fe' più dolce; egli subiva quella fascinazione dei
sensi, onnipotente sugli uomini fisicamente forti.
-Sì -, disse a voce bassa, -tu mi ami, non è vero? Ma quel priore?..--
-Ebbene! Quel priore, io te lo condurrò, ecco tutto. Con lui, promettere non
è mantenere. Sai bene che io sono solamente tua -.
Il bravo la guardò con un misto di gioia confidente e di dubbio crudele. E,
cosa strana, la sirena non mentiva. Per una rarissima eccezione questa
donna, avvezza per mestiere a tutte le impudenze possibili, si serviva della
sua meravigliosa bellezza per attirare le vittime nelle reti della Garduña;
ma giammai il suo cuore né il suo corpo non erano stati complici di questa
condotta obbligata: essa era costantemente ed a rigor di termine rimasta
fedele al fiero bravo ch'erasi scelto per amante.
Mandamiento continuò:
-Un terzo battesimo, pagato sei dobloni; è un canonico che paga, la cifra ve
l'indica bene. Questo battesimo dev'essere dato domani ad un confratello del
mandatario avanti sei ore della sera, affinché il battezzato non possa fare
ai membri del Capitolo le visite obbligate, e procurarsi i loro voti per la
elezione del decano; il che lascia maggiori speranze al suo rivale.
Se a capo ad alcuni giorni, questo battesimo potesse cangiarsi in funerale,
il canonico raddoppierebbe la somma. Ben inteso che bisogna agire con
accorgimento, e non oscurare[43] il vostro uomo ad un tratto. Tale è il
desiderio del mandatario, e chi paga bene ha il diritto d'essere ben
servito. In oltre, se questo canonico fosse eletto decano, ognuno intende
che la confraternita della Garduña potrebbe contare sulla sua protezione,
sua signoria me l'ha formalmente promesso. A voi signor Corpo di ferro,
tocca questo battesimo. Servitevi d'un pugnale sottile, o, meglio, di una
lama triangolare o d'un punteruolo, ammenoché non possediate un buon ago da
valigiaio: è desso il migliore strumento per fare una ferita che duri dieci
o dodici giorni, e che non getti sangue. Ecco il vostro danaro; partite e
siate esatto.
-Sei bagni[44] da dare -, continuò il maestro; e distribuì questa faccenda a
dei compagni volgari.
-Più tre viaggi[45], di cui uno sulla strada di Jaën, domani, a nove ore; è
l'ora in cui deve passare la galera[46] che porta ottantamila reali per il
nunzio di Sua Santità, prodotto della vendita delle bolle e delle indulgenze
nel reame di Siviglia; l'altro sulla strada di San Lucardo, a mezza notte,
esso pure al passaggio della galera, la quale porta centoventimila reali che
appartengono ad un banchiere ebreo, e sono destinati ad un banchiere moro di
Siviglia. Noi dobbiamo togliere questo denaro ai nemici di dio, i quali non
possono servirsene che a detrimento della nostra santa religione.
il terzo viaggio avrà luogo sulla via Granata, nel punto della riunione di
essa colla strada di Xeres. Tre gentiluomini debbono passarvi, che portano
la borsa ben fornita ed un guardaroba nuovo. Ora voi sapete che molti dei
nostri fratelli sono malissimo forniti di panni-.
Queste tre spedizioni furono confidate a tre fratelli sicuri e passati
maestri.
-Infine -, disse Mandamiento, -e questa è la cosa più importante, un
oscuramento[47] sulla persona del giovane don Estevan de Vargas. Egli esce
tutte le sere, a mezzanotte, dalla casa di Sua Eccellenza il governatore di
Siviglia. Dicesi che sia il fidanzato di sua figlia, vezzosa giovane di
diciassette anni, alla quale questo oscuramento deve senza dubbio costare
molte lacrime; ma ciò non ne riguarda. Questa operazione ci sarà pagata
cinquanta dobloni anticipati, più una somma uguale dopo l'esecuzione, e la
protezione del santissimo inquisitore di Siviglia, a cui l'affare sta
indubitabilmente molto a cuore, perocché ci ha fatto offrire la sua
protezione, moneta di cui non è prodigo -.-
-E chi garantisce queste belle promesse?- interruppe Manofina, che le vive
occhiate e le carezze della sirena avevano singolarmente intenerito a favore
dei due amanti.
-La persona che me le ha fatte e segnate mi è perfettamente nota -, rispose
il maestro; -e se vi mancasse, queste promesse scritte sarebbero per me
rimesse alla grande fucina di Siviglia[48]. Vedete, figlio mio, che io ho
prese le mie cautele -.
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