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DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO - INQUISIZIONE

IL PASSAGGIO DALL'ERA FEUDALE AL SISTEMA DEL CAPITALISMO

DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo furono senz'altro indispensabili il perfezionamento della tecnica, la divisione del lavoro, vasti mercati, grandi manifatture, concentrazioni di capitali... Ma oltre a ciò, fu necessaria anche una buona dose di fiducia in un futuro migliore, non molto lontano, quella di credere che, emancipandosi dal servaggio o dalla coercizione corporativa, si potesse diventare più liberi senza fare alcuna rivoluzione sociale. In questo senso contadini e artigiani s'illusero pensando che, per emanciparsi veramente, fosse sufficiente partecipare con la borghesia alla rivoluzione politica antifeudale. L'illusione stava appunto in questo, nel credere che dalla rivoluzione politica potesse scaturire automaticamente anche quella sociale, cioè che una mera rivendicazione giuspolitica di diritti fosse sufficiente per la democrazia sociale. Era giusto emanciparsi dalla condizione servile che il feudalesimo imponeva, ma nel farlo bisognava assicurarsi di non finire in una condizione sociale peggiore. In che modo? Impedendo alla borghesia di guidare da sola la rivoluzione politica o comunque di non gestirne da sola i risultati conseguiti. L'individualismo così si è accentuato. Il benessere è aumentato solo per pochi. E' vero, in Europa occidentale il benessere, col tempo, ha riguardato sempre più persone, ma solo perché, grazie al colonialismo e all'imperialismo, la miseria e l'indigenza sono state trasferite nel Terzo Mondo. Se non ci fosse stata la conquista dell'America, dell'Africa e in parte dell'Asia, l'Europa occidentale sarebbe andata incontro a una catastrofe economica, o forse il Medioevo sarebbe stato più lungo, oppure, a fronte delle insanabili crisi del capitalismo emergente, si sarebbe passati dal feudalesimo al socialismo. L'Europa occidentale ha potuto supplire alla mancanza di una "democrazia" interna (che l'Europa ortodossa dell'est invece parzialmente aveva) grazie appunto al colonialismo. Gli storici devono smetterla di considerare il capitalismo come un progresso rispetto al feudalesimo. Il feudalesimo poteva evolvere verso il benessere perfezionando gli strumenti produttivi, da un lato, e compiendo una riforma agraria dall'altro, tale per cui i contadini fossero veramente padroni della loro terra, così come tutti gli artigiani, associati in cooperativa, avrebbero dovuto esserlo della loro corporazione, e gli operai della loro manifattura. Non c'era alcun bisogno di sconvolgere un sistema produttivo sostanzialmente legato alla natura con un sistema produttivo così artificiale e disumano. Il capitalismo ha provocato dei guasti d'incalcolabile portata: ha separato il lavoratore dai mezzi di produzione (rendendo tutta la vita sociale e privata profondamente alienante); ha separato il produttore dal consumatore, mettendo quest'ultimo nelle mani dell'altro; ha subordinato tutto alla logica del profitto e dell'interesse (rendendo cinici i rapporti umani); ha creato delle istituzioni statali, burocratiche e amministrative, politiche, giudiziarie e militari che tolgono agli individui qualunque forma di libertà, di sicurezza e di responsabilità; ha saccheggiato le risorse di interi Paesi, regioni e continenti senza dare nulla in cambio, se non tutte quelle cose che servono ad arricchire le metropoli occidentali; ha danneggiato l'ambiente in maniera irreparabile, nell'illusione di poter ricostruire con la scienza e la tecnica ambienti sostitutivi di quelli naturali; ha scatenato centinaia di guerre, anche mondiali, con milioni e milioni di morti. Come stupirsi se in queste condizioni vi sono state nazioni legate al feudalesimo sino al secolo scorso e che dal feudalesimo sono volute passare direttamente al socialismo? Ovviamente non ha senso fare dei confronti con due sistemi così diversi: qui si vuole soltanto precisare che non si può "condannare" il feudalesimo in nome del capitalismo. Ogni sistema va esaminato per le proprie contraddizioni interne. E' sulla base di queste contraddizioni che bisogna cercare di capire quante possibilità c'erano di creare la transizione da un sistema all'altro. Perché la Cina o qualche Paese arabo non sono diventati capitalisti nel XVI sec.? Se riusciremo a comprendere i motivi per cui né la Spagna né il Portogallo sono diventate nazioni capitalistiche, pur avendo inaugurato il moderno colonialismo, troveremo relativamente facile rispondere alla suddetta domanda. La storia ha dimostrato che per entrare nella via del capitalismo non è sufficiente avere una tecnologia abbastanza sviluppata o dei commerci molto avanzati, oppure delle contraddizioni feudali molto forti: occorre anche una mentalità, una forma di cultura particolare. Questa mentalità è mancata alla penisola iberica, troppo cattolica per essere pienamente, consapevolmente capitalistica, ed è mancata alle due grandi nazioni asiatiche: Cina e India, caratterizzate da due religioni della rassegnazione: Induismo e Buddismo. Nei tempi in cui sono nati il capitalismo e il colonialismo, l'ideologia dominante, in Europa occidentale, era quella religiosa (prima cattolica, poi protestante). E' qui che vanno ricercati i motivi sovrastrutturali che hanno permesso un fenomeno così perverso. Con uno studio molto approfondito si dovrebbe scoprire in quali enunciati teorici della teologia e della filosofia cattolica e protestante, si possono rintracciare le motivazioni culturali che hanno spinto gli uomini (anche inconsciamente) ad accettare il capitalismo e il colonialismo, nonché quelle motivazioni che (questa volta consapevolmente) sono state usate per giustificare la nuova formazione sociale. Cioè vanno ricercate quelle motivazioni che sono servite per legittimare direttamente o indirettamente (involontariamente) il capitalismo, e quelle motivazioni che sono state usate per contrastarlo praticamente o per condannarlo solo teoricamente. Questo significa che non è più possibile scindere lo studio della storia da quello dell'ideologia (dominante, soprattutto), sia essa di tipo filosofico, religioso o politico. La storia deve diventare anzitutto la storia dell'economia in stretta correlazione con la storia del pensiero, nel senso weberiano che l'economia va vista come riflesso del pensiero, e nel senso marxiano che il pensiero va visto come riflesso dell'economia. Le scelte, tra una formazione sociale e l'altra, tra una modalità e l'altra all'interno di una stessa formazione, si fanno sempre in un contesto di relativa libertà, altrimenti saremmo costretti ad ammettere l'inevitabilità della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Certo, vi possono essere dei processi sociali ed economici che oggettivamente, se non intervengono delle controtendenze, possono portare al capitalismo, ma se ad un certo punto non v'è un determinato consenso sociale (di massa), questi processi non vanno avanti. Gli uomini possono dare un consenso inconsapevole a certi fenomeni, ma sino a un certo punto, poiché ogni fenomeno contiene in sé delle contraddizioni che a posteriori possono essere individuate e superate (il superamento è tanto più facile quanto più è veloce l'individuazione e decisa la volontà). E' assolutamente falso affermare che la storia è un "processo senza soggetto". Il determinismo economico non è certo in grado di spiegare il motivo per cui il capitalismo s'è sviluppato proprio in Europa occidentale e soprattutto nell'area geografica di religione protestante. E neppure è in grado di spiegare perché i Paesi di religione cattolica sono diventati capitalisti conservando solo la "forma" della loro religione. Questo non sta forse a dimostrare che fra cattolicesimo e protestantesimo non esistono differenze sostanziali, nel senso che l'uno non è che il rovescio dell'altro? Solo così riusciremo a capire il motivo per cui i Paesi che non hanno conosciuto né il cattolicesimo né il protestantesimo si sono adeguati più facilmente alla realtà del socialismo, e perché i Paesi che non hanno conosciuto alcuna forma di cristianesimo, fanno molta fatica ad adeguarsi al capitalismo, volgendo piuttosto la loro attenzione verso il socialismo. Non è forse vero che il socialismo democratico vuole essere il recupero, ovviamente in forma diverse, più consapevoli, dello spirito del comunismo primitivo? Il cristianesimo è la religione col più alto tasso di ambiguità della storia. La sua dialettica, le sue contraddizioni, soprattutto fra teoria e pratica, sono assolutamente inconcepibili per qualunque altra religione. Non è infatti immaginabile, in maniera naturale e spontanea, che si possano affermare le cose più sublimi di questo mondo e nello stesso tempo compiere le azioni più abominevoli. Occorre un livello di alienazione, di sdoppiamento della personalità, particolarmente elevato, non meno grande del livello di profondità di pensieri e di sentimenti. Il cristianesimo ha dato all'umanità un'autoconsapevolezza prima impensabile. Ma, proprio per questo motivo, le ha dato anche una sicurezza, un coraggio, una fiducia in se stessa che nessun'altra religione ha mai saputo dare. Ora, ci si rende facilmente conto che se si vive questa sicurezza non per migliorare le cose, ma per giustificare un contesto caratterizzato da valori o da comportamenti negativi, il risultato che si ottiene col cristianesimo sarà infinitamente più disastroso. Se l'ideologia cristiana non viene vissuta in un contesto sociale comunitario (ma questo implica una revisione totale dell'interpretazione e delle modalità applicative dei vangeli), la tendenza sarà sempre quella ad usare il cristianesimo per colmare in misura irrazionale l'insopportabile scarto esistente fra metodo e contenuto. TEORIA DEL CROLLO DEL FEUDALESIMO Quando si parla di "crollo del feudalesimo", non si può affermare che le cause principali sono state quelle esterne al sistema, e cioè il commercio, il valore di scambio, il denaro ecc. La causa principale del crollo di un sistema antagonistico, generalmente va cercata nell'antagonismo stesso. Ovviamente questo non significa che nella lotta delle classi, quella oppressa non possa servirsi di elementi esterni al sistema (o marginali, periferici) per influire negativamente su quelli interni, accelerandone la dissoluzione. Quando si afferma che il feudalesimo crollò a causa del sempre crescente lusso della nobiltà, la quale, avendo bisogno di contanti, prese a sfruttare massicciamente i contadini, che fuggirono verso le città; quando cioè si afferma che la causa del crollo fu il commercio a lunga distanza, non ci si rende conto di confondere la causa con l'effetto. Lo sviluppo del commercio infatti è già una conseguenza della crisi del feudalesimo, che è interna al sistema. Se non si accetta questa spiegazione, si deve poi attribuire al caso il crollo di un sistema antagonistico, non avendo alcuna fiducia nelle capacità di lotta delle classi oppresse. Il secondo servaggio, cui andarono incontro alcune nazioni o alcune regioni di alcune nazioni europee, nel momento in cui in altre nazioni (o in altre regioni) s'andava sviluppando il capitalismo, dipese appunto dall'arretratezza della cultura, che non sapeva trovare un'alternativa al servaggio né in modo borghese, né in modo democratico, ma soltanto modificando il rapporto feudale, trasformando cioè la rendita in natura in rendita monetaria, ovvero il servo della gleba in un mezzadro, oppure creando una proprietà fondiaria di tipo usuraio. Questo fu possibile anche perché il commercio liquidò la classe dei piccoli contadini indipendenti. Il capitalismo industriale delle nazioni borghesi indusse i feudatari ad adeguarsi alle circostanze, ed essi lo fecero sulla base della loro arretrata cultura. La rendita monetaria non faceva che acutizzare le contraddizioni del feudalesimo. In Asia invece continuò a prevalere la rendita in natura e da questa rendita, attraverso la lotta di classe, si passò al socialismo. VERA E FALSA DEMOCRAZIA E' semplicistico pensare allo sviluppo del fenomeno comunale medievale come a uno sviluppo dell'idea di democrazia. In realtà si può parlare di democrazia solo nel senso che i ceti urbani più ricchi cercavano di opporsi allo strapotere dei latifondisti, chierici o laici che fossero. E vi fu sviluppo della democrazia anche là dove i Comuni lottarono contro l'idea di sacro romano impero (questa lotta agli storici appare, generalmente, come uno scontro tra poteri, decentrati gli uni, centralizzati gli altri). Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che fu sempre un confronto tra poteri forti, per una diversa distribuzione di aree di competenza e di dominio. Il popolo aderì e si sacrificò convinto di poter trarre dei vantaggi da questo scontro cruento, ma fu, come al solito, ingannato dalle classi egemoni. Questo è un cliché che si ripete tantissime volte nella storia. Basterebbe studiare la storia per concetti per arrivare a comprenderla senza neppure entrare nei dettagli. Ogni idea e ogni struttura che la rappresenta hanno la loro evoluzione: quando questa giunge verso il culmine, per poi imboccare la strada discendente, raramente le istituzioni accettano di farsi superare dal nuovo, e si piomba così nell'involuzione, dove i progressi acquisiti vengono di fatto ridimensionati se non perduti. Non si cedono mai spontaneamente i poteri acquisiti. Di qui le inevitabili e sanguinose conflittualità. Purtroppo la storia ci dice anche che ogni idea e ogni struttura è soggetta a corruzione e non c'è modo di porre le basi per alcuna esperienza di lunga durata, e questo pare tanto più vero quanto più si esaminano le cosiddette "civiltà", dove al massimo ci si misura sulla lunghezza dei mille anni, mentre nella cosiddetta "preistoria" la longue durée si misurava sulle decine di migliaia di anni. L'Italia comunale, sotto questo aspetto, non arrivò mai a realizzare la democrazia, proprio perché sul piano economico non arrivò mai a realizzare il socialismo. Tant'è che se da un lato si arrivò ad affermare una certa autonomia dal potere feudale (locale o quello universale dell'imperatore), dall'altro si finì coll'imporre alle zone rurali una forte dipendenza dalle esigenze urbane. Non ha senso parlare di democrazia politica quando non si può parlare di contestuale democrazia economica. L'importanza della democrazia economica è stata scoperta dal socialismo, prima utopistico poi scientifico, non certo dal liberalismo, le cui idee economiche sono semplicemente quelle della proprietà privata, della competizione, del monopolio e del libero scambio ecc. La presenza di uno Statuto comunale può di per sé far pensare a una forma politica vicina alla democrazia, ma se si guarda p.es. al fatto che alla stesura di tali Statuti partecipavano solo quelli che disponevano di un certo patrimonio, per il quale potevano ottenere cariche politiche o amministrative, si capisce facilmente come lo sviluppo del fenomeno comunale (che è stato tipico dell'Italia borghese e che caratterizza ancor oggi buona parte del capitalismo nazionale) fu in realtà un movimento interno ai ceti borghesi. Non avendo fatto la riforma protestante il capitalismo italiano è rimasto per così dire circoscritto entro limiti di uno sviluppo industriale a gestione familiare. Il timore di cadere in un capitalismo selvaggio è stato scongiurato da una gestione borghese nei limiti (divenuti sempre più elastici) della morale cattolica. L'Italia non è diventata una grande potenza industriale quando doveva diventarlo e oggi che potrebbe diventarlo, avendo abbandonato nella sostanza (se non nelle forme) ogni riferimento alla morale cattolica, non ne ha più le possibilità materiali, in quanto, nel frattempo, nuovi soggetti politici ed economici sono emersi sulla scena internazionale e questi non le permetterebbero di espandersi oltre un certo livello. IL RUOLO DELL'IDEOLOGIA Nel capitalismo il diritto apparentemente è più importante della forza, ma nella realtà il diritto è in funzione della forza, cioè la forza economica del proprietario privato, per imporsi sul cittadino, ha bisogno di travestirsi coi panni del diritto. Perché questa finzione? Nel feudalesimo la teologia serviva per consolare il servo della gleba che subiva un rapporto violento, basato sulla forza, cioè sulla cosiddetta coercizione extra-economica. Il contadino era costretto a lavorare e a produrre plusvalore perché il feudatario lo minacciava con la sua forza. E la chiesa lo consolava promettendogli d'intercedere presso il feudatario e garantendogli la fine di quel rapporto nell'aldilà. La teologia veniva usata, nello stesso tempo, per legittimare quel rapporto e per cercare di renderlo più sopportabile. La differenza tra diritto e teologia sta nel fatto che il primo ha la pretesa di garantire la libertà sulla terra e non nel cielo. Sia il diritto che la teologia agiscono prima e dopo i fatti dell'economia, al fine di promuoverla e di legittimarla, ma il diritto vuole apparire come uno strumento di emancipazione della borghesia dalla teologia e dai rapporti feudali. Solo in questo senso la borghesia può sperare che la "nuova scienza" venga accettata dal servo della gleba, che, lottando contro il feudalesimo lotta anche contro la teocrazia. Il diritto rappresenta un'ipocrisia maggiore proprio perché sul piano economico l'antagonismo tra proprietario e lavoratore si riproduce in forme diverse ma non meno opprimenti. Il contratto, nel lavoro salariato, offre l'illusione di una libertà superiore a quella della dipendenza personale dell'epoca feudale, ma essendo di molto aumentati gli standard vitali, ora per il contadino neo-operaio la rottura di quel contratto comporta immediatamente una situazione disperata. L'illusione borghese è superiore perché superiore è l'alienazione. Mentre nel feudalesimo era la dipendenza personale che imponeva lo sfruttamento, nel capitalismo invece è la libertà personale (giuridica) del lavoratore che impone un diverso sfruttamento, uno sfruttamento così particolare che lo stesso lavoratore è diventato una "merce" da acquistare sul mercato del lavoro. Il diritto ha svolto le stesse funzioni della teologia all'alba del feudalesimo. Infatti, all'origine del rapporto feudale la teologia ebbe lo scopo d'illudere lo schiavo sulla possibilità della libertà nel servaggio. Tale cultura, invece che spingere gli schiavi alla rivolta contro i padroni, li convinse ad accettare una diversa forma di rapporto di lavoro, facendo credere loro che con un proprietario cristiano il rapporto sarebbe stato meno oppressivo. All'origine di una formazione sociale antagonistica, che segue un'altra formazione antagonistica, deve per forza esserci una cultura illusoria, che è tale anche senza saperlo, in perfetta buona fede e nella convinzione di poter modificare qualitativamente l'oppressione sociale. E' proprio questa cultura che impedisce la transizione democratica. Ma per poterla impedire essa deve offrire l'illusione di poterla superare. Là dove c'è un antagonismo in atto, lì deve esserci un'ideologia che lo giustifica: in questo caso era il paganesimo. Oltre a ciò deve anche esserci un'ideologia che lo contesta e che cerca di superarlo: in questo caso il cristianesimo. E' stato appunto il cristianesimo che nel tentativo di superare lo schiavismo ha contribuito alla nascita del servaggio. Lo storico non deve fare altro che esaminare l'efficacia democratica delle ideologie progressiste. Il fatto che nell'Europa orientale il feudalesimo fu più stabile di quello occidentale dipese dalla diversità delle culture: ortodossa e cattolica. Nell'est-europeo ci fu meno contestazione nei confronti del servaggio (come minore fu quella nei confronti dello schiavismo) perché meno forti erano le contraddizioni antagonistiche. Quando queste contraddizioni divennero insopportabili, si finì col rifiutare, con esse, anche la soluzione capitalistica prospettata in occidente. Ciò sta appunto a significare la superiorità della cultura est-europea. Tuttavia, la stabilità del feudalesimo si verificò anche in Asia, cioè sotto la cultura indo-buddista. Questo fatto può essere spiegato pensando alla limitatezza di quella cultura, che non ha saputo elaborare autonomamente una critica del feudalesimo. Questa cultura sarebbe stata incapace di elaborare un'illusione così sofisticata come quella euroccidentale. La critica del feudalesimo essa l'ha acquisita dopo essere venuta a contatto con la civiltà borghese e l'ideologia socialista. Il fatto che in Asia il capitalismo non si sia affermato come in Occidente (a parte il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Macao...), sta però a significare che il feudalesimo asiatico aveva conservato delle tracce del comunismo primitivo o comunque del modo di produzione asiatico, che è di tipo socialistico, seppure in forma autoritaria e massificante. In tal senso è parso più naturale (soprattutto in quelle nazioni ove l'ideologia è più democratica e i rapporti sociali sono più collettivistici: si pensi alla Cina buddista) il passaggio diretto dal feudalesimo al socialismo. In Cina, Vietnam, Corea del Nord, Mongolia ecc. è avvenuta la stessa cosa che è avvenuta nell'Europa orientale, solo che qui il passaggio è stato mediato dal cristianesimo e non dal buddismo. Probabilmente è stato lo scarso peso dato all'individuo singolo che ha indotto il socialismo asiatico ad essere così burocratico e autoritario. Sarebbe interessante, in questo senso, cercare di capire se lo stalinismo è una variante del socialismo asiatico o se invece rappresenta un'anticipazione del socialismo che si affermerà in Europa occidentale. CAPITALISMO E CRISTIANESIMO Come mai la rivoluzione borghese si è verificata prima che altrove in un'area geografica dominata dalla presenza del cristianesimo? Cosa ha impedito a tutte le altre religioni di conseguire i medesimi risultati? Il motivo è semplice: il cristianesimo è la prima religione del mondo che pone l'uomo al centro del processo storico-universale. Esso da un lato ha ereditato l'ottimismo della cultura ebraica, la fiducia nelle capacità degli uomini, organizzati collettivamente, di trasformare l'ambiente in cui vivono, superando della cultura ebraica l'aristocraticismo dell'appartenenza a un "popolo eletto", a una delle dodici tribù, alla "nazione santa" ecc. (il che comportava chiusure e settarismi); dall'altro ha ereditato il cosmopolitismo dei popoli pagani (greco-romani soprattutto), superandone l'individualismo e l'intellettualismo: limiti che portavano a credere nei concetti passivi di "destino", "fato" ecc. Tutte le altre religioni hanno conservato un rapporto migliore con la natura, senza preoccuparsi più di tanto di "fare storia". In ciò esse possono riflettere una maniera individualistica o collettivistica di vivere i rapporti sociali: quel che è certo è che esse appaiono più "religiose" (in senso tradizionale) del cristianesimo. La religione tradizionale esprime infatti una sorta di rapporto magico con la natura, che è avvertita più potente dell'uomo. Col cristianesimo invece il rapporto si ribalta: è l'uomo a essere considerato più forte. SCHIAVISMO FEUDALESIMO E CAPITALISMO La principale contraddizione antagonistica della nostra epoca è quella determinata dall'economia: i proprietari privati accumulano capitali per acquisire un potere politico. Quanti più ne accumulano, tanto più è grande il potere politico. Per poter realizzare tale scopo il capitalista è disposto a tutto. Nei confronti del capitale, del denaro, vi è completa soggezione. Nell'antichità feudale e schiavista la contraddizione antagonistica prevalente non era di natura così astratta, così artificiale, così sofisticata: era di natura "fisica". Quanti più schiavi o servi della gleba si possedevano (da far lavorare come contadini e artigiani), tanto più potere politico si disponeva. Il feudalesimo, in tal senso, è stato molto più vicino allo schiavismo che non al capitalismo. Il capitalismo ha potuto formarsi dentro il feudalesimo euroccidentale, ma ad un certo punto ha dovuto rompere con la "fisicità" di quella forma d'antagonismo per poterne creare una nuova. In un certo senso il capitalismo ha simbolizzato, materializzandolo nella forma astratta del capitale, lo sfruttamento del servo della gleba. Ha cioè dovuto trasformare una contraddizione "fisica" (la dipendenza personale del servaggio) in una contraddizione "economica" (la falsa libertà personale del lavoratore salariato). Il capitalismo è stato costretto a questa finzione perché la resistenza del servo della gleba alla contraddizione "fisica" era ormai diventata molto grande ed essa non avrebbe permesso la riedizione, più o meno simile, di quell'antagonismo. L'antagonismo, di fronte alla consapevolezza della necessità del suo superamento, ha dovuto perfezionarsi per poter sopravvivere. In quest'ottica andrebbero analizzati tutti i movimenti contadini di protesta anteriori a quelli borghesi. Il denaro resta un'astrazione anche quando permette di acquisire un potere politico. Esso non avrà mai la concretezza di uno schiavo o di un servo della gleba. Si possono accumulare capitali all'infinito (sempre che gli operai lo permettano), non si può sfruttare uno schiavo o un servo oltre un certo limite: sia perché si rischia di farlo morire (e di ciò si può non tener conto solo se gli schiavi o i servi a disposizione sono in grande quantità), sia perché l'accumulo di derrate alimentari superiori al fabbisogno del proprietario è per forza di cose limitato, specie se esse sono deperibili. Con l'uso del denaro, inteso come scambio equivalente delle merci, tutti questi problemi sono stati superati. Allo sfruttamento "estensivo", relativo, della manodopera si è sostituito quello "intensivo", assoluto (che diventa relativo solo se la manodopera si oppone con la forza allo sfruttamento). L'economia ha sostituito la fisicità dell'antagonismo, non solo acuendo lo sfruttamento del lavoratore, ma estendendone anche i confini geografici. Interi popoli della terra sono entrati nella storia del capitale solo come "sfruttati". Il servaggio non poteva avere un'esigenza di universalità, poiché il rapporto di dipendenza personale, per quanto gerarchizzato fosse, non conosceva la possibilità di usare il denaro come equivalente universale, cioè non aveva la capacità di servirsi di una finzione a livelli così elevati. Oggi tuttavia per la prima volta un'opposizione all'antagonismo può diventare di tipo universale. Ci si può chiedere se in futuro non esisterà un'altra forma di antagonismo, ancora più sofisticata di quella economica, che possa permettere l'acquisizione di un potere politico. Una forma analoga a quella stalinista o maoista, basata su una sorta di potere carismatico (soggettivo) della persona e ideologico (oggettivo) dell'istituzione ch'essa rappresenta. Una forma cioè che dopo essere maturata in un'esperienza collettivistica s'imponga in maniera individualistica, servendosi del collettivismo in modo burocratico e militarizzato. L'acquisizione del potere a partire da ideali di giustizia sociale e di libertà, e poi l'uso del potere acquisito contro questi stessi ideali: ecco la sostanza dello stalinismo. Solo delle motivazioni interiori (non legate quindi al denaro né alla proprietà di alcunché) possono determinare un rivolgimento del genere. I VANTAGGI DEL CAPITALISMO Gli storici devono cominciare a chiedersi se i vantaggi ottenuti con lo sviluppo della società borghese, subito dopo il crollo del feudalesimo, potevano essere considerati sufficienti a legittimare la necessità di una definitiva transizione, ovvero se gli svantaggi correlati a questa transizione non furono così grandi da escludere l'idea che non vi fosse un'altra soluzione alla crisi del feudalesimo. In effetti, oggi appare sempre più chiaro che il capitalismo non è che una variante dello schiavismo (così come d'altra parte lo era il servaggio): le differenze sono più formali (cioè giuspolitiche) che sostanziali (cioè socioeconomiche). La differenza tra capitalismo e feudalesimo sta nell'illusione della libertà o della ricchezza e naturalmente nei mezzi materiali con cui si cerca di alimentare tale illusione. Nel feudalesimo la libertà dipendeva da una ricchezza che si acquisiva per nascita: solo a partire dalla crociate gli esclusi da qualunque forma di eredità (ad es. i cadetti), cercarono di far fortuna come i borghesi. Ricchezza e libertà coincidono sia nello schiavismo, che nel servaggio e nel capitalismo: nel primo caso il metro di misura è il numero degli schiavi che si possiede (ma si conosceva anche la ricchezza fondiaria e quella commerciale); nel secondo caso il metro di misura è la terra; nel terzo è il capitale. Il capitalismo, aumentando l'illusione della libertà, è stato, dal punto di vista dell'onestà intellettuale, un regresso rispetto allo schiavismo romano, dove l'illusione era minima. Il capitalismo non ha fatto che accentuare al massimo l'illusione del servaggio, sostituendo la religione con mille altre droghe. Senza contare il fatto che il capitalismo, per sopravvivere, ha necessariamente bisogno di colonie da sfruttare, mentre il feudalesimo -almeno sino alle crociate- si limitava a uno sfruttamento del lavoro interno. Da ultimo bisogna tener conto che il capitalismo, per alimentare le proprie illusioni, ha bisogno di usare strumenti imponenti e sofisticati, che comportano una notevole distruzione ambientale (e su scala planetaria). Il marxismo da sempre ha detto che il capitalismo sarebbe stato l'ultima illusione. La storia però ha dimostrato che ne può esistere un'altra ancora più sofisticata (sul piano politico-ideologico): quella del socialismo amministrato, di Stato (che è una riedizione del servaggio, e che oggi si trova ancora in Cina). Dobbiamo in sostanza chiederci che possibilità aveva il capitalismo di svilupparsi senza il colonialismo (iniziato praticamente con le crociate, cioè con un'ideologia religiosa -quella cattolica- ben marcata). E' forse giusto esaltare gli aspetti antifeudali del capitalismo, quando, per affermare tali aspetti, esso ha avuto bisogno di inaugurare nuove forme di sfruttamento e di oppressione (su larga scala)? I progressi conseguiti sul piano tecnico, materiale, scientifico sono sufficienti per giustificare il superamento del feudalesimo? E' possibile cioè che dal servaggio, attraverso la lotta politica, non si potesse passare a un'altra forma di società civile, realmente democratica? Perché nell'Europa orientale è potuta avvenire la transizione dal feudalesimo al socialismo (seppure di Stato), senza passare per il capitalismo? La risposta, probabilmente, va cercata nello sviluppo diverso delle tre ideologie religiose: cattolica, protestante e ortodossa, o comunque nel diverso tipo d'influenza che queste ideologie hanno esercitato sui rapporti sociali. Non a caso l'inizio dei rapporti borghesi è avvenuto in Europa occidentale, quando si era definitivamente consumata la rottura tra Occidente cattolico e Oriente ortodosso. Solo che lo sviluppo di tali rapporti ha trovato la sua maggiore coerenza nell'area protestantica non in quella cattolica. La chiesa romana, infatti, essendo eminentemente politica, non tollera che si formi al proprio interno una classe che in nome del capitale possa minacciarne il potere. La chiesa romana è una chiesa feudale il cui potere economico è sostanzialmente legato alla terra. L'ideologia cattolica non favorisce di per sé i rapporti borghesi, ma non ha neppure in sé la forza (morale) per escludere tale evoluzione: essa cerca solo di usare la forza politica per opporsi alla borghesia, ma questo ha potuto farlo in Italia sino all'unificazione nazionale, in Francia sino alla Rivoluzione dell'89, ecc. La capacità di opporsi idealmente al capitalismo è diminuita, nel cattolicesimo, in misura proporzionale al suo distacco dall'ortodossia. Il protestantesimo, dal canto suo, ha potuto perorare al 100% la causa della borghesia perché, rompendo col cattolicesimo, ha evitato di ricollegarsi all'ortodossia (infatti ha eliminato il concetto di "tradizione"). E così oggi è solo la chiesa cattolica che ancora s'illude di poter realizzare sul piano politico una "terza via" tra socialismo e capitalismo. Né l'ortodossia, né, per motivi diversi, il protestantesimo si sono mai preoccupati di questa cosa. Nei Paesi protestanti, sul piano etico, si sono realizzati dei rapporti umani individualistici e cinici, perché basati sul denaro; nei Paesi cattolici ancora ci si illude che l'ideologia religiosa abbia in sé il potere d'impedire che si formino dei rapporti del genere. Il persistere di concetti come "Stato assistenziale" o "garantista", "capitalismo popolare" ecc. sono appunto il frutto di questa illusione. In Italia le forze conservatrici, che da mezzo secolo stanno al potere (e che dicono d'ispirarsi al cattolicesimo e che fino a qualche tempo fa s'illudevano di poter "umanizzare" il capitalismo), si sono sempre meravigliate, lamentandosene, della grande forza (almeno sul piano quantitativo) delle masse comuniste. In realtà, tale forza trovava la sua ragion d'essere proprio nella presenza autorevole, nel nostro Paese, del cattolicesimo, il quale, nonostante i suoi dualismi, ha saputo trasmettere, per un certo periodo di tempo, l'esigenza di un ideale di giustizia anche in quei soggetti usciti dalla chiesa cattolica. Paradossalmente, proprio l'affermazione del socialismo avrebbe permesso agli ideali del cattolicesimo di sopravvivere meglio (seppure ovviamente in forma laicizzata). Tuttavia, la chiesa cattolica non ha mai accettato questa soluzione (almeno in Occidente), proprio perché è una chiesa sostanzialmente legata al potere politico: essa ha sempre preferito considerare come suo principale nemico il comunismo invece del capitalismo. Salvo poi lamentarsi, con ipocrisia, che dopo il crollo degli ideali comunisti non s'intravede più in Occidente una lotta politica per la giustizia. Viceversa, nel Terzo mondo la chiesa cattolica (slegata dal potere istituzionale) ha preferito mettersi in rapporto con le ideologie socialiste. E' curioso che il crollo "storico" del socialismo stia trascinando con sé anche quello "ideale" del cattolicesimo. Tuttavia il vero crollo "storico" del cattolicesimo avverrà soltanto quando il socialismo avrà realizzato gli ideali della democrazia sociale e dell'umanesimo integrale. Prima di allora il destino del cattolicesimo occidentale sarà sempre più quello di trasformarsi, all'ovest, in un'ideologia analoga a quella protestantica (con qualche settore interessato all'ortodossia), e al sud in un'ideologia legata agli ambienti di sinistra. L'INQUISIZIONE MISTERI DELL'INQUISIZIONE ED ALTRE SOCIETA' SEGRETE DI SPAGNA V. De Fréréal CON NOTE STORICHE ED UNA INTRODUZIONE di Manuel de Quendias E CON ESTRATTI DI UNA LETTERA RELATIVA A QUEST'OPERA DI Edgardo Quinet Nuova edizione Italiana Milano - Francesco Pagnoni , editore-tipografo 1867 Trascrizione dagli originali, in due e quattro volumi, pubblicati in lingua italiana nel 1847 a Parigi, e nel 1867 a Milano. Quest'opera pregevolissima è oramai di Pubblico Dominio e di libera circolazione (freeware), essendo trascorsi oltre 70 anni dalla morte dell'autore. A cura di Claudio Della Valle http://web.tiscali.it/geremia2000 Principali chiavi di ricerca per trovare, in ogni tempo e luogo, tracce di Claudio Della Valle e dei suoi lavori su Google o altri motori di ricerca. Inserire, comprese le virgolette: "Claudio Della Valle" - "Il canto della Sorgente" - "Il luogo di Geremia" - "Della resurrezione dei morti" - "In nome del pane" - "Lettera a un cristiano mai nato" - "Sulla via del ritorno" - "Riflessioni ed ipotesi sull'Apocalisse di S. Giovanni" INTRODUZIONE. Venti secoli fa la terra era soggetta ai tiranni, cioè ai re ed ai preti, che, valendosi delle diverse religioni che professavano, rendevano schiave le nazioni, e le governavano. Gesù Cristo non aveva recato per anco al mondo i divini precetti che dovevano rigenerarlo. Ei non era ancor morto sur una croce per dare la libertà alla terra.. L'evangelo non esisteva. Da quel tempo in poi l'evangelo è stato a tutti insegnato. Non contenti ad aver lasciato alle nazioni la dottrina del loro divino Maestro, gli apostoli ed i discepoli di Gesù Cristo sono morti per difenderla. Nei primi secoli del Cristianesimo, i pontefici e i preti cristiani hanno camminato nel sentiero che avevano loro segnato gli apostoli, com'essi, han proclamato la fede cristiana sotto la scure dei carnefici, ed il sangue dei mártiri ha fruttificato. La metà del mondo abbracciò il cristianesimo; ma a quei tempi, sì gloriosi per la specie umana, succedettero ben tosto secoli d'iniquità. Finché durò la persecuzione, i pontefici e i preti cristiani furono umili e forti; cessata la persecuzione, i papi, dapprima sì poveri, divennero presto ricchi e potenti. Coloro che non ha guari erano obbligati a vivere senza asilo, a predicare sulle montagne e a celebrare l'uffizio divino nei cavi delle rupi, ebbero un regno temporale, magnifici templi e una corte più splendente di quella dei re. La croce per essi non fu più un'arme sufficiente a combattere l'errore e a sottomettere i popoli alla fede di Cristo. Ebbero armi come i re della terra, e combatterono con la spada coloro ch'era mestieri vincere colla dolcezza. Di mártiri divennero carnefici! D'allora in poi lo spirito di Dio gli abbandonò, l'orgoglio e l'ambizione dominarono l'anima dei preti del Signore. Essi non furono più gli umili ministri di un Dio crocifisso, ma i vili cortigiani di un papa. Roma non fu più la città santa, ma la città dell'orgia, un bordello, secondo l'energica espressione di Dante[1]. In poco tempo Roma Cristiana divenne più pagana di quello che fosse stata ai tempi di Nerone e di Caligola; non fu più la capitale del mondo cristiano, ma un immondo lupanare, in cui i leviti del Signore profanavano ogni giorno la loro sacra veste. Il palazzo dei papi divenne il palazzo della lussuria, ed un ricovero di ciurmadori. I cardinali e i vescovi, questi successori dei predicatori della Giudea, trasformati in principi della terra, non si prostrarono più nella polve dei templi, umiliandosi e pregando pel loro gregge; ma in quei templi ebbero troni, ov'erano incensati come iddii, ove s'inebriavano di profumi e d'armonia, ove spiegavano la pompa fastosa e fascinatrice delle cerimonie d'un culto che Cristo non avrebbe riconosciuto se fosse ridisceso sulla terra. In tal modo il clero romano, obliando il ciclo nei sollazzi mondani, si fece adorare per molti secoli in luogo del Dio vivente; e siccome il Vangelo condannava la sua condotta, egli vietò ai popoli la lettura del Vangelo[2]. Nel volgere di questi tempi, i popoli camminavano silenziosi incontro all'avvenire; la Spagna, incivilita dai Mori, coltivava con successo le arti e l'industria; le lettere rinascevano in Italia, l'Alemagna si preparava alla riforma, e l'Inghilterra fremeva già d'entusiasmo ai primi vagiti della nascente libertà. Roma, finalmente, si svegliò dal suo letargo al rumore che i popoli facevano per rompere le loro catene; essa vide la potenza sfuggirle di mano. Allora, invece di prostrarsi e dimandare perdono a Dio d'un passato colmo d'iniquità, che fece il capo della Chiesa, il successore di san Pietro?.Creò l'Inquisizione[3]. Da quel giorno il clero cattolico, fatto certo di regnare col terrore e colla forza, sdegnò d'ingannare l'umanità, dominata per tanto tempo dalla sua ipocrisia, e ne divenne il flagello. D'allora in poi lottò apertamente contro il progresso dei lumi. Mercé le sue cure, l'Inquisizione avanzò bentosto tutte le speranze di Roma, e diede al potere temporale dei papi una estensione di cui non sapremmo formarci oggidì che una debole idea. L'Inquisizione, da lunga pezza preparata ai rigori che fino dal terzo secolo dell'era cristiana i papi avevano esercitato contro i popoli, preparata eziandio dal Concilio di Verona nel 1184, l'Inquisizione ebbe cominciamento soltanto col secolo decimoterzo ( 1208 ). Fu istituita in Francia sotto il pontificato d'Innocenzio III, e regolarizzata da Domenico de Guzman, che impose a questa istituzione la regola di sant'Agostino. Alcuni anni più tardi, l'Inquisizione aveva varcato le Alpi, e regnava su quasi tutta l'Italia. Finalmente nel 1232, Gregorio IX indirizzò all'arcivescovo di Tarragona, in Catalogna, un breve col quale gl'ingiungeva di stabilire l'Inquisizione nella sua diocesi. Alcuni monaci domenicani furono rivestiti della carica d'inquisitori; ben presto tutta la Spagna dovè sobbarcarsi a questo odioso giogo. Tuttavia gli Spagnoli han lottato senza posa per due secoli contro i progressi di questa orribile istituzione, e contro la sua invasione. Ma nel 1484, un priore fanatico, Tommaso di Torrequemada, secondano l'avara ambizione di Ferdinando d'Aragona, introdusse l'Inquisizione in Castiglia e in Aragona, dove non era ancor penetrata, e si fece nominare grande inquisitore generale. Torrequemada appunto diè principio a quella lunga serie d'inaudite persecuzioni le quali non cessarono in Spagna che al giungere dei Francesi nel 1808; allora veramente cadde l'Inquisizione colla potenza morale della Chiesa spagnuola, dopo avere stanca la Spagna per più di tre secoli d'agonía. In questo lungo e sanguinoso periodo, il secolo decimosesto è quello che offre i quadri più ricchi di opposizioni e di contrasti all'osservazione dello storico. Questo secolo, che ha veduto i regni di Carlo V e di Filippo II, ha assistito alla fine di quello di Torrequemada, ed a quelli degl'inquisitori generali Deza e Cisneros; questo secolo, infine, è stato testimone delle lotte del vero spirito cristiano contro l'oscurantismo e la simonia di Roma. Da una parte erano Lutero, Zelantone e Zwingli che mostravano al mondo gli abusi della Chiesa Romana, confondevano la scompigliata teologia dei monaci, e regalavano all'Alemagna ed alla Svizzera quel largo codice di uguaglianza e di libertà che comincia a' piè dell'altare e termina ai gradini del trono. Dall'altra san Giovanni d'Avila, Luigi di Granata, san Giovanni di Dio, monaci arditi nelle loro dottrine, ma animati dal vero spirito degli apostoli, che lottavano colla dolcezza e la carità contro l'intolleranza e i vizi di Roma, ed erano colpiti dall'Inquisizione ad onta del loro candore evangelico, e della loro pia moderazione. Eravi finalmente quel gran re, Carlo V, che proteggeva l'Inquisizione, da lui aborrita, onde farsene un appoggio, perciocché da accorto politico comprendeva che la riforma la quale abbatteva la potenza dei papi, non si sarebbe arrestata che dopo avere abbattuta la potenza dei déspoti. Leggendo la storia dell'Inquisizione, e specialmente quella del secolo decimosesto, si giunge a persuadersi di questa sentenza: che la grand'arte di Roma e di saper sempre collegare la causa dei re alla propria, e quando essa non può regnare con la forza, regnare coll'astuzia e col proselitismo. Non ne rimane che aggiungere una parola: Roma non ha cambiato spirito; essa ha sempre numerosi agenti che per impercettibili ramificazioni distende come un'ampia rete sul mondo; essa non ha più gl'inquisitori, ha i Gesuiti. Il secolo cammina, si dice; ma si guardi bene, che la pendenza retrograda diverrà lubrica e facile se accordasi al clero ciò che domanda, il monopolio dell'insegnamento. Lasciamo una o due generazioni crescere ed informarsi fra le mani dei discepoli di Loyola, e si vedrà quello che diverranno i lumi, la felicità e la libertà del mondo. I mali del passato debbono essere di scuola per l'avvenire. Leggasi il passato dell'inquisizione, presentato sotto colori sì veri e drammatici da V. de Féréal, nei Misteri dell'Inquisizione di Spagna, e si vedrà come divenga insensibilmente terribile e formidabile una potenza occulta che non lavora a pro dell'umanità, ma avendo in mira solo una cosa. Quest'opera, rigorosamente storica, malgrado la sua forma drammatica, sarà forse l'obbietto di molti attacchi, e darà luogo a più d'una calunnia contro il lavoro, contro l'autore e contro noi, che l'abbiamo commentata. E' questa l'opinione d'un uomo che, calunniato ingiustamente egli stesso, conosce a fondo i nemici della causa che l'autore difende: noi vogliamo parlare di E. Quinet. Ecco ciò che risponde l'illustre scrittore alla domanda che gli abbiamo diretta di appoggiare l'autore col suo nome, ricusandoci l'onore che gli chiedavamo. "...-Voi che siete dabben'uomo e straniero, pensate sempre che il pubblico saprà il vero; ma no: sarà ingannato.Io non dubito del talento elevato dell'autore dei Misteri dell'Inquisizione; ma basta che l'immaginazione entri per qualche cosa in quel libro, basta, in una parola, che sia un romanzo, per esser certi che se il mio nome vi comparisse, il libro sarebbe immediatamente calunniato. Vi avrei servito molto male, e avrei agito contro la mia causa; ogni personaggio, il più innocente ancora, sarà travisato, dispregiato, rivoltato, avvelenato, il pubblico non andrà a ricercare la verità; vedrà soltanto elevarsi contro di me una massa di menzogne, alle quali sarà impossibile il rispondere; poiché, lo ripeto,ad avversari sleali come i miei non posso chiudere la bocca che colla Storia semplice, senza ornamento né invenzione d'arte. Quando m'avete domandato per la prima volta che il mio nome andasse innanzi alla vostra opera, trattatavasi d'un lavoro puramente storico; poscia il vostro pensiero si è sviluppato, e siete pervenuto ad una forma più completa e più popolare. Ma se fino da principio mi aveste richiesto: -Volete fiancheggiare del vostro nome un bel romanzo storico sull'Inquisizione?- Vi avrei risposto con mio grande rincrescimento: -Voi mi chiedete una cosa impossibile, che non farei né per un mio fratello né pel mio figlio!.-- E più in basso continua: -Se si vedesse l'odiato mio nome a capo d'un libro, si renderebbero i miei princìpi e la mia causa responsabili di tutte le calunnie che si andassero accumulando. I vostri personaggi diverrebbero tanti mostri, e si direbbe che io gli ho coperti colla mia veste di professore dell'Università. Sareste attaccato da tutti i miei nemici..- E più in basso ancora, l'autore dell'Ultramontanismo, dolendosi di non poterne appoggiare come noi lo brameremmo, ci fa l'onore di aggiungere: -Quando l'amicizia e la stima che m'ispirate non me lo comandassero, (di soddisfare il vostro desiderio ove mi fosse possibile), io vi sarei condotto dal talento sì vero e sì variato dell'autore, del quale io non ho letta pagina che non siami sembrata considerevole. In questo e nella reale vostra cooperazione sta il successo - -Firmato E. Quinet- Noi dobbiamo dunque tutto aspettarci dai nemici della verità. Per risponder loro anticipatamente, dichiariamo qui che l'autore dei Misteri dell'inquisizione e noi, non abbiamo avuto altro scopo che premunire il nostro paese contro gli abusi cui può trascinare lo spirito dominatore del clero: i quali, se non pervenissero ad immergere la Francia nelle sventure di ogni specie che hanno per tanto tempo oppresso gli Spagnuoli, potrebbero almeno introdurvi quelle segrete dissensioni, quelle lotte intestine, frutto di una limitata e mal diretta educazione, che fanno da ruggine ai vincoli sociali; che esacerbando poco a poco gli spiriti, li allontanano gli uni dagli altri, e preparano quei terribili combattimenti dell'intelligenza e della materia, a cui si frangono la forza e la prosperità delle nazioni. Manuel de Quendias I. Il quartiere di Triana. Verso la metà del secolo decimosesto, durante il regno di Carlo V, la popolazione di Siviglia, questa gaia e festevole capitale dell'Andalusia, era a poco a poco divenuta cupa, silenziosa e mesta. Indarno la città moresca faceva pompa, ai raggi di splendido sole, dei suoi vasti terrazzi coperti d'arbusti e di fiori; dei suoi eleganti balconi, ove s'intrecciavano delle liane verdi e fiorite, delle graniglie rosse e dei gelsomini di Virginia dalle larghe corolle aurate. La sera non udivasi più, sotto i balconi, la voce dei cavalieri innamorati congiunta agli striduli accordi del mandolino; e se nelle ore deliziose della notte, qualche timida fanciulletta osava ancora mostrarsi sul suo terrazzo, e respirare la fresc'aura e profumata che s'elevava dalle rive del Guadalquivir, essa passava taciturna e grave come ombra, e dal muto suo labbro non uscivano più che sospiri soffocati, invece di quel dolce riso delle fanciulle, di quell'armoniosa melodia di linguaggio, che sulle labbra delle donne fa somigliare ad una musica soave la lingua degli Spagnoli. Dappertutto il terrore aveva, da lunga stagione, alzato il suo sinistro stendardo; non più ciarle di famiglia, non più riunioni patriarcali; la diffidenza ed il timore paralizzavano i più dolci sentimenti dell'anima. Il padre temeva del figlio, del fratello il fratello, l'amico del proprio amico; perciocché si tremava in quell'epoca di trovar sempre nell'individuo meglio diletto una spia o un accusatore. Niuno era sicuro né della propria fortuna, né della vita; l'uomo viveva giorno per giorno, non osando attaccarsi a nulla, respingendo in fondo al cuore ogni slancio di generosità o di tenerezza, non trovando neppure consolazione o speranza in Dio, quel grande consolatore di tutte le miserie; perciocché non ardiva più invocarlo nella libertà della propria coscienza, essendo incerto se l'espressione della preghiera, o la manifestazione della sua fede fosse l'espressione legale approvata dal tribunale supremo dell'Inquisizione: sacro usurpatore, che voleva che si adorasse Iddio alla sua maniera, ovvero, trasformandosi egli stesso in Dio, si arrogava diritti infiniti ed una funesta possanza sui corpi e sulle anime; tiranno spietato che cercava, con tutti i mezzi possibili, di raggiungere l'unico suo scopo, il dominare. L'Inquisizione era allora all'orribile apogeo della sua potenza; aveva per capo il cardinale Alfonso Manriquez, arcivescovo di Siviglia. Questo rapido colpo d'occhio era necessario per la intelligenza dei capitoli che seguono. Ora riportiamoci al 15 febbraio dell'anno 1534. Potevano essere sette ore di sera, e le strade di Siviglia, innanzi rumorose ed animate, erano già silenziose ed oscure, benché occorresse l'epoca del carnevale. Solamente a quando a quando alcuni monaci di sordido aspetto s'incrociavano nelle strade con qualche gitano vagabondo; alcuni famigliari del Sant'Uffizio, spioni vigilanti, si salutavano passando con un segno sacramentale[4], e gli abitanti del quartiere di Triana[5] si affollavano alle entrate del ponte di barche gettato sul Guadalquivir, che riunisce la città a quest'immenso sobborgo, immonda sentina, ove, anco ai nostri dì, pullula la feccia della popolazione Sivigliana. Fra le persone che a quell'ora attraversavano il ponte di Triana, si vedeva un uomo di alta statura, vestito d'un cappuccio di monaco predicatore. La sua fronte, spaziosa e grave, era piuttosto calma che austera; i suoi grandi occhi neri, pieni di dolcezza, benché l'entusiasmo ed il pensiero vi facessero brillare delle fiamme, e il suo labbro taciturno era l'impronta dell'eloquenza e della poesia. Raggiava su quel volto l'energia di san Paolo e la dolcezza dell'amato discepolo. Quest'uomo camminava lentamente, come fosse preoccupato da alti pensieri, e nella profonda non curanza delle cose terrene nella quale pareva immerso, ei non vedeva i passeggeri che si urtavano appresso a lui, né coloro che, venendo dalla medesima direzione in cui egli andava, potevano urtare lui stesso nella semi-oscurità della notte. Giunto all'altra parte del ponte, si fermò un istante, incerto se prendere la destra o la sinistra delle due strade che formavano una biforcazione davanti a lui. Ma siccome a questa indecisione poco formulata si mischiavano preoccupazioni d'altro genere, il monaco, dominato senza dubbio da un'idea, rimase pensoso e senza moto al medesimo posto. In tal guisa somigliava ad un uomo che attende ad un abboccamento piuttosto, che ad un filosofo meditante; e specialmente in quell'epoca, pochi, in vedendo il monaco così immobile, avrebbero compreso che non faceva che ubbidire ad una posa del suo pensiero. Il quell'istante, un uomo decentemente vestito sboccò dalla strada a dritta, nominata allora la via dei Gitani, cioè dei Boemi, si fermò alcuni momenti sull'angolo della via, guardando da tutti i lati come se cercasse qualcuno; poscia, visto il religioso, si diresse lentamente verso di lui. Giunto a pochi passi di distanza dal frate predicatore, ei si fermò di nuovo; il monaco non lo vedeva ancora. Il laico si avvicinò d'un passo, e pronunziò a voce bassa questa parola. -Hito[6]-.- Al suono di quella voce il monaco alzò bruscamente la testa, guardò un istante l'uomo che gli aveva parlato, e rispose gravemente con un'altra parola: -Coraza[7]-.- -Dio[8] mi manda-, soggiunse l'incognito. -Dio ha ogni potere sugli uomini-, rispose il monaco. -Vostra Reverenza può seguirmi-, proseguì il laico. Il religioso ubbidì, e si pose a camminare al lato della sua guida con sembiante così tranquillo, così naturale, come se cotesto incidente non fosse stato impreveduto; lasciandosi guidare come docile fanciullo, ed osservando scrupolosamente l'imperioso chiton[9], comandato dal terrore che inspirava l'Inquisizione, e che è rimasto sinistro proverbio fra gli Spagnoli. L'incognito ed il monaco seguirono insieme la via dei Gitani: strada lunga, nera e tortuosa, dove non si vedeva altra luce che quella delle numerose taverne schierate lungo di essa, dalle quali usciva un rumore stridulo e confuso, miscuglio di voci discordi ed avvinate. Il popolaccio di Siviglia godeva in quel momento dei suoi sollazzi, e s'inebriava di manzanilla e di pajarete, che beveva a lunghi sorsi nelle chiquitas, bicchieri lunghi e stretti, di forma quadrata, ancora in uso nelle bettole andalusiane. Giunto verso il fondo della strada, il laico si fermò davanti ad una taverna meglio illuminata delle altre; e indicando la porta al suo compagno, gli fece cenno d'entrare. Il religioso varcò senza esitare la soglia di quel luogo orribile; poiché allora non era cosa rara il vedere dei monaci in una taverna. Del resto sappiamo che nella Spagna eglino si sono in ogni tempo mischiati a tutte le cose sudice e riprovate. Da ciò senza dubbio il disprezzo e l'odio che gli hanno perseguitati e scacciati. Il frate entrò nella taverna. Era una sala bassa, lunga ed oscura, colle pareti nere ed affumicate, coperte qua e là di larghe fessure, di colore più chiaro delle quali, contrapposto ai tuoni più cupi della muraglia, formava su quel fondo nero un mosaico di geroglifici. Delle panche grossolane e zoppe si stendevano tutto all'intorno di questa sala, davanti a lunghe tavole, nere e sporche, alle quali però il continuo sfregamento dei gomiti aveva dato una specie di vernice. Sulle mura, a metà altezza della soffitta, si erano appiccicate molte immagini grossolane, rappresentanti le numerose madonne che la Spagna adora, e delle scene orribili d'atti-di-fede. Al di sotto di ciascuna immagine ardevano due piccole candele, grosse come un cannello di penna, od un lume a olio, affumicato e puzzolente. Questi lumi, che ardevano del continuo, formavano durante tutta la notte la illuminazione della taverna. Alle travi della soffitta erano fissati a vite molti uncini di ferro a più branche, da cui pendevano qua e là dei prosciutti, del lardo affumicato, della carne fresca, dei cappelli d'uomini ed anco dei mantelli; questi uncini servivano da attacca-cappe ai clienti della bettola. A vedere tutte quelle persone, schifose nell'aspetto, monaci, zingare, gitani e famigliari dell'Inquisizione, avvegnacché vi fosse di tutto in quella taverna; a vederle, dico, assise intorno a lunghe tavole, alla tremula luce delle candele, coperte di un singolare vestiario, si sarebbe detta un'assemblea di demoni seduti sotto le forche in mezzo ad una catacomba. Il suolo, terroso, grigiastro ed umido, non rimbombava sotto i sandali dei monaci o i piè nudi dei gitani; il frastuono delle voci rauche somigliava ad una lunga salmodia. Quel luogo immondo tanto inspirava terrore, quanto disgusto. Tali erano le taverne del sobborgo di Triana[10]. Il frate andò ad assidersi all'estremità della sala, a capo di una tavola in cui non era alcuno, poscia invitò il suo compagno a porsi al suo lato. -Subito-, disse l'incognito; -ma bisogna prima ch'io parli alla Graziosa-. E indicò una fanciulla ch'era in piedi, pochi passi distanti da loro, sulla porta d'uno stanzino che le serviva di cucina. La Graziosa, sorella del taverniere, era una giovane e bruna andalusiana, mezza gitana, dalle gambe sottili e rotonde, coperte appena fin sotto alla polpa da una corta sottana rossa. Lunghi capelli neri, un po' ondati, cadevano, divisi in due treccie, da ciascun lato della sua testa sino al di sotto della sua vita snella, ed una larga striscia di nastro color d'arancio era attaccata al di sopra della nuca per mezzo di lunghi spilli colla testa d'acciaio, le cui mille faccette brillavano come stelle. L'incognito le si fe' incontro famigliarmente, e le disse con accento breve ed a mezza voce: -Graziosa, è venuto Francesco?- -Non ancora-, rispose l'Andalusiana, -ma non può tardare, ho mandato mio fratello Giovacchino ad avvertirlo che la signora Dolores uscirà di casa a mezzanotte; Francesco deve venire a raggiungervi qui, come pure questo sant'uomo che Dio[11] onora della sua confidenza-. Nel tempo stesso la Graziosa gettò uno sguardo curioso sulla bella ed imponente figura del religioso. -E' lui-, disse l'incognito,-è il confidente intimo dell'illustrissimo e reverendo padre Pietro Arbues; l'ho incontrato a piè del ponte di Triana, come me l'aveva annunziato Sua Eminenza, e non aspettiamo che Francesco per la esecuzione del nostro progetto, se tuttavia la signora Dolores mantiene la sua parola-.- -Essa uscirà, signore-, riprese la Graziosa, -le ho portato io stessa una lettera del suo fidanzato, che Sua Eminenza ha fatto, per passatempo, scrivere da Pietro di Saavedra[12]-.- -E la fanciulla ha acconsentito così subito ad un appuntamento?-domandò lo sconosciuto, che d'ora innanzi chiameremo Enrico. -Rifiutò da principio-, disse la Graziosa; -ma la lettera era così pressante! Si trattava della vita del suo sposo, e la fanciulla ha promesso tutto ciò che ho voluto. Essa deve recarsi questa sera nel luogo indicato. Vi persuaderete facilmente-, aggiunse la sorella di Giovacchino, -che io non sono stata estranea alla sua determinazione, e che vi ho cooperato con tutto il mio potere-.- -Sia lodato Iddio!-sclamò Enrico con simulata compunzione, -tu sei una vera strega, Graziosa! E, in fede mia, Sua Eminenza non poteva scegliere meglio di te per farne l'istrumento della sua santissima ed immutabile volontà. Tu comprendi bene che il nostro santo inquisitore non ha altro scopo che quello di strappare al demonio l'anima di questa giovine, impedendo il suo matrimonio con don Estevan de Vargas, il quale si dice sia figlio di un marràno[13] e nipote d'un moresco-,- -Oh! questo è vero-, disse la Graziosa, facendo un gran segno di croce. -Monsignore è un sant'uomo, ei non agisce che a fin di bene. Ma non mi dite che sono una strega-, soggiunse tutta spaventata; -una tal parola non deve uscire dalla bocca di un famigliare del Sant'Uffizio; poiché in premio del mio zelo a servire la santissima Inquisizione, questa parola potrebbe mandarmi a figurare nel primo grande atto-di-fede che avrà luogo per celebrare le vittorie del re Carlo, nostro amatissimo padrone-.- -Andiamo, càlmati, Graziosa, tu sei troppo buona cattolica e troppo fedele alla santa Inquisizione per averne timore. Quanto prima avremo, è vero, un grande atto-di-fede; e non sarà il primo dacché il nostro amatissimo signore e re Carlo è salito sul trono: ebbene, io ti prometto il miglior posto nella gran loggia della piazza maggiore, per vedere arrostire tutti quei cani d'eretici-.- -Davvero?-gridò la giovine andalusiana, battendo graziosamente le sue mani l'una coll'altra. -O signor Enrico! Si dice che vi saranno più di quindici eretici bruciati, ed un gran numero a cui Sua Eminenza farà grazia, purché facciano abiurazione e vogliano morire da buoni cristiani; costoro saranno strangolati prima d'esser dati alle fiamme[14]. Oh! Che bella vista! Signor Enrico, mi farete vedere tutto, non è vero?-- -Te lo giuro-, rispose il famigliare, -in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e col permesso del santissimo inquisitore di Siviglia. Sarà una cosa magnifica-, aggiunse Enrico, contento di veder la gitana animarsi di tanto zelo pel Sant'Ufficio. Ma se avesse guardato attentamente il volto dell'Andalusiana, avrebbe veduto le sue labbra vermiglie impallidire in modo impercettibile, il suo occhio vivace e brillante, pieno di un vago terrore, e sotto il giustacuore di velluto nero avrebbe, un poco più dappresso, sentito il suo cuore pulsare a colpi ineguali e celeri. La sorella di Giovacchino non poteva, rimontando ai suoi antenati, trovare molto lungi da essa la sorgente d'un puro sangue cattolico per essere veramente tranquilla di contro all'Inquisizione, della quale era divenuta, per paura, l'umile serva; e, poco rassicurata dall'aria bacchettona ed ipocrita del soldato di Cristo[15], esclamò con sembiante esaltato, che si sforzava di rendere ridente: -Oh! Che bella vista. Oh! che bella vista dev'essere!- In quell'istante, essa vide i grandi occhi neri del frate fissi sopra di lei. Il monaco non aveva perduto una sillaba della sua conversazione, né un solo movimento della sua fisionomia.... -Danne del vino, ragazza mia-, disse il famigliare. E la povera graziosa, contenta di fuggire agli sguardi penetranti del religioso e a quella garrulità per la quale tremava ad ogni istante di tradire i suoi terrori, la Graziosa, vivace e leggera, andò a cercare una brocca piena di vino, che pose davanti a Sua Reverenza. Mentre Enrico avanzava uno sgabello di legno per assidersi di faccia al religioso, un nuovo personaggio entrò nella taverna. Il nuovo arrivato si avvicinò al famigliare, ed accennando il monaco con lo sguardo, -E' questo il nostro santo commissario?-domandò con un tuono di voce melato. -Egli stesso, signor Francesco-, rispose Enrico. Il religioso si alzò ed incrociò le sue mani sul petto. Il nuovo venuto fece il medesimo gesto, il monaco le incrociò quindi in senso inverso, poi s'inchinò verso Francesco come per salutarlo. Francesco fece, da parte sua lo stesso movimento, di maniera che, inchinandosi, le loro fronti si toccarono leggermente. Era quello il saluto distintivo dei famigliari del Sant'Uffizio. Ma Francesco non rimase contento di questi segni di riconoscimento; scoprì il suo petto, e sotto il suo giustacuore, mostrò una placca d'argento, che aveva la figura di un Cristo rovesciato. In mezzo al petto del Cristo brillava un sole, simbolo della luce, divisa derisoria dell'Inquisizione, questa messaggera di errore e di annientamento. A quest'ultimo segno il monaco non rispose. Francesco gettò sopra Enrico un cupo sguardo di diffidenza. Enrico alzò le spalle con aria convinta e noncurante. -Non è dei nostri, ti dico-, replicò Francesco, -e noi siamo traditi; traditi, intendi?-proseguì egli, serrando fortemente il pugno d'Enrico; e la sua fisionomia esprimeva una collera feroce. Tutto questo era detto a voce bassa, ma non tanto che i frequentatori della taverna non si fossero avveduti di un movimento di agitazione che annunziava una contesa. Tutti gli occhi si diressero allora verso il religioso, che, rimasto tranquillo ed impassibile, sembrava essere testimone piuttosto che attore di questa strana scena. Alcuni all'aspetto del frate, la cui figura imponente inspirava il rispetto, osarono mormorare, e minacce contro Enrico e Francesco uscirono dalla bocca di quei banditi. Quantunque sicuri della loro vendetta, in caso d'insulto, i famigliari dell'Inquisizione non si avvisavano di venire ad una rissa cogli abitanti del quartiere di Triana: essi li conoscevano assai per sapere che per la difesa di un monaco si farebbero tutti tagliare a pezzi; ma vi era qualche cosa che al popolo imponeva più dei preti e dei monaci, cioè l'Inquisizione. Con astuzia infernale, Francesco, volgendosi verso i bevitori, gli sguardi ed i gesti dei quali esprimevano intenzioni ostili: -Fratelli-, gridò, -sarete voi così cattivi cattolici da difendere un nemico dell'Inquisizione?- A questa parola terribile, d'Inquisizione, avreste veduto curvarsi tutte le teste, ed un pallore livido far luogo all'animazione dei volti: si sarebbe detto la folgore caduta in mezzo a quegli uomini rozzi e turbolenti. Niuno di essi osò più dire una parola. Allora il frate, senza fare attenzione né alla collera di Francesco né allo stupore dei banditi della taverna, si alzò gravemente, e si diresse verso la porta, in mezzo ad un cupo silenzio. -Come!- esclamò Francesco, -lo lascerete voi fuggire così? Nessuno di voi si muoverà ad avvertire i birri del Sant'Uffizio?-- -Io, io!- gridò la Graziosa, spaventata. Nello stesso tempo si slanciava verso la porta, volendo schivare col suo zelo il pericolo che temeva sempre per sé medesima; ma nel tempo ch'essa andava ad alzare il saliscendi, il monaco gettò su di essa uno sguardo lungo e profondo; e la Graziosa, affascinata, giunse le mani cadendo in ginocchio davanti all'uomo di Dio. Per un impulso simultaneo, i banditi tesero le loro braccia verso di lui, come per implorare il suo soccorso contro un potere occulto che non osavano sfidare. Allora il monaco, volgendosi con aria maestosa verso quella assemblea muta e raccolta, la benedisse con uno sguardo celeste, e slanciandosi nella strada, si dileguò senza che nessuno, senza che Francesco stesso, avesse pensato a trattenerlo. -Siamo stati traditi, imprudente!- disse Francesco indirizzandosi ad Enrico, immerso, come gli altri, in un profondo stupore. -Ei non sa niente!-, replicò Enrico. -Ebbene, all'opera dunque!- gridò Francesco rassicurato; -non abbiamo bisogno di un terzo per questo-. E i due soldati di Cristo uscirono insieme dalle taverna. II. Il palazzo della Garduña. All'estremità del quartiere di Triana esisteva un'antica casa diroccata, di stile moresco, le cui rovine servivano di rifugio agli augelli notturni[16]. Mendici senza asilo, incuranti gitani, dormivano sovente fra le pietre in quelle tiepide notti che, in Andalusia, rendono inutile ogni riparo; e nei giorni invernali, delle vecchie, accoccolate al sole, venivano a cercare dietro a quelle ruine un riparo contro il vento del Nord. Alle larghe proporzioni delle rovinate muraglie, a certi ornamenti architettonici perfettamente conservati, potevasi riconoscere agevolmente che ivi era esistito un volta un vasto e sontuoso palazzo; poiché in mezzo a quegli avanzi, un lungo colonnato elegante e leggiero sosteneva una vôlta disseminata di arabeschi d'una perfetta conservazione. Un muro quasi intatto, quantunque in apparenza di fragile costruzione,circondava questo colonnato, che aveva dovuto ornare una splendida sala; una porta di rimarchevole solidità ne difendeva l'entrata. Qua e là fra i rottami crescevano alcuni arbusti selvaggi; delle gramigne dai fiori d'un color rosa pallido, dei mucchi di viole a ciocche dai soavi profumi, dei boschetti di rose e di lauri selvaggi, i cui densi cespugli gettavano sulla nudità di quelle ruine la loro verdura ombrosa e vivace. Questo luogo bizzarro serviva di sala di riunione alle assemblee dei membri della Confraternita de la Garduña[17]; era il palazzo del maestro dell'ordine. Tutti color che hanno letto le novelle di Cervantes si rammentano del tipo deliziosamente grottesco di Monipodio, il capo dei ladri di Siviglia. Nell'epoca di cui parliamo, vale a dire più di cinquant'anni innanzi a Cervantes, una confraternita di ladri, protetti da alcuni membri della polizia, esisteva già in Spagna. Questa bizzarra istituzione, la cui origine risale al cominciamento del secolo decimoquinto, aveva allora per capo in Siviglia un uomo singolare, dall'aspetto ad un tempo grave e sarcastico, dal linguaggio oscenamente pittoresco; tipo tradizionale del resto, almeno nel carattere, e che si trovava ancora in Spagna nel 1821. La stessa sera di febbraio 1534, in cui avevano avuto luogo le cose riferite nel capitolo precedente, una scena non molto curiosa e molto più originale aveva luogo nel palazzo del maestro della Garduña. Erano circa dieci ore; la porta solida e pesante del palazzo della Garduña, girando sui cardini, permise il passaggio ad una trentina d'individui di ogni sesso e d'ogni età. Entrarono silenziosamente ed in ordine, osservando scrupolosamente i diritti del rango e della gerarchia. Nel mezzo della sala benissimo illuminata di torcie di ragia fissati ad anelli impiantati nelle colonne, stava il maestro dell'ordine. Era un uomo di alta statura, forte, e di sistema osseo molto sviluppato; il suo viso olivastro, solcato da alcune cicatrici, offriva un singolare miscuglio di astuzia, d'audacia, di sangue freddo, e talvolta, quando si degnava sorridere, di sarcasmo e d'ironia. La sua voce maschia e grave aveva un accento energico, e quando comandava, la forza della sua volontà imprimeva al suo sguardo ed al suo gesto una grande potenza di dominazione. Ei portava una camicia di grossa tela ed una casacca bruna gettata sulle spalle a guisa di mantello; delle zaraguelles, specie di brache di tela, coprivano le sue cosce fino al di sopra del ginocchio. Le sue gambe, nude e nervose, erano coperte di pelo, e i suoi piedi, larghi, piani e rugosi, indizi di una bassa estrazione e d'una enorme forza fisica, erano calzate d'alpargatas, specie di sandali annodati attorno ai malleoli da una quantità di nastri. Quest'uomo si chiamava Mandamiento[18]. I diversi personaggi che erano entrati nella sala fecero cerchio attorno al maestro della Garduña y floreo[19]. Accanto a lui, e per ordine di merito, si posero l'uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra, due bravi nella forza dell'età. Il primo si chiamava Manofina, a cagione della sua inarrivabile destrezza a dare, passando, un colpo di pugnale senza che la sua vittima s'accorgesse donde partiva il colpo, e del suo prodigioso talento di spadaccino e tiratore di pistola. L'altro era detto Corpo di ferro. Aveva sofferto tre volte la tortura senza confessare i suoi delitti, senza denunziare alcuno, e senza che il suo corpo sembrasse risentirne danno. Venivano in séguito due vecchietti, chiamati soffietti, nome che la società dava a tutti quelli fra i suoi membri che, col favore di un esteriore devoto, le servivano di spie e d'introduttori dovunque era da fare un furto. Poscia delle vecchie donne, utili personaggi, chiamati Coperte; poscia ancora alcuni capriuoli sotto vestimenta diverse; finalmente molte ragazze, chiamate Sirene, che erano le cortigiane dei capi dell'ordine. Esse avevano inoltre la missione di intenerire coi loro vezzi i giudici, i procuratori ed anco gli scrivani, dai quali spesse volte dipendeva la vita dei fratelli della Garduña. Spesso eziandio le loro seduzioni non riuscirono infruttuose presso qualche canonico voluttuoso, o qualche priore lascivo, la influenza dei quali allora era senza limiti tanto sulle cose temporali, quanto su quelle spirituali. Al di fuori del cerchio, ed un poco in disparte, stava modesto un giovinetto, oggetto precipuo della riunione; si chiamava Graffio[20]. Il signor Mandamiento girò sull'assemblea uno sguardo potente, fece devotamente un gran segno di croce, e borbottò un'orazione, volgendosi verso un'immagine grossolana della santa Vergine attaccata al muro. Tutti gli astanti l'imitarono. Poscia Mandamiento parlò in questi termini: -Nobili e valenti cavalieri del pugnale, fedeli soffietti, utili coperte, seducenti sirene, caprioli leggieri ed altri membri di questa onorevole confraternita, salute! Che Dio Nostro Signore, e la sua santa Madre vi accordino la loro divina protezione, e vi scampino dagli uncini[21], dalle fruste[22], dalle travi[23], dalle angosce[24] e dai vuomiti[25], sovente mortali per voi, e sempre pericolosi per i vostri fratelli. -io vi ho qui riuniti oggi per consultarvi sopra un fatto che interessa i nostri diritti, e potrebbe compromettere la nostra società. -Tutti sapete, o miei figli, che da quando lavorate sotto la mia direzione, non abbiamo avuto a deplorare che un dozzina di volteggi[26], circa quaranta passeggiate sull'asino[27], ed alcuni viaggi nella marina reale[28]. -Siviglia ne forniva sei volte tante ogni anno alle unghie della tigre[29] prima che mi aveste nominato capo della vostra confraternita. Appena settantacinque ganci[30] sono caduti quest'anno nella gola del lupo[31], e sopra un trentina dei nostri fratelli che sono in questo momento fra i suoi denti, ardisco affermare che vi saranno appena tre angustiati[32], cinque o sei marinari[33], ed una dozzina di cavalcanti[34]. Penso che avremo eziandio due o tre frustati, e altrettante nostre sorelle passate al miele[35]; ma non abbiamo potuto impedirlo. Quando avremo tanti denari da far dire più messe e meglio pagare le guardie del Sant'Uffizio, i nostri affari anderanno altrimenti. Tale è oggigiorno, o miei figli, lo stato fiorente della Garduña. -Se vi ho richiamato alla memoria i miei piccoli servigi-, riprese Mandamiento con una finta modestia, -non è per far pompa del debole talento che Dio, Nostro Signore, di cui non sono che l'umilissimo strumento, si è degnato compatirmi, ma per farvi comprendere che l'unione, la più stretta, l'accordo il più perfetto dee regnar tra di noi, affinché possiamo esercitare con tutto il successo possibile la nostra utile professione, e meritare la stima delle dame e dei cavalieri che ci fanno l'onore d'impiegarci. Passo allo scopo di questa riunione-. Nello stesso tempo il maestro girò attorno a sé lo sguardo scrutatore, ed avendo veduto Graffio, chetava umilmente appoggiato contro una colonna, gli fece cenno d'avvicinarsi. Graffio si affrettò ad obbedire. Il cerchi di persone che lo separava dal maestro si aprì per dargli passaggio. Il giovine si avanzò, ed in pochi passi si trovò a portata del signor Mandamiento. Il maestro della Garduña prese il giovane per la mano, e mostrandolo all'assemblea, continuò così il suo discorso: -Fratelli! I signori Manofina e Corpo di ferro hanno sorpreso questo giovane sul peristilio della cattedrale, mentre eclissava[36] prima un fazzoletto da tasca ad un gentiluomo, poi una borsa benissimo fornita al sagrestano d'un convento di monache. Per dire il vero egli ha spiegato, in ciò fare, una grande abilità, ma non è men vero che, non appartenendo alla nostra confraternita, egli ha violato gli statuti del nostro ordine eclissando senza averne l'autorità, e di più appigliandosi ai beni della Chiesa. -I signori Manofina e Corpo di ferro, considerando le buone disposizioni ed il talento precoce di questo giovane, talento che, per quanto essi dicono, diverrà l'onore della Garduña, mercé Dio e le nostre buone lezioni, Manofina e Corpo di ferro hanno amato meglio condurlo presso di noi che gettarlo alla tigre, che forse avrebbe soffocate così felici disposizioni. Tuttavia questo giovane ha violato i nostri statuti ed ha meritato un soffio [37]-. -Che ne pensate, signori?-disse Mandamiento, volgendo il suo sguardo sull'assemblea.- -Il maestro ha ragione-, mormorarono i banditi: -questo giovane ha meritato un soffio -. Manofina e Corpo di ferro fecero sentire un sordo grugnito, espressione di mormorio e di malcontento. -Canaglia maledetta-, brontolò Manofina,- qui è come al Rosario[38]: questa turba risponde sempre amen. «Una mano così abile-aggiunse Corpo di ferro. «Un soffio! Un soffio! » replicarono alcune coperte, mostrando con un riso di iena due o tre denti lunghi e vacillanti che ricascavano sul loro labbro inferiore come i denti d'un cinghiale. Mandamiento rimaneva impassibile, ma nulla gli sfuggiva di quello che seguiva intorno ad esso. Lasciò calmare quell'agitazione, poi, volgendosi di nuovo all'assemblea, «Qual è la vostra opinione, signori? » disse con una voce che aveva più l'accento del comando, che quello della deferenza. Tutti si tacquero, e quelle stupide fisionomie non espressero che la passiva ed istintiva obbedienza che gli esseri volgari hanno sempre verso gli uomini di genio. Soltanto i due bravi gettarono sul capo uno sguardo obliquo, pieno di malcontento e di odio. Il maestro finse di non avvedersene, e volgendosi nuovamente verso l'assemblea , «Signori » disse, «è mio avviso che in considerazione del genio precoce di questo giovane, ed anco dei nostri onorevolissimi fratelli e signori Manofina e Corpo di ferro,che lo proteggono, è mio avviso, dico, che riceviamo questo giovane fra noi in qualità di fratello postulante[39], con dispensa dall'anno di noviziato, e che, per meglio incoraggiarlo, gli accordiamo tutti i privilegi ai quali han diritto coloro fra i nostri apprendisti che si sono distinti durante il loro anno di prove, purché paghi tutti i diritti che gli altri fratelli pagano alla confraternita, e che dia il danaro a Dio. In una parola, io lo prendo sotto la mia protezione. Ed ora »aggiunse il gran maestro con voce sonora, «se qualcheduno di voi ha da fare osservazioni, parli » Tutti si tacquero: alcune sirene gettarono sguardi di compiacenza su Graffio, che era un bel ragazzo. «Stupido gregge! » mormorarono i bravi. «Ebbene! Signori », proseguì Mandamiento, «la vostra volontà è d'accordo con la mia, ed io ve ne ringrazio ». Allora, avanzandosi verso Graffio, lo prese di nuovo per la mano, lo presentò individualmente a tutti gli astanti, che gli dettero l'abbracciamento fraterno. Il gran maestro gli fece lo stesso onore, poscia gli diede la parola d'ordine e gl'insegnò i diversi segni e toccamento propri della Compagnia. Finalmente gli rimise una pergamena sulla quale erano scritte le cariche e i privilegi dei fratelli della Garduña[40]. Così, terminata la cerimonia, Graffio andò a mischiarsi ai suoi nuovi compagni di uccisione e di rapina. Quindi il maestro, togliendosi di tasca un pezzo di carta coperto di scarabocchi, - Fratelli », disse, - ecco l'ordine del giorno: -Tre battesimi[41]da applicarsi più leggermente che sia possibile: uno ad un bel giovanotto dai mustacchi neri, che passa tutte le sere a sette ore sul ponte di Triana. E' un gentiluomo d'alta statura e di bella apparenza; porta un mantello scarlatto. Questo battesimo sarà pagato cinquanta reali, più cinquecento maravedis, se può esser applicato sul viso, in modo da marcare ben l'individuo. La persona che paga è una signora molto bella e giovanissima: per la qual cosa, signor Graffio, io mi riporto alla vostra galanteria per il bel sesso, incaricando voi di questa faccenda. -Ecco trentasette reali e mezzo che vi toccano, senza contare i cinquecento maravedis di gratificazione che la signora vi darà, se potrete giungere a fare nel viso del battezzato uno sfregio incancellabile; cosa facile, purché soffreghiate la fatta ferita con un po' di sego sciolto nell'aceto -. Nel medesimo tempo Mandamiento rimise a Graffio un'ampolla piena di un liquore nerastro. - Il secondo battesimo -, continuò il maestro. - pagato soltanto quaranta reali, dev'essere amministrato a Sua Paternità il priore del convento dei monaci della Mercede: egli ha tolto una penitente a Sua Beatitudine che paga; essa darà quattro dobloni di gratificazione se si riuscirà a cavare un occhio al suo priore; perciocché la penitente in questione nulla ama tanto a questo mondo quanto i begli occhi. - Io credo che, affine d'assicurarne il guadagno dei quattro dobloni, debba incaricare di questo battesimo il signor Manofina e la sua diletta Colubrina, la destrezza saprà condurre in luogo convenevole il reverendo priore dei monaci della Mercede. Ecco trenta reali -, aggiunse, -e non dimenticate la santa Vergine[42]. I quattro dobloni spettano alla sirena -. -Sì, sì, io me ne incarico! - gridò quella fra le sirene che il maestro aveva designato col nome di Colubrina. -Io me ne incarico, signor Mandamiento! - - Silenzio! Mia rosa dei boschi -, interruppe il maestro, arricciando i suoi mustacchi: -noi conosciamo la tua destrezza ed il tuo attaccamento. -Voi avete in essa una vera perla, figlio mio -, continuò volgendosi verso il bravo: -conservatela e non la battete troppo -.- -Sì, vero tesoro da conservarsi per gli altri -, mormorò il bandito con una espressione di brutale gelosia. -Andiamo, andiamo -, disse il maestro; - abbiate dunque più attaccamento per la causa comune signor Manofina -. Il garduño si tacque, ma gettò sulla sirena degli sguardi di diffidenza e di collera. La Colubrina gli si avvicinò, e passando il suo braccio in quello di lui, si mise a guardarlo teneramente in viso con i suoi grandi occhi fiammeggianti. -Andiamo, Manofina mio -, ella disse, -non t'inquietare. Non sai che io non amo che te? - Il viso del bravo si fe' più dolce; egli subiva quella fascinazione dei sensi, onnipotente sugli uomini fisicamente forti. -Sì -, disse a voce bassa, -tu mi ami, non è vero? Ma quel priore?..-- -Ebbene! Quel priore, io te lo condurrò, ecco tutto. Con lui, promettere non è mantenere. Sai bene che io sono solamente tua -. Il bravo la guardò con un misto di gioia confidente e di dubbio crudele. E, cosa strana, la sirena non mentiva. Per una rarissima eccezione questa donna, avvezza per mestiere a tutte le impudenze possibili, si serviva della sua meravigliosa bellezza per attirare le vittime nelle reti della Garduña; ma giammai il suo cuore né il suo corpo non erano stati complici di questa condotta obbligata: essa era costantemente ed a rigor di termine rimasta fedele al fiero bravo ch'erasi scelto per amante. Mandamiento continuò: -Un terzo battesimo, pagato sei dobloni; è un canonico che paga, la cifra ve l'indica bene. Questo battesimo dev'essere dato domani ad un confratello del mandatario avanti sei ore della sera, affinché il battezzato non possa fare ai membri del Capitolo le visite obbligate, e procurarsi i loro voti per la elezione del decano; il che lascia maggiori speranze al suo rivale. Se a capo ad alcuni giorni, questo battesimo potesse cangiarsi in funerale, il canonico raddoppierebbe la somma. Ben inteso che bisogna agire con accorgimento, e non oscurare[43] il vostro uomo ad un tratto. Tale è il desiderio del mandatario, e chi paga bene ha il diritto d'essere ben servito. In oltre, se questo canonico fosse eletto decano, ognuno intende che la confraternita della Garduña potrebbe contare sulla sua protezione, sua signoria me l'ha formalmente promesso. A voi signor Corpo di ferro, tocca questo battesimo. Servitevi d'un pugnale sottile, o, meglio, di una lama triangolare o d'un punteruolo, ammenoché non possediate un buon ago da valigiaio: è desso il migliore strumento per fare una ferita che duri dieci o dodici giorni, e che non getti sangue. Ecco il vostro danaro; partite e siate esatto. -Sei bagni[44] da dare -, continuò il maestro; e distribuì questa faccenda a dei compagni volgari. -Più tre viaggi[45], di cui uno sulla strada di Jaën, domani, a nove ore; è l'ora in cui deve passare la galera[46] che porta ottantamila reali per il nunzio di Sua Santità, prodotto della vendita delle bolle e delle indulgenze nel reame di Siviglia; l'altro sulla strada di San Lucardo, a mezza notte, esso pure al passaggio della galera, la quale porta centoventimila reali che appartengono ad un banchiere ebreo, e sono destinati ad un banchiere moro di Siviglia. Noi dobbiamo togliere questo denaro ai nemici di dio, i quali non possono servirsene che a detrimento della nostra santa religione. il terzo viaggio avrà luogo sulla via Granata, nel punto della riunione di essa colla strada di Xeres. Tre gentiluomini debbono passarvi, che portano la borsa ben fornita ed un guardaroba nuovo. Ora voi sapete che molti dei nostri fratelli sono malissimo forniti di panni-. Queste tre spedizioni furono confidate a tre fratelli sicuri e passati maestri. -Infine -, disse Mandamiento, -e questa è la cosa più importante, un oscuramento[47] sulla persona del giovane don Estevan de Vargas. Egli esce tutte le sere, a mezzanotte, dalla casa di Sua Eccellenza il governatore di Siviglia. Dicesi che sia il fidanzato di sua figlia, vezzosa giovane di diciassette anni, alla quale questo oscuramento deve senza dubbio costare molte lacrime; ma ciò non ne riguarda. Questa operazione ci sarà pagata cinquanta dobloni anticipati, più una somma uguale dopo l'esecuzione, e la protezione del santissimo inquisitore di Siviglia, a cui l'affare sta indubitabilmente molto a cuore, perocché ci ha fatto offrire la sua protezione, moneta di cui non è prodigo -.- -E chi garantisce queste belle promesse?- interruppe Manofina, che le vive occhiate e le carezze della sirena avevano singolarmente intenerito a favore dei due amanti. -La persona che me le ha fatte e segnate mi è perfettamente nota -, rispose il maestro; -e se vi mancasse, queste promesse scritte sarebbero per me rimesse alla grande fucina di Siviglia[48]. Vedete, figlio mio, che io ho prese le mie cautele -.

 
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