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RIFORMA PROTESTANTE

LA RIFORMA PROTESTANTE
 

TEORIE DI JOHN WYCLIFFE (ca 1324 -1384) Il suddetto filosofo francescano, docente presso la Università di Oxford, recependo l'ostilità dei cittadini inglesi contro lo strapotere della chiesa cattolica feudale del proprio paese, ebbe il coraggio di criticare la pretesa del papato di riscuotere le imposte in Inghilterra, difendeva il diritto del re inglese di secolarizzare le terre ecclesiastiche, dichiarava che lo Stato non poteva dipendere dalla chiesa e che anzi era la chiesa a dover dipendere dallo Stato nelle questioni di carattere civile. Per questa ragione il papa Gregorio XI lo accusava degli stessi errori di Marsilio da Padova. Chiedeva addirittura l'eliminazione dell'episcopato, in quanto il capo della Chiesa non poteva essere il papa, ma solo Gesù Cristo. Respingeva la dottrina delle indulgenze, la remissione dei peccati da parte dei sacerdoti, ovvero il loro potere di "salvare le anime", la confessione auricolare, il dogma della transustanziazione, nonché il culto dei santi, proclamava la Bibbia come unica fonte della rivelazione (e la tradusse in inglese). Le sue idee ebbero grandissima influenza su tutti i riformatori di estrazione borghese della chiesa inglese che in Boemia furono riprese da Jan Huss. I feudatari e la stessa corona lo appoggiarono, perché i papi di Avignone avevano sostenuto la Francia durante la guerra dei Cento Anni (1337-1453). Nel 1377 fondò l'ordine dei Poveri Predicatori, successivamente soprannominati Lollardi, ma dopo la rivolta contadina del 1381 l'Università di Oxford contestò le sue tesi sulla povertà evangelica e sul carattere puramente simbolico dell'eucarestia. Subì dal tribunale ecclesiastico due processi, ma non fu condannato perché egli era protetto dalla corona. Il Concilio di Costanza nel 1414 lo condannerà invece per eresia, insieme a Jan Huss e Girolamo di Praga. Pur essendo già morto, il corpo di Wycliffe fu riesumato e arso sul rogo nel 1428 dal vescovo di Lincoln. I LOLLARDI E LA RIVOLTA DEL 1381 Contro le ricchezze smisurate e gli abusi della chiesa inglese intervennero, nella seconda metà del XIV sec., i cosiddetti Lollardi, predicatori itineranti popolari, seguaci di Wycliffe ma più radicali, in quanto alle accuse antiecclesiastiche univano anche quelle antinobiliari e antimonarchiche. John Ball infatti incitava i contadini (i cosiddetti "villani") a insorgere, ad abbandonare i feudi, il servaggio e a organizzare reparti armati contro i feudatari, i ricchi mercanti, i funzionari del re, e chiedeva ai salariati e ai garzoni delle corporazioni urbane di appoggiarli. Il nome Lollardo proveniva da un movimento evangelico nato dopo il 1300 in Olanda (lollaerd significava "salmodiante"), come diramazione dei Begardi. I Lollardi parteciparono alla rivolta contadina del 1381, capeggiata dal conciatetti Wat Tyler, nell'Essex e nel Kent (contee confinanti con Londra), scoppiata in occasione delle nuove tasse straordinarie che re Riccardo II (1377-1399) aveva imposto per riprendere la guerra contro la Francia. I contadini devastarono le tenute nobiliari e i monasteri, prelevavano bestiame e beni mobili, incendiavano i documenti riguardanti le obbligazioni dei lavoratori, e molti feudatari furono costretti ad abolire la servitù della gleba, le corvées, a diminuire i tributi. A Londra, con l'appoggio della popolazione povera della città, incendiarono le case dei consiglieri reali e dei ricchi mercanti stranieri, uccidendo i giudici colpevoli di corruzione e aprendo le prigioni. Presentarono le loro richieste (Programma di Mile-End, sobborgo vicino a Londra) al re Riccardo II, con cui chiedevano l'abolizione del servaggio, delle corvées, la sostituzione di qualunque rendita in natura con piccoli pagamenti in denaro, l'introduzione del libero commercio in tutta l'Inghilterra e l'amnistia per gli insorti. Il re accettò e i contadini più agiati tornarono ai loro paesi. Quelli meno abbienti invece, capeggiati da Tyler e Ball, chiedevano col Programma di Smithfield (altro sobborgo presso le mura della città) cose più radicali: confisca delle terre dei vescovi, dei monasteri e dei sacerdoti, ripartizione delle terre tra i contadini, soppressione di tutti i privilegi feudali, uguaglianza dei ceti, abolizione delle leggi sui lavoratori, restituzione delle terre comuni rapinate dai feudatari. Tuttavia, durante le trattative Tyler fu ucciso a tradimento dal sindaco di Londra. Temendo la rivolta, ai contadini vennero fatte ogni sorta di promesse ed essi se ne andarono. Ma il re ordinò ai cavalieri di tutte le contee di inseguirli e di catturarli, vivi o morti: quelli che si arresero furono impiccati. Anche Ball morì e il Programma di Smithfield fu revocato (la rivolta diede comunque il colpo di grazia al servaggio in natura). I Lollardi saranno condannati dal vescovo Buckingham nel 1394, dopodiché furono sterminati dai roghi. Teorie religiose dei Lollardi Le teorie dei Lollardi costituiscono il sostrato culturale di quella Riforma protestante che prenderà il nome di "anglicana". Essendo antiecclesiastici per definizione, essi predicavano che la salvezza non si ottiene dalle opere di fede pubblica ma unicamente dall'osservanza delle leggi di Dio e della preghiera privata. Diffondevano l'uso della Bibbia presso le popolazioni incolte. Erano contrari al primato del papa sull'intera chiesa e contrari al primato della chiesa di Roma su quella europea, nonché a qualunque venerazione di santi e teologi (specie quelli posteriori al Mille) che non avessero messo in discussione i suddetti primati. Giudicavano "simoniaca" la chiesa romana ed erano contrari alla vendita delle indulgenze, ma anche a qualunque forma di devozione liturgica che utilizzasse mezzi o strumenti religiosi come oggetti magici, aventi cioè proprietà intrinseche, quindi erano contrari all'efficacia oggettiva dei sacramenti e, se vogliamo, a qualunque forma di oblazione connessa all'esercizio dell'amministrazione dei sacramenti. Respingevano il celibato del clero. In tal senso predicavano la fine della chiesa come società organizzata in maniera istituzionale e politica: ecco perché erano favorevoli al dualismo di cristiano e cittadino (borghese) e alla nascita di piccole comunità autonome in cui fosse scongiurata la politicizzazione della fede. Tali comunità dovevano agire l'una in modo indipendente dall'altra, per ognuna delle quali il motivo dello stare insieme non era solo quello religioso, ma anche quello della tutela di interessi comuni, territoriali. Non accettavano i ruoli istituzionali ipostatizzati, l'inamovibilità delle funzioni, la gerarchizzazione dei ruoli. Non escludevano l'uso della violenza contro le istituzioni, anche se condannavano la guerra e la pena di morte. LA RIFORMA IN INGHILTERRA - ANGLICANESIMO Generalmente si ritiene che la Riforma protestante in Inghilterra non sia stata il frutto di un movimento religioso popolare, ma che abbia avuto origini politico-istituzionali (Parlamentary Transaction). In realtà essa poté avere tali origini solo perché era stata preparata per alcuni secoli da un vasto movimento popolare e intellettuale. Basti pensare alle teorie di John Wycliffe e al movimento dei Lollardi che prese le mosse dalla sua predicazione. Le disposizioni di Edoardo III (1327-1377) Nel 1353 re Edoardo III emana una legge con cui vieta il trasferimento alla curia pontificia di Roma degli affari esaminati dai tribunali religiosi: è una grave perdita per l'erario papale. Rifiutò di pagare al papa il tributo di mille marchi d'argento imposto dalla curia di Roma ai tempi del re Giovanni Senzaterra (1199-1216). Il re il parlamento cominciarono a confiscare alcune terre ecclesiastiche inglesi, a motivo del fatto che la chiesa inglese non pagava le imposte statali. Lo scisma di Enrico VIII (1491-1547) La causa scatenante dello scisma anglicano va ricollegata al fatto che Enrico VIII non riuscì ad ottenere dalla Chiesa di Roma lo scioglimento del suo matrimonio, che era stato richiesto perché non aveva avuto un figlio maschio cui lasciare il trono. Il re, approfittando del malcontento che serpeggiava nelle file del clero e del laicato cattolico inglese contro Roma, si rivolse all'arcivescovo Cranmer di Canterbury (cui praticamente erano stati trasferiti i poteri papali) e riuscì ad ottenere il divorzio da Caterina d'Aragona. Subito dopo la scomunica fece approvare dal Parlamento (1533) una serie di leggi che rompevano i legami con Roma e sottomettevano interamente il clero inglese alla corona (ad es. impedì che si pagassero le "annate" al papato, cancellò la sua giurisdizione, sciolse i monasteri, confiscò i beni della chiesa, stroncando ogni resistenza interna). Non solo, ma egli stesso si autoproclamò "capo della chiesa inglese" con l'Atto di supremazia (all'Irlanda fu imposto nel 1541). Nel 1539 pubblica i 6 articoli della dottrina anglicana, che non si differenziava di molto da quella cattolica. Infatti Enrico VIII aveva respinto la richiesta di introdurre la Riforma in Inghilterra, comminando la pena di morte a chiunque negasse la transustanziazione, pretendesse la comunione dei fedeli sotto entrambe le specie e il matrimonio del clero. Aveva anche fatto giustiziare William Tyndale, traduttore della Bibbia in inglese. Naturalmente il divorzio fu solo un pretesto: la causa profonda va vista nel generale processo di rivendicazione della sovranità regia contro ogni interferenza, soprattutto se proveniente dall'esterno. Il sorgere dei rapporti capitalistici nell'Inghilterra del XVI sec. aveva reso urgente la costituzione di una monarchia assoluta, che accelerasse la disgregazione del regime feudale. Un importante mezzo di centralizzazione dei poteri fu appunto la riforma della chiesa, con la quale il re riuscì a secolarizzare circa 1/3 di tutta la proprietà terriera inglese: il che peraltro risollevò l'erario dalle spese belliche sostenute durante i Cento Anni di guerra con la Francia, in cui il papato non prese mai le parti degli inglesi. Ad acquistare questi terreni furono quei proprietari terrieri (gentry), che assumeranno un ruolo fondamentale nella storia dell'Inghilterra capitalistica. Da notare che in genere i papi non opponevano alcun veto ai principi e ai re che volevano separarsi dalle loro consorti. In questo caso però il rifiuto fu determinato dal timore di scontentare il parente più importante di Caterina d'Aragona, l'imperatore Carlo V, che rappresentava in quel momento un valido baluardo contro la diffusione del luteranesimo. Lo scisma anglicano non incontrò in Inghilterra alcuna forte resistenza da parte ecclesiastica (fanno eccezione alcuni religiosi francescani e certosini, nonché il vescovo Fisher). La vittima più illustre fu il Gran cancelliere del re, Thomas More, che pur essendo disposto a firmare l'Atto per la successione della discendenza di Anna Bolena (la seconda moglie), rifiutava il modo in cui Enrico VIII si era proclamato "capo della chiesa" (e gli opponeva la convocazione di un concilio nazionale). Non vi fu resistenza semplicemente perché i torti di una sede pontificia esosa, corrotta e retriva quanto mai, apparivano ai sudditi inglesi sufficienti a legittimare la costituzione di una monarchia assolutistica e scismatica. Peraltro Enrico VIII aveva garantito al clero e a tutti i fedeli che nulla del tradizionale cattolicesimo sarebbe stato modificato, a livello sia dogmatico che sacramentale e rituale. In precedenza, lo stesso re aveva scritto, in collaborazione con Moro, alcuni pamphlet antiluterani. L'opposizione del Moro fu interessante anche per un'altra ragione. Per la prima volta nella storia egli si appellò ufficialmente al principio dell'obiezione di coscienza. Chiese cioè di poter dissentire, per motivi personali (di natura religiosa), dall'atto d'imperio di Enrico VIII, senza che in questo si dovesse per forza vedere un'opposizione politica alla monarchia. Naturalmente se il re l'avesse lasciato libero, egli si sarebbe ritirato a vita privata. Cosa che però non avvenne in quanto il re rifiutò di distinguere nel Moro l'uomo dal cittadino, ovvero il credente dal politico. Dunque la chiesa anglicana nasce come chiesa cattolica scismatica, conservando del cattolicesimo l'organizzazione e la successione episcopale, nonché i sacramenti, il cerimoniale, i testi canonici. Se vogliamo, la chiesa anglicana è la sintesi di tendenze abbastanza diverse tra loro: l'assolutismo della monarchia, il nazionalismo della borghesia inglese emergente, che sapeva promuovere rapporti sociali di tipo capitalistico, il moderato riformismo di tipo erasmiano (di cui lo stesso Moro si sentiva rappresentante). Le influenze luterane e calviniste del continente europeo si fecero sentire immediatamente dopo. L'Inghilterra era arrivata alle stesse conclusioni della Germania, prendendo non la strada della speculazione teologica ma quella più prosaica, che alla lunga si rivelerà anche più efficace, della lenta trasformazione borghese dei rapporti sociali. Le nuove dottrine, tendenti al calvinismo (42 articoli), furono introdotte sotto Edoardo VI (1547-53), che Enrico VIII aveva avuto da un terzo matrimonio. Re Edoardo approvò nel 1549 il Libro delle preghiere pubbliche che l'arcivescovo Cranmer e altri teologi avevano realizzato (lo stesso Cramner introdusse in Inghilterra la Bibbia in volgare). Il Book of Common Prayer, in uso ancora oggi, comprende, dopo aver eliminato ogni elemento superstizioso, la liturgia della domenica e delle feste, l'ufficio del mattino e della sera per ogni giorno, il rituale dei sacramenti. Nel 1552 il libro venne modificato alla luce della dottrina di Zwigli, grazie alle testimonianze dirette di Martin Butzer e d Pier Vermigl. A questa situazione cercò di reagire la cattolica Maria Tudor (1553-58), detta "la sanguinaria", figlia di Caterina d'Aragona, ma senza ottenere validi risultati, anche se gli anglicani condannati sotto il suo regno risultarono più numerosi dei cattolici messi a morte dagli anglicani durante tutto il secolo seguente. Fu in questa occasione che molti protestanti emigrarono oltre oceano. Vi furono almeno 800 roghi e ben 12.000 sacerdoti che si erano sposati sotto il regno di Edoardo, vennero deposti. Tra i giustiziati persino il vescovo Cranmer, il predicatore Hugh Latimer e il vescovo di Londra Nicholas Ridley. Di qui la forte contro-reazione della regina Elisabetta (1558-1603), figlia di Anna Bolena, che volle approvare l'Atto di Supremazia e l'Atto di Uniformità e il Prayer Book voluti da Cramner. Nel 1562 appoggia i "39 articoli per fede" dell'arcivescovo Parker (una riformulazione dei "42 articoli" di Edoardo VI), che, approvati dal Parlamento nel 1571, diedero un volto definitivo all'anglicanesimo. Papa Paolo IV la scomunicò in quanto figlia illegittima di un divorziato. Fu appunto Elisabetta I che assunse il titolo (tuttora esistente) di "supremo reggente" (Supreme Governor), cioè di "protettrice della chiesa" e "suprema governatrice nelle cause sia ecclesiastiche che civili del regno". Con l'Atto di Uniformità del 1559 venne affermata l'indipendenza dal papa romano, venne mantenuta la continuità con la chiesa antica attraverso l'adesione alle confessioni di fede e alle decisioni dei primi quattro concili ecumenici, vennero accettati i principi fondamentali della Riforma (specie gli articoli sulla giustificazione per fede, sulla chiesa, sulle opere buone della Confessione luterana di Augusta del 1530), venne solennemente dichiarata la Bibbia come suprema norma di fede, affermando che non si può pretendere da alcuno di accettare come articolo di fede quello che non può essere approvato con la Bibbia. I sacerdoti, come tutti i funzionari pubblici, erano obbligati a prestare giuramento sui vangeli alla regina e alla sua autorità: chi si rifiutava perdeva il posto o la carica, senza essere accusato di alto tradimento. I "39 articoli" prevedevano una struttura ecclesiastica centrata sia sui vescovi, nominati dal re, che sulla successione apostolica; cerimonie, riti, liturgia e paramenti di tipo cattolico; la teologia di tipo calvinista moderato (ad es. la tradizione non è negata ma subordinata alla Bibbia, la "forza salvifica" della chiesa non è negata ma si considera più importante la fede personale. Netto invece il rifiuto di ogni culto per Maria, i santi, le reliquie, le icone e di ogni forma di suffragio per i defunti. Respinto il dogma della transustanziazione. Forti simpatie vanno al concetto di assoluta predestinazione dei calvinisti, ma anche all'umanismo di Erasmo). Altre caratteristiche sono analoghe a quelle di tutte le confessioni protestanti: il matrimonio dei preti, il rifiuto delle indulgenze e del purgatorio, il servizio liturgico nella lingua locale. Questa chiesa, oggi, non ha alcuna difficoltà ad ammettere divorzio, aborto, contraccezione, rapporti prematrimoniali e le donne al sacerdozio. La differenza più sostanziale rispetto alle altre chiese riformate sta nel fatto che la Chiesa anglicana è una "chiesa di stato" a tutti gli effetti (viene anche chiamata "chiesa stabilita", cioè protetta dalle leggi). Le cose ecclesiastiche sono ritenute affari di Stato. In teoria il capo di questa chiesa potrebbe anche non essere un anglicano. I due arcivescovi più importanti sono quelli di Canterbury (cui spetta un primato onorifico) e di York. E' appunto il primo che riconosce il re come supremo governatore visibile della chiesa, con poteri politico-giuridici non dottrinali. Con la bolla Regnans in Excelsis del 1570 papa Pio V scomunica Elisabetta, esonerando i suoi sudditi dall'obbedienza. Dura fu la reazione della regina, che fece approvare, nel 1571, l'Act against Bulls from Rome, con cui si ribadiva che nessuno nel regno avrebbe più dovuto riconoscere, far riferimento, rispettare e divulgare tutte quelle leggi che in passato erano servite a mantenere in vita il potere usurpato di Roma in Inghilterra. Da notare che proprio sotto Elisabetta furono chiusi tutti i monasteri e secolarizzati i loro beni, per quanto si continuasse a conservare l'inviolabilità dei possessi terrieri dei vescovi (e quindi la facoltà di richiedere la decima) e degli istituti ecclesiastici: l'episcopato era di origine nobiliare e, di regola, appoggiava la corona. Nel 1581 una nuova legislazione penale, determinata dal nuovo pericolo dei cosiddetti "preti del seminario" (o "Seminary Priests"), entrò in vigore. In effetti nel 1580 sbarcarono in Inghilterra i primi gesuiti allo scopo di riportare il popolo alla vecchia fede. Il fenomeno era collegato a quel movimento dei "Seminary Priests" che trovava origine nel lontano 1568, allorquando un certo William Allen, uno dei più abili cattolici del suo tempo, aveva aperto un seminario nella città universitaria di Douay, nelle Fiandre. Inizialmente si trattava solo di una scuola per l'educazione della gioventù cattolica inglese esiliata, ma a poco a poco esso si trasformò in un seminario in cui un corpo di preti veniva istruito allo scopo di prestare assistenza per la restaurazione, qualora le circostanze lo avessero permesso in futuro, del cattolicesimo in Inghilterra. Il movimento dei seminaristi divenne quindi pian piano un simbolo dell'unione delle potenze cattoliche contro la riforma anglicana, rinnovando i sospetti di una Lega Santa contro l'Inghilterra. La risposta del governo fu quella di combattere tenacemente quei religiosi e di punirli come traditori. Questa invasione di preti fu molto pericolosa principalmente perché era fatale per la politica elisabettiana di pacifico assorbimento nella Chiesa Anglicana: i seminaristi, infatti, riuscirono, almeno per un po', a fermare quell'opera di omogeneizzazione che la regina stava cercando di portare a termine fra i protestanti ed i cattolici. Nel 1581, viene così approvato l'Act against reconciliation to Rome. Esso nasce principalmente per rendere più difficile e più pericolosa l'opera svolta dai seminaristi allo scopo di ricondurre individui e famiglie al cattolicesimo. Con questo documento vengono infatti stabilite multe salatissime per chi non aderiva alla Chiesa riformata frequentando le chiese parrocchiali e per chi cercava di aizzare le masse contro il legittimo potere della regina. Importantissimo è anche l'Act against Jesuits and seminary priests, del 1585, che stabilisce che tutti quegli ecclesiastici che erano stati ordinati o avevano ricevuto una qualche nomina o investitura da Roma non potevano più risiedere in nessuno dei domini d'Inghilterra, e, di conseguenza, dovevano abbandonare il regno. In caso contrario, sarebbero stati accusati di alto tradimento e perciò sottoposti a tutte le pene e le conseguenze previste dalla vigente legislazione in merito al reato di "high treason". Coloro che avessero invece nascosto o protetto, volontariamente e consapevolmente, questi ecclesiastici, sarebbero stati additati come "Felon" e, senza poter usufruire di beneficio alcuno, avrebbero sofferto tutte le pene previste dal reato di "Felony". La colpa di alto tradimento si configurava infine anche per quanti, in futuro, avessero frequentato seminari o studiato presso scuole di gesuiti all'estero e, tornando poi in Inghilterra, avessero rifiutato di prestare giuramento di sottomissione alla Corona ed alle sue leggi. Molti protestanti inglesi, che durante il regno di Maria Tudor erano fuggiti nel continente e avevano appreso le dottrine calviniste, ritornati in Inghilterra pretesero una chiesa più coerente con la Riforma, senza episcopato né cerimonie religiose vetero-cattoliche. Essi diedero origine alla setta dei "puritani" (1580), che già negli ultimi anni del regno di Elisabetta chiedeva la "purificazione" da ciò che anche esteriormente ricordava il culto cattolico e che sotto il regno di Giacomo I (1603-25) ottenne la traduzione della Bibbia in inglese. I puritani erano contrari a ogni ornamento, immagine sacra, altare, drappi, vetrate colorate, organi, messale, riti, segno di croce, genuflessione... officiavano esclusivamente in case private. L'attività commerciale e industriale era per loro una sorta di "vocazione divina"; l'accumulazione, i profitti, un segno di particolare "elezione divina". Tra gli esponenti più significativi, John Ponet (Breve trattato sul potere politico), Edmund Spenser, George Buchanan, Henry Parker. Essi si dividevano in alcune correnti: - presbiteriani, che chiedevano la sostituzione dei vescovi anglicani coi sinodi dei presbiteri (anziani), scelti dai fedeli tra i più ricchi, dopodiché si poteva anche accettare un rapporto di tipo organizzativo con gli anglicani; - separatisti o indipendenti, che rifiutavano qualunque rapporto con gli anglicani e anche coi sinodi presbiteriani. La loro chiesa era organizzata in una confederazione di unità autonome e indipendenti tra loro, amministrate secondo il volere della maggioranza. Il puritanesimo, in sostanza, predicava la necessità di un contratto sociale tra corona e società, con possibilità d'insurrezione armata quando la corona trasgrediva i patti. Infatti, durante il regno di Carlo I (1625-49) insorsero con le armi insieme ai presbiteriani scozzesi (i calvinisti più radicali, guidati da John Knox), instaurando il calvinismo della Confessione di Westminster, dopo aver ucciso lo stesso Carlo I e l'arcivescovo Laud. In Scozia il calvinismo s'era trincerato molto saldamente e, poiché un territorio non poteva avere che una religione, il conflitto con gli anglicani fu inevitabile. Il conflitto verteva più che sulla teologia sulla liturgia e soprattutto sull'organizzazione ecclesiastica. Gli scozzesi vedevano l'espressione fondamentale di una religione nella confessione di fede, perché sapevano che in questo modo avrebbero potuto continuare a rimanere autonomi rispetto al governo di Londra; per gli anglicani invece era sufficiente accettare un manuale liturgico. John Knox era cappellano d'una banda assediata, responsabile dell'uccisione del cardinale cattolico Beaton. Era un radicale che propugnava l'aperta ribellione contro i governanti cattolici che ostacolavano la diffusione del calvinismo. Con il re Carlo II (1660-85) si ristabilì l'anglicanesimo, seppure a una condizione, che il re prestasse giuramento contro la dottrina della transustanziazione (quest'uso restò in vigore sino all'inizio del XX sec.). In cambio il re pretendeva che tutti gli impiegati statali (e quindi anche i ministri di religione) accettassero il Prayer Book. Molti puritani perseguitati furono costretti a emigrare in Olanda e Stati Uniti. Giacomo II (1685-88) promulgò la Dichiarazione d'indulgenza, in forza della quale tutti i sudditi inglesi erano ritenuti uguali di fronte alla legge, senza distinzione di religione, e fu sospeso il giuramento contro la transustanziazione. Di quest'Atto di tolleranza beneficiarono in verità i principali quattro gruppi dissidenti: presbiteriani, congregazionalisti, battisti e quaccheri. Ne furono invece esclusi la minoranza cattolica e i sociniani antitrinitari (o chiesa unitaria). Ma con la rivoluzione del 1688, che vide al potere Guglielmo III (1689-1702), il calvinismo riprese vigore. Il calvinismo si adattava perfettamente alla nuova mentalità borghese che andava affermandosi in Inghilterra: erano piuttosto la potente aristocrazia terriera e la monarchia a porre degli ostacoli. Con la regina Anna (1702-14) venne confermata la completa sottomissione della chiesa alla corona (Atto di uniformità, 1713; Atto dello scisma, 1714). Non mancarono tentativi di resistenza: alla fine del XVIII secolo la predicazione di Law e dei fratelli Wesley dette luogo al metodismo, mentre il partito evangelico, costituendo la cosiddetta Chiesa Bassa (Low Church) intendeva valorizzare la tradizione calvinista. Tuttavia alla morte della regina si giunse a un definitivo compromesso con la definizione delle tre tendenze che ancora oggi durano: a) la Chiesa Alta, che raccoglie l'aristocrazia e l'alto clero, afferma la collaborazione fra chiesa e Stato, appoggiando i conservatori, accentua la sua continuità con la chiesa antica, ammette da 5 a 7 sacramenti, si considera una diramazione del cristianesimo, insieme a cattolicesimo e ortodossia, non rifiuta la vita monastica ed è sicuramente la più vicina alla chiesa cattolica. Infatti, dopo il 1860, per l'influsso del movimento liturgico, si è molto avvicinata a Roma sul piano del ritualismo, delle invocazioni a Maria e ai santi, della confessione auricolare e altre manifestazioni. b) La Chiesa Bassa o movimento evangelico, che nato alla fine del XVIII sec., è sostanzialmente calvinista, benché accetti i sacramenti del battesimo e dell'eucarestia (quest'ultima ha valore più che altro simbolico). Altre caratteristiche sono la semplicità rituale, una spiccata azione missionaria e un forte impegno sociale a favore dei ceti più poveri, è poco interessata alla speculazione teologica. A loro si deve l'abolizione della schiavitù nel 1833, la legge sulle 10 ore di lavoro nel 1847 e la fondazione della maggiore società missionaria (1799). Questa chiesa considera l'anglicanesimo una corrente del Protestantesimo. Nel 1804 ha fondato la Società per la diffusione della Bibbia, che ha tradotto quest'ultima in oltre mille lingue e dialetti. c) La Chiesa Larga, sorta all'inizio del XIX sec., è vicina al deismo razionalista, in quanto mira a esprimere la fede cristiana in modo comprensibile all'uomo moderno. In campo sociale afferma un socialismo cristiano che l'ha portata a contrasti con la Chiesa Alta. E' sempre stata minoritaria rispetto alle altre due. E' chiamata anche "modernista". Naturalmente, a seconda che seguano l'orientamento ritualistico della Chiesa Alta o la semplicità di culto evangelico della Chiesa Bassa, le varie comunità anglicane hanno notevoli differenze liturgiche. In particolare, la Chiesa episcopale di Scozia, le Chiese di Galles e d'Irlanda fanno parte della "Comunione anglicana" ma sono separate dalla chiesa d'Inghilterra. Ad Anna successe il ramo protestante degli Hannover, durante il cui regno l'anglicanesimo fu minacciato di soffocamento, soprattutto in seguito alla controversia di Bangor e anche a causa della sospensione delle convocazioni decennali dei vescovi, decisa da Giorgio I. L'avvento delle teorie razionaliste di Locke, di quelle antitrinitarie di Clarke e di quelle deiste di Toland (dalla metà del XVII sec. alla metà del XVIII) non fecero che acuire la crisi in atto. La reazione contro questa crisi provocò la nascita del "metodismo", un movimento pietista fondato sulla esperienza mistica della certezza che si sarà salvati (oggi ha più di 30 milioni di fedeli nel mondo). E a partire dal 1833 si ebbe il cosiddetto "anglocattolicesimo", un movimento spirituale sorto a Oxford con l'intento di rivendicare l'indipendenza della chiesa dallo Stato, di ostacolare la secolarizzazione della chiesa e di favorire una riapertura verso il cattolicesimo romano in campo dottrinale e liturgico. Ebbe tra i suoi maggiori esponenti J. Newman, J. Keble e E. Pusey, che facevano parte della Chiesa Alta. Newman passò al cattolicesimo nel 1845; gli altri due fondarono appunto l'anglocattolicesimo, che effettivamente in molti punti dottrinali e liturgici è simile al cattolicesimo (ad es. nella valorizzazione dell'episcopato, del ritualismo e del monachesimo). Nel XIX secolo la reazione alla completa sottomissione della Chiesa alla corona provocò il recupero di molti elementi del cattolicesimo, a cui contribuì principalmente il movimento di Oxford, con la costituzione entro la Chiesa anglicana di un partito anglocattolico, detto della Chiesa alta (High Church), ma allorché papa Leone XIII sancì l'invalidità delle ordinazioni anglicane, l'anglocattolicesimo subì una grave crisi, che si protrasse fino all'impegno teorico e pratico di Lord Halifax e T. Eliot. Nel 1852 furono nuovamente autorizzate le convocazioni dei vescovi, i quali così poterono riacquistare maggiore autonomia ai fronte al potere politico. A partire dal 1867 si è aggiunta una struttura molto elastica: la Conferenza di Lambeth, che raduna ogni 10 anni circa tutti i vescovi anglicani. E' un'assemblea priva di autorità giuridica, cioè le decisioni non hanno carattere vincolante. L'arcivescovo di Canterbury invita non convoca gli altri vescovi. Dal 1968 sono stati invitati alcuni cattolici come osservatori. Tentativi privati per giungere a un accordo totale con la chiesa romana sono stati fatti dopo la I Guerra Mondiale (ad es. Conferenze di Malines, 1921-25), ma senza risultati significativi. In seguito all'emigrazione di molti inglesi in vari continenti e grazie a un'intensa opera missionaria, l'anglicanesimo si è diffuso in tutto il mondo. Sono così sorte altre 16 chiese nazionali autonome che non dipendono dal governo inglese e che riconoscono all'arcivescovo di Canterbury un'autorità puramente morale. La più importante di queste chiese è la Protestante Episcopale degli USA, con 4 milioni di fedeli; poi vi è la Chiesa anglicana del Canada con 2,5 milioni di fedeli. La Chiesa anglicana è molto attiva nel movimento ecumenico. Alla Conferenza di Lambeth del 1920 è stato presentato un Appello a tutto il popolo cristiano, col quale si è proposta la riunificazione di tutte le chiese cristiane sulla base della comune accettazione di quattro punti fondamentali: 1) la Bibbia come norma suprema di fede, contenente tutto ciò che è necessario alla salvezza; 2) il Credo di Nicea, come sufficiente esposizione della fede cristiana; 3) i sacramenti istituiti da Cristo: Battesimo ed eucarestia; 4) L'episcopato situato nella "successione apostolica" come garanzia di validità degli altri ministeri e come legame di continuità con la chiesa antica. Gli anglicani nel mondo sono circa 50 milioni (di cui 30 in Inghilterra). Membri della Comunione anglicana sono stati 1/3 dei presidenti USA. Anglocattolicesimo: Movimento spirituale sviluppatosi nel XIX secolo dentro la Chiesa anglicana, con l'intento di favorire una riapertura verso il cattolicesimo romano, mediante un sistematico riavvicinamento in campo dottrinale e liturgico. E' nato dal Movimento di Oxford (1833), che ebbe i suoi maggiori esponenti in John Henry Newman (1801-1890), il poeta John Keble (1792-1866) ed Edward Bouverie Pusey (1800-1882), che facevano parte della Chiesa alta e che intendevano reagire alla secolarizzazione della Chiesa. Newman passò al cattolicesimo (1845), mentre Pusey e Keble rimasero nella Chiesa anglicana, dando origine all'Anglocattolicesimo che, sia in campo dottrinale (problema della grazia, comunione dei santi, istituzione e struttura della chiesa), sia in campo liturgico (celebrazione della messa, conservazione delle specie liturgiche, servizio divino secondo la liturgia tradizionale) segnò un certo avvicinamento alla chiesa cattolica. L'Anglocattolicesimo subì però una grave crisi alla fine del XIX secolo, quando Leone XIII sancì l'invalidità delle ordinazioni anglicane; ma si riprese grazie alla guida di illustri personaggi, fra i quali Lord Halifax e Thomas Eliot. Fonti Felix Arnott, I 39 articoli: Genesi, significato e ruolo nella storia dell'Anglicanesimo. L'Anglicanesimo: Dalla Chiesa d'Inghilterra alla Comunione Anglicana. Cesare Alzati, ed. Genova: Marietti, 1992. 145-161. Su Elisabetta I E. Cantani, La vita ed il tempo di Elisabetta, Milano, Mondadori, 1977, 126p. G. Dogliotti Frati, Elisabetta d'Inghilterra, Genova, ECIG, 1992, 67p. D. Kotnik, Elisabetta d'Inghilterra. Una donna al potere, Milano, Rusconi, 1984, 277p. DIRAMAZIONI DEL PROTESTANTESIMO Il luteranesimo è la corrente principale del protestantesimo. Oggi i luterani si chiamano evangelici, mentre i riformati si ispirano a Calvino. I Luterani si trovano in Germania, Scandinavia, Paesi Bassi, USA ecc. Nel mondo sono poco più di 100 mil. (i protestanti si aggirano sui 300 mil.). In Italia sono presenti come Valdesi, Metodisti, Pentecostali, Avventisti, Battisti ecc. (circa mezzo milione). Presbiterianismo Il Presbiterianismo è il nome assunto dal Calvinismo nel mondo di lingua inglese (dalla sua particolare struttura organizzativa ecclesiale, fondata sul governo degli "anziani"), e fa parte della comunità mondiale delle Chiese Riformate, appunto calviniste. La Riforma che prevalse nelle Lowlands della Scozia nel 1560, guidata dal pastore John Knox, fu, a differenza di quella inglese, calvinista. Infatti essi si staccarono dalla chiesa anglicana perché troppo vicina al culto cattolico. Ottennero la libertà di culto nel 1689 con l'Atto di tolleranza e si propagarono nel Nord-America, ma oggi sono presenti anche in Australia, Nuova Zelanda e Canada. Unità base della Chiesa presbiteriana è la congregazione locale, diretta dagli "anziani" eletti dai comunicanti di pieno diritto, quelli che sostengono anche finanziariamente la congregazione. Già nella repubblica teocratica instaurata da Calvino a Ginevra, il popolo eleggeva i suoi presbiteri. Gli "anziani" scelgono anche il pastore (o ministro del culto). Le congregazioni sono riunite in presbitéri (o consigli degli anziani) su base territoriale; ogni congregazione invia al presbitério il proprio pastore e un altro degli "anziani". Tutti i presbitéri, così composti, si riuniscono ogni anno nell'Assemblea Generale della Chiesa, che viene rinnovata ogni anno. Il Moderatore della Chiesa, eletto dall'Assemblea, resta in carica solo per un anno. Questa forma democratico-rappresentativa del governo delle Chiese presbiteriane, avverse a ogni autorità di "diritto divino", ha contribuito tra XVII e XVIII secolo allo svilupparsi e al diffondersi delle idee democratiche e rivoluzionarie: p.es. gran parte dei fondatori del Repubblicanesimo irlandese degli United Irishmen furono Presbiteriani. In Inghilterra i presbiteriani ebbero nel XVII sec. una funzione determinante nel movimento puritano. mb-soft.com/believe/tic/presbyte.htm Il Libero Presbiterianismo è invece una concezione fondamentalista e anti-ecumenica, che fa proprio il peggiore fanatismo demagogico, concependo gli Unionisti dell'Irlanda del Nord come popolo eletto e impugnando la Bibbia e la spada contro i loro nemici. E' creazione personale del Reverendo Ian Richard Kyle Paisley, e nasce in ambito battista più che presbiteriano. Infatti Paisley, che fondò la Free Presbyterian Church of Ulster nel 1951, è Moderatore a vita della sua Chiesa, che dirige autocraticamente (cosa del tutto contraria all'ethos presbiteriano). La Chiesa gli serve come struttura portante del suo partito politico unionista, il D.U.P., contrario agli Accordi di pace del 1998. La Chiesa di Paisley conta su circa 15.000 aderenti. Episcopalismo Episcopalismo (governo dei vescovi) è il nome che designa la dottrina delle Chiese che derivano dalla Riforma anglicana di Enrico VIII (1534). Tale Riforma era mossa più dalle esigenze politiche e finanziarie dello Stato e della monarchia inglesi che da motivi teologici, e questo la differenzia dalla Riforma, luterana o calvinista, che si diffuse negli stessi decenni in Europa e in Scozia. Enrico VIII e i monarchi inglesi suoi successori si erano proclamati Capi Supremi della Chiesa -che manteneva la stessa struttura gerarchica di quella cattolica- al posto del papa (da cui il termine Anglicanesimo); ma quando le colonie americane ottennero l'indipendenza, gli Anglicani dei nuovi Stati Uniti non potevano più riconoscere il re d'Inghilterra come capo della loro Chiesa, che venne fatta gestire ai vescovi locali (di qui il termine Episcopalismo). Il vertice della gerarchia è formato da una federazione di vescovi, da cui la chiesa è governata. Metodismo Il Metodismo nacque in Inghilterra nel XVIII secolo, dal movimento di rinnovamento religioso della Chiesa anglicana guidato da John e Charles Wesley; ma verso la fine del '700 i Metodisti vennero espulsi dalla Chiesa d'Inghilterra, e dovettero fondare la propria Chiesa. In Irlanda però parte dei Metodisti non vollero allontanarsi dalla Chiesa di Stato anglicana. Fu solo dopo l'abrogazione della posizione di Chiesa di Stato di questa (1869) che i Metodisti irlandesi si accordarono per creare la Methodist Church in Ireland, fondata nel 1878. Il termine "metodisti" fu dato nel 1729 a un gruppo di docenti e studenti dell'Università di Oxford, raccolti attorno ai fratelli Wesley, perché volevano attenersi a un "metodo" serio e regolare nella loro attività quotidiana (lettura comune della Bibbia, preghiere, digiuni, visite ai carcerati, educazione dei bambini poveri ecc.). In origine il movimento si diffuse tra i ceti medi e subalterni, artigiani, piccoli commercianti, operai, ma si trasformò ben presto in una delle più fiorenti chiese riformate, solidamente organizzata in Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Si ispira all'evangelismo calvinista, ma mantiene il sistema episcopale. L'assemblea legislativa suprema è la Conferenza metodista annuale, composta da ministri e da laici, e da un Presidente annuale da questa eletto. www.metodistisalerno.it/index.htm - www.protestantiamilano.it/metodismo.htm Battismo Il Battismo deriva dalla corrente anabattista della Riforma protestante, approdata nelle Isole britanniche durante la guerra civile della metà del XVII secolo. Sostengono la necessità del battesimo praticato solamente agli adulti, per immersione, dietro esplicita professione di fede. Sono presenti soprattutto negli Usa, in Gran Bretagna, Canada, Australia. www.ucebi.it Pentecostalismo Nasce nell'ambito della chiesa metodista americana agli inizi del secolo e si è diffusa nell'America del Sud, in Africa, in Estremo Oriente e anche in Europa. Il loro nome è dovuto al proposito di rinnovare il fervore mistico della prima Pentecoste e di considerare il "dono delle lingue", o glossolalia, come segno particolare della benedizione divina. Nel corso delle loro cerimonie, infatti, vi possono essere dei fedeli che cadono in estasi ed emettono suoni inarticolati, incomprensibili. www.riconciliazione.org/radici.htm I Fratelli di Plymouth Confessione sorta nel XIX secolo in vari luoghi del mondo protestante di lingua inglese, i suoi membri non amano il nome con cui li chiamano gli altri, e chiamano se stessi Christian Brethren, negando assolutamente di essere una confessione religiosa o una Chiesa. Congregazionalismo I suoi aderenti sono gli eredi storici dei Puritani di Cromwell. Si staccarono alla fine del sec XVI dalla chiesa anglicana inglese, accentuando la loro ostilità nei confronti del papa, dei vescovi e dello stesso clero riformato, negando ogni subordinazione dei credenti ai poteri del re e del parlamento. Il nome sta a significare che ogni comunità di fedeli deve essere posta sotto l'autorità diretta di Cristo, con forme autonome di amministrazione, di fede e di disciplina (quindi separazione completa di Stato e chiesa). Perseguitati in patria, emigrarono in Olanda e Stati Uniti. Molti dei "padri pellegrini" sbarcati negli Stati Uniti appartenevano a questa corrente. www.congregational.shetland.co.uk Avventismo Corrente protestante nata negli Stati Uniti nel 1844, ad opera di William Miller, che crede in un imminente ritorno di Cristo sulla terra (secondo avvento), come i seguaci del francescano medievale Gioachino da Fiore. Si chiamano invece Avventisti del settimo giorno un gruppo di fedeli fondato sempre negli Usa da Ellen Gould White, nel 1862, i quali osservano il riposo festivo di sabato non di domenica (il settimo giorno della Bibbia, come nel rituale ebraico). Condannano l'appartenenza ai sindacati, la lettura dei romanzi, l'uso dell'alcol e del tabacco, il portare armi ecc. www.avventisti.it Esercito della Salvezza Organizzazione fondata a Londra nel 1878 dal generale William Booth, dopo il distacco dalla corrente protestante dei metodisti wesleyani. Si proponeva di riportare alla fede, mediante un'assistenza di carattere sociale e spirituale, i lavoratori dell'industria e il sottoproletariato urbano. Gli aderenti sono inquadrati militarmente, con gradi, cariche e mansioni ricalcati su quelli degli eserciti regolari, e fanno ricorso a metodi abbastanza plateali di propaganda. Vengono anche detti "salutisti". Commento alle teorie dei riformatori protestanti Per capire la differenza tra i riformatori religiosi in ambito cattolico e quelli in ambito protestante, bisogna considerare che, in genere, i riformatori protestanti esaltavano il ruolo del lavoro contro ogni rendita parassitaria, ma anche nell'indifferenza delle motivazioni oggettive che impedivano agli indigenti di lavorare. All'ipocrisia (cattolica) della carità per gli indigenti rispondevano negando ogni assistenza a chi non avesse gravi motivi fisici per non lavorare. I motivi dell'indigenza venivano ricondotti a questioni non di natura sociale, ma psicologica: chi non lavora, pur potendolo fare fisicamente, è perché non vuole lavorare, per cui non ha diritto ad alcuna assistenza. Qui si ha a che fare con dei credenti che prima di tutto si sentivano "borghesi": tutte le loro idee religiose non hanno altro scopo che quello di tutelare i loro interessi di classe. Non c'è tanto l'esigenza di una riforma democratica della chiesa, né di una riforma democratica della vita sociale, quanto piuttosto l'esigenza di un'abolizione della chiesa istituzionale, quale ente feudale, per dare maggiore respiro e manovra a interessi di classe. La predicazione di una maggiore coerenza tra teoria religiosa e prassi economica è in realtà la predicazione di principi borghesi conformemente a una prassi borghese, in cui l'ideologia religiosa è solo una sovrastruttura priva di reale significato. La religione è stata utilizzata per contestare da un lato i dogmi cattolico-romani che di religioso non avevano più nulla, in quanto contraddetti da una prassi tutt'altro che religiosa, e per giustificare un'altra prassi (quella borghese) che di religioso aveva ancora meno di quella cattolica. Significativo resta il fatto che questi cristiano-borghesi erano disposti a grandi sacrifici pur di veder affermate le loro idee. Significativo altresì resta il fatto che le teorie di questi eretici hanno contribuito non poco allo sviluppo delle idee agnostiche, ateistiche o comunque laiciste, per quanto all'interno di una concezione individualistica dell'esistenza. TOMMASO MORO Quando si legge il famoso pamphlet antiborghese che Tommaso Moro (Thomas More) pubblicò nel 1516 a Lovanio, a cura dell'amico Erasmo da Rotterdam, si capisce facilmente il motivo per cui i critici borghesi l'han sempre ridicolizzato: vi sono troppe esagerazioni, troppe incongruenze perché lo si possa prendere sul serio. E cosi, buttando l'acqua coi bambino, sono state negativamente "bollate" anche quelle parti che invece meritavano un'attenta considerazione. Se si avesse la pazienza d'andarle a rileggere, si scoprirebbe con grande stupore quanto ancora esse siano attuali: ciò a riprova che la verità non teme il fluire del tempo. Sul migliore assetto dello Stato, ovvero L'isola di Utopia, è stato scritto in un periodo storico rivoluzionario per la patria dei suo autore, l'Inghilterra. Marx, nel I libro del Capitale, ha speso un intero e famoso capitolo, il XXIV, per descrivere l'accumulazione originaria capitalistica del secolo XVI. Utopia cerca di rispondere al problema di come vaste masse contadine, cacciate dalle terre trasformate in pascoli per il commercio della lana, possono costruire una società alternativa al sistema delle enclosures (recinzioni) e della concentrazione della ricchezza nelle mani di poche persone. L'ideale di Moro era una sorta di socialismo agrario pre-capitalistico, semiautarchico, ove la produzione artigianale fosse a conduzione più o meno familiare. Nell'isola "non vi sono industrie che occupino molti operai - si legge. Ogni famiglia si fa da sé le vesti...". A turno, il lavoro nei campi è obbligatorio, mentre l'artigianato è a scelta, "purché la città non abbia bisogno di uno più che dell'altro". L'incoerenza del testo sta appunto in questo, che Moro propone un regime sociale regressivo rispetto a quello borghese emergente del suo tempo: egli cioè rifiuta il capitalismo in nome di un passato decisamente da rivedere (le comunità di villaggio feudali). Nondimeno l'esigenza di superare le contraddizioni dell'accumulazione originaria lo portano a formulare dei princìpi molto più validi delle strategie che propone per realizzarli. Quali sono questi princìpi? Quello più interessante, più suggestivo, più conforme alle istanze di una moderna società ci pare quello dell'abolizione della proprietà privata. Non è incredibile sentirsi dire da un profondo umanista, convinto assertore della democrazia e dell'uguaglianza, vissuto in un periodo in cui l'uso capitalistico della proprietà determinava il sorgere di una nuova classe sociale e quindi di nuovi valori etici e normativi, che proprio quella proprietà e quei metodi di affermazione sociale erano la fonte di tutte le peggiori ingiustizie, di tutte le più assurde sperequazioni dei suo tempo? Ebbene, se c'è una cosa in cui il Cancelliere del regno di Enrico VIII eccelleva era proprio questa: la serietà sulle cose che contano. La critica borghese, consapevole della radicalità di queste affermazioni, ha voluto applicare ad esse lo stesso metro con cui ha giudicato l'ironia usata dall'autore in quelle meno importanti. Sarebbe, in verità, sufficiente leggersi poche righe per convincersi della grande insofferenza che Tommaso Moro provava nei confronti della mentalità borghese. E non è certo qui inutile ricordare ch'egli utilizzò i resoconti del secondo viaggio di Amerigo Vespucci in America, dov'era detto, fra le altre cose, che gli abitanti del "nuovo mondo" ignoravano la proprietà privata e vivevano "secondo natura". Sicuramente, anche se non citate nell'opera, Moro si servì (al pari di Campanella) di alcune relazioni di viaggi degli autori spagnoli e portoghesi allora più popolari: Las Casas, Oviedo y Valdes, Joao de Barros, Diaz del Castillo... Ciò significa ch'egli riteneva Utopia non del tutto irrealizzabile. Il destino peraltro ha voluto che proprio in America Latina si siano visti amministratori e prelati spagnoli ispirarsi ai fondamenti di questa ideologia protocomunista: si pensi a Vasco de Quiroga in Mexico o ai gesuiti in Paraguay. Per non parlare del fatto che le idee di Moro riusciranno a trovare un felice prosieguo nel socialismo populistico dei XVIII sec. (Mably, Morelly, Linguet... ), approdando infine al comunismo utopistico di Etienne Cabet e Louis BIanc nel XIX secolo. La giustizia -afferma solennemente il Cancelliere- è incompatibile con la proprietà privata e la "logica pecuniaria": qui "i peggiori stanno meglio e le ricchezze si ripartiscono tra pochi cittadini". Strabiliante, per la sua concisione e nettezza, è il giudizio dell'autore sulla funzione della legge nei regimi borghesi. Le leggi sono tante -egli afferma- perché ognuna di esse deve difendere gli interessi di determinati gruppi sociali proprietari. Non solo, ma è proprio sotto l'egida della legge -precisa il Moro- che i ricchi usurpano "giorno per giorno qualche cosa di quanto spetta alla povera gente". Le molte leggi quindi non fanno la democrazia di uno Stato e nell'isola di Utopia, ove esse scarseggiano, la "virtù" non manca, anzi abbonda. Non è singolare che già agli albori dei capitalismo qualcuno avesse capito che in questo sistema non esiste alcuna legge autenticamente democratica che sia frutto della volontà dello Stato, in quanto tutte sono finalizzate a difendere gli interessi dei ceti più abbienti? Le eccezioni non sono forse quelle che dipendono dal fatto che l'emancipazione delle masse ha costretto il capitale ai compromessi? "Si arriva a tal punto che defraudare la mercede a chi si rende più utile alla società è diventato oggi ... giustizia... e questo per una legge che i magnati son riusciti a varare". Detto altrimenti, la corruzione nel capitalismo è così vasta e profonda che l'espropriazione ai danni dei lavoratori è considerata come un atto naturale, giusto, previsto addirittura da specifiche leggi. E non è forse così per chi ancora oggi si illude di poter combattere la mafia o la corruzione degli organi statali servendosi degli stessi strumenti che lo Stato mette a disposizione? Si tratta dunque -come vuole Moro- di una "congiura dei ricchi", i quali si preoccupano "solo dei loro comodi, sotto il pretesto e la scusa del bene dello Stato". Nonostante queste idee del capitalismo, che oggi ci appaiono un po' limitative (d'altra parte siamo nel '500), Moro in sostanza non credeva nella presunta neutralità o equidistanza dello Stato nei riguardi delle classi sociali. Senza dubbio il capitalismo è qualcosa di più "oggettivo", le cui leggi intrinseche sono state scoperte per la prima volta da Karl Marx. Nel valutare criticamente queste leggi, Marx prescindeva dalla "bontà" o dalla "cattiveria" dei protagonisti in questione. Il capitalismo, per lui, era ed è un sistema il cui superamento non poteva dipendere né dalla "cattiveria" della borghesia né dalla "bontà" dei proletariato, ma piuttosto da certe irrisolvibili contraddizioni di natura strutturale. Il capitalista, il proprietario fondiario -dice Marx nella prefazione del Capitale- "sono la personificazione d categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti di proprietà, da cui egli socialmente proviene, e determinati interessi di classe". La formazione economica della società capitalistica è vista dal marxismo come un processo di storia naturale, all'interno del quale non si può fare "il singolo responsabile di rapporti pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi", nel senso cioè che la "naturalezza" del processo non toglie la responsabilità del soggetto, ma la relativizza, situandola in un contesto storico più complesso. La capacità d'innalzarsi al di sopra dei rapporti dai quali si proviene non fa la differenza fra un capitalista "buono" e uno "cattivo", ma la differenza fra un operaio influenzato dall'ideologia borghese e uno cosciente degli interessi della sua classe. Se questo non è chiaro, il rischio diventa quello di limitarsi a sperare nel "buon senso" dei capitalisti, di lasciarsi ingannare dalle loro promesse, di fare in ultima istanza i loro interessi, pur essendo convinti del contrario. Ma torniamo al nostro gradito umanista, i cui genitori, peraltro, erano di origine italiana. Va subito notato, per restare al tema di prima, che Moro non rinuncia al concetto di Stato, in quanto non ritiene Utopia una società perfetta, ma solo "migliore" di quella delle nazioni euroccidentali del XVI sec. Basterebbe questo per smentire tutti coloro che lo ritengono un buon imitatore del filosofo Platone. Moro in realtà supera Platone almeno sotto due aspetti: anzitutto perché utilizza la legge come strumento di realizzazione della democrazia, nel senso cioè che l'abolizione della proprietà privata non coincide, sic et símpIiciter, con l'equa ripartizione dei beni, in quanto ne è soltanto la precondizione. Platone invece sosteneva, ingenuamente, che avrebbe concesso le leggi solo a quei popoli che avessero già accettato di spartire equamente i loro beni. In secondo luogo, Moro non solo affermava l'uguaglianza dei cittadini, ma considerava anche che "i professionisti dell'ozio: i ricchi (tutti), specie i possidenti, i cosiddetti gentiluomini, i nobili con i loro servitori (caterva di bravacci e di parassiti), i mendicanti robusti e sani che si fingono minorati per mascherare la loro pigrizia, la folla dei preti e dei pretesi religiosi, i lavoratori che si dedicano a mestieri inutili o non necessari.", tutti costoro non dovevano neppure far parte della società utopiana. Platone, al contrario, escludeva dalla socializzazione dei beni proprio i lavoratori, i commercianti e gli schiavi. Semmai dunque era l'utopia di Platone che non poteva essere applicata all'Inghilterra dei Tudor. Nonostante ciò il problema più importante dell'utopia di Moro resta insoluto: come abolire la proprietà privata? Qui l'umanista non offre alcuna risposta: Utopia è un'isola in cui la proprietà privata e già stata abolita, ed è un'isola assolutamente fantastica (la stessa parola utopia, "fuori luogo", è un prodotto della fertile immaginazione di Moro). Del tutto genuina invece è la considerazione finale che Moro fa al lungo racconto de saggio "ItIodeo": "In quella nazione, certo, vi sono molte istituzioni e leggi che vedrei assai volentieri adottate nei nostri paesi: che ciò possa accadere, però, è più un desiderio che una speranza". Valutando le cose con realismo, Moro ritiene che il metodo più efficace per vivere meglio, in presenza della proprietà privata, è quello di "sancire leggi che limitino il possesso dei beni immobili e Ia ricchezza liquida, che circoscrivano la potenza del principe e l'intolleranza del popolo, che impediscano brogli e soprusi nelle elezioni delle magistrature [i politici], che regolino le spese dei magistrati in modo che non possano con estorsioni rifarsi delle spese buttate in prodighe campagne elettorali: e ciò per non assegnare queste cariche ai soli ricchi, mentre dovrebbero essere affidate soltanto a uomini onesti". Sta di fatto che Moro non riponeva alcuna vera fiducia in tutti questi metodi: egli era convinto che, in presenza della proprietà privata, la terapia di una parte dell'organismo della società ne irrita immediatamente un'altra, in quanto appunto gli interessi sono troppo antagonistici. Insomma anche il "riformismo" -per dirla con una parola moderna- aveva per Moro i suoi forti limiti. Ma come impedire che "ricchi rapaci, malvagi e inutili [da notare l'ultimo aggettivo], perché oppressori degli umili e.dei deboli, passino per galantuomini e si aggiudichino più stima dei poveri lavoratori che, col sudore quotidiano, si rendono più vantaggiosi allo Stato che non a se stessi?" "E' forse giustizia che un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo [da notare l'accostamento dei "tipi sociali"], che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l'ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un'esistenza miserabile?". Non è singolare -detto tra parentesi- che un "Cancelliere del regno" (la più alta carica nell'Inghilterra di allora, per un estraneo alla famiglia regnante) manifesti una tale sensibilità per le ingiustizie dei lavoratori? Sennonché, proprio nella proposta ch'egli fa di risolvere tali ingiustizie, affermando così il principio sociale della proprietà pubblica, sta il suo limite maggiore. Gli utopiani infatti non solo dovevano limitarsi a fabbricare "con l'oro e l'argento vasi da notte e materiale igienico in uso nei pubblici alberghi e nelle abitazioni private, e poi catene e ceppi per gli schiavi", rendendo così l'uso universale di quelle pregiate materie prime ridotto a zero, ma essi non dovevano neppure "concepire la circolazione del denaro". "Ogni capo-famiglia può rifornirsi al mercato secondo i bisogni -dice il Moro-, senza denaro e senza contrarre debiti". Dunque, per togliere "l'uso e la bramosia del denaro" basta rendere "consapevoli" gli uomini delle necessità collettive, basta renderli onesti nei confronti delle proprie. L'ingenuità -come si può notare- è considerevole: 1 ) perché una tale consapevolezza potrà essere il frutto solo di una lunghissima esperienza comunitaria, 2) perché le ingiustizie possono formarsi anche in assenza del denaro circolante (non è il denaro che di per sé rende democratica una società o le impedisce di diventarlo), 3) perché l'unico denaro che deve fare paura è quello che si trasforma in capitale, cioè quello ottenuto estorcendo plusvalore dal lavoro dell'operaio. Solo una visione moralistica e volontaristica dell'esistenza può ritenere che il più grande ostacolo alla realizzazione di Utopia sia "la superbia, la prepotenza tirannica" dei ricchi, "ormai così profonda nei petti umani -aggiunge l'umanista- che più non si sradica". Moro ritiene i ricchi siano troppo cattivi perché la società possa migliorare, e i poveri troppo deboli perché siano capaci di reagire. L'alternativa al capitalismo emergente, mercantile, può essere pensata nella sua Utopia solo come già realizzata, in un'isola che non c'è. Ciò che manca in questo romanzo politico è appunto la consapevolezza storica e scientifica delle contraddizioni strutturali del sistema borghese, e manca soprattutto il soggetto che si faccia carico del superamento di tali contraddizioni: il proletariato industriale, guidato e organizzato da un partito politico. Moro è così radicale nel rifiuto della proprietà privata che non riesce neppure a tollerare la differenza tra questa proprietà, che pur giustamente viene considerata come fonte di ogni abuso e divisione, e la proprietà cosiddetta "personale" (abitazione, mezzi di trasporto, risparmi, lotti di terra per uso familiare, ecc). Gli utopiani "cambiano le loro residenze ogni 10 anni tirando a sorte", in privato non posseggono nulla perché "tutti sono ricchi", "i mezzi di locomozione sono in comune", lo Stato dirige completamente l'economia, e via di questo passo. Non viene neppure prevista una proprietà di tipo cooperativistico. Ma sarebbe troppo pretenderlo. L'originalità del messaggio di Moro sta altrove, e non solo nella ribadita esigenza di eliminare la proprietà privata, ma anche nella preoccupazione di non creare un regime sociale votato all'inerzia e all'indifferenza. Egli infatti conosce bene i pericoli in cui si può cadere limitandosi ad abolire tout-court la proprietà privata. "Se la necessità non spinge al lavoro, tutti si ritirano in ozio e non si potrà avere in abbondanza ciò di cui si ha bisogno. Se puoi contare sul lavoro degli altri, te ne starai pigro e svogliato a far niente". Moro non si nasconde che l'abolizione della proprietà privata, ovvero la fine dello sfruttamento economico dell'uomo sull'uomo e quindi la garanzia di un "minimo vitale" a tutta la collettività, può facilmente portare a eccessi opposti, a pericolose illusioni e rozzi schematismi, se nel contempo non si permette agli uomini la possibilità di una creativa espressione. Oggi diciamo che l'uguaglianza dev'essere nelle condizioni di "partenza" non di "arrivo", nei confronti del bene pubblico, delle esigenze collettive, della legge, dello Stato... Ma non nei confronti delle capacità soggettive, delle attitudini personali, dell'impiego profuso a realizzare determinati scopi. Senza la valorizzazione delle qualità individuali (il che significa potersi associare anche spontaneamente), si rischia di trasformare il socialismo in una parola magica che di per sé dovrebbe creare giustizia, ma che in realtà crea solo una mentalità da caserma, burocratica e amministrativa. Le strutture non possono sostituirsi agli uomini, neppure quando vengono costruite da milioni di uomini. * * * Non è stato comunque un caso che la chiesa cattolica abbia aspettato 400 anni prima di canonizzare sir Thomas More, decapitato dal re Enrico VIII per aver rifiutato il suo "Atto di supremazia sulla chiesa inglese", chiamata poi anglicana. Nel 1935 forse nessun cattolico italiano conosceva l'opera più importante e più "scomoda" del Moro, eccettuati naturalmente i molti accademici che volentieri la consideravano come un libello comico-satirico, privo di qualsiasi valore politico, e comunque inadatto alla sensibilità del cittadino cattolico "medio", troppo conformista per accettare le "stravaganze" dell'autore in materia di tolleranza religiosa e soprattutto di giustizia sociale. Ecco perché da noi nessuna casa editrice cattolica tradusse mai il pamphlet agnostico e antiborghese del cancelliere (la miglior versione integrale resta sempre quella della Laterza). Viceversa, la censura fu meno pesante nei confronti delle opere scritte durante l'anno di reclusione nella Torre di Londra. L'ideologia ivi contenuta, in effetti, poteva essere ricollegata più facilmente alle posizioni cattolico-romane tradizionali, anche se ad es. non mancano riferimenti espliciti alle teorie conciliariste allora in auge. In modo particolare si prestava ad essere strumentalizzata la decisione di disobbedire al re per motivi di coscienza. E così, Venti lettere, scelte ad hoc, sono state pubblicate dalla Studium, che ha tradotto anche Il dialogo del conforto nelle tribolazioni. La Morcelliana ha pubblicato un caramelloso Preghiere della Torre, mentre, sul fronte laico, oltre alle varie traduzioni dell'Utopia, si può trovare una parziale versione delle Lettere in una vecchia edizione, discretamente curata, della Boringhieri. La vicenda che lo vide coinvolto fu molto significativa, perché con essa ebbe inizio la storia della chiesa anglicana e l'assolutismo della moderna monarchia inglese, ma il modo in cui egli l'affrontò fu alquanto singolare. Mentre la stragrande maggioranza dei funzionari di corte e del clero inglese si trovò sostanzialmente d'accordo nel rivendicare l'indipendenza dalla chiesa di Roma, Moro invece fu uno dei pochissimi a dissentire sulla base di personali ragioni di coscienza. Altri, che condivisero con lui la condanna a morte, furono il vescovo J. Fisher e alcuni frati certosini. I fatti sono ben noti. Il sorgere dei rapporti capitalistici nell'Inghilterra del XVI sec. aveva reso improrogabile la costituzione di una monarchia assoluta, che accelerasse la disgregazione del sistema feudale. Un importante mezzo di consolidamento della centralizzazione dei poteri fu la riforma della chiesa, con la quale la corona riuscì a secolarizzare circa 1/3 di tutta la proprietà terriera. Il pretesto per attuare la riforma fu il rifiuto pontificio di ratificare il divorzio di Enrico VIII da Caterina d'Aragona, preteso per la mancanza di eredi maschi al trono. Generalmente i papi non opponevano alcun veto ai principi e ai re che volevano separarsi dalle loro consorti. In questo caso però, Clemente VII prima e Paolo III dopo lo fecero per timore di scontentare l'imperatore Carlo V, imparentato con Caterina. Quest'ultimo infatti, per quanto avesse punito il papato d'aver aderito alla lega antimperiale di Cognac, facendo scendere in Italia 14.000 furibondi lanzichenecchi (mercenari di religione luterana), restava pur sempre un valido baluardo nella lotta contro i protestanti emergenti. In molti odierni manuali di storia della chiesa, scritti da autori confessionali, spesso si trovano espressioni che mettono in cattiva luce la moralità del re Tudor, accusato d'essere un libertino e di avere un carattere volubile. Sennonché, proprio nelle sue Lettere dalla prigionia il Moro, che certo non si nascondeva le esigenze imperiali del suo sovrano, aveva di lui una considerazione tutt'altro che negativa. Dice a tale proposito: "più di ogni altro mi considero in obbligo verso il re per le prove straordinarie di bontà che mi ha dato con parole e fatti". E addirittura, un mese prima di morire: "il re stesso mi aveva insegnato, quando ero al suo servizio, di obbedire prima a Dio e poi al sovrano". La questione di fondo, in effetti, si poneva non tanto a livello morale o psicologico quanto piuttosto politico. Alcuni storici cattolici, particolarmente sprovveduti, sono persino arrivati a dire che il cancelliere mori per difendere l'indissolubilità del matrimonio! Cosa assurda per almeno due ragioni: 1) in quelle circostanze Moro s'era dichiarato disposto a firmare l'Atto per la successione della discendenza di Anna Bolena; 2) nel libro Utopia egli esprime un giudizio favorevole al divorzio nei casi di adulterio e di incompatibilità di carattere. Ciò su cui Moro obiettava, nel contenzioso, era unicamente la decisione del re di diventare "capo della chiesa". Ma anche su questo si è voluto speculare ad libitum. Ritenere che il Moro sia stato per la chiesa cattolica un vero e proprio defensor fidei è assai limitativo. Il fatto ch'egli abbia scritto un Dialogo sulle eresie contro Lutero e Tyndale e abbia aiutato Enrico VIII nella stesura della Difesa dei sette sacramenti (sempre contro Lutero), non deve farci pensare che il cattolicesimo di Moro fosse del tutto conforme a quello ufficiale della curia romana. L'ultimo capitolo di Utopia -lo vedremo più avanti- dimostra proprio il contrario. Bisogna saper distinguere -come vuole Dilthey- l'umanista e agnostico Moro dal politico e diplomatico. Bisogna inoltre saper distinguere il Moro dell'Utopia che, primo fra gli umanisti, seppe liberare la critica della proprietà privata dal suo involucro religioso, saldandola con i problemi socio-economici e politici, dal Moro della prigionia, profondamente immerso in una riflessione di tipo esistenziale, troppo viziata dal pathos religioso per potersi esprimere in maniera serena e distaccata. A questo grandissimo umanista è mancata infatti l'obiettività del giudizio politico nel momento cruciale della sua vita. Visibilmente preoccupato dal negativo trend sociale del suo paese, in cui le classi più deboli stavano pagando a caro prezzo la scelta capitalistica di quelle più forti, il Moro non si rese conto che il rifiuto del papato di concedere il divorzio (parola tabù per gli autori cattolici, che la sostituiscono sempre con «annullamento») non rappresentava, idealisticamente, l'opposizione della verità all'arbitrio, ma piuttosto lo scontro, molto più prosaico, fra due diverse volontà assolutistiche, di cui una in declino e l'altra in ascesa. Il divorzio, in sostanza, veniva ostacolato per motivi politici, non religiosi. E se le cose stavano in questi termini, ben difficilmente lo strappo dalla chiesa romana poteva essere avvertito dai cattolici inglesi come un "peccato". Anzi, i torti di una sede pontificia esosa, corrotta e reazionaria quanto mai, apparivano di gran lunga maggiori di quelli di una monarchia inglese ancora troppo giovane per poter impensierire i suoi sudditi. Peraltro Enrico VIII, con molta accortezza, garantì al clero e a tutti i fedeli che nulla del tradizionale cattolicesimo sarebbe stato modificato, a livello sia dogmatico che sacramentale e rituale. L'ingenuità del Moro, in definitiva, stava nel considerare la chiesa romana un'istituzione virtualmente migliore della monarchia inglese. Disse infatti alla figlia Margaret, l'unica autorizzata a fargli visita: "sebbene alcune delle deliberazioni del concilio generale della chiesa possano risultare non perfette come le altre e in ragione di ciò talvolta si rende necessario modificarle, è fuor di dubbio che lo Spirito di Dio che governa la sua chiesa non ha mai permesso e mai permetterà che il concilio generale, legalmente costituito, possa decretare alcunché che all'attuazione si palesi illegittimo e contrario alla volontà di Dio". Un'ingenuità, come si può notare, perfettamente in linea con la sua ideologia utopistica, che mentre sul piano soggettivo sembrava anticipare i tempi, su quello oggettivo invece restava ad essi di molto indietro. Errata infatti era la sua concezione politica sia della monarchia inglese che della "monarchia cattolica". Da un lato egli riteneva che in quest'ultima ci fossero ancora, allo stato latente, degli elementi incorrotti, mediante i quali si sarebbe potuto ripristinare l'ideale comunistico del cristianesimo primitivo; dall'altro pensava di potersi opporre efficacemente alla concentrazione dei poteri nelle mani del re, contestandone un aspetto particolare: l'autoannullamento da parte di Enrico VIII del suo primo matrimonio. Un aspetto, questo, che, nel contesto, risultava, se si vuole, abbastanza marginale. Egli cioè era convinto che la politica anticattolica del regno rischiasse di rendere il suo ideale, così ben delineato in Utopia, ancora più irrealizzabile e che, onde evitare tale rischio, fosse sufficiente -ad imitazione del Battista- protestare sul piano etico e giuridico, appellandosi alle leggi vigenti. Posizione, questa, piuttosto contraddittoria, in quanto il giudizio sulla politica del re, globalmente intesa, non risultava affatto negativo. E' vero che la polemica antimonarchica caratterizzerà Thomas More sin dai suoi primi lavori (epigrammi etico-politici). L'abate Bremond, sotto questo aspetto, gli aveva riconosciuto "caustica malizia e spirito aggressivo" (e come poteva essere diversamente per un profondo ammiratore di Erasmo, Savonarola, Pico, Terenzio, Luciano...?). Ma è anche vero che Moro criticava il sistema borghese facendone parte attivamente. Nel corso degli interrogatori, il segretario amministrativo del re, T. Cromwell, gli ricordò, lodandolo, che quand'egli era stato cancelliere aveva giudicato "eretici, ladri e malfattori". Forse l'aspetto più interessante e più attuale, in tutta questa faccenda, è il tema dell'obiezione di coscienza, che il Moro andò elaborando in maniera approfondita durante il carcere. Egli in pratica sosteneva che nessuno può costringere un uomo (nella fattispecie un cattolico) a rinunciare alle proprie convinzioni, se non un concilio generale, una credenza universalmente riconosciuta oppure una "speciale rivelazione". E cita come esempio probante il fatto che Bernardo di Chiaravalle, pur essendo recisamente contrario alla teoria dell'immacolata concezione, non fu mai costretto a ritrattare la propria opinione. Moro avrebbe anche accettato di esporre i motivi che vietavano alla sua coscienza di prestare il giuramento di fedeltà, ma solo se avesse avuto la garanzia che le sue dichiarazioni non sarebbero state considerate offensive dal re e non l'avrebbero reso passibile di alcuna sanzione. Naturalmente tale privilegio (che per noi oggi è un semplice diritto) non gli fu mai concesso: 500 anni fa una libertà di coscienza così radicale non poteva neppure essere immaginata dalle autorità pubbliche. Né ebbe seguito l'idea del Moro di convocare un concilio generale per legittimare l'operato del re, il quale al massimo avrebbe permesso un concilio locale debitamente manovrato. E così, trincerandosi dietro il fatto ch'egli non aveva voluto condannare nessuno dei firmatari del giuramento, Moro sperava in un trattamento analogo nei suoi confronti, ben sapendo però, data la sua posizione ufficiale, che ciò sarebbe stato molto difficile. Fu solo con l'inganno, tuttavia, che si riuscì a giustiziarlo, eludendo le molte simpatie ch'egli godeva fra il popolo. Il procuratore generale del re, R. Rich, dichiarò, mentendo, che il Moro, durante una sua visita alla Torre, negò esplicitamente la supremazia del re. * * * Ma ora vediamo in breve le tesi principali delineate nelle ultime pagine di Utopia. Moro esordisce sostenendo il principio della libertà di religione. L'egualitaria, la democratica Utopia non può tollerare l'uso dell'inquisizione, allora assai in vigore, né disconoscere il valore laico e razionalista del movimento rinascimentale, e neppure può nascondersi che nell'ambito dell'Europa occidentale l'unità religiosa era ormai sulla via del definitivo tramonto. Molto probabilmente non si era neppure spenta, ai suoi tempi, l'eco delle persecuzioni subite dai seguaci dei due precursori della riforma protestante: Wycliff e Huss (il primo dei quali insegnante nella stessa università di Oxford, cui il giovane Moro si era iscritto). Nel romanzo il concetto di libertà di religione viene esteso fino al rispetto delle religioni politeistiche, animistiche e naturali: col che si anticipa di almeno due secoli una delle grandi conquiste giuridiche della rivoluzione francese. Non dobbiamo infatti dimenticare che con la scoperta dell'America s'impose, subito dopo il colonialismo economico e politico, quello ideologico, culturale e religioso, nella convinzione che tutto quanto non proveniva dal mondo greco-romano, dalla civiltà cristiana e dalla società europea (neolatina e anglosassone) non avesse neppure il diritto di esistere. Personalmente, il Moro preferiva le religioni monoteistiche (specie il cristianesimo), ma tendeva a rifiutare l'organizzazione ecclesiastica. Il clero, a suo giudizio, assomigliava troppo alla nobiltà, intento com'era a usare le recinzioni per arricchirsi; e per quanto riguarda i frati o i monaci, egli criticava soprattutto la loro indifferenza verso i problemi della povertà. Nell'isola Utopia il cristianesimo era stato predicato solo dai laici e venivano ammessi solo gli ordini religiosi più "genuini" (qui forse il riferimento va ai Certosini, frequentati dal giovane Moro per quattro anni). Sottoposti alla ragione, i princìpi religiosi, nell'isola di Utopia, sono quelli vissuti secondo natura (come volevano anche Pico e Ficino). Dopo aver letto e riletto l'Elogio della follia dell'amico Erasmo, in cui si condanna duramente il fariseismo dei preti, Moro scrisse una lunga lettera al Dorp (teologo tedesco) attaccando il principio di "autorità" negli studi, difendendo la letteratura classica e greco-patristica contro la Scolastica, sostenendo che il teologo "è come un gallo che canta nel suo immondezzaio e fuori di lì non è buono a nulla". Contro la filosofia scolastica, "che crede -dice il Moro- di poter risolvere ogni problema", viene opposto non solo il deismo agnostico (il cui massimo campione sarà Kant), ma anche la filosofia civile o politica (di cui Hobbes, quasi un secolo dopo, si farà grande artefice). Moro rifiutava persino il concetto cristiano di Trinità, in quanto gli utopiani tributavano onori divini solo al "padre", il quale non corrisponde, stricto sensu, al dio evangelico, ma solo a uno dei tanti nomi con cui la maggioranza dei fedeli chiama il creatore di tutte le cose: un altro nome, non meno popolare, era Mytra. Lo stesso Cristo, visto più che altro come uomo, viene accettato solo perché il suo Vangelo presenta molti aspetti comuni ai princìpi degli isolani. Nel testo è detto a chiare lettere che i cittadini tardano a convertirsi alla religione naturale utopiana, basata sulla ragione, perché credono ancora che Ia causa di ogni disgrazia capitata dopo aver rinunciato alla propria religione, sia da attribuirsi all'intervento divino e non alla casualità. D'altra parte la legge vieta d'indurli con la forza a tale conversione. Nell'isola è proibito fomentare l'odio o turbare l'ordine pubblico per motivi religiosi: i trasgressori vengono puniti con l'esilio o la schiavitù (di lì a poco invece scoppieranno in tutta Europa le terribili guerre di religione). Il proselitismo è autorizzato a condizione che venga svolto in maniera democratica e civile, senza fanatismi di sorta. Moro detestava profondamente quei "furbissimi predicatori di Cristo" che "conformano il Vangelo ai loro costumi" e che insegnano "ad essere malvagi con comodissima tranquillità di coscienza". Insomma, la certezza della verità di una religione non era un motivo sufficiente -secondo Moro- per imporla a tutti i costi: chi lo faceva era sempre e comunque un pessimo credente, anche se la sua religione era migliore di tante altre. Solo il tempo poteva dimostrare la superiorità di una religione sulle altre: solo con la forza dell'esempio la verità si sarebbe fatta strada. A Utopia però il clero non manca. Moro non ha mai avuto il coraggio di negare valore ai sacramenti. Di qui le ambiguità nella sua concezione della religione. Pur essendo eletti dal popolo e solo successivamente "consacrati dai colleghi", i sacerdoti cristiani (uomini e donne) dipendono dal pontefice; loro compito è quello di amministrare i sacramenti, predicare la morale al popolo, educare i giovani; non sono sottoposti al tribunale civile, ma ha effetti civili la scomunica ch'essi possono infliggere; sono sposati e poco numerosi, perché nel caso in cui si corrompano non debbano arrecare molto danno; non hanno un potere politico diretto e quando prendono parte alle guerre non combattono attivamente, ma offrono protezione e assistenza a chiunque, anche ai feriti e ai prigionieri nemici (vi è qui un preludio alla Croce Rossa?). Se i malati sono troppo gravi è prevista l'eutanasia; per i morti la cremazione. Nell'isola si può credere ai miracoli, ma non a maghi e indovini. Si può diventare santi ma non da intellettuali o standosene chiusi nei monasteri a pregare e oziare: l'unica modalità prevista è quella di compiere i lavori più umili e faticosi, come schiavi, senza pretendere nulla in cambio (forse qui il Moro aveva in mente i Fratelli della vita comune, un ordine inglese non mendicante ma laborioso, alla cui scuola Erasmo passò alcuni anni). Tuttavia, nonostante queste forti aperture al progresso e al realismo umanistico, non poche erano le incongruenze nel suo concetto di libertà di religione. Anzitutto perché Moro considerava obbligatori per tutti gli utopiani tre principi teologici di carattere generale: l'immortalità dell'anima, la provvidenza divina e la retribuzione ultraterrena. Verità constatabili -a suo dire- in tutte le più importanti religioni dell'uomo. In tal modo la religione appare come un aspetto irrinunciabile della società utopiana, tanto è vero che l'ateismo viene tollerato solo con molte riserve. Moro infatti è del parere che una concezione completamente laica o atea della vita non può essere anche umana e democratica, poiché senza poter far leva sul senso di colpa connesso alla fede in un aldilà e quindi in una sorta di giudizio universale, è impossibile convincere gli uomini a conformare la loro coscienza al volere della legge. Moro è sempre stato scettico nei confronti delle capacità umane di bene, cioè di trasformazione qualitativa della società. Nel sistema ove domina la proprietà privata i casi per lui sono due: "o ti guasti al contatto altrui, o la tua onestà farà da schermo alla disonestà degli altri". Il che significa: o corruzione o strumentalizzazione (il livello di consapevolezza diventa relativo). Ecco perché non gli riesce di accettare sino in fondo le conseguenze della libertà di coscienza da lui stesso affermata. Gli atei infatti sono costretti ad adeguarsi ai criteri religiosi dell'isola: naturalmente se lo fanno per convinzione è meglio. Ad essi inoltre è interdetto ricevere onori, cariche e uffici pubblici, mandato parlamentare... Possono sì discutere le loro opinioni, ma solo in privato e solo in presenza di sacerdoti e "uomini seri". Ateismo, per il Moro, significa materialismo rozzo e volgare, tendenza all'immoralità. Sennonché, proprio il suo romanzo politico attesta che là dove manca una piena libertà di coscienza, la libertà di religione non può essere affermata in modo coerente. Là dove esiste la discriminazione dell'ateismo, esiste anche l'imposizione di una o più religioni. Non è singolare che il trattamento riservato agli atei nella società utopiana sia stato molto simile a quello che la monarchia Tudor riservò a lui stesso negli ultimi anni della sua vita? Qui come là l'obiettore di coscienza non ha avuto il diritto di esprimersi pubblicamente, né quello di organizzare un'opposizione di minoranza. Certo, il Moro dell'Utopia non avrebbe mai decollato gli atei confessi, ma il pamphlet era appunto un "sogno" non la realtà. Le istituzioni e i poteri che lo accusavano di tradimento, ragionando secondo il noto principio: la maggioranza ha il monopolio della verità, avevano assai meno scrupoli quando si trattava di coartare la libertà di individui scomodi e in fondo pericolosi come lui. Quel principio venne condiviso dal Moro sempre malvolentieri, anche quando, in un modo o nell'altro, egli era costretto ad applicarlo in qualità di membro della Camera dei Comuni, Vicesceriffo di Londra, Tesoriere dello Scacchiere, Ambasciatore e Cancelliere del Regno: questi i gradini della sua intensa carriera politica, amministrativa e diplomatica. Ad un certo punto però i nodi di un'acuta consapevolezza dei problemi sociali vengono al pettine di un'esperienza tipicamente "borghese". Di qui la decisione di resistere passivamente all'atto di supremazia. Oggi possiamo anche discutere sul valore intrinseco di questa scelta, potremmo cioè tranquillamente affermare che se la maggioranza di per sé non fa la verità, la minoranza non ha delle chances superiori: è certo un'illusione quella di credere che l'opposizione a un qualunque governo borghese sia sempre migliore di questo governo. Ma almeno su un aspetto, diciamo di "metodo personale", il giudizio dovrebbe essere unanime. Se di fronte a coloro che sostengono una determinata verità, foss'anche questa verità condivisa da milioni di persone, qualcuno ritenesse di pensarla diversamente, ebbene costui dovrebbe avere il diritto e il dovere di manifestarlo senza temere per la sua sicurezza personale. Si può infatti sbagliare nel modo di concretizzare le proprie idee, ma non si può imporre l'unanimismo. In fondo né le pretese di chi governa né l'indifferenza di chi subisce hanno mai fatto fare grandi passi all'umanità. Spesso anzi si è dovuti tornare indietro e ricominciare molte cose da capo. Purtroppo la storia non diede a Moro il tempo sufficiente per dimostrare che aveva ragione, o forse gliene diede abbastanza perché dimostrasse che aveva torto. Il suo concetto di libertà di coscienza, in effetti, avrebbe potuto "fare la verità" soltanto se lo si fosse applicato adeguatamente alle esigenze di coloro che nell'England del '500 lottavano contro la rovina dei villaggi, l'aumento della rendita, le recinzioni e le usurpazioni delle terre comuni. Soltanto cioè se l'intellighenzia progressista avesse saputo convogliare le istanze di liberazione di vaste popolazioni oppresse dal giogo del capitale verso il conseguimento di un comune obiettivo, verso uno scopo rivoluzionario, che l'evoluzione storica rendeva sempre più urgente. Moro avvertì questo come umanista, ma, essendo troppo legato all'entourage della corona, si trovò impreparato sul terreno politico. "Dio e la mia coscienza -aveva detto a Meg- vedono chiaramente che nessuno può annoverarmi fra coloro che aspirano a governare". In questo la sua esperienza rifletteva dei limiti non solo soggettivi, ma anche oggettivi, quelli del suo tempo e quelli di chi avrebbe dovuto vedere nella monarchia uno strumento nelle mani del capitale. I FONDAMENTI DELL'EVANGELISMO Ancora oggi la maggioranza degli evangelici... Crede in tutto quanto ha affermato Lutero. Nega qualunque autorità al papa e ai concili, qualunque funzione salvatrice alla chiesa; Afferma il sacerdozio universale dei fedeli, nel senso che, pur esistendo un episcopato, il clero è elettivo: non c'è sacramento dell'ordine. Ciò implica il "libero esame" della Bibbia. Per la corretta interpretazione della Bibbia, Dio manda lo Spirito a chi vuole: senza lo Spirito la ragione è impotente. Sarà poi la storia a decidere quale interpretazione è la migliore. In ogni caso l'uomo può comunicare con Dio senza intermediari. Non c'è quindi un confine preciso fra laici e pastori: le diversità sono solo funzionali. I pastori (fra i quali ci sono anche le donne) si possono sposare e, come i laici, possono anche divorziare. Non sono contrari, per principio, all'aborto. I sacramenti che riconoscono sono solo quelli che, secondo loro, Cristo avrebbe istituito: battesimo ed eucarestia, che più che altro vengono accettati sul piano simbolico (ad es. la frase "Questo è il mio corpo" viene intesa in senso allegorico o metaforico: "Questo sembra il mio corpo"). Il battesimo può essere dato anche ai neonati. Nell'eucarestia non si rinnova il sacrificio di Cristo, neanche in forma simbolica. Il sacramento serve più che altro al credente per rapportarsi a Dio chiedendo la grazia o il perdono dei peccati. Il momento fondamentale resta il sermone. Ogni altro rito (ad es. la cresima) o funzione liturgica (inclusi i paramenti sacri) è molto semplificato e austero. Il matrimonio non è un sacramento, in quanto considerato un'istituzione comune ad altre religioni: gli sposi vengono però benedetti dalla chiesa. L'unzione degli infermi è ritenuta una superstizione. Non venerano Maria, gli angeli e i santi. Ignorano il culto delle reliquie e delle icone, non credono nel Limbo e nel Purgatorio. Non praticano il monachesimo. Nelle chiese hanno l'altare, la croce, le candele, l'organo, pochi dipinti religiosi. Usano il pane azzimo e recitano il Credo con il Filioque. Le cerimonie vengono svolte nella lingua nazionale dei credenti. Le chiese nazionali sono indipendenti fra loro, però molte si riconoscono nella Federazione luterana mondiale. Comunque il Protestantesimo è diviso in tantissime correnti. Politicamente affermano una netta separazione del civile dal religioso. LA STRATEGIA CULTURALE DELLA CONTRORIFORMA COME REAZIONE ALLA CULTURA RINASCIMENTALE E LA DEFLAGRAZIONE DELLA CULTURA LETTERARIA TRADIZIONALE All'inizio del Cinquecento l'unità cattolica era stata incrinata dalla Riforma Protestante (1517), che era nato anche perché Lutero non accettava la mancanza di Cultura da parte del basso Clero. Alcuni sacerdoti di campagna erano infatti analfabeti e non sapevano neppure leggere il Messale e spiegare i passi principali della Bibbia; la Cultura religiosa aveva perso quindi piede, dato che veniva meno la preparazione di coloro che , avrebbero dovuto divulgarla. Di contro la Cultura laica era molto più diffusa e stava assumendo una egemonia, che prima era indiscutibilmente appartenuta alla Chiesa di Roma. I laici si sentivano così culturalmente forti da uscire dal loro campo per invadere gli ambiti propri della Chiesa: per esempio nel 1543 a Venezia fu pubblicato il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso verso i cristiani. La Chiesa non poteva tollerare che gli intellettuali laici pretendessero di parlare di Verità cattoliche o che si arrogassero il diritto di spiegare passi della Bibbia, perché erano compiti del Clero. Tuttavia la ragione per cui i laici sentirono il bisogno di spiegare le Sante Scritture era che non c'erano religiosi pronti a farlo, tanto più che il momento storico era critico per quanto riguarda l'esegesi biblica: il Protestantesimo infatti stava prendendo piede in maniera spaventosa e gli intellettuali protestanti si stavano impegnando fortemente in un'opera di propaganda della nuova religione di Lutero, che sosteneva che per interpretare la Bibbia non c'era bisogno del Clero, ma ogni singolo credente aveva la garanzia che grazie allo Spirito Santo avrebbe interpretato rettamente ciascuna pagina delle Scritture. La Chiesa di Roma non poteva permettersi di accettare passivamente una tale situazione storica e culturale: nel 1545 fu convocato il Concilio di Trento, primo passo della Controriforma cattolica. A causa di continui ritardi e interruzioni fu solo nel '63 che Papa Pio IV promulgò un nuovo Indice dei libri Proibiti, che oltre all'elenco dei libri considerati contrari alla fede o alla moralità cattolica conteneva anche la spiegazione dei criteri di giudizio. Ovviamente il Trattato del beneficio di Gíesù Cristo fu uno dei primi a essere censurato e distrutto; l'autore invece era rimasto anonimo, per cui non poté essere catturato dal Tribunale dell'inquisizione. Il testo originale del libretto andò perduto, ma furono salvate alcune traduzioni rimaste al di fuori dell'Italia. Furono condannate anche le traduzioni della Bibbia in volgare italiano. Con la pubblicazione dell'Indice la Chiesa sanciva definitivamente i limiti, entro cui i letterati dovevano muoversi, e stabiliva chiaramente i rispettivi compiti di laico e secolare. Un altro dei principali obiettivi della Controriforma fu poi di omologare la Cultura di alto e basso Clero, poiché la Chiesa si era accorta che effettivamente su questo Lutero aveva ragione ed era intollerabile che dei Ministri di Dio fossero analfabeti. Perciò nel Concilio di Trento fu approvata Istituzione di Seminari, che scavarono una profonda linea di demarcazione fra gruppi intellettuali laici e clericali. I Seminari, vere e proprie scuole per gli aspiranti sacerdoti, provvedevano a istruirli e prepararli culturalmente e spiritualmente. Il Clero veniva in questo modo sottratto agli influssi della Cultura laica rinascimentale, che poteva essere troppo licenziosa e fuorviante. I novizi venivano educati solo agli ideali controriformisti dell'ordine, della castità e del rigore la Cultura ecclesiastica si staccava così dalla laicità e, rinunziandovi, ne diveniva non solo indipendente, ma superiore. Gli intellettuali religiosi vollero fin dal principio della Controriforma avere più influenza sul popolo rispetto ai laici, per rispondere ai sostenitori del Protestantesimo dilagante. La Chiesa attraverso varie innovazioni attuò una politica di propaganda dei suoi princìpi, grazie alla definizione di regole per la predicazione e alla fondazione di nuovo ordini, i cui compiti principali erano l'assistenza e l'insegnamento. Il contatto fra persone ordinarie ed ecclesiastici era garantito da frequenti visite pastorali, quaresimali, predicazioni pubbliche: in questo modo la Chiesa era sicura di diffondere gli ideali controriformisti, perché garantiva la sua presenza in tutti i momenti di associazione popolare. L'intervento della Chiesa si attuò sulle Piazze, nelle Cattedrali, nelle Curie e soprattutto nelle Scuole. Le modalità di intervento sull'istruzione furono molteplici: per prima cosa furono aperte varie scuole, rette da ecclesiastici, che perlopiù erano destinate a giovani di bassa condizione e provenienti dalle campagne, o a quelli le cui possibilità finanziarie non permettevano un'istruzione elementare privata. Fu poi garantito un sistema scola­stico per le classi superiori, cui potevano accedere i giovani poveri ma dotati intellettual­mente; quelli che invece non erano portati per lo studio venivano avviati a iniziative assistenziali per i bisognosi. Anche il problema dell'interpretazione della Bibbia, che era uno dei principali punti di rottura con i Protestanti, non venne trascurato: tutte le letture filologiche delle Scritture furono rifiutate, affinché l'unica lettura fosse quella rigida e letterale dei Chierici regolari. I laici che invadevano il campo dell'esegesi biblica venivano costretti a fare marcia indietro: è famoso l'episodio di Galileo Galilei, obbligato dall'Inquisizione a firmare l'abiura nel 1633, poiché la sua teoria dell'eliocentrismo contrastava con un passo biblico del Libro di Giosuè. La Chiesa, di fronte al duro colpo della Riforma protestante, che la aveva indebolita, sta­va facendo di tutto per ristabilire quell'egemonia culturale. che con la fine del Medioevo era andata scemando. E' chiaro che in una tale situazione la Cultura letteraria tradizionale si trovò in una grave crisi: la Chiesa si mostrava così potente e sicura, che al di fuori di essa tutto sembrava precario e instabile. Essa non si limitava infatti a diffondere la sua. ideologia, ma la imponeva e difendeva con metodi che non avevano nulla a che fare con lo spirito di tolleranza e fraternità cattolica: il Tribunale dell'Inquisizione colpì duramente la libertà di espressione filosofica e culturale. Fondato nel 1542 con la bolla "Lícet ab initio" da Papa Paolo III sull'esempio spagnolo, il Tribunale dell'inquisizione sradicò qualsiasi tendenza protestante in Italia ed eliminò anche alcuni eretici. Giordano Bruno per esem­pio fu condannato al rogo nel 1600 perché era stato accusato di diffondere dottrine con­trastanti con gli insegnamenti cattolici: la Chiesa, dopo la spaccatura con i Protestanti, era così attenta a evitare ulteriori distaccamenti, che soffocava tutti i possibili attentatori alla sua unità. Galileo e Bruno sono solo due degli esempi di intellettuali (uno scienziato e un teologo) additati dalla Chiesa come eretici; accanto a loro vengono ricordati Tommaso Campanella e Francesco Pucci, tutti imprigionati dal Sant'Uffizio. Per di più la loro condanna continuò per secoli: fu solo nel 1992 che Papa Giovanni Paolo II ammise l'errore compiuto dalla Chiesa contro Galileo. Nei tempi della Controriforma, la cultura letteraria tradizionale era in piena crisi, vinco­lata dai valori cattolici e non più autonoma, libera di creare opere letterarie secondo i propri punti di vista. Se la Chiesa era di fatto Istituzione più forte, tuttavia essa esercita­va la sua autorità facendo affidamento da un lato alla persuasione (con le Scuole e i Seminari), dall'altro alla paura (con l'Inquisizione). QUESTIONI TEORETICHE IL TEOREMA DI LUTERO Praticamente il teorema di Lutero si riduce a poche affermazioni: in forza del peccato d'origine l'uomo ha una colpa indelebile, che nessuna penitenza può cancellare; per questa ragione, l'uomo deve vivere in una condizione di forte angoscia, sino alla fine dei suoi giorni, poiché non può sapere se Dio vorrà salvarlo nonostante il peccato. Conseguenza di questo teorema: vivere in uno stato di angoscia quotidiana è impossibile e siccome tutto, in ultima istanza, dipende da Dio, allora all'uomo è lecito comportarsi come meglio crede, affidandosi esclusivamente alla propria coscienza. Lutero, che ha distrutto le istituzioni in nome della coscienza individuale, ha dovuto creare delle istituzioni ancora più forti, per impedire che il primato di tale coscienza rendesse impossibile qualunque convivenza sociale e civile. La differenza fra Lutero e Kierkegaard sta proprio in questo, che mentre il primo non è riuscito a restare fedele ai suoi principi, il secondo, per restarvi fedele, ha dovuto scegliere la strada dell'irrazionalismo. E così nei paesi protestanti l'individuo o si contrappone in maniera anarchica allo Stato o considera lo Stato come una sorta di demiurgo, cui prostrarsi senza discutere. Non c'è fra cittadino e Stato una vera società civile, che riduca le distanze, ma solo, a seconda dei casi, insofferenza o acquiescenza. Lutero rifletteva il disagio di una società che di medievale ormai aveva soltanto il nome, in quanto, di fatto, si stava imponendo il criterio di vita borghese, basato sul profitto individuale. Egli s'era reso conto che i valori medievali non riuscivano più a impedire lo sviluppo della prassi borghese. Ecco perché si convinse che l'uomo era irrimediabilmente peccatore. Egli aveva dato una risposta fatalistica (da intellettuale isolato) a un problema di carattere sociale, che andava affrontato in maniera sociale e politica. Lutero, quando iniziò a fare politica, trasformò il proprio individualismo in un puntello della reazione feudale. Egli era così fatalista che, diversamente da altri leader protestanti, non si oppose neppure a tale reazione. I LIMITI DI LUTERO Perché la Germania di Lutero non abbracciò subito il capitalismo? Perché Lutero invitava alla sola emancipazione di coscienza, o quella intellettuale dall'oscurantismo della chiesa romana. Calvino invece pretese anche quella pratica, che fece appunto coincidere con l'attività economica borghese. Lutero era moderno nelle idee religiose, ma medievale nella considerazione della vita sociale. La sua liberazione dell'individuo doveva coincidere con quella della coscienza interiore (con il pensiero -dirà più tardi Hegel). Una volta costatata, contemplata l'oggettività delle cose, cioè la loro necessità, la loro inevitabilità storica (che Lutero faceva risalire direttamente a dio, e non ancora a un'astratta ragione, all'idea o allo spirito assoluto), l'uomo doveva sentirsi pago di sé. Il luteranesimo porta inevitabilmente al fatalismo (e al culto dello Stato), poiché non ripone una particolare fiducia nel collettivo, cioè nelle masse popolari. Il contributo del luteranesimo è stato quello di aver liberato l'uomo dal peso di una tradizione culturale superata. Il limite nell'averlo liberato solo sul piano intellettuale e soggettivistico. Lutero ha avuto paura delle conseguenze delle sue stesse scoperte. Di qui il rifiuto di appoggiare Müntzer. Zwingli, Serveto, Melantone e Calvino diedero maggior peso alla cultura umanistica, e meno a quella religiosa, perché erano più agnostici di Lutero. Essi sono decisamente rivolti al futuro (borghese) e restano legati alla religione o per un interesse di tipo politico (questo in Calvino è molto evidente), o per timore di forzare troppo i tempi. Nessuno di loro ha mai avuto l'idealismo di Lutero. Zwingli, Serveto, Melantone e Calvino hanno cercato di attenuare l'idealismo religioso di Lutero, servendosi della cultura umanistica, cioè sostituendo il misticismo col razionalismo, ma nessuno di loro, sul piano laico, ha mai raggiunto le vette che Lutero raggiunse sul piano religioso. Anche questo era un segno di quei tempi. Solo nell'Italia umanistica e rinascimentale si poteva fare di meglio, ma gli intellettuali italiani non avevano rapporti con le masse, che consideravano troppo "cattoliche". Nessuno dei seguaci di Lutero è mai stato così radicale da abbandonare ogni riferimento di metodo alla religione, neppure dopo che la loro riforma conseguì i successi sperati. Resta comunque significativo che la riforma del luteranesimo (pur condotta in modi diversi) abbia portato ad un'accentuazione del lato ateistico della cultura umanistica (a prescindere dalla volontà degli stessi riformatori). Lutero dunque, sul piano religioso, può essere considerato come l'iniziatore più importante di quel moderno processo di secolarizzazione che porta all'ateismo. PROTESTANTESIMO E COSCIENZA DEL PECCATO Una delle più grossolane ingenuità del luteranesimo è stata quella di aver accentuato la "coscienza del peccato" nella convinzione che in tal modo il credente protestante si sarebbe comportato meglio, sul piano morale e della condotta personale, rispetto al credente cattolico (la cui moralità dipende anzitutto -oggi come allora- dall'obbedienza alla gerarchia). Il risultato della teoria della "coscienza del peccato" è stato opposto a quello voluto: il protestante cioè, convinto di non avere in sé la forza sufficiente per compiere il bene (in quanto irrimediabilmente impedito dal "peccato d'origine" che grava, come una condanna, sulla coscienza di ogni uomo, e quindi sulla stessa capacità di compiere il bene, e che si esprime, a livello fenomenico, nell'egoismo sociale della società divisa in classi), affida interamente alla "grazia di dio" il compito di salvarlo, riservando a se stesso quello di costruire una morale positiva sulla base della volontà soggettiva. Di qui l'inevitabile individualismo del protestante, unito a una sorta di fatalismo "etico" (che poi lo porterà a credere ciecamente nelle istituzioni). Il protestantesimo, rispetto al cattolicesimo, è una forma d'ingenuità (la fede della libertà nell'interiorità, a prescindere dalle condizioni esterne), mentre il cattolicesimo, rispetto all'ortodossia, è una forma di malizia (la fede della libertà nell'esteriorità: potere politico, economico ecc., a prescindere dalle condizioni interne). In tal modo Lutero, proprio mentre cercava di rendere migliore l'uomo, gli toglieva i mezzi per poterlo diventare, cioè quei mezzi sociali e politici (comunione dei beni, uguaglianza sociale ecc.) che aiutano a trasformare la realtà, e che la chiesa cattolica, da sempre, si ostina a indicare nella mera obbedienza alla gerarchia. Il protestantesimo non ha fatto altro che legittimare sul piano etico-religioso (l'idealismo lo farà su quello filosofico-politico) una prassi, quella dello sfruttamento individuale (nobiliare o borghese che fosse), sottraendolo al peso di un giudizio (ecclesiale, pubblico) di condanna morale. Il calvinismo, in particolare, ha sottratto la prassi borghese a qualunque giudizio etico. Al borghese il calvinismo concede qualunque cosa, riservandosi di riprenderlo moralmente quando l'abuso è già stato commesso e ha avuto una rilevanza sociale. Il calvinismo è la religione dell'ultima ora, quella che si può utilizzare nei momenti più drammatici (come la morte, una grave malattia, una condanna penale o una catastrofe naturale, sociale, militare...). SUL CONCETTO DI PREDESTINAZIONE Il protestantesimo, soprattutto nella sua forma calvinistica, perse molta della propria rigorosità e specificità etico-religiosa man mano che le sue fila s'infoltirono di elementi borghesi. La borghesia infatti era in grado di assicurare sul piano giuridico quell'uguaglianza formale che i teorici della Riforma pretendevano di garantire, in modo non meno formale, sul piano religioso, con il concetto appunto di "coscienza del peccato". (Il cattolicesimo invece garantiva l'uguaglianza nell'obbedienza alla gerarchia). Lo sviluppo borghese del protestantesimo non è solo una diretta conseguenza delle teorie del "libero esame" e del "sacerdozio universale", ma è anche una indiretta conseguenza della teoria sulla "predestinazione", che apparentemente sembrava la più lontana dall'ottimismo borghese. Il concetto luterano di predestinazione non ha nulla a che vedere con gli analoghi concetti che avevano le religioni precristiane. Ad es. presso gli aztechi esso era un concetto religioso che doveva infondere sentimenti di rassegnata fiducia nella bontà divina, e comportava una prassi abitudinaria, rigorosamente determinata dalla legge. Viceversa, nel protestantesimo (soprattutto nel calvinismo) lo stesso concetto è caratterizzato da un certo ateismo, poiché la prassi ch'esso suscita è materialistica (capitalistica, se si considera il contesto storico). Il borghese protestante cioè si sente destinato o alla salvezza o alla condanna e, in virtù di tale consapevolezza, egli acquisisce il senso della relatività delle cose, dei valori. Il concetto di "valore di scambio" (come antitesi al "valore d'uso") poteva emergere solo in una cultura di tipo protestante. Di qui la decisione del borghese calvinista di vivere la vita con assoluta libertà d'iniziativa. Il suo dio è del tutto soggetto a un ragionamento di tipo logico e individualistico. Il fatto è che se l'uomo è predestinato alla salvezza o alla condanna, diventa ad un certo punto irrilevante il suo comportamento sulla terra, anche se l'idea originaria di Lutero era proprio quella d'indurre nel soggetto, incerto sulla propria fine ultraterrena, un sentimento di angoscia esistenziale e di scrupolo religioso. Lutero non poteva immaginare una conseguenza del genere, ma essa è implicita nella sua teoria. Inevitabilmente, il borghese, essendo legato a un'attività economica la cui riuscita è inversamente proporzionale al livello etico di responsabilità con cui la gestisce, diventa il tipo ideale di quella fede religiosa non più sicura di sé e che però vuole togliere a chiunque ogni sicurezza etica e religiosa. Se manca l'oggettività del giudizio, in quanto tutto è rimesso alla "volontà di dio", il borghese si sente autorizzato ad agire come meglio crede. L'indifferenza ideologica della borghesia in materia di religione (nel senso che il borghese non crede nell'oggettività del giudizio), la si può riscontrare anche in questo singolare fatto, che i Paesi europei più calvinisti nella pratica (Francia, Inghilterra...), erano anche quelli che, ufficialmente, continuavano a professare il cattolicesimo. PROTESTANTESIMO E LAVORO Perché il protestantesimo ha dato così tanta importanza al lavoro? Perché quando si afferma l'individualismo e quindi la fine della comunità cristiana, l'unico modo che l'individuo ha di sopravvivere senza cadere nella miseria è quello di lavorare duramente, anche a costo di rinunciare alla propria dignità umana. Il protestantesimo, sotto questo aspetto, ha saputo magnificamente legittimare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Col primato assegnato al lavoro, il credente veniva a trovare la propria identità nel guadagno accumulato, cioè nella possibilità di acquistare dei beni di consumo, o comunque nella sicurezza di non aver bisogno dell'altrui solidarietà. Quando nel Genesi si dice, all'Adamo peccatore: "Lavorerai col sudore della tua fronte", s'intende proprio questo, che il lavoro, nell'ambito di un sistema antagonistico, diventa nello stesso tempo fonte di ricchezza e attività incredibilmente faticosa, appunto perché svolta secondo criteri individualistici. UN'UNICA EUROPA PROTESTANTE Uno storico dovrebbe considerare come altamente probabile l'ipotesi che se la Spagna non fosse diventata feudale in un momento in cui le altre nazioni stavano diventando capitalistiche, e se non avesse avuto la fortuna di scoprire e di poter saccheggiare impunemente un nuovo continente, fornendo così la base materiale e finanziaria alle idee retrive e neo-feudali di Carlo V e Filippo II, la Controriforma non ci sarebbe neppure stata, o non avrebbe avuto una chiusura integralistica così fanatica, una forza politica così aggressiva nella penisola iberica, in Italia, nell'impero austro-ungarico e in altri Stati ancora. In luogo di un'Europa divisa in due religioni avremmo avuto un'unica Europa protestante, nel senso che il cattolicesimo avrebbe fatto la fine dell'ortodossia in occidente. Naturalmente le nazioni cattoliche sarebbe state colonizzate da quelle protestanti. Non bisogna infatti dimenticare che tutte le guerre di religione condotte sulle terre protestanti, sarebbero state facilmente vinte dai protestanti se i cattolici non avessero potuto beneficiare dell'oro americano. Una volta vinta la guerra di religione, le forze protestanti e capitalistiche avrebbero inevitabilmente occupato le terre cattoliche e feudali (come poi in effetti cercheranno di fare, prima degli Stati Uniti, la Francia e l'Inghilterra). CATTOLICESIMO, PROTESTANTESIMO E CAPITALISMO La Scolastica è una filosofia cristiana che pur avendo rotto completamente con la tradizione del pensiero patristico, non portò alla nascita del capitalismo. Questo perché sul piano politico essa è sempre stata una filosofia conservatrice. La Scolastica ha rappresentato una laicizzazione del cristianesimo, sul piano culturale, ma senza riuscire a mettere in discussione l'autorità politica del papato. Perché invece il protestantesimo ebbe la forza politica di porsi in alternativa all'autorità politica del papato? Semplicemente perché la Scolastica aveva aperto, sul piano della riflessione filosofica, delle porte così importanti che non era più possibile tenerle chiuse con l'autoritarismo clericale. E' dunque stato il cattolicesimo-romano che ha spianato, a livello culturale, la strada alla radicalizzazione protestantica, anche se i frutti di questo lavoro intellettuale gli si sono rivoltati contro sul terreno politico. Non dobbiamo infatti dimenticare che uno dei grandi "meriti" del cattolicesimo, ai fini della realizzazione del capitalismo ("meriti" quindi del tutto inintenzionali), è stato quello di aver rotto i ponti, seppur non in maniera radicale, con la tradizione comunitaria del mondo ortodosso. Cos'è che fa diventare "borghese" una persona religiosa? E' la crisi della sua stessa religione. Ma perché questa persona diventi veramente "borghese", senza soluzione di continuità, cioè non aspiri soltanto a diventarlo o non lo diventi solo per un breve periodo di tempo, è necessario che mille, diecimila persone religiose diventino, più o meno contemporaneamente, "borghesi". E perché ciò accada occorre che la crisi della religione sia acuta, profonda, assolutamente irrisolvibile con mezzi e metodi tradizionali. Ecco perché il capitalismo, prima di affermarsi con successo, a partire dal sec. XVI, su ogni altra formazione sociale, ha avuto bisogno di almeno mezzo millennio di gestazione. Come ne ebbe bisogno il cristianesimo, prima di diventare con Teodosio, la religione di stato. Il cattolicesimo-romano ha avuto il suo ruolo decisivo per tutto il basso Medioevo. Le prime forme di capitalismo commerciale sono nate in Italia, nell'ambito comunale, ma l'incapacità di trasformare queste forme in un'occasione di battaglia politica radicale contro il papato, ha fatto sì che quest'ultimo riuscisse a frenare lo sviluppo capitalistico dell'Italia per molti secoli. Evidentemente il cattolicesimo italiano aveva già fatto abbastanza...: i suoi sforzi colossali di por fine all'esigenza comunitaria di liberazione (ribadita, per un certo tempo, dai movimenti ereticali) dovevano essere ereditati da quella parte di cattolicesimo che, per tradizione, era rimasto più legato all'individualismo del paganesimo. Per realizzare un sistema capitalistico vero e proprio occorre che venga rivoluzionato il modo di produzione, non è sufficiente l'espansione dei commerci. Nel basso Medioevo l'Italia fu una grande potenza commerciale, ma questo non le fu sufficiente per trasformarsi in nazione capitalistica: il primato produttivo spettò sempre all'agricoltura. Il capitalismo commerciale fu tollerato dal potere costituito (clerico-nobiliare) appunto perché sul piano produttivo dominava l'agricoltura feudale. Quando i commerci si furono sviluppati al punto da rendere quasi inevitabile una Riforma protestante, la chiesa passò al contrattacco, sferrando un colpo demolitore con la Controriforma, che fece ripiombare improvvisamente l'Italia nel buio del peggior integralismo politico-religioso. In Italia ci fu la Controriforma prima ancora di qualunque Riforma. Ci furono, è vero, correnti ereticali, movimenti culturali laici, progressi tecnico-scientifici, filosofie più o meno agnostiche..., ma tutto ciò non riuscì a coagularsi attorno a un progetto politico rivoluzionario anti-feudale (almeno sino alla metà del XIX secolo). Ecco perché la chiesa romana poté avere la meglio sulla nazione più sviluppata d'Europa. Gli intellettuali più progressisti non seppero organizzare una Riforma religiosa popolare semplicemente perché avevano sopravvalutato le forze del loro sviluppo culturale e sottovalutato le forze retrive della chiesa romana. In virtù di questa sconfitta oggi sappiamo che per rivoluzionare il modo di produzione di una qualunque società occorre una rivoluzione culturale che rompa progressivamente i ponti col passato e una politica che ad un certo punto li rompa drasticamente, per superare le inevitabili resistenze di chi sta al potere. Di qui la grande importanza della Riforma protestante. Il primato dunque spetta sempre alla politica, perché se è vero che l'innovazione teorico-culturale può precedere l'impegno politico, è anche vero che senza una battaglia politica radicale è impossibile trasformare qualitativamente la società. Non bastano neppure le progressive trasformazioni quantitative che avvengono sul terreno socio-economico. Tali trasformazioni, infatti, ad un certo punto si scontrano con dei poteri politici regressivi, che devono essere assolutamente sconfitti se si vuole che quelle trasformazioni abbiano maggior respiro. Con ciò naturalmente non si vuole affatto sostenere che il capitalismo sia meglio del feudalesimo, o che alla crisi del feudalesimo dovesse necessariamente seguire uno sviluppo capitalistico della società. Si vuole semplicemente sostenere che quando si pongono in essere elementi di forte discontinuità culturale col passato, diventano poi inevitabili, in un modo o nell'altro, determinate conseguenze pratiche. E' per questa ragione che nei confronti della memoria storica bisognerebbe avere un rispetto molto più grande di quello che normalmente caratterizza la cultura occidentale.

 
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