TEORIE DI JOHN WYCLIFFE (ca 1324 -1384)
Il suddetto filosofo francescano, docente presso la Università di Oxford,
recependo l'ostilità dei cittadini inglesi contro lo strapotere della chiesa
cattolica feudale del proprio paese, ebbe il coraggio di criticare la
pretesa del papato di riscuotere le imposte in Inghilterra, difendeva il
diritto del re inglese di secolarizzare le terre ecclesiastiche, dichiarava
che lo Stato non poteva dipendere dalla chiesa e che anzi era la chiesa a
dover dipendere dallo Stato nelle questioni di carattere civile. Per questa
ragione il papa Gregorio XI lo accusava degli stessi errori di Marsilio da
Padova.
Chiedeva addirittura l'eliminazione dell'episcopato, in quanto il capo della
Chiesa non poteva essere il papa, ma solo Gesù Cristo. Respingeva la
dottrina delle indulgenze, la remissione dei peccati da parte dei sacerdoti,
ovvero il loro potere di "salvare le anime", la confessione auricolare, il
dogma della transustanziazione, nonché il culto dei santi, proclamava la
Bibbia come unica fonte della rivelazione (e la tradusse in inglese).
Le sue idee ebbero grandissima influenza su tutti i riformatori di
estrazione borghese della chiesa inglese che in Boemia furono riprese da Jan
Huss. I feudatari e la stessa corona lo appoggiarono, perché i papi di
Avignone avevano sostenuto la Francia durante la guerra dei Cento Anni
(1337-1453).
Nel 1377 fondò l'ordine dei Poveri Predicatori, successivamente
soprannominati Lollardi, ma dopo la rivolta contadina del 1381 l'Università
di Oxford contestò le sue tesi sulla povertà evangelica e sul carattere
puramente simbolico dell'eucarestia. Subì dal tribunale ecclesiastico due
processi, ma non fu condannato perché egli era protetto dalla corona.
Il Concilio di Costanza nel 1414 lo condannerà invece per eresia, insieme a
Jan Huss e Girolamo di Praga. Pur essendo già morto, il corpo di Wycliffe fu
riesumato e arso sul rogo nel 1428 dal vescovo di Lincoln.
I LOLLARDI E LA RIVOLTA DEL 1381
Contro le ricchezze smisurate e gli abusi della chiesa inglese intervennero,
nella seconda metà del XIV sec., i cosiddetti Lollardi, predicatori
itineranti popolari, seguaci di Wycliffe ma più radicali, in quanto alle
accuse antiecclesiastiche univano anche quelle antinobiliari e
antimonarchiche. John Ball infatti incitava i contadini (i cosiddetti
"villani") a insorgere, ad abbandonare i feudi, il servaggio e a organizzare
reparti armati contro i feudatari, i ricchi mercanti, i funzionari del re, e
chiedeva ai salariati e ai garzoni delle corporazioni urbane di appoggiarli.
Il nome Lollardo proveniva da un movimento evangelico nato dopo il 1300 in
Olanda (lollaerd significava "salmodiante"), come diramazione dei Begardi.
I Lollardi parteciparono alla rivolta contadina del 1381, capeggiata dal
conciatetti Wat Tyler, nell'Essex e nel Kent (contee confinanti con Londra),
scoppiata in occasione delle nuove tasse straordinarie che re Riccardo II
(1377-1399) aveva imposto per riprendere la guerra contro la Francia.
I contadini devastarono le tenute nobiliari e i monasteri, prelevavano
bestiame e beni mobili, incendiavano i documenti riguardanti le obbligazioni
dei lavoratori, e molti feudatari furono costretti ad abolire la servitù
della gleba, le corvées, a diminuire i tributi.
A Londra, con l'appoggio della popolazione povera della città, incendiarono
le case dei consiglieri reali e dei ricchi mercanti stranieri, uccidendo i
giudici colpevoli di corruzione e aprendo le prigioni.
Presentarono le loro richieste (Programma di Mile-End, sobborgo vicino a
Londra) al re Riccardo II, con cui chiedevano l'abolizione del servaggio,
delle corvées, la sostituzione di qualunque rendita in natura con piccoli
pagamenti in denaro, l'introduzione del libero commercio in tutta
l'Inghilterra e l'amnistia per gli insorti.
Il re accettò e i contadini più agiati tornarono ai loro paesi. Quelli meno
abbienti invece, capeggiati da Tyler e Ball, chiedevano col Programma di
Smithfield (altro sobborgo presso le mura della città) cose più radicali:
confisca delle terre dei vescovi, dei monasteri e dei sacerdoti,
ripartizione delle terre tra i contadini, soppressione di tutti i privilegi
feudali, uguaglianza dei ceti, abolizione delle leggi sui lavoratori,
restituzione delle terre comuni rapinate dai feudatari.
Tuttavia, durante le trattative Tyler fu ucciso a tradimento dal sindaco di
Londra. Temendo la rivolta, ai contadini vennero fatte ogni sorta di
promesse ed essi se ne andarono. Ma il re ordinò ai cavalieri di tutte le
contee di inseguirli e di catturarli, vivi o morti: quelli che si arresero
furono impiccati. Anche Ball morì e il Programma di Smithfield fu revocato
(la rivolta diede comunque il colpo di grazia al servaggio in natura). I
Lollardi saranno condannati dal vescovo Buckingham nel 1394, dopodiché
furono sterminati dai roghi.
Teorie religiose dei Lollardi
Le teorie dei Lollardi costituiscono il sostrato culturale di quella Riforma
protestante che prenderà il nome di "anglicana". Essendo antiecclesiastici
per definizione, essi predicavano che la salvezza non si ottiene dalle opere
di fede pubblica ma unicamente dall'osservanza delle leggi di Dio e della
preghiera privata. Diffondevano l'uso della Bibbia presso le popolazioni
incolte.
Erano contrari al primato del papa sull'intera chiesa e contrari al primato
della chiesa di Roma su quella europea, nonché a qualunque venerazione di
santi e teologi (specie quelli posteriori al Mille) che non avessero messo
in discussione i suddetti primati.
Giudicavano "simoniaca" la chiesa romana ed erano contrari alla vendita
delle indulgenze, ma anche a qualunque forma di devozione liturgica che
utilizzasse mezzi o strumenti religiosi come oggetti magici, aventi cioè
proprietà intrinseche, quindi erano contrari all'efficacia oggettiva dei
sacramenti e, se vogliamo, a qualunque forma di oblazione connessa
all'esercizio dell'amministrazione dei sacramenti. Respingevano il celibato
del clero.
In tal senso predicavano la fine della chiesa come società organizzata in
maniera istituzionale e politica: ecco perché erano favorevoli al dualismo
di cristiano e cittadino (borghese) e alla nascita di piccole comunità
autonome in cui fosse scongiurata la politicizzazione della fede. Tali
comunità dovevano agire l'una in modo indipendente dall'altra, per ognuna
delle quali il motivo dello stare insieme non era solo quello religioso, ma
anche quello della tutela di interessi comuni, territoriali. Non accettavano
i ruoli istituzionali ipostatizzati, l'inamovibilità delle funzioni, la
gerarchizzazione dei ruoli. Non escludevano l'uso della violenza contro le
istituzioni, anche se condannavano la guerra e la pena di morte.
LA RIFORMA IN INGHILTERRA - ANGLICANESIMO
Generalmente si ritiene che la Riforma protestante in Inghilterra non sia
stata il frutto di un movimento religioso popolare, ma che abbia avuto
origini politico-istituzionali (Parlamentary Transaction). In realtà essa
poté avere tali origini solo perché era stata preparata per alcuni secoli da
un vasto movimento popolare e intellettuale. Basti pensare alle teorie di
John Wycliffe e al movimento dei Lollardi che prese le mosse dalla sua
predicazione.
Le disposizioni di Edoardo III (1327-1377)
Nel 1353 re Edoardo III emana una legge con cui vieta il trasferimento alla
curia pontificia di Roma degli affari esaminati dai tribunali religiosi: è
una grave perdita per l'erario papale.
Rifiutò di pagare al papa il tributo di mille marchi d'argento imposto dalla
curia di Roma ai tempi del re Giovanni Senzaterra (1199-1216).
Il re il parlamento cominciarono a confiscare alcune terre ecclesiastiche
inglesi, a motivo del fatto che la chiesa inglese non pagava le imposte
statali.
Lo scisma di Enrico VIII (1491-1547)
La causa scatenante dello scisma anglicano va ricollegata al fatto che
Enrico VIII non riuscì ad ottenere dalla Chiesa di Roma lo scioglimento del
suo matrimonio, che era stato richiesto perché non aveva avuto un figlio
maschio cui lasciare il trono. Il re, approfittando del malcontento che
serpeggiava nelle file del clero e del laicato cattolico inglese contro
Roma, si rivolse all'arcivescovo Cranmer di Canterbury (cui praticamente
erano stati trasferiti i poteri papali) e riuscì ad ottenere il divorzio da
Caterina d'Aragona. Subito dopo la scomunica fece approvare dal Parlamento
(1533) una serie di leggi che rompevano i legami con Roma e sottomettevano
interamente il clero inglese alla corona (ad es. impedì che si pagassero le
"annate" al papato, cancellò la sua giurisdizione, sciolse i monasteri,
confiscò i beni della chiesa, stroncando ogni resistenza interna). Non solo,
ma egli stesso si autoproclamò "capo della chiesa inglese" con l'Atto di
supremazia (all'Irlanda fu imposto nel 1541).
Nel 1539 pubblica i 6 articoli della dottrina anglicana, che non si
differenziava di molto da quella cattolica. Infatti Enrico VIII aveva
respinto la richiesta di introdurre la Riforma in Inghilterra, comminando la
pena di morte a chiunque negasse la transustanziazione, pretendesse la
comunione dei fedeli sotto entrambe le specie e il matrimonio del clero.
Aveva anche fatto giustiziare William Tyndale, traduttore della Bibbia in
inglese.
Naturalmente il divorzio fu solo un pretesto: la causa profonda va vista nel
generale processo di rivendicazione della sovranità regia contro ogni
interferenza, soprattutto se proveniente dall'esterno. Il sorgere dei
rapporti capitalistici nell'Inghilterra del XVI sec. aveva reso urgente la
costituzione di una monarchia assoluta, che accelerasse la disgregazione del
regime feudale. Un importante mezzo di centralizzazione dei poteri fu
appunto la riforma della chiesa, con la quale il re riuscì a secolarizzare
circa 1/3 di tutta la proprietà terriera inglese: il che peraltro risollevò
l'erario dalle spese belliche sostenute durante i Cento Anni di guerra con
la Francia, in cui il papato non prese mai le parti degli inglesi. Ad
acquistare questi terreni furono quei proprietari terrieri (gentry), che
assumeranno un ruolo fondamentale nella storia dell'Inghilterra
capitalistica.
Da notare che in genere i papi non opponevano alcun veto ai principi e ai re
che volevano separarsi dalle loro consorti. In questo caso però il rifiuto
fu determinato dal timore di scontentare il parente più importante di
Caterina d'Aragona, l'imperatore Carlo V, che rappresentava in quel momento
un valido baluardo contro la diffusione del luteranesimo.
Lo scisma anglicano non incontrò in Inghilterra alcuna forte resistenza da
parte ecclesiastica (fanno eccezione alcuni religiosi francescani e
certosini, nonché il vescovo Fisher). La vittima più illustre fu il Gran
cancelliere del re, Thomas More, che pur essendo disposto a firmare l'Atto
per la successione della discendenza di Anna Bolena (la seconda moglie),
rifiutava il modo in cui Enrico VIII si era proclamato "capo della chiesa"
(e gli opponeva la convocazione di un concilio nazionale).
Non vi fu resistenza semplicemente perché i torti di una sede pontificia
esosa, corrotta e retriva quanto mai, apparivano ai sudditi inglesi
sufficienti a legittimare la costituzione di una monarchia assolutistica e
scismatica. Peraltro Enrico VIII aveva garantito al clero e a tutti i fedeli
che nulla del tradizionale cattolicesimo sarebbe stato modificato, a livello
sia dogmatico che sacramentale e rituale. In precedenza, lo stesso re aveva
scritto, in collaborazione con Moro, alcuni pamphlet antiluterani.
L'opposizione del Moro fu interessante anche per un'altra ragione. Per la
prima volta nella storia egli si appellò ufficialmente al principio
dell'obiezione di coscienza. Chiese cioè di poter dissentire, per motivi
personali (di natura religiosa), dall'atto d'imperio di Enrico VIII, senza
che in questo si dovesse per forza vedere un'opposizione politica alla
monarchia. Naturalmente se il re l'avesse lasciato libero, egli si sarebbe
ritirato a vita privata. Cosa che però non avvenne in quanto il re rifiutò
di distinguere nel Moro l'uomo dal cittadino, ovvero il credente dal
politico.
Dunque la chiesa anglicana nasce come chiesa cattolica scismatica,
conservando del cattolicesimo l'organizzazione e la successione episcopale,
nonché i sacramenti, il cerimoniale, i testi canonici. Se vogliamo, la
chiesa anglicana è la sintesi di tendenze abbastanza diverse tra loro:
l'assolutismo della monarchia, il nazionalismo della borghesia inglese
emergente, che sapeva promuovere rapporti sociali di tipo capitalistico, il
moderato riformismo di tipo erasmiano (di cui lo stesso Moro si sentiva
rappresentante). Le influenze luterane e calviniste del continente europeo
si fecero sentire immediatamente dopo. L'Inghilterra era arrivata alle
stesse conclusioni della Germania, prendendo non la strada della
speculazione teologica ma quella più prosaica, che alla lunga si rivelerà
anche più efficace, della lenta trasformazione borghese dei rapporti
sociali.
Le nuove dottrine, tendenti al calvinismo (42 articoli), furono introdotte
sotto Edoardo VI (1547-53), che Enrico VIII aveva avuto da un terzo
matrimonio. Re Edoardo approvò nel 1549 il Libro delle preghiere pubbliche
che l'arcivescovo Cranmer e altri teologi avevano realizzato (lo stesso
Cramner introdusse in Inghilterra la Bibbia in volgare). Il Book of Common
Prayer, in uso ancora oggi, comprende, dopo aver eliminato ogni elemento
superstizioso, la liturgia della domenica e delle feste, l'ufficio del
mattino e della sera per ogni giorno, il rituale dei sacramenti. Nel 1552 il
libro venne modificato alla luce della dottrina di Zwigli, grazie alle
testimonianze dirette di Martin Butzer e d Pier Vermigl.
A questa situazione cercò di reagire la cattolica Maria Tudor (1553-58),
detta "la sanguinaria", figlia di Caterina d'Aragona, ma senza ottenere
validi risultati, anche se gli anglicani condannati sotto il suo regno
risultarono più numerosi dei cattolici messi a morte dagli anglicani durante
tutto il secolo seguente. Fu in questa occasione che molti protestanti
emigrarono oltre oceano. Vi furono almeno 800 roghi e ben 12.000 sacerdoti
che si erano sposati sotto il regno di Edoardo, vennero deposti. Tra i
giustiziati persino il vescovo Cranmer, il predicatore Hugh Latimer e il
vescovo di Londra Nicholas Ridley.
Di qui la forte contro-reazione della regina Elisabetta (1558-1603), figlia
di Anna Bolena, che volle approvare l'Atto di Supremazia e l'Atto di
Uniformità e il Prayer Book voluti da Cramner. Nel 1562 appoggia i "39
articoli per fede" dell'arcivescovo Parker (una riformulazione dei "42
articoli" di Edoardo VI), che, approvati dal Parlamento nel 1571, diedero un
volto definitivo all'anglicanesimo. Papa Paolo IV la scomunicò in quanto
figlia illegittima di un divorziato.
Fu appunto Elisabetta I che assunse il titolo (tuttora esistente) di
"supremo reggente" (Supreme Governor), cioè di "protettrice della chiesa" e
"suprema governatrice nelle cause sia ecclesiastiche che civili del regno".
Con l'Atto di Uniformità del 1559 venne affermata l'indipendenza dal papa
romano, venne mantenuta la continuità con la chiesa antica attraverso
l'adesione alle confessioni di fede e alle decisioni dei primi quattro
concili ecumenici, vennero accettati i principi fondamentali della Riforma
(specie gli articoli sulla giustificazione per fede, sulla chiesa, sulle
opere buone della Confessione luterana di Augusta del 1530), venne
solennemente dichiarata la Bibbia come suprema norma di fede, affermando che
non si può pretendere da alcuno di accettare come articolo di fede quello
che non può essere approvato con la Bibbia. I sacerdoti, come tutti i
funzionari pubblici, erano obbligati a prestare giuramento sui vangeli alla
regina e alla sua autorità: chi si rifiutava perdeva il posto o la carica,
senza essere accusato di alto tradimento.
I "39 articoli" prevedevano una struttura ecclesiastica centrata sia sui
vescovi, nominati dal re, che sulla successione apostolica; cerimonie, riti,
liturgia e paramenti di tipo cattolico; la teologia di tipo calvinista
moderato (ad es. la tradizione non è negata ma subordinata alla Bibbia, la
"forza salvifica" della chiesa non è negata ma si considera più importante
la fede personale. Netto invece il rifiuto di ogni culto per Maria, i santi,
le reliquie, le icone e di ogni forma di suffragio per i defunti. Respinto
il dogma della transustanziazione. Forti simpatie vanno al concetto di
assoluta predestinazione dei calvinisti, ma anche all'umanismo di Erasmo).
Altre caratteristiche sono analoghe a quelle di tutte le confessioni
protestanti: il matrimonio dei preti, il rifiuto delle indulgenze e del
purgatorio, il servizio liturgico nella lingua locale. Questa chiesa, oggi,
non ha alcuna difficoltà ad ammettere divorzio, aborto, contraccezione,
rapporti prematrimoniali e le donne al sacerdozio.
La differenza più sostanziale rispetto alle altre chiese riformate sta nel
fatto che la Chiesa anglicana è una "chiesa di stato" a tutti gli effetti
(viene anche chiamata "chiesa stabilita", cioè protetta dalle leggi). Le
cose ecclesiastiche sono ritenute affari di Stato. In teoria il capo di
questa chiesa potrebbe anche non essere un anglicano. I due arcivescovi più
importanti sono quelli di Canterbury (cui spetta un primato onorifico) e di
York. E' appunto il primo che riconosce il re come supremo governatore
visibile della chiesa, con poteri politico-giuridici non dottrinali.
Con la bolla Regnans in Excelsis del 1570 papa Pio V scomunica Elisabetta,
esonerando i suoi sudditi dall'obbedienza. Dura fu la reazione della regina,
che fece approvare, nel 1571, l'Act against Bulls from Rome, con cui si
ribadiva che nessuno nel regno avrebbe più dovuto riconoscere, far
riferimento, rispettare e divulgare tutte quelle leggi che in passato erano
servite a mantenere in vita il potere usurpato di Roma in Inghilterra. Da
notare che proprio sotto Elisabetta furono chiusi tutti i monasteri e
secolarizzati i loro beni, per quanto si continuasse a conservare
l'inviolabilità dei possessi terrieri dei vescovi (e quindi la facoltà di
richiedere la decima) e degli istituti ecclesiastici: l'episcopato era di
origine nobiliare e, di regola, appoggiava la corona.
Nel 1581 una nuova legislazione penale, determinata dal nuovo pericolo dei
cosiddetti "preti del seminario" (o "Seminary Priests"), entrò in vigore. In
effetti nel 1580 sbarcarono in Inghilterra i primi gesuiti allo scopo di
riportare il popolo alla vecchia fede. Il fenomeno era collegato a quel
movimento dei "Seminary Priests" che trovava origine nel lontano 1568,
allorquando un certo William Allen, uno dei più abili cattolici del suo
tempo, aveva aperto un seminario nella città universitaria di Douay, nelle
Fiandre. Inizialmente si trattava solo di una scuola per l'educazione della
gioventù cattolica inglese esiliata, ma a poco a poco esso si trasformò in
un seminario in cui un corpo di preti veniva istruito allo scopo di prestare
assistenza per la restaurazione, qualora le circostanze lo avessero permesso
in futuro, del cattolicesimo in Inghilterra. Il movimento dei seminaristi
divenne quindi pian piano un simbolo dell'unione delle potenze cattoliche
contro la riforma anglicana, rinnovando i sospetti di una Lega Santa contro
l'Inghilterra. La risposta del governo fu quella di combattere tenacemente
quei religiosi e di punirli come traditori.
Questa invasione di preti fu molto pericolosa principalmente perché era
fatale per la politica elisabettiana di pacifico assorbimento nella Chiesa
Anglicana: i seminaristi, infatti, riuscirono, almeno per un po', a fermare
quell'opera di omogeneizzazione che la regina stava cercando di portare a
termine fra i protestanti ed i cattolici. Nel 1581, viene così approvato
l'Act against reconciliation to Rome.
Esso nasce principalmente per rendere più difficile e più pericolosa l'opera
svolta dai seminaristi allo scopo di ricondurre individui e famiglie al
cattolicesimo. Con questo documento vengono infatti stabilite multe
salatissime per chi non aderiva alla Chiesa riformata frequentando le chiese
parrocchiali e per chi cercava di aizzare le masse contro il legittimo
potere della regina.
Importantissimo è anche l'Act against Jesuits and seminary priests, del
1585, che stabilisce che tutti quegli ecclesiastici che erano stati ordinati
o avevano ricevuto una qualche nomina o investitura da Roma non potevano più
risiedere in nessuno dei domini d'Inghilterra, e, di conseguenza, dovevano
abbandonare il regno. In caso contrario, sarebbero stati accusati di alto
tradimento e
perciò sottoposti a tutte le pene e le conseguenze previste dalla vigente
legislazione in merito al reato di "high treason". Coloro che avessero
invece nascosto o protetto, volontariamente e consapevolmente, questi
ecclesiastici, sarebbero stati additati come "Felon" e, senza poter
usufruire di beneficio alcuno, avrebbero sofferto tutte le pene previste dal
reato di "Felony". La colpa di alto tradimento si configurava infine anche
per quanti, in futuro, avessero frequentato seminari o studiato presso
scuole di gesuiti all'estero e, tornando poi in Inghilterra, avessero
rifiutato di prestare giuramento di sottomissione alla Corona ed alle sue
leggi.
Molti protestanti inglesi, che durante il regno di Maria Tudor erano fuggiti
nel continente e avevano appreso le dottrine calviniste, ritornati in
Inghilterra pretesero una chiesa più coerente con la Riforma, senza
episcopato né cerimonie religiose vetero-cattoliche. Essi diedero origine
alla setta dei "puritani" (1580), che già negli ultimi anni del regno di
Elisabetta chiedeva la "purificazione" da ciò che anche esteriormente
ricordava il culto cattolico e che sotto il regno di Giacomo I (1603-25)
ottenne la traduzione della Bibbia in inglese.
I puritani erano contrari a ogni ornamento, immagine sacra, altare, drappi,
vetrate colorate, organi, messale, riti, segno di croce, genuflessione...
officiavano esclusivamente in case private. L'attività commerciale e
industriale era per loro una sorta di "vocazione divina"; l'accumulazione, i
profitti, un segno di particolare "elezione divina". Tra gli esponenti più
significativi, John Ponet (Breve trattato sul potere politico), Edmund
Spenser, George Buchanan, Henry Parker.
Essi si dividevano in alcune correnti:
- presbiteriani, che chiedevano la sostituzione dei vescovi anglicani coi
sinodi dei presbiteri (anziani), scelti dai fedeli tra i più ricchi,
dopodiché si poteva anche accettare un rapporto di tipo organizzativo con
gli anglicani;
- separatisti o indipendenti, che rifiutavano qualunque rapporto con gli
anglicani e anche coi sinodi presbiteriani. La loro chiesa era organizzata
in una confederazione di unità autonome e indipendenti tra loro,
amministrate secondo il volere della maggioranza.
Il puritanesimo, in sostanza, predicava la necessità di un contratto sociale
tra corona e società, con possibilità d'insurrezione armata quando la corona
trasgrediva i patti. Infatti, durante il regno di Carlo I (1625-49)
insorsero con le armi insieme ai presbiteriani scozzesi (i calvinisti più
radicali, guidati da John Knox), instaurando il calvinismo della Confessione
di Westminster, dopo aver ucciso lo stesso Carlo I e l'arcivescovo Laud.
In Scozia il calvinismo s'era trincerato molto saldamente e, poiché un
territorio non poteva avere che una religione, il conflitto con gli
anglicani fu inevitabile. Il conflitto verteva più che sulla teologia sulla
liturgia e soprattutto sull'organizzazione ecclesiastica. Gli scozzesi
vedevano l'espressione fondamentale di una religione nella confessione di
fede, perché sapevano che in questo modo avrebbero potuto continuare a
rimanere autonomi rispetto al governo di Londra; per gli anglicani invece
era sufficiente accettare un manuale liturgico. John Knox era cappellano
d'una banda assediata, responsabile dell'uccisione del cardinale cattolico
Beaton. Era un radicale che propugnava l'aperta ribellione contro i
governanti cattolici che ostacolavano la diffusione del calvinismo.
Con il re Carlo II (1660-85) si ristabilì l'anglicanesimo, seppure a una
condizione, che il re prestasse giuramento contro la dottrina della
transustanziazione (quest'uso restò in vigore sino all'inizio del XX sec.).
In cambio il re pretendeva che tutti gli impiegati statali (e quindi anche i
ministri di religione) accettassero il Prayer Book. Molti puritani
perseguitati furono costretti a emigrare in Olanda e Stati Uniti.
Giacomo II (1685-88) promulgò la Dichiarazione d'indulgenza, in forza della
quale tutti i sudditi inglesi erano ritenuti uguali di fronte alla legge,
senza distinzione di religione, e fu sospeso il giuramento contro la
transustanziazione. Di quest'Atto di tolleranza beneficiarono in verità i
principali quattro gruppi dissidenti: presbiteriani, congregazionalisti,
battisti e quaccheri. Ne furono invece esclusi la minoranza cattolica e i
sociniani antitrinitari (o chiesa unitaria). Ma con la rivoluzione del 1688,
che vide al potere Guglielmo III (1689-1702), il calvinismo riprese vigore.
Il calvinismo si adattava perfettamente alla nuova mentalità borghese che
andava affermandosi in Inghilterra: erano piuttosto la potente aristocrazia
terriera e la monarchia a porre degli ostacoli.
Con la regina Anna (1702-14) venne confermata la completa sottomissione
della chiesa alla corona (Atto di uniformità, 1713; Atto dello scisma,
1714). Non mancarono tentativi di resistenza: alla fine del XVIII secolo la
predicazione di Law e dei fratelli Wesley dette luogo al metodismo, mentre
il partito evangelico, costituendo la cosiddetta Chiesa Bassa (Low Church)
intendeva valorizzare la tradizione calvinista. Tuttavia alla morte della
regina si giunse a un definitivo compromesso con la definizione delle tre
tendenze che ancora oggi durano:
a) la Chiesa Alta, che raccoglie l'aristocrazia e l'alto clero, afferma la
collaborazione fra chiesa e Stato, appoggiando i conservatori, accentua la
sua continuità con la chiesa antica, ammette da 5 a 7 sacramenti, si
considera una diramazione del cristianesimo, insieme a cattolicesimo e
ortodossia, non rifiuta la vita monastica ed è sicuramente la più vicina
alla chiesa cattolica. Infatti, dopo il 1860, per l'influsso del movimento
liturgico, si è molto avvicinata a Roma sul piano del ritualismo, delle
invocazioni a Maria e ai santi, della confessione auricolare e altre
manifestazioni.
b) La Chiesa Bassa o movimento evangelico, che nato alla fine del XVIII
sec., è sostanzialmente calvinista, benché accetti i sacramenti del
battesimo e dell'eucarestia (quest'ultima ha valore più che altro
simbolico). Altre caratteristiche sono la semplicità rituale, una spiccata
azione missionaria e un forte impegno sociale a favore dei ceti più poveri,
è poco interessata alla speculazione teologica. A loro si deve l'abolizione
della schiavitù nel 1833, la legge sulle 10 ore di lavoro nel 1847 e la
fondazione della maggiore società missionaria (1799). Questa chiesa
considera l'anglicanesimo una corrente del Protestantesimo. Nel 1804 ha
fondato la Società per la diffusione della Bibbia, che ha tradotto
quest'ultima in oltre mille lingue e dialetti.
c) La Chiesa Larga, sorta all'inizio del XIX sec., è vicina al deismo
razionalista, in quanto mira a esprimere la fede cristiana in modo
comprensibile all'uomo moderno. In campo sociale afferma un socialismo
cristiano che l'ha portata a contrasti con la Chiesa Alta. E' sempre stata
minoritaria rispetto alle altre due. E' chiamata anche "modernista".
Naturalmente, a seconda che seguano l'orientamento ritualistico della Chiesa
Alta o la semplicità di culto evangelico della Chiesa Bassa, le varie
comunità anglicane hanno notevoli differenze liturgiche. In particolare, la
Chiesa episcopale di Scozia, le Chiese di Galles e d'Irlanda fanno parte
della "Comunione anglicana" ma sono separate dalla chiesa d'Inghilterra.
Ad Anna successe il ramo protestante degli Hannover, durante il cui regno
l'anglicanesimo fu minacciato di soffocamento, soprattutto in seguito alla
controversia di Bangor e anche a causa della sospensione delle convocazioni
decennali dei vescovi, decisa da Giorgio I. L'avvento delle teorie
razionaliste di Locke, di quelle antitrinitarie di Clarke e di quelle deiste
di Toland (dalla metà del XVII sec. alla metà del XVIII) non fecero che
acuire la crisi in atto.
La reazione contro questa crisi provocò la nascita del "metodismo", un
movimento pietista fondato sulla esperienza mistica della certezza che si
sarà salvati (oggi ha più di 30 milioni di fedeli nel mondo). E a partire
dal 1833 si ebbe il cosiddetto "anglocattolicesimo", un movimento spirituale
sorto a Oxford con l'intento di rivendicare l'indipendenza della chiesa
dallo Stato, di ostacolare la secolarizzazione della chiesa e di favorire
una riapertura verso il cattolicesimo romano in campo dottrinale e
liturgico. Ebbe tra i suoi maggiori esponenti J. Newman, J. Keble e E.
Pusey, che facevano parte della Chiesa Alta. Newman passò al cattolicesimo
nel 1845; gli altri due fondarono appunto l'anglocattolicesimo, che
effettivamente in molti punti dottrinali e liturgici è simile al
cattolicesimo (ad es. nella valorizzazione dell'episcopato, del ritualismo e
del monachesimo).
Nel XIX secolo la reazione alla completa sottomissione della Chiesa alla
corona provocò il recupero di molti elementi del cattolicesimo, a cui
contribuì principalmente il movimento di Oxford, con la costituzione entro
la Chiesa anglicana di un partito anglocattolico, detto della Chiesa alta
(High Church), ma allorché papa Leone XIII sancì l'invalidità delle
ordinazioni anglicane, l'anglocattolicesimo subì una grave crisi, che si
protrasse fino all'impegno teorico e pratico di Lord Halifax e T. Eliot.
Nel 1852 furono nuovamente autorizzate le convocazioni dei vescovi, i quali
così poterono riacquistare maggiore autonomia ai fronte al potere politico.
A partire dal 1867 si è aggiunta una struttura molto elastica: la Conferenza
di Lambeth, che raduna ogni 10 anni circa tutti i vescovi anglicani. E'
un'assemblea priva di autorità giuridica, cioè le decisioni non hanno
carattere vincolante. L'arcivescovo di Canterbury invita non convoca gli
altri vescovi. Dal 1968 sono stati invitati alcuni cattolici come
osservatori.
Tentativi privati per giungere a un accordo totale con la chiesa romana sono
stati fatti dopo la I Guerra Mondiale (ad es. Conferenze di Malines,
1921-25), ma senza risultati significativi.
In seguito all'emigrazione di molti inglesi in vari continenti e grazie a
un'intensa opera missionaria, l'anglicanesimo si è diffuso in tutto il
mondo. Sono così sorte altre 16 chiese nazionali autonome che non dipendono
dal governo inglese e che riconoscono all'arcivescovo di Canterbury
un'autorità puramente morale. La più importante di queste chiese è la
Protestante Episcopale degli USA, con 4 milioni di fedeli; poi vi è la
Chiesa anglicana del Canada con 2,5 milioni di fedeli.
La Chiesa anglicana è molto attiva nel movimento ecumenico. Alla Conferenza
di Lambeth del 1920 è stato presentato un Appello a tutto il popolo
cristiano, col quale si è proposta la riunificazione di tutte le chiese
cristiane sulla base della comune accettazione di quattro punti
fondamentali: 1) la Bibbia come norma suprema di fede, contenente tutto ciò
che è necessario alla salvezza; 2) il Credo di Nicea, come sufficiente
esposizione della fede cristiana; 3) i sacramenti istituiti da Cristo:
Battesimo ed eucarestia; 4) L'episcopato situato nella "successione
apostolica" come garanzia di validità degli altri ministeri e come legame di
continuità con la chiesa antica.
Gli anglicani nel mondo sono circa 50 milioni (di cui 30 in Inghilterra).
Membri della Comunione anglicana sono stati 1/3 dei presidenti USA.
Anglocattolicesimo: Movimento spirituale sviluppatosi nel XIX secolo dentro
la Chiesa anglicana, con l'intento di favorire una riapertura verso il
cattolicesimo romano, mediante un sistematico riavvicinamento in campo
dottrinale e liturgico. E' nato dal Movimento di Oxford (1833), che ebbe i
suoi maggiori esponenti in John Henry Newman (1801-1890), il poeta John
Keble (1792-1866) ed Edward Bouverie Pusey (1800-1882), che facevano parte
della Chiesa alta e che intendevano reagire alla secolarizzazione della
Chiesa.
Newman passò al cattolicesimo (1845), mentre Pusey e Keble rimasero nella
Chiesa anglicana, dando origine all'Anglocattolicesimo che, sia in campo
dottrinale (problema della grazia, comunione dei santi, istituzione e
struttura della chiesa), sia in campo liturgico (celebrazione della messa,
conservazione delle specie liturgiche, servizio divino secondo la liturgia
tradizionale) segnò un certo avvicinamento alla chiesa cattolica.
L'Anglocattolicesimo subì però una grave crisi alla fine del XIX secolo,
quando Leone XIII sancì l'invalidità delle ordinazioni anglicane; ma si
riprese grazie alla guida di illustri personaggi, fra i quali Lord Halifax e
Thomas Eliot.
Fonti
Felix Arnott, I 39 articoli: Genesi, significato e ruolo nella storia
dell'Anglicanesimo.
L'Anglicanesimo: Dalla Chiesa d'Inghilterra alla Comunione Anglicana. Cesare
Alzati, ed. Genova: Marietti, 1992. 145-161.
Su Elisabetta I
E. Cantani, La vita ed il tempo di Elisabetta, Milano, Mondadori, 1977,
126p.
G. Dogliotti Frati, Elisabetta d'Inghilterra, Genova, ECIG, 1992, 67p.
D. Kotnik, Elisabetta d'Inghilterra. Una donna al potere, Milano, Rusconi,
1984, 277p.
DIRAMAZIONI DEL PROTESTANTESIMO
Il luteranesimo è la corrente principale del protestantesimo. Oggi i
luterani si chiamano evangelici, mentre i riformati si ispirano a Calvino. I
Luterani si trovano in Germania, Scandinavia, Paesi Bassi, USA ecc. Nel
mondo sono poco più di 100 mil. (i protestanti si aggirano sui 300 mil.). In
Italia sono presenti come Valdesi, Metodisti, Pentecostali, Avventisti,
Battisti ecc. (circa mezzo milione).
Presbiterianismo
Il Presbiterianismo è il nome assunto dal Calvinismo nel mondo di lingua
inglese (dalla sua particolare struttura organizzativa ecclesiale, fondata
sul governo degli "anziani"), e fa parte della comunità mondiale delle
Chiese Riformate, appunto calviniste. La Riforma che prevalse nelle Lowlands
della Scozia nel 1560, guidata dal pastore John Knox, fu, a differenza di
quella inglese, calvinista. Infatti essi si staccarono dalla chiesa
anglicana perché troppo vicina al culto cattolico.
Ottennero la libertà di culto nel 1689 con l'Atto di tolleranza e si
propagarono nel Nord-America, ma oggi sono presenti anche in Australia,
Nuova Zelanda e Canada.
Unità base della Chiesa presbiteriana è la congregazione locale, diretta
dagli "anziani" eletti dai comunicanti di pieno diritto, quelli che
sostengono anche finanziariamente la congregazione. Già nella repubblica
teocratica instaurata da Calvino a Ginevra, il popolo eleggeva i suoi
presbiteri. Gli "anziani" scelgono anche il pastore (o ministro del culto).
Le congregazioni sono riunite in presbitéri (o consigli degli anziani) su
base territoriale; ogni congregazione invia al presbitério il proprio
pastore e un altro degli "anziani".
Tutti i presbitéri, così composti, si riuniscono ogni anno nell'Assemblea
Generale della Chiesa, che viene rinnovata ogni anno. Il Moderatore della
Chiesa, eletto dall'Assemblea, resta in carica solo per un anno.
Questa forma democratico-rappresentativa del governo delle Chiese
presbiteriane, avverse a ogni autorità di "diritto divino", ha contribuito
tra XVII e XVIII secolo allo svilupparsi e al diffondersi delle idee
democratiche e rivoluzionarie: p.es. gran parte dei fondatori del
Repubblicanesimo irlandese degli United Irishmen furono Presbiteriani.
In Inghilterra i presbiteriani ebbero nel XVII sec. una funzione
determinante nel movimento puritano.
mb-soft.com/believe/tic/presbyte.htm
Il Libero Presbiterianismo è invece una concezione fondamentalista e
anti-ecumenica, che fa proprio il peggiore fanatismo demagogico, concependo
gli Unionisti dell'Irlanda del Nord come popolo eletto e impugnando la
Bibbia e la spada contro i loro nemici. E' creazione personale del Reverendo
Ian Richard Kyle Paisley, e nasce in ambito battista più che presbiteriano.
Infatti Paisley, che fondò la Free Presbyterian Church of Ulster nel 1951, è
Moderatore a vita della sua Chiesa, che dirige autocraticamente (cosa del
tutto contraria all'ethos presbiteriano). La Chiesa gli serve come struttura
portante del suo partito politico unionista, il D.U.P., contrario agli
Accordi di pace del 1998. La Chiesa di Paisley conta su circa 15.000
aderenti.
Episcopalismo
Episcopalismo (governo dei vescovi) è il nome che designa la dottrina delle
Chiese che derivano dalla Riforma anglicana di Enrico VIII (1534). Tale
Riforma era mossa più dalle esigenze politiche e finanziarie dello Stato e
della monarchia inglesi che da motivi teologici, e questo la differenzia
dalla Riforma, luterana o calvinista, che si diffuse negli stessi decenni in
Europa e in Scozia.
Enrico VIII e i monarchi inglesi suoi successori si erano proclamati Capi
Supremi della Chiesa -che manteneva la stessa struttura gerarchica di quella
cattolica- al posto del papa (da cui il termine Anglicanesimo); ma quando le
colonie americane ottennero l'indipendenza, gli Anglicani dei nuovi Stati
Uniti non potevano più riconoscere il re d'Inghilterra come capo della loro
Chiesa, che venne fatta gestire ai vescovi locali (di qui il termine
Episcopalismo).
Il vertice della gerarchia è formato da una federazione di vescovi, da cui
la chiesa è governata.
Metodismo
Il Metodismo nacque in Inghilterra nel XVIII secolo, dal movimento di
rinnovamento religioso della Chiesa anglicana guidato da John e Charles
Wesley; ma verso la fine del '700 i Metodisti vennero espulsi dalla Chiesa
d'Inghilterra, e dovettero fondare la propria Chiesa. In Irlanda però parte
dei Metodisti non vollero allontanarsi dalla Chiesa di Stato anglicana. Fu
solo dopo l'abrogazione della posizione di Chiesa di Stato di questa (1869)
che i Metodisti irlandesi si accordarono per creare la Methodist Church in
Ireland, fondata nel 1878.
Il termine "metodisti" fu dato nel 1729 a un gruppo di docenti e studenti
dell'Università di Oxford, raccolti attorno ai fratelli Wesley, perché
volevano attenersi a un "metodo" serio e regolare nella loro attività
quotidiana (lettura comune della Bibbia, preghiere, digiuni, visite ai
carcerati, educazione dei bambini poveri ecc.).
In origine il movimento si diffuse tra i ceti medi e subalterni, artigiani,
piccoli commercianti, operai, ma si trasformò ben presto in una delle più
fiorenti chiese riformate, solidamente organizzata in Inghilterra, Stati
Uniti e Canada.
Si ispira all'evangelismo calvinista, ma mantiene il sistema episcopale.
L'assemblea legislativa suprema è la Conferenza metodista annuale, composta
da ministri e da laici, e da un Presidente annuale da questa eletto.
www.metodistisalerno.it/index.htm - www.protestantiamilano.it/metodismo.htm
Battismo
Il Battismo deriva dalla corrente anabattista della Riforma protestante,
approdata nelle Isole britanniche durante la guerra civile della metà del
XVII secolo. Sostengono la necessità del battesimo praticato solamente agli
adulti, per immersione, dietro esplicita professione di fede. Sono presenti
soprattutto negli Usa, in Gran Bretagna, Canada, Australia.
www.ucebi.it
Pentecostalismo
Nasce nell'ambito della chiesa metodista americana agli inizi del secolo e
si è diffusa nell'America del Sud, in Africa, in Estremo Oriente e anche in
Europa. Il loro nome è dovuto al proposito di rinnovare il fervore mistico
della prima Pentecoste e di considerare il "dono delle lingue", o
glossolalia, come segno particolare della benedizione divina. Nel corso
delle loro cerimonie, infatti, vi possono essere dei fedeli che cadono in
estasi ed emettono suoni inarticolati, incomprensibili.
www.riconciliazione.org/radici.htm
I Fratelli di Plymouth
Confessione sorta nel XIX secolo in vari luoghi del mondo protestante di
lingua inglese, i suoi membri non amano il nome con cui li chiamano gli
altri, e chiamano se stessi Christian Brethren, negando assolutamente di
essere una confessione religiosa o una Chiesa.
Congregazionalismo
I suoi aderenti sono gli eredi storici dei Puritani di Cromwell. Si
staccarono alla fine del sec XVI dalla chiesa anglicana inglese, accentuando
la loro ostilità nei confronti del papa, dei vescovi e dello stesso clero
riformato, negando ogni subordinazione dei credenti ai poteri del re e del
parlamento. Il nome sta a significare che ogni comunità di fedeli deve
essere posta sotto l'autorità diretta di Cristo, con forme autonome di
amministrazione, di fede e di disciplina (quindi separazione completa di
Stato e chiesa).
Perseguitati in patria, emigrarono in Olanda e Stati Uniti. Molti dei "padri
pellegrini" sbarcati negli Stati Uniti appartenevano a questa corrente.
www.congregational.shetland.co.uk
Avventismo
Corrente protestante nata negli Stati Uniti nel 1844, ad opera di William
Miller, che crede in un imminente ritorno di Cristo sulla terra (secondo
avvento), come i seguaci del francescano medievale Gioachino da Fiore.
Si chiamano invece Avventisti del settimo giorno un gruppo di fedeli fondato
sempre negli Usa da Ellen Gould White, nel 1862, i quali osservano il riposo
festivo di sabato non di domenica (il settimo giorno della Bibbia, come nel
rituale ebraico).
Condannano l'appartenenza ai sindacati, la lettura dei romanzi, l'uso
dell'alcol e del tabacco, il portare armi ecc.
www.avventisti.it
Esercito della Salvezza
Organizzazione fondata a Londra nel 1878 dal generale William Booth, dopo il
distacco dalla corrente protestante dei metodisti wesleyani. Si proponeva di
riportare alla fede, mediante un'assistenza di carattere sociale e
spirituale, i lavoratori dell'industria e il sottoproletariato urbano. Gli
aderenti sono inquadrati militarmente, con gradi, cariche e mansioni
ricalcati su quelli degli eserciti regolari, e fanno ricorso a metodi
abbastanza plateali di propaganda. Vengono anche detti "salutisti".
Commento alle teorie dei riformatori protestanti
Per capire la differenza tra i riformatori religiosi in ambito cattolico e
quelli in ambito protestante, bisogna considerare che, in genere, i
riformatori protestanti esaltavano il ruolo del lavoro contro ogni rendita
parassitaria, ma anche nell'indifferenza delle motivazioni oggettive che
impedivano agli indigenti di lavorare. All'ipocrisia (cattolica) della
carità per gli indigenti rispondevano negando ogni assistenza a chi non
avesse gravi motivi fisici per non lavorare. I motivi dell'indigenza
venivano ricondotti a questioni non di natura sociale, ma psicologica: chi
non lavora, pur potendolo fare fisicamente, è perché non vuole lavorare, per
cui non ha diritto ad alcuna assistenza.
Qui si ha a che fare con dei credenti che prima di tutto si sentivano
"borghesi": tutte le loro idee religiose non hanno altro scopo che quello di
tutelare i loro interessi di classe. Non c'è tanto l'esigenza di una riforma
democratica della chiesa, né di una riforma democratica della vita sociale,
quanto piuttosto l'esigenza di un'abolizione della chiesa istituzionale,
quale ente feudale, per dare maggiore respiro e manovra a interessi di
classe.
La predicazione di una maggiore coerenza tra teoria religiosa e prassi
economica è in realtà la predicazione di principi borghesi conformemente a
una prassi borghese, in cui l'ideologia religiosa è solo una sovrastruttura
priva di reale significato.
La religione è stata utilizzata per contestare da un lato i dogmi
cattolico-romani che di religioso non avevano più nulla, in quanto
contraddetti da una prassi tutt'altro che religiosa, e per giustificare
un'altra prassi (quella borghese) che di religioso aveva ancora meno di
quella cattolica.
Significativo resta il fatto che questi cristiano-borghesi erano disposti a
grandi sacrifici pur di veder affermate le loro idee.
Significativo altresì resta il fatto che le teorie di questi eretici hanno
contribuito non poco allo sviluppo delle idee agnostiche, ateistiche o
comunque laiciste, per quanto all'interno di una concezione individualistica
dell'esistenza.
TOMMASO MORO
Quando si legge il famoso pamphlet antiborghese che Tommaso Moro (Thomas
More) pubblicò nel 1516 a Lovanio, a cura dell'amico Erasmo da Rotterdam, si
capisce facilmente il motivo per cui i critici borghesi l'han sempre
ridicolizzato: vi sono troppe esagerazioni, troppe incongruenze perché lo si
possa prendere sul serio. E cosi, buttando l'acqua coi bambino, sono state
negativamente "bollate" anche quelle parti che invece meritavano un'attenta
considerazione. Se si avesse la pazienza d'andarle a rileggere, si
scoprirebbe con grande stupore quanto ancora esse siano attuali: ciò a
riprova che la verità non teme il fluire del tempo.
Sul migliore assetto dello Stato, ovvero L'isola di Utopia, è stato scritto
in un periodo storico rivoluzionario per la patria dei suo autore,
l'Inghilterra. Marx, nel I libro del Capitale, ha speso un intero e famoso
capitolo, il XXIV, per descrivere l'accumulazione originaria capitalistica
del secolo XVI.
Utopia cerca di rispondere al problema di come vaste masse contadine,
cacciate dalle terre trasformate in pascoli per il commercio della lana,
possono costruire una società alternativa al sistema delle enclosures
(recinzioni) e della concentrazione della ricchezza nelle mani di poche
persone.
L'ideale di Moro era una sorta di socialismo agrario pre-capitalistico,
semiautarchico, ove la produzione artigianale fosse a conduzione più o meno
familiare. Nell'isola "non vi sono industrie che occupino molti operai - si
legge. Ogni famiglia si fa da sé le vesti...". A turno, il lavoro nei campi
è obbligatorio, mentre l'artigianato è a scelta, "purché la città non abbia
bisogno di uno più che dell'altro".
L'incoerenza del testo sta appunto in questo, che Moro propone un regime
sociale regressivo rispetto a quello borghese emergente del suo tempo: egli
cioè rifiuta il capitalismo in nome di un passato decisamente da rivedere
(le comunità di villaggio feudali). Nondimeno l'esigenza di superare le
contraddizioni dell'accumulazione originaria lo portano a formulare dei
princìpi molto più validi delle strategie che propone per realizzarli.
Quali sono questi princìpi? Quello più interessante, più suggestivo, più
conforme alle istanze di una moderna società ci pare quello dell'abolizione
della proprietà privata. Non è incredibile sentirsi dire da un profondo
umanista, convinto assertore della democrazia e dell'uguaglianza, vissuto in
un periodo in cui l'uso capitalistico della proprietà determinava il sorgere
di una nuova classe sociale e quindi di nuovi valori etici e normativi, che
proprio quella proprietà e quei metodi di affermazione sociale erano la
fonte di tutte le peggiori ingiustizie, di tutte le più assurde
sperequazioni dei suo tempo?
Ebbene, se c'è una cosa in cui il Cancelliere del regno di Enrico VIII
eccelleva era proprio questa: la serietà sulle cose che contano. La critica
borghese, consapevole della radicalità di queste affermazioni, ha voluto
applicare ad esse lo stesso metro con cui ha giudicato l'ironia usata
dall'autore in quelle meno importanti.
Sarebbe, in verità, sufficiente leggersi poche righe per convincersi della
grande insofferenza che Tommaso Moro provava nei confronti della mentalità
borghese. E non è certo qui inutile ricordare ch'egli utilizzò i resoconti
del secondo viaggio di Amerigo Vespucci in America, dov'era detto, fra le
altre cose, che gli abitanti del "nuovo mondo" ignoravano la proprietà
privata e vivevano "secondo natura".
Sicuramente, anche se non citate nell'opera, Moro si servì (al pari di
Campanella) di alcune relazioni di viaggi degli autori spagnoli e portoghesi
allora più popolari: Las Casas, Oviedo y Valdes, Joao de Barros, Diaz del
Castillo... Ciò significa ch'egli riteneva Utopia non del tutto
irrealizzabile. Il destino peraltro ha voluto che proprio in America Latina
si siano visti amministratori e prelati spagnoli ispirarsi ai fondamenti di
questa ideologia protocomunista: si pensi a Vasco de Quiroga in Mexico o ai
gesuiti in Paraguay. Per non parlare del fatto che le idee di Moro
riusciranno a trovare un felice prosieguo nel socialismo populistico dei
XVIII sec. (Mably, Morelly, Linguet... ), approdando infine al comunismo
utopistico di Etienne Cabet e Louis BIanc nel XIX secolo.
La giustizia -afferma solennemente il Cancelliere- è incompatibile con la
proprietà privata e la "logica pecuniaria": qui "i peggiori stanno meglio e
le ricchezze si ripartiscono tra pochi cittadini". Strabiliante, per la sua
concisione e nettezza, è il giudizio dell'autore sulla funzione della legge
nei regimi borghesi.
Le leggi sono tante -egli afferma- perché ognuna di esse deve difendere gli
interessi di determinati gruppi sociali proprietari. Non solo, ma è proprio
sotto l'egida della legge -precisa il Moro- che i ricchi usurpano "giorno
per giorno qualche cosa di quanto spetta alla povera gente". Le molte leggi
quindi non fanno la democrazia di uno Stato e nell'isola di Utopia, ove esse
scarseggiano, la "virtù" non manca, anzi abbonda.
Non è singolare che già agli albori dei capitalismo qualcuno avesse capito
che in questo sistema non esiste alcuna legge autenticamente democratica che
sia frutto della volontà dello Stato, in quanto tutte sono finalizzate a
difendere gli interessi dei ceti più abbienti? Le eccezioni non sono forse
quelle che dipendono dal fatto che l'emancipazione delle masse ha costretto
il capitale ai compromessi?
"Si arriva a tal punto che defraudare la mercede a chi si rende più utile
alla società è diventato oggi ... giustizia... e questo per una legge che i
magnati son riusciti a varare". Detto altrimenti, la corruzione nel
capitalismo è così vasta e profonda che l'espropriazione ai danni dei
lavoratori è considerata come un atto naturale, giusto, previsto addirittura
da specifiche leggi. E non è forse così per chi ancora oggi si illude di
poter combattere la mafia o la corruzione degli organi statali servendosi
degli stessi strumenti che lo Stato mette a disposizione?
Si tratta dunque -come vuole Moro- di una "congiura dei ricchi", i quali si
preoccupano "solo dei loro comodi, sotto il pretesto e la scusa del bene
dello Stato".
Nonostante queste idee del capitalismo, che oggi ci appaiono un po'
limitative (d'altra parte siamo nel '500), Moro in sostanza non credeva
nella presunta neutralità o equidistanza dello Stato nei riguardi delle
classi sociali.
Senza dubbio il capitalismo è qualcosa di più "oggettivo", le cui leggi
intrinseche sono state scoperte per la prima volta da Karl Marx. Nel
valutare criticamente queste leggi, Marx prescindeva dalla "bontà" o dalla
"cattiveria" dei protagonisti in questione. Il capitalismo, per lui, era ed
è un sistema il cui superamento non poteva dipendere né dalla "cattiveria"
della borghesia né dalla "bontà" dei proletariato, ma piuttosto da certe
irrisolvibili contraddizioni di natura strutturale. Il capitalista, il
proprietario fondiario -dice Marx nella prefazione del Capitale- "sono la
personificazione d categorie economiche, che rappresentano determinati
rapporti di proprietà, da cui egli socialmente proviene, e determinati
interessi di classe". La formazione economica della società capitalistica è
vista dal marxismo come un processo di storia naturale, all'interno del
quale non si può fare "il singolo responsabile di rapporti pure se
soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi", nel senso cioè che la
"naturalezza" del processo non toglie la responsabilità del soggetto, ma la
relativizza, situandola in un contesto storico più complesso.
La capacità d'innalzarsi al di sopra dei rapporti dai quali si proviene non
fa la differenza fra un capitalista "buono" e uno "cattivo", ma la
differenza fra un operaio influenzato dall'ideologia borghese e uno
cosciente degli interessi della sua classe. Se questo non è chiaro, il
rischio diventa quello di limitarsi a sperare nel "buon senso" dei
capitalisti, di lasciarsi ingannare dalle loro promesse, di fare in ultima
istanza i loro interessi, pur essendo convinti del contrario.
Ma torniamo al nostro gradito umanista, i cui genitori, peraltro, erano di
origine italiana. Va subito notato, per restare al tema di prima, che Moro
non rinuncia al concetto di Stato, in quanto non ritiene Utopia una società
perfetta, ma solo "migliore" di quella delle nazioni euroccidentali del XVI
sec.
Basterebbe questo per smentire tutti coloro che lo ritengono un buon
imitatore del filosofo Platone. Moro in realtà supera Platone almeno sotto
due aspetti: anzitutto perché utilizza la legge come strumento di
realizzazione della democrazia, nel senso cioè che l'abolizione della
proprietà privata non coincide, sic et símpIiciter, con l'equa ripartizione
dei beni, in quanto ne è soltanto la precondizione.
Platone invece sosteneva, ingenuamente, che avrebbe concesso le leggi solo a
quei popoli che avessero già accettato di spartire equamente i loro beni.
In secondo luogo, Moro non solo affermava l'uguaglianza dei cittadini, ma
considerava anche che "i professionisti dell'ozio: i ricchi (tutti), specie
i possidenti, i cosiddetti gentiluomini, i nobili con i loro servitori
(caterva di bravacci e di parassiti), i mendicanti robusti e sani che si
fingono minorati per mascherare la loro pigrizia, la folla dei preti e dei
pretesi religiosi, i lavoratori che si dedicano a mestieri inutili o non
necessari.", tutti costoro non dovevano neppure far parte della società
utopiana.
Platone, al contrario, escludeva dalla socializzazione dei beni proprio i
lavoratori, i commercianti e gli schiavi. Semmai dunque era l'utopia di
Platone che non poteva essere applicata all'Inghilterra dei Tudor.
Nonostante ciò il problema più importante dell'utopia di Moro resta
insoluto: come abolire la proprietà privata? Qui l'umanista non offre alcuna
risposta: Utopia è un'isola in cui la proprietà privata e già stata abolita,
ed è un'isola assolutamente fantastica (la stessa parola utopia, "fuori
luogo", è un prodotto della fertile immaginazione di Moro).
Del tutto genuina invece è la considerazione finale che Moro fa al lungo
racconto de saggio "ItIodeo": "In quella nazione, certo, vi sono molte
istituzioni e leggi che vedrei assai volentieri adottate nei nostri paesi:
che ciò possa accadere, però, è più un desiderio che una speranza".
Valutando le cose con realismo, Moro ritiene che il metodo più efficace per
vivere meglio, in presenza della proprietà privata, è quello di "sancire
leggi che limitino il possesso dei beni immobili e Ia ricchezza liquida, che
circoscrivano la potenza del principe e l'intolleranza del popolo, che
impediscano brogli e soprusi nelle elezioni delle magistrature [i politici],
che regolino le spese dei magistrati in modo che non possano con estorsioni
rifarsi delle spese buttate in prodighe campagne elettorali: e ciò per non
assegnare queste cariche ai soli ricchi, mentre dovrebbero essere affidate
soltanto a uomini onesti".
Sta di fatto che Moro non riponeva alcuna vera fiducia in tutti questi
metodi: egli era convinto che, in presenza della proprietà privata, la
terapia di una parte dell'organismo della società ne irrita immediatamente
un'altra, in quanto appunto gli interessi sono troppo antagonistici.
Insomma anche il "riformismo" -per dirla con una parola moderna- aveva per
Moro i suoi forti limiti.
Ma come impedire che "ricchi rapaci, malvagi e inutili [da notare l'ultimo
aggettivo], perché oppressori degli umili e.dei deboli, passino per
galantuomini e si aggiudichino più stima dei poveri lavoratori che, col
sudore quotidiano, si rendono più vantaggiosi allo Stato che non a se
stessi?" "E' forse giustizia che un nobile, un banchiere, uno strozzino, un
fannullone, un ignavo [da notare l'accostamento dei "tipi sociali"], che
nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e
lusso, tra l'ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere,
un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato
non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone
di pane e menino un'esistenza miserabile?".
Non è singolare -detto tra parentesi- che un "Cancelliere del regno" (la più
alta carica nell'Inghilterra di allora, per un estraneo alla famiglia
regnante) manifesti una tale sensibilità per le ingiustizie dei lavoratori?
Sennonché, proprio nella proposta ch'egli fa di risolvere tali ingiustizie,
affermando così il principio sociale della proprietà pubblica, sta il suo
limite maggiore.
Gli utopiani infatti non solo dovevano limitarsi a fabbricare "con l'oro e
l'argento vasi da notte e materiale igienico in uso nei pubblici alberghi e
nelle abitazioni private, e poi catene e ceppi per gli schiavi", rendendo
così l'uso universale di quelle pregiate materie prime ridotto a zero, ma
essi non dovevano neppure "concepire la circolazione del denaro". "Ogni
capo-famiglia può rifornirsi al mercato secondo i bisogni -dice il Moro-,
senza denaro e senza contrarre debiti".
Dunque, per togliere "l'uso e la bramosia del denaro" basta rendere
"consapevoli" gli uomini delle necessità collettive, basta renderli onesti
nei confronti delle proprie.
L'ingenuità -come si può notare- è considerevole: 1 ) perché una tale
consapevolezza potrà essere il frutto solo di una lunghissima esperienza
comunitaria, 2) perché le ingiustizie possono formarsi anche in assenza del
denaro circolante (non è il denaro che di per sé rende democratica una
società o le impedisce di diventarlo), 3) perché l'unico denaro che deve
fare paura è quello che si trasforma in capitale, cioè quello ottenuto
estorcendo plusvalore dal lavoro dell'operaio.
Solo una visione moralistica e volontaristica dell'esistenza può ritenere
che il più grande ostacolo alla realizzazione di Utopia sia "la superbia, la
prepotenza tirannica" dei ricchi, "ormai così profonda nei petti
umani -aggiunge l'umanista- che più non si sradica".
Moro ritiene i ricchi siano troppo cattivi perché la società possa
migliorare, e i poveri troppo deboli perché siano capaci di reagire.
L'alternativa al capitalismo emergente, mercantile, può essere pensata nella
sua Utopia solo come già realizzata, in un'isola che non c'è.
Ciò che manca in questo romanzo politico è appunto la consapevolezza storica
e scientifica delle contraddizioni strutturali del sistema borghese, e manca
soprattutto il soggetto che si faccia carico del superamento di tali
contraddizioni: il proletariato industriale, guidato e organizzato da un
partito politico.
Moro è così radicale nel rifiuto della proprietà privata che non riesce
neppure a tollerare la differenza tra questa proprietà, che pur giustamente
viene considerata come fonte di ogni abuso e divisione, e la proprietà
cosiddetta "personale" (abitazione, mezzi di trasporto, risparmi, lotti di
terra per uso familiare, ecc).
Gli utopiani "cambiano le loro residenze ogni 10 anni tirando a sorte", in
privato non posseggono nulla perché "tutti sono ricchi", "i mezzi di
locomozione sono in comune", lo Stato dirige completamente l'economia, e via
di questo passo. Non viene neppure prevista una proprietà di tipo
cooperativistico. Ma sarebbe troppo pretenderlo.
L'originalità del messaggio di Moro sta altrove, e non solo nella ribadita
esigenza di eliminare la proprietà privata, ma anche nella preoccupazione di
non creare un regime sociale votato all'inerzia e all'indifferenza.
Egli infatti conosce bene i pericoli in cui si può cadere limitandosi ad
abolire tout-court la proprietà privata. "Se la necessità non spinge al
lavoro, tutti si ritirano in ozio e non si potrà avere in abbondanza ciò di
cui si ha bisogno. Se puoi contare sul lavoro degli altri, te ne starai
pigro e svogliato a far niente".
Moro non si nasconde che l'abolizione della proprietà privata, ovvero la
fine dello sfruttamento economico dell'uomo sull'uomo e quindi la garanzia
di un "minimo vitale" a tutta la collettività, può facilmente portare a
eccessi opposti, a pericolose illusioni e rozzi schematismi, se nel contempo
non si permette agli uomini la possibilità di una creativa espressione.
Oggi diciamo che l'uguaglianza dev'essere nelle condizioni di "partenza" non
di "arrivo", nei confronti del bene pubblico, delle esigenze collettive,
della legge, dello Stato... Ma non nei confronti delle capacità soggettive,
delle attitudini personali, dell'impiego profuso a realizzare determinati
scopi.
Senza la valorizzazione delle qualità individuali (il che significa potersi
associare anche spontaneamente), si rischia di trasformare il socialismo in
una parola magica che di per sé dovrebbe creare giustizia, ma che in realtà
crea solo una mentalità da caserma, burocratica e amministrativa. Le
strutture non possono sostituirsi agli uomini, neppure quando vengono
costruite da milioni di uomini.
* * *
Non è stato comunque un caso che la chiesa cattolica abbia aspettato 400
anni prima di canonizzare sir Thomas More, decapitato dal re Enrico VIII per
aver rifiutato il suo "Atto di supremazia sulla chiesa inglese", chiamata
poi anglicana.
Nel 1935 forse nessun cattolico italiano conosceva l'opera più importante e
più "scomoda" del Moro, eccettuati naturalmente i molti accademici che
volentieri la consideravano come un libello comico-satirico, privo di
qualsiasi valore politico, e comunque inadatto alla sensibilità del
cittadino cattolico "medio", troppo conformista per accettare le
"stravaganze" dell'autore in materia di tolleranza religiosa e soprattutto
di giustizia sociale.
Ecco perché da noi nessuna casa editrice cattolica tradusse mai il pamphlet
agnostico e antiborghese del cancelliere (la miglior versione integrale
resta sempre quella della Laterza). Viceversa, la censura fu meno pesante
nei confronti delle opere scritte durante l'anno di reclusione nella Torre
di Londra.
L'ideologia ivi contenuta, in effetti, poteva essere ricollegata più
facilmente alle posizioni cattolico-romane tradizionali, anche se ad es. non
mancano riferimenti espliciti alle teorie conciliariste allora in auge. In
modo particolare si prestava ad essere strumentalizzata la decisione di
disobbedire al re per motivi di coscienza.
E così, Venti lettere, scelte ad hoc, sono state pubblicate dalla Studium,
che ha tradotto anche Il dialogo del conforto nelle tribolazioni. La
Morcelliana ha pubblicato un caramelloso Preghiere della Torre, mentre, sul
fronte laico, oltre alle varie traduzioni dell'Utopia, si può trovare una
parziale versione delle Lettere in una vecchia edizione, discretamente
curata, della Boringhieri.
La vicenda che lo vide coinvolto fu molto significativa, perché con essa
ebbe inizio la storia della chiesa anglicana e l'assolutismo della moderna
monarchia inglese, ma il modo in cui egli l'affrontò fu alquanto singolare.
Mentre la stragrande maggioranza dei funzionari di corte e del clero inglese
si trovò sostanzialmente d'accordo nel rivendicare l'indipendenza dalla
chiesa di Roma, Moro invece fu uno dei pochissimi a dissentire sulla base di
personali ragioni di coscienza.
Altri, che condivisero con lui la condanna a morte, furono il vescovo J.
Fisher e alcuni frati certosini.
I fatti sono ben noti. Il sorgere dei rapporti capitalistici
nell'Inghilterra del XVI sec. aveva reso improrogabile la costituzione di
una monarchia assoluta, che accelerasse la disgregazione del sistema
feudale.
Un importante mezzo di consolidamento della centralizzazione dei poteri fu
la riforma della chiesa, con la quale la corona riuscì a secolarizzare circa
1/3 di tutta la proprietà terriera. Il pretesto per attuare la riforma fu il
rifiuto pontificio di ratificare il divorzio di Enrico VIII da Caterina
d'Aragona, preteso per la mancanza di eredi maschi al trono.
Generalmente i papi non opponevano alcun veto ai principi e ai re che
volevano separarsi dalle loro consorti. In questo caso però, Clemente VII
prima e Paolo III dopo lo fecero per timore di scontentare l'imperatore
Carlo V, imparentato con Caterina. Quest'ultimo infatti, per quanto avesse
punito il papato d'aver aderito alla lega antimperiale di Cognac, facendo
scendere in Italia 14.000 furibondi lanzichenecchi (mercenari di religione
luterana), restava pur sempre un valido baluardo nella lotta contro i
protestanti emergenti.
In molti odierni manuali di storia della chiesa, scritti da autori
confessionali, spesso si trovano espressioni che mettono in cattiva luce la
moralità del re Tudor, accusato d'essere un libertino e di avere un
carattere volubile.
Sennonché, proprio nelle sue Lettere dalla prigionia il Moro, che certo non
si nascondeva le esigenze imperiali del suo sovrano, aveva di lui una
considerazione tutt'altro che negativa. Dice a tale proposito: "più di ogni
altro mi considero in obbligo verso il re per le prove straordinarie di
bontà che mi ha dato con parole e fatti". E addirittura, un mese prima di
morire: "il re stesso mi aveva insegnato, quando ero al suo servizio, di
obbedire prima a Dio e poi al sovrano".
La questione di fondo, in effetti, si poneva non tanto a livello morale o
psicologico quanto piuttosto politico.
Alcuni storici cattolici, particolarmente sprovveduti, sono persino arrivati
a dire che il cancelliere mori per difendere l'indissolubilità del
matrimonio! Cosa assurda per almeno due ragioni: 1) in quelle circostanze
Moro s'era dichiarato disposto a firmare l'Atto per la successione della
discendenza di Anna Bolena; 2) nel libro Utopia egli esprime un giudizio
favorevole al divorzio nei casi di adulterio e di incompatibilità di
carattere.
Ciò su cui Moro obiettava, nel contenzioso, era unicamente la decisione del
re di diventare "capo della chiesa".
Ma anche su questo si è voluto speculare ad libitum. Ritenere che il Moro
sia stato per la chiesa cattolica un vero e proprio defensor fidei è assai
limitativo. Il fatto ch'egli abbia scritto un Dialogo sulle eresie contro
Lutero e Tyndale e abbia aiutato Enrico VIII nella stesura della Difesa dei
sette sacramenti (sempre contro Lutero), non deve farci pensare che il
cattolicesimo di Moro fosse del tutto conforme a quello ufficiale della
curia romana.
L'ultimo capitolo di Utopia -lo vedremo più avanti- dimostra proprio il
contrario. Bisogna saper distinguere -come vuole Dilthey- l'umanista e
agnostico Moro dal politico e diplomatico. Bisogna inoltre saper distinguere
il Moro dell'Utopia che, primo fra gli umanisti, seppe liberare la critica
della proprietà privata dal suo involucro religioso, saldandola con i
problemi socio-economici e politici, dal Moro della prigionia, profondamente
immerso in una riflessione di tipo esistenziale, troppo viziata dal pathos
religioso per potersi esprimere in maniera serena e distaccata.
A questo grandissimo umanista è mancata infatti l'obiettività del giudizio
politico nel momento cruciale della sua vita. Visibilmente preoccupato dal
negativo trend sociale del suo paese, in cui le classi più deboli stavano
pagando a caro prezzo la scelta capitalistica di quelle più forti, il Moro
non si rese conto che il rifiuto del papato di concedere il divorzio (parola
tabù per gli autori cattolici, che la sostituiscono sempre con
«annullamento») non rappresentava, idealisticamente, l'opposizione della
verità all'arbitrio, ma piuttosto lo scontro, molto più prosaico, fra due
diverse volontà assolutistiche, di cui una in declino e l'altra in ascesa.
Il divorzio, in sostanza, veniva ostacolato per motivi politici, non
religiosi. E se le cose stavano in questi termini, ben difficilmente lo
strappo dalla chiesa romana poteva essere avvertito dai cattolici inglesi
come un "peccato".
Anzi, i torti di una sede pontificia esosa, corrotta e reazionaria quanto
mai, apparivano di gran lunga maggiori di quelli di una monarchia inglese
ancora troppo giovane per poter impensierire i suoi sudditi. Peraltro Enrico
VIII, con molta accortezza, garantì al clero e a tutti i fedeli che nulla
del tradizionale cattolicesimo sarebbe stato modificato, a livello sia
dogmatico che sacramentale e rituale.
L'ingenuità del Moro, in definitiva, stava nel considerare la chiesa romana
un'istituzione virtualmente migliore della monarchia inglese. Disse infatti
alla figlia Margaret, l'unica autorizzata a fargli visita: "sebbene alcune
delle deliberazioni del concilio generale della chiesa possano risultare non
perfette come le altre e in ragione di ciò talvolta si rende necessario
modificarle, è fuor di dubbio che lo Spirito di Dio che governa la sua
chiesa non ha mai permesso e mai permetterà che il concilio generale,
legalmente costituito, possa decretare alcunché che all'attuazione si palesi
illegittimo e contrario alla volontà di Dio".
Un'ingenuità, come si può notare, perfettamente in linea con la sua
ideologia utopistica, che mentre sul piano soggettivo sembrava anticipare i
tempi, su quello oggettivo invece restava ad essi di molto indietro.
Errata infatti era la sua concezione politica sia della monarchia inglese
che della "monarchia cattolica". Da un lato egli riteneva che in
quest'ultima ci fossero ancora, allo stato latente, degli elementi
incorrotti, mediante i quali si sarebbe potuto ripristinare l'ideale
comunistico del cristianesimo primitivo; dall'altro pensava di potersi
opporre efficacemente alla concentrazione dei poteri nelle mani del re,
contestandone un aspetto particolare: l'autoannullamento da parte di Enrico
VIII del suo primo matrimonio. Un aspetto, questo, che, nel contesto,
risultava, se si vuole, abbastanza marginale.
Egli cioè era convinto che la politica anticattolica del regno rischiasse di
rendere il suo ideale, così ben delineato in Utopia, ancora più
irrealizzabile e che, onde evitare tale rischio, fosse sufficiente -ad
imitazione del Battista- protestare sul piano etico e giuridico,
appellandosi alle leggi vigenti. Posizione, questa, piuttosto
contraddittoria, in quanto il giudizio sulla politica del re, globalmente
intesa, non risultava affatto negativo.
E' vero che la polemica antimonarchica caratterizzerà Thomas More sin dai
suoi primi lavori (epigrammi etico-politici). L'abate Bremond, sotto questo
aspetto, gli aveva riconosciuto "caustica malizia e spirito aggressivo" (e
come poteva essere diversamente per un profondo ammiratore di Erasmo,
Savonarola, Pico, Terenzio, Luciano...?). Ma è anche vero che Moro criticava
il sistema borghese facendone parte attivamente.
Nel corso degli interrogatori, il segretario amministrativo del re, T.
Cromwell, gli ricordò, lodandolo, che quand'egli era stato cancelliere aveva
giudicato "eretici, ladri e malfattori".
Forse l'aspetto più interessante e più attuale, in tutta questa faccenda, è
il tema dell'obiezione di coscienza, che il Moro andò elaborando in maniera
approfondita durante il carcere. Egli in pratica sosteneva che nessuno può
costringere un uomo (nella fattispecie un cattolico) a rinunciare alle
proprie convinzioni, se non un concilio generale, una credenza
universalmente riconosciuta oppure una "speciale rivelazione". E cita come
esempio probante il fatto che Bernardo di Chiaravalle, pur essendo
recisamente contrario alla teoria dell'immacolata concezione, non fu mai
costretto a ritrattare la propria opinione.
Moro avrebbe anche accettato di esporre i motivi che vietavano alla sua
coscienza di prestare il giuramento di fedeltà, ma solo se avesse avuto la
garanzia che le sue dichiarazioni non sarebbero state considerate offensive
dal re e non l'avrebbero reso passibile di alcuna sanzione. Naturalmente
tale privilegio (che per noi oggi è un semplice diritto) non gli fu mai
concesso: 500 anni fa una libertà di coscienza così radicale non poteva
neppure essere immaginata dalle autorità pubbliche. Né ebbe seguito l'idea
del Moro di convocare un concilio generale per legittimare l'operato del re,
il quale al massimo avrebbe permesso un concilio locale debitamente
manovrato.
E così, trincerandosi dietro il fatto ch'egli non aveva voluto condannare
nessuno dei firmatari del giuramento, Moro sperava in un trattamento analogo
nei suoi confronti, ben sapendo però, data la sua posizione ufficiale, che
ciò sarebbe stato molto difficile.
Fu solo con l'inganno, tuttavia, che si riuscì a giustiziarlo, eludendo le
molte simpatie ch'egli godeva fra il popolo. Il procuratore generale del re,
R. Rich, dichiarò, mentendo, che il Moro, durante una sua visita alla Torre,
negò esplicitamente la supremazia del re.
* * *
Ma ora vediamo in breve le tesi principali delineate nelle ultime pagine di
Utopia. Moro esordisce sostenendo il principio della libertà di religione.
L'egualitaria, la democratica Utopia non può tollerare l'uso
dell'inquisizione, allora assai in vigore, né disconoscere il valore laico e
razionalista del movimento rinascimentale, e neppure può nascondersi che
nell'ambito dell'Europa occidentale l'unità religiosa era ormai sulla via
del definitivo tramonto.
Molto probabilmente non si era neppure spenta, ai suoi tempi, l'eco delle
persecuzioni subite dai seguaci dei due precursori della riforma
protestante: Wycliff e Huss (il primo dei quali insegnante nella stessa
università di Oxford, cui il giovane Moro si era iscritto).
Nel romanzo il concetto di libertà di religione viene esteso fino al
rispetto delle religioni politeistiche, animistiche e naturali: col che si
anticipa di almeno due secoli una delle grandi conquiste giuridiche della
rivoluzione francese.
Non dobbiamo infatti dimenticare che con la scoperta dell'America s'impose,
subito dopo il colonialismo economico e politico, quello ideologico,
culturale e religioso, nella convinzione che tutto quanto non proveniva dal
mondo greco-romano, dalla civiltà cristiana e dalla società europea
(neolatina e anglosassone) non avesse neppure il diritto di esistere.
Personalmente, il Moro preferiva le religioni monoteistiche (specie il
cristianesimo), ma tendeva a rifiutare l'organizzazione ecclesiastica. Il
clero, a suo giudizio, assomigliava troppo alla nobiltà, intento com'era a
usare le recinzioni per arricchirsi; e per quanto riguarda i frati o i
monaci, egli criticava soprattutto la loro indifferenza verso i problemi
della povertà.
Nell'isola Utopia il cristianesimo era stato predicato solo dai laici e
venivano ammessi solo gli ordini religiosi più "genuini" (qui forse il
riferimento va ai Certosini, frequentati dal giovane Moro per quattro anni).
Sottoposti alla ragione, i princìpi religiosi, nell'isola di Utopia, sono
quelli vissuti secondo natura (come volevano anche Pico e Ficino). Dopo aver
letto e riletto l'Elogio della follia dell'amico Erasmo, in cui si condanna
duramente il fariseismo dei preti, Moro scrisse una lunga lettera al Dorp
(teologo tedesco) attaccando il principio di "autorità" negli studi,
difendendo la letteratura classica e greco-patristica contro la Scolastica,
sostenendo che il teologo "è come un gallo che canta nel suo immondezzaio e
fuori di lì non è buono a nulla".
Contro la filosofia scolastica, "che crede -dice il Moro- di poter risolvere
ogni problema", viene opposto non solo il deismo agnostico (il cui massimo
campione sarà Kant), ma anche la filosofia civile o politica (di cui Hobbes,
quasi un secolo dopo, si farà grande artefice).
Moro rifiutava persino il concetto cristiano di Trinità, in quanto gli
utopiani tributavano onori divini solo al "padre", il quale non corrisponde,
stricto sensu, al dio evangelico, ma solo a uno dei tanti nomi con cui la
maggioranza dei fedeli chiama il creatore di tutte le cose: un altro nome,
non meno popolare, era Mytra.
Lo stesso Cristo, visto più che altro come uomo, viene accettato solo perché
il suo Vangelo presenta molti aspetti comuni ai princìpi degli isolani.
Nel testo è detto a chiare lettere che i cittadini tardano a convertirsi
alla religione naturale utopiana, basata sulla ragione, perché credono
ancora che Ia causa di ogni disgrazia capitata dopo aver rinunciato alla
propria religione, sia da attribuirsi all'intervento divino e non alla
casualità. D'altra parte la legge vieta d'indurli con la forza a tale
conversione. Nell'isola è proibito fomentare l'odio o turbare l'ordine
pubblico per motivi religiosi: i trasgressori vengono puniti con l'esilio o
la schiavitù (di lì a poco invece scoppieranno in tutta Europa le terribili
guerre di religione).
Il proselitismo è autorizzato a condizione che venga svolto in maniera
democratica e civile, senza fanatismi di sorta. Moro detestava profondamente
quei "furbissimi predicatori di Cristo" che "conformano il Vangelo ai loro
costumi" e che insegnano "ad essere malvagi con comodissima tranquillità di
coscienza".
Insomma, la certezza della verità di una religione non era un motivo
sufficiente -secondo Moro- per imporla a tutti i costi: chi lo faceva era
sempre e comunque un pessimo credente, anche se la sua religione era
migliore di tante altre. Solo il tempo poteva dimostrare la superiorità di
una religione sulle altre: solo con la forza dell'esempio la verità si
sarebbe fatta strada.
A Utopia però il clero non manca. Moro non ha mai avuto il coraggio di
negare valore ai sacramenti. Di qui le ambiguità nella sua concezione della
religione. Pur essendo eletti dal popolo e solo successivamente "consacrati
dai colleghi", i sacerdoti cristiani (uomini e donne) dipendono dal
pontefice; loro compito è quello di amministrare i sacramenti, predicare la
morale al popolo, educare i giovani; non sono sottoposti al tribunale
civile, ma ha effetti civili la scomunica ch'essi possono infliggere; sono
sposati e poco numerosi, perché nel caso in cui si corrompano non debbano
arrecare molto danno; non hanno un potere politico diretto e quando prendono
parte alle guerre non combattono attivamente, ma offrono protezione e
assistenza a chiunque, anche ai feriti e ai prigionieri nemici (vi è qui un
preludio alla Croce Rossa?). Se i malati sono troppo gravi è prevista
l'eutanasia; per i morti la cremazione.
Nell'isola si può credere ai miracoli, ma non a maghi e indovini. Si può
diventare santi ma non da intellettuali o standosene chiusi nei monasteri a
pregare e oziare: l'unica modalità prevista è quella di compiere i lavori
più umili e faticosi, come schiavi, senza pretendere nulla in cambio (forse
qui il Moro aveva in mente i Fratelli della vita comune, un ordine inglese
non mendicante ma laborioso, alla cui scuola Erasmo passò alcuni anni).
Tuttavia, nonostante queste forti aperture al progresso e al realismo
umanistico, non poche erano le incongruenze nel suo concetto di libertà di
religione. Anzitutto perché Moro considerava obbligatori per tutti gli
utopiani tre principi teologici di carattere generale: l'immortalità
dell'anima, la provvidenza divina e la retribuzione ultraterrena. Verità
constatabili -a suo dire- in tutte le più importanti religioni dell'uomo.
In tal modo la religione appare come un aspetto irrinunciabile della società
utopiana, tanto è vero che l'ateismo viene tollerato solo con molte riserve.
Moro infatti è del parere che una concezione completamente laica o atea
della vita non può essere anche umana e democratica, poiché senza poter far
leva sul senso di colpa connesso alla fede in un aldilà e quindi in una
sorta di giudizio universale, è impossibile convincere gli uomini a
conformare la loro coscienza al volere della legge.
Moro è sempre stato scettico nei confronti delle capacità umane di bene,
cioè di trasformazione qualitativa della società. Nel sistema ove domina la
proprietà privata i casi per lui sono due: "o ti guasti al contatto altrui,
o la tua onestà farà da schermo alla disonestà degli altri". Il che
significa: o corruzione o strumentalizzazione (il livello di consapevolezza
diventa relativo). Ecco perché non gli riesce di accettare sino in fondo le
conseguenze della libertà di coscienza da lui stesso affermata. Gli atei
infatti sono costretti ad adeguarsi ai criteri religiosi dell'isola:
naturalmente se lo fanno per convinzione è meglio. Ad essi inoltre è
interdetto ricevere onori, cariche e uffici pubblici, mandato
parlamentare... Possono sì discutere le loro opinioni, ma solo in privato e
solo in presenza di sacerdoti e "uomini seri". Ateismo, per il Moro,
significa materialismo rozzo e volgare, tendenza all'immoralità.
Sennonché, proprio il suo romanzo politico attesta che là dove manca una
piena libertà di coscienza, la libertà di religione non può essere affermata
in modo coerente. Là dove esiste la discriminazione dell'ateismo, esiste
anche l'imposizione di una o più religioni. Non è singolare che il
trattamento riservato agli atei nella società utopiana sia stato molto
simile a quello che la monarchia Tudor riservò a lui stesso negli ultimi
anni della sua vita? Qui come là l'obiettore di coscienza non ha avuto il
diritto di esprimersi pubblicamente, né quello di organizzare un'opposizione
di minoranza.
Certo, il Moro dell'Utopia non avrebbe mai decollato gli atei confessi, ma
il pamphlet era appunto un "sogno" non la realtà. Le istituzioni e i poteri
che lo accusavano di tradimento, ragionando secondo il noto principio: la
maggioranza ha il monopolio della verità, avevano assai meno scrupoli quando
si trattava di coartare la libertà di individui scomodi e in fondo
pericolosi come lui.
Quel principio venne condiviso dal Moro sempre malvolentieri, anche quando,
in un modo o nell'altro, egli era costretto ad applicarlo in qualità di
membro della Camera dei Comuni, Vicesceriffo di Londra, Tesoriere dello
Scacchiere, Ambasciatore e Cancelliere del Regno: questi i gradini della sua
intensa carriera politica, amministrativa e diplomatica.
Ad un certo punto però i nodi di un'acuta consapevolezza dei problemi
sociali vengono al pettine di un'esperienza tipicamente "borghese". Di qui
la decisione di resistere passivamente all'atto di supremazia.
Oggi possiamo anche discutere sul valore intrinseco di questa scelta,
potremmo cioè tranquillamente affermare che se la maggioranza di per sé non
fa la verità, la minoranza non ha delle chances superiori: è certo
un'illusione quella di credere che l'opposizione a un qualunque governo
borghese sia sempre migliore di questo governo.
Ma almeno su un aspetto, diciamo di "metodo personale", il giudizio dovrebbe
essere unanime. Se di fronte a coloro che sostengono una determinata verità,
foss'anche questa verità condivisa da milioni di persone, qualcuno ritenesse
di pensarla diversamente, ebbene costui dovrebbe avere il diritto e il
dovere di manifestarlo senza temere per la sua sicurezza personale. Si può
infatti sbagliare nel modo di concretizzare le proprie idee, ma non si può
imporre l'unanimismo. In fondo né le pretese di chi governa né
l'indifferenza di chi subisce hanno mai fatto fare grandi passi all'umanità.
Spesso anzi si è dovuti tornare indietro e ricominciare molte cose da capo.
Purtroppo la storia non diede a Moro il tempo sufficiente per dimostrare che
aveva ragione, o forse gliene diede abbastanza perché dimostrasse che aveva
torto. Il suo concetto di libertà di coscienza, in effetti, avrebbe potuto
"fare la verità" soltanto se lo si fosse applicato adeguatamente alle
esigenze di coloro che nell'England del '500 lottavano contro la rovina dei
villaggi, l'aumento della rendita, le recinzioni e le usurpazioni delle
terre comuni.
Soltanto cioè se l'intellighenzia progressista avesse saputo convogliare le
istanze di liberazione di vaste popolazioni oppresse dal giogo del capitale
verso il conseguimento di un comune obiettivo, verso uno scopo
rivoluzionario, che l'evoluzione storica rendeva sempre più urgente.
Moro avvertì questo come umanista, ma, essendo troppo legato all'entourage
della corona, si trovò impreparato sul terreno politico. "Dio e la mia
coscienza -aveva detto a Meg- vedono chiaramente che nessuno può annoverarmi
fra coloro che aspirano a governare". In questo la sua esperienza rifletteva
dei limiti non solo soggettivi, ma anche oggettivi, quelli del suo tempo e
quelli di chi avrebbe dovuto vedere nella monarchia uno strumento nelle mani
del capitale.
I FONDAMENTI DELL'EVANGELISMO
Ancora oggi la maggioranza degli evangelici...
Crede in tutto quanto ha affermato Lutero.
Nega qualunque autorità al papa e ai concili, qualunque funzione salvatrice
alla chiesa;
Afferma il sacerdozio universale dei fedeli, nel senso che, pur esistendo un
episcopato, il clero è elettivo: non c'è sacramento dell'ordine. Ciò implica
il "libero esame" della Bibbia. Per la corretta interpretazione della
Bibbia, Dio manda lo Spirito a chi vuole: senza lo Spirito la ragione è
impotente. Sarà poi la storia a decidere quale interpretazione è la
migliore. In ogni caso l'uomo può comunicare con Dio senza intermediari. Non
c'è quindi un confine preciso fra laici e pastori: le diversità sono solo
funzionali.
I pastori (fra i quali ci sono anche le donne) si possono sposare e, come i
laici, possono anche divorziare. Non sono contrari, per principio,
all'aborto.
I sacramenti che riconoscono sono solo quelli che, secondo loro, Cristo
avrebbe istituito: battesimo ed eucarestia, che più che altro vengono
accettati sul piano simbolico (ad es. la frase "Questo è il mio corpo" viene
intesa in senso allegorico o metaforico: "Questo sembra il mio corpo"). Il
battesimo può essere dato anche ai neonati. Nell'eucarestia non si rinnova
il sacrificio di Cristo, neanche in forma simbolica. Il sacramento serve più
che altro al credente per rapportarsi a Dio chiedendo la grazia o il perdono
dei peccati. Il momento fondamentale resta il sermone.
Ogni altro rito (ad es. la cresima) o funzione liturgica (inclusi i
paramenti sacri) è molto semplificato e austero. Il matrimonio non è un
sacramento, in quanto considerato un'istituzione comune ad altre religioni:
gli sposi vengono però benedetti dalla chiesa. L'unzione degli infermi è
ritenuta una superstizione.
Non venerano Maria, gli angeli e i santi. Ignorano il culto delle reliquie e
delle icone, non credono nel Limbo e nel Purgatorio. Non praticano il
monachesimo.
Nelle chiese hanno l'altare, la croce, le candele, l'organo, pochi dipinti
religiosi. Usano il pane azzimo e recitano il Credo con il Filioque.
Le cerimonie vengono svolte nella lingua nazionale dei credenti.
Le chiese nazionali sono indipendenti fra loro, però molte si riconoscono
nella Federazione luterana mondiale. Comunque il Protestantesimo è diviso in
tantissime correnti.
Politicamente affermano una netta separazione del civile dal religioso.
LA STRATEGIA CULTURALE DELLA CONTRORIFORMA COME REAZIONE ALLA CULTURA
RINASCIMENTALE
E LA DEFLAGRAZIONE DELLA CULTURA LETTERARIA TRADIZIONALE
All'inizio del Cinquecento l'unità cattolica era stata incrinata dalla
Riforma Protestante (1517), che era nato anche perché Lutero non accettava
la mancanza di Cultura da parte del basso Clero. Alcuni sacerdoti di
campagna erano infatti analfabeti e non sapevano neppure leggere il Messale
e spiegare i passi principali della Bibbia; la Cultura religiosa aveva perso
quindi piede, dato che veniva meno la preparazione di coloro che , avrebbero
dovuto divulgarla.
Di contro la Cultura laica era molto più diffusa e stava assumendo una
egemonia, che prima era indiscutibilmente appartenuta alla Chiesa di Roma. I
laici si sentivano così culturalmente forti da uscire dal loro campo per
invadere gli ambiti propri della Chiesa: per esempio nel 1543 a Venezia fu
pubblicato il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso
verso i cristiani. La Chiesa non poteva tollerare che gli intellettuali
laici pretendessero di parlare di Verità cattoliche o che si arrogassero il
diritto di spiegare passi della Bibbia, perché erano compiti del Clero.
Tuttavia la ragione per cui i laici sentirono il bisogno di spiegare le
Sante Scritture era che non c'erano religiosi pronti a farlo, tanto più che
il momento storico era critico per quanto riguarda l'esegesi biblica: il
Protestantesimo infatti stava prendendo piede in maniera spaventosa e gli
intellettuali protestanti si stavano impegnando fortemente in un'opera di
propaganda della nuova religione di Lutero, che sosteneva che per
interpretare la Bibbia non c'era bisogno del Clero, ma ogni singolo credente
aveva la garanzia che grazie allo Spirito Santo avrebbe interpretato
rettamente ciascuna pagina delle Scritture.
La Chiesa di Roma non poteva permettersi di accettare passivamente una tale
situazione storica e culturale: nel 1545 fu convocato il Concilio di Trento,
primo passo della Controriforma cattolica. A causa di continui ritardi e
interruzioni fu solo nel '63 che Papa Pio IV promulgò un nuovo Indice dei
libri Proibiti, che oltre all'elenco dei libri considerati contrari alla
fede o alla moralità cattolica conteneva anche la spiegazione dei criteri di
giudizio. Ovviamente il Trattato del beneficio di Gíesù Cristo fu uno dei
primi a essere censurato e distrutto; l'autore invece era rimasto anonimo,
per cui non poté essere catturato dal Tribunale dell'inquisizione. Il testo
originale del libretto andò perduto, ma furono salvate alcune traduzioni
rimaste al di fuori dell'Italia. Furono condannate anche le traduzioni della
Bibbia in volgare italiano. Con la pubblicazione dell'Indice la Chiesa
sanciva definitivamente i limiti, entro cui i letterati dovevano muoversi, e
stabiliva chiaramente i rispettivi compiti di laico e secolare.
Un altro dei principali obiettivi della Controriforma fu poi di omologare la
Cultura di alto e basso Clero, poiché la Chiesa si era accorta che
effettivamente su questo Lutero aveva ragione ed era intollerabile che dei
Ministri di Dio fossero analfabeti. Perciò nel Concilio di Trento fu
approvata Istituzione di Seminari, che scavarono una profonda linea di
demarcazione fra gruppi intellettuali laici e clericali. I Seminari, vere e
proprie scuole per gli aspiranti sacerdoti, provvedevano a istruirli e
prepararli culturalmente e spiritualmente. Il Clero veniva in questo modo
sottratto agli influssi della Cultura laica rinascimentale, che poteva
essere troppo licenziosa e fuorviante. I novizi venivano educati solo agli
ideali controriformisti dell'ordine, della castità e del rigore la Cultura
ecclesiastica si staccava così dalla laicità e, rinunziandovi, ne diveniva
non solo indipendente, ma superiore. Gli intellettuali religiosi vollero fin
dal principio della Controriforma avere più influenza sul popolo rispetto ai
laici, per rispondere ai sostenitori del Protestantesimo dilagante.
La Chiesa attraverso varie innovazioni attuò una politica di propaganda dei
suoi princìpi, grazie alla definizione di regole per la predicazione e alla
fondazione di nuovo ordini, i cui compiti principali erano l'assistenza e
l'insegnamento. Il contatto fra persone ordinarie ed ecclesiastici era
garantito da frequenti visite pastorali, quaresimali, predicazioni
pubbliche: in questo modo la Chiesa era sicura di diffondere gli ideali
controriformisti, perché garantiva la sua presenza in tutti i momenti di
associazione popolare. L'intervento della Chiesa si attuò sulle Piazze,
nelle Cattedrali, nelle Curie e soprattutto nelle Scuole. Le modalità di
intervento sull'istruzione furono molteplici: per prima cosa
furono aperte varie scuole, rette da ecclesiastici, che perlopiù erano
destinate a giovani di bassa condizione e provenienti dalle campagne, o a
quelli le cui possibilità finanziarie non permettevano un'istruzione
elementare privata. Fu poi garantito un sistema scolastico per le classi
superiori, cui potevano accedere i giovani poveri ma dotati
intellettualmente; quelli che invece non erano portati per lo studio
venivano avviati a iniziative assistenziali per i bisognosi.
Anche il problema dell'interpretazione della Bibbia, che era uno dei
principali punti di rottura con i Protestanti, non venne trascurato: tutte
le letture filologiche delle Scritture furono rifiutate, affinché l'unica
lettura fosse quella rigida e letterale dei Chierici regolari. I laici che
invadevano il campo dell'esegesi biblica venivano costretti a fare marcia
indietro: è famoso l'episodio di Galileo Galilei, obbligato
dall'Inquisizione a firmare l'abiura nel 1633, poiché la sua teoria
dell'eliocentrismo contrastava con un passo biblico del Libro di Giosuè. La
Chiesa, di fronte al duro colpo della Riforma protestante, che la aveva
indebolita, stava facendo di tutto per ristabilire quell'egemonia
culturale. che con la fine del Medioevo era andata scemando.
E' chiaro che in una tale situazione la Cultura letteraria tradizionale si
trovò in una grave crisi: la Chiesa si mostrava così potente e sicura, che
al di fuori di essa tutto sembrava precario e instabile. Essa non si
limitava infatti a diffondere la sua. ideologia, ma la imponeva e difendeva
con metodi che non avevano nulla a che fare con lo spirito di tolleranza e
fraternità cattolica: il Tribunale dell'Inquisizione colpì duramente la
libertà di espressione filosofica e culturale. Fondato nel 1542 con la bolla
"Lícet ab initio" da Papa Paolo III sull'esempio spagnolo, il Tribunale
dell'inquisizione sradicò qualsiasi tendenza protestante in Italia ed
eliminò anche alcuni eretici. Giordano Bruno per esempio fu condannato al
rogo nel 1600 perché era stato accusato di diffondere dottrine contrastanti
con gli insegnamenti cattolici: la Chiesa, dopo la spaccatura con i
Protestanti, era così attenta a evitare ulteriori distaccamenti, che
soffocava tutti i possibili attentatori alla sua unità.
Galileo e Bruno sono solo due degli esempi di intellettuali (uno scienziato
e un teologo) additati dalla Chiesa come eretici; accanto a loro vengono
ricordati Tommaso Campanella e Francesco Pucci, tutti imprigionati dal
Sant'Uffizio. Per di più la loro condanna continuò per secoli: fu solo nel
1992 che Papa Giovanni Paolo II ammise l'errore compiuto dalla Chiesa contro
Galileo. Nei tempi della Controriforma, la cultura letteraria tradizionale
era in piena crisi, vincolata dai valori cattolici e non più autonoma,
libera di creare opere letterarie secondo i propri punti di vista.
Se la Chiesa era di fatto Istituzione più forte, tuttavia essa esercitava
la sua autorità facendo affidamento da un lato alla persuasione (con le
Scuole e i Seminari), dall'altro alla paura (con l'Inquisizione).
QUESTIONI TEORETICHE
IL TEOREMA DI LUTERO
Praticamente il teorema di Lutero si riduce a poche affermazioni:
in forza del peccato d'origine l'uomo ha una colpa indelebile, che nessuna
penitenza può cancellare;
per questa ragione, l'uomo deve vivere in una condizione di forte angoscia,
sino alla fine dei suoi giorni, poiché non può sapere se Dio vorrà salvarlo
nonostante il peccato.
Conseguenza di questo teorema:
vivere in uno stato di angoscia quotidiana è impossibile e
siccome tutto, in ultima istanza, dipende da Dio,
allora all'uomo è lecito comportarsi come meglio crede, affidandosi
esclusivamente alla propria coscienza.
Lutero, che ha distrutto le istituzioni in nome della coscienza individuale,
ha dovuto creare delle istituzioni ancora più forti, per impedire che il
primato di tale coscienza rendesse impossibile qualunque convivenza sociale
e civile.
La differenza fra Lutero e Kierkegaard sta proprio in questo, che mentre il
primo non è riuscito a restare fedele ai suoi principi, il secondo, per
restarvi fedele, ha dovuto scegliere la strada dell'irrazionalismo.
E così nei paesi protestanti l'individuo o si contrappone in maniera
anarchica allo Stato o considera lo Stato come una sorta di demiurgo, cui
prostrarsi senza discutere. Non c'è fra cittadino e Stato una vera società
civile, che riduca le distanze, ma solo, a seconda dei casi, insofferenza o
acquiescenza.
Lutero rifletteva il disagio di una società che di medievale ormai aveva
soltanto il nome, in quanto, di fatto, si stava imponendo il criterio di
vita borghese, basato sul profitto individuale.
Egli s'era reso conto che i valori medievali non riuscivano più a impedire
lo sviluppo della prassi borghese. Ecco perché si convinse che l'uomo era
irrimediabilmente peccatore. Egli aveva dato una risposta fatalistica (da
intellettuale isolato) a un problema di carattere sociale, che andava
affrontato in maniera sociale e politica.
Lutero, quando iniziò a fare politica, trasformò il proprio individualismo
in un puntello della reazione feudale. Egli era così fatalista che,
diversamente da altri leader protestanti, non si oppose neppure a tale
reazione.
I LIMITI DI LUTERO
Perché la Germania di Lutero non abbracciò subito il capitalismo? Perché
Lutero invitava alla sola emancipazione di coscienza, o quella intellettuale
dall'oscurantismo della chiesa romana. Calvino invece pretese anche quella
pratica, che fece appunto coincidere con l'attività economica borghese.
Lutero era moderno nelle idee religiose, ma medievale nella considerazione
della vita sociale. La sua liberazione dell'individuo doveva coincidere con
quella della coscienza interiore (con il pensiero -dirà più tardi Hegel).
Una volta costatata, contemplata l'oggettività delle cose, cioè la loro
necessità, la loro inevitabilità storica (che Lutero faceva risalire
direttamente a dio, e non ancora a un'astratta ragione, all'idea o allo
spirito assoluto), l'uomo doveva sentirsi pago di sé.
Il luteranesimo porta inevitabilmente al fatalismo (e al culto dello Stato),
poiché non ripone una particolare fiducia nel collettivo, cioè nelle masse
popolari. Il contributo del luteranesimo è stato quello di aver liberato
l'uomo dal peso di una tradizione culturale superata. Il limite nell'averlo
liberato solo sul piano intellettuale e soggettivistico. Lutero ha avuto
paura delle conseguenze delle sue stesse scoperte. Di qui il rifiuto di
appoggiare Müntzer.
Zwingli, Serveto, Melantone e Calvino diedero maggior peso alla cultura
umanistica, e meno a quella religiosa, perché erano più agnostici di Lutero.
Essi sono decisamente rivolti al futuro (borghese) e restano legati alla
religione o per un interesse di tipo politico (questo in Calvino è molto
evidente), o per timore di forzare troppo i tempi. Nessuno di loro ha mai
avuto l'idealismo di Lutero.
Zwingli, Serveto, Melantone e Calvino hanno cercato di attenuare l'idealismo
religioso di Lutero, servendosi della cultura umanistica, cioè sostituendo
il misticismo col razionalismo, ma nessuno di loro, sul piano laico, ha mai
raggiunto le vette che Lutero raggiunse sul piano religioso. Anche questo
era un segno di quei tempi. Solo nell'Italia umanistica e rinascimentale si
poteva fare di meglio, ma gli intellettuali italiani non avevano rapporti
con le masse, che consideravano troppo "cattoliche". Nessuno dei seguaci di
Lutero è mai stato così radicale da abbandonare ogni riferimento di metodo
alla religione, neppure dopo che la loro riforma conseguì i successi
sperati.
Resta comunque significativo che la riforma del luteranesimo (pur condotta
in modi diversi) abbia portato ad un'accentuazione del lato ateistico della
cultura umanistica (a prescindere dalla volontà degli stessi riformatori).
Lutero dunque, sul piano religioso, può essere considerato come l'iniziatore
più importante di quel moderno processo di secolarizzazione che porta
all'ateismo.
PROTESTANTESIMO E COSCIENZA DEL PECCATO
Una delle più grossolane ingenuità del luteranesimo è stata quella di aver
accentuato la "coscienza del peccato" nella convinzione che in tal modo il
credente protestante si sarebbe comportato meglio, sul piano morale e della
condotta personale, rispetto al credente cattolico (la cui moralità dipende
anzitutto -oggi come allora- dall'obbedienza alla gerarchia).
Il risultato della teoria della "coscienza del peccato" è stato opposto a
quello voluto: il protestante cioè, convinto di non avere in sé la forza
sufficiente per compiere il bene (in quanto irrimediabilmente impedito dal
"peccato d'origine" che grava, come una condanna, sulla coscienza di ogni
uomo, e quindi sulla stessa capacità di compiere il bene, e che si esprime,
a livello fenomenico, nell'egoismo sociale della società divisa in classi),
affida interamente alla "grazia di dio" il compito di salvarlo, riservando a
se stesso quello di costruire una morale positiva sulla base della volontà
soggettiva. Di qui l'inevitabile individualismo del protestante, unito a una
sorta di fatalismo "etico" (che poi lo porterà a credere ciecamente nelle
istituzioni).
Il protestantesimo, rispetto al cattolicesimo, è una forma d'ingenuità (la
fede della libertà nell'interiorità, a prescindere dalle condizioni
esterne), mentre il cattolicesimo, rispetto all'ortodossia, è una forma di
malizia (la fede della libertà nell'esteriorità: potere politico, economico
ecc., a prescindere dalle condizioni interne).
In tal modo Lutero, proprio mentre cercava di rendere migliore l'uomo, gli
toglieva i mezzi per poterlo diventare, cioè quei mezzi sociali e politici
(comunione dei beni, uguaglianza sociale ecc.) che aiutano a trasformare la
realtà, e che la chiesa cattolica, da sempre, si ostina a indicare nella
mera obbedienza alla gerarchia.
Il protestantesimo non ha fatto altro che legittimare sul piano
etico-religioso (l'idealismo lo farà su quello filosofico-politico) una
prassi, quella dello sfruttamento individuale (nobiliare o borghese che
fosse), sottraendolo al peso di un giudizio (ecclesiale, pubblico) di
condanna morale. Il calvinismo, in particolare, ha sottratto la prassi
borghese a qualunque giudizio etico.
Al borghese il calvinismo concede qualunque cosa, riservandosi di
riprenderlo moralmente quando l'abuso è già stato commesso e ha avuto una
rilevanza sociale. Il calvinismo è la religione dell'ultima ora, quella che
si può utilizzare nei momenti più drammatici (come la morte, una grave
malattia, una condanna penale o una catastrofe naturale, sociale,
militare...).
SUL CONCETTO DI PREDESTINAZIONE
Il protestantesimo, soprattutto nella sua forma calvinistica, perse molta
della propria rigorosità e specificità etico-religiosa man mano che le sue
fila s'infoltirono di elementi borghesi. La borghesia infatti era in grado
di assicurare sul piano giuridico quell'uguaglianza formale che i teorici
della Riforma pretendevano di garantire, in modo non meno formale, sul piano
religioso, con il concetto appunto di "coscienza del peccato". (Il
cattolicesimo invece garantiva l'uguaglianza nell'obbedienza alla
gerarchia).
Lo sviluppo borghese del protestantesimo non è solo una diretta conseguenza
delle teorie del "libero esame" e del "sacerdozio universale", ma è anche
una indiretta conseguenza della teoria sulla "predestinazione", che
apparentemente sembrava la più lontana dall'ottimismo borghese.
Il concetto luterano di predestinazione non ha nulla a che vedere con gli
analoghi concetti che avevano le religioni precristiane. Ad es. presso gli
aztechi esso era un concetto religioso che doveva infondere sentimenti di
rassegnata fiducia nella bontà divina, e comportava una prassi abitudinaria,
rigorosamente determinata dalla legge.
Viceversa, nel protestantesimo (soprattutto nel calvinismo) lo stesso
concetto è caratterizzato da un certo ateismo, poiché la prassi ch'esso
suscita è materialistica (capitalistica, se si considera il contesto
storico). Il borghese protestante cioè si sente destinato o alla salvezza o
alla condanna e, in virtù di tale consapevolezza, egli acquisisce il senso
della relatività delle cose, dei valori. Il concetto di "valore di scambio"
(come antitesi al "valore d'uso") poteva emergere solo in una cultura di
tipo protestante.
Di qui la decisione del borghese calvinista di vivere la vita con assoluta
libertà d'iniziativa. Il suo dio è del tutto soggetto a un ragionamento di
tipo logico e individualistico. Il fatto è che se l'uomo è predestinato alla
salvezza o alla condanna, diventa ad un certo punto irrilevante il suo
comportamento sulla terra, anche se l'idea originaria di Lutero era proprio
quella d'indurre nel soggetto, incerto sulla propria fine ultraterrena, un
sentimento di angoscia esistenziale e di scrupolo religioso. Lutero non
poteva immaginare una conseguenza del genere, ma essa è implicita nella sua
teoria.
Inevitabilmente, il borghese, essendo legato a un'attività economica la cui
riuscita è inversamente proporzionale al livello etico di responsabilità con
cui la gestisce, diventa il tipo ideale di quella fede religiosa non più
sicura di sé e che però vuole togliere a chiunque ogni sicurezza etica e
religiosa. Se manca l'oggettività del giudizio, in quanto tutto è rimesso
alla "volontà di dio", il borghese si sente autorizzato ad agire come meglio
crede.
L'indifferenza ideologica della borghesia in materia di religione (nel senso
che il borghese non crede nell'oggettività del giudizio), la si può
riscontrare anche in questo singolare fatto, che i Paesi europei più
calvinisti nella pratica (Francia, Inghilterra...), erano anche quelli che,
ufficialmente, continuavano a professare il cattolicesimo.
PROTESTANTESIMO E LAVORO
Perché il protestantesimo ha dato così tanta importanza al lavoro?
Perché quando si afferma l'individualismo e quindi la fine della comunità
cristiana, l'unico modo che l'individuo ha di sopravvivere senza cadere
nella miseria è quello di lavorare duramente, anche a costo di rinunciare
alla propria dignità umana.
Il protestantesimo, sotto questo aspetto, ha saputo magnificamente
legittimare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Col primato assegnato al lavoro, il credente veniva a trovare la propria
identità nel guadagno accumulato, cioè nella possibilità di acquistare dei
beni di consumo, o comunque nella sicurezza di non aver bisogno dell'altrui
solidarietà.
Quando nel Genesi si dice, all'Adamo peccatore: "Lavorerai col sudore della
tua fronte", s'intende proprio questo, che il lavoro, nell'ambito di un
sistema antagonistico, diventa nello stesso tempo fonte di ricchezza e
attività incredibilmente faticosa, appunto perché svolta secondo criteri
individualistici.
UN'UNICA EUROPA PROTESTANTE
Uno storico dovrebbe considerare come altamente probabile l'ipotesi che se
la Spagna non fosse diventata feudale in un momento in cui le altre nazioni
stavano diventando capitalistiche, e se non avesse avuto la fortuna di
scoprire e di poter saccheggiare impunemente un nuovo continente, fornendo
così la base materiale e finanziaria alle idee retrive e neo-feudali di
Carlo V e Filippo II, la Controriforma non ci sarebbe neppure stata, o non
avrebbe avuto una chiusura integralistica così fanatica, una forza politica
così aggressiva nella penisola iberica, in Italia, nell'impero
austro-ungarico e in altri Stati ancora.
In luogo di un'Europa divisa in due religioni avremmo avuto un'unica Europa
protestante, nel senso che il cattolicesimo avrebbe fatto la fine
dell'ortodossia in occidente. Naturalmente le nazioni cattoliche sarebbe
state colonizzate da quelle protestanti. Non bisogna infatti dimenticare che
tutte le guerre di religione condotte sulle terre protestanti, sarebbero
state facilmente vinte dai protestanti se i cattolici non avessero potuto
beneficiare dell'oro americano. Una volta vinta la guerra di religione, le
forze protestanti e capitalistiche avrebbero inevitabilmente occupato le
terre cattoliche e feudali (come poi in effetti cercheranno di fare, prima
degli Stati Uniti, la Francia e l'Inghilterra).
CATTOLICESIMO, PROTESTANTESIMO E CAPITALISMO
La Scolastica è una filosofia cristiana che pur avendo rotto completamente
con la tradizione del pensiero patristico, non portò alla nascita del
capitalismo. Questo perché sul piano politico essa è sempre stata una
filosofia conservatrice.
La Scolastica ha rappresentato una laicizzazione del cristianesimo, sul
piano culturale, ma senza riuscire a mettere in discussione l'autorità
politica del papato.
Perché invece il protestantesimo ebbe la forza politica di porsi in
alternativa all'autorità politica del papato? Semplicemente perché la
Scolastica aveva aperto, sul piano della riflessione filosofica, delle porte
così importanti che non era più possibile tenerle chiuse con l'autoritarismo
clericale.
E' dunque stato il cattolicesimo-romano che ha spianato, a livello
culturale, la strada alla radicalizzazione protestantica, anche se i frutti
di questo lavoro intellettuale gli si sono rivoltati contro sul terreno
politico.
Non dobbiamo infatti dimenticare che uno dei grandi "meriti" del
cattolicesimo, ai fini della realizzazione del capitalismo ("meriti" quindi
del tutto inintenzionali), è stato quello di aver rotto i ponti, seppur non
in maniera radicale, con la tradizione comunitaria del mondo ortodosso.
Cos'è che fa diventare "borghese" una persona religiosa? E' la crisi della
sua stessa religione.
Ma perché questa persona diventi veramente "borghese", senza soluzione di
continuità, cioè non aspiri soltanto a diventarlo o non lo diventi solo per
un breve periodo di tempo, è necessario che mille, diecimila persone
religiose diventino, più o meno contemporaneamente, "borghesi". E perché ciò
accada occorre che la crisi della religione sia acuta, profonda,
assolutamente irrisolvibile con mezzi e metodi tradizionali.
Ecco perché il capitalismo, prima di affermarsi con successo, a partire dal
sec. XVI, su ogni altra formazione sociale, ha avuto bisogno di almeno mezzo
millennio di gestazione. Come ne ebbe bisogno il cristianesimo, prima di
diventare con Teodosio, la religione di stato. Il cattolicesimo-romano ha
avuto il suo ruolo decisivo per tutto il basso Medioevo.
Le prime forme di capitalismo commerciale sono nate in Italia, nell'ambito
comunale, ma l'incapacità di trasformare queste forme in un'occasione di
battaglia politica radicale contro il papato, ha fatto sì che quest'ultimo
riuscisse a frenare lo sviluppo capitalistico dell'Italia per molti secoli.
Evidentemente il cattolicesimo italiano aveva già fatto abbastanza...: i
suoi sforzi colossali di por fine all'esigenza comunitaria di liberazione
(ribadita, per un certo tempo, dai movimenti ereticali) dovevano essere
ereditati da quella parte di cattolicesimo che, per tradizione, era rimasto
più legato all'individualismo del paganesimo.
Per realizzare un sistema capitalistico vero e proprio occorre che venga
rivoluzionato il modo di produzione, non è sufficiente l'espansione dei
commerci. Nel basso Medioevo l'Italia fu una grande potenza commerciale, ma
questo non le fu sufficiente per trasformarsi in nazione capitalistica: il
primato produttivo spettò sempre all'agricoltura. Il capitalismo commerciale
fu tollerato dal potere costituito (clerico-nobiliare) appunto perché sul
piano produttivo dominava l'agricoltura feudale.
Quando i commerci si furono sviluppati al punto da rendere quasi inevitabile
una Riforma protestante, la chiesa passò al contrattacco, sferrando un colpo
demolitore con la Controriforma, che fece ripiombare improvvisamente
l'Italia nel buio del peggior integralismo politico-religioso.
In Italia ci fu la Controriforma prima ancora di qualunque Riforma. Ci
furono, è vero, correnti ereticali, movimenti culturali laici, progressi
tecnico-scientifici, filosofie più o meno agnostiche..., ma tutto ciò non
riuscì a coagularsi attorno a un progetto politico rivoluzionario
anti-feudale (almeno sino alla metà del XIX secolo). Ecco perché la chiesa
romana poté avere la meglio sulla nazione più sviluppata d'Europa.
Gli intellettuali più progressisti non seppero organizzare una Riforma
religiosa popolare semplicemente perché avevano sopravvalutato le forze del
loro sviluppo culturale e sottovalutato le forze retrive della chiesa
romana.
In virtù di questa sconfitta oggi sappiamo che per rivoluzionare il modo di
produzione di una qualunque società occorre una rivoluzione culturale che
rompa progressivamente i ponti col passato e una politica che ad un certo
punto li rompa drasticamente, per superare le inevitabili resistenze di chi
sta al potere. Di qui la grande importanza della Riforma protestante.
Il primato dunque spetta sempre alla politica, perché se è vero che
l'innovazione teorico-culturale può precedere l'impegno politico, è anche
vero che senza una battaglia politica radicale è impossibile trasformare
qualitativamente la società. Non bastano neppure le progressive
trasformazioni quantitative che avvengono sul terreno socio-economico. Tali
trasformazioni, infatti, ad un certo punto si scontrano con dei poteri
politici regressivi, che devono essere assolutamente sconfitti se si vuole
che quelle trasformazioni abbiano maggior respiro.
Con ciò naturalmente non si vuole affatto sostenere che il capitalismo sia
meglio del feudalesimo, o che alla crisi del feudalesimo dovesse
necessariamente seguire uno sviluppo capitalistico della società. Si vuole
semplicemente sostenere che quando si pongono in essere elementi di forte
discontinuità culturale col passato, diventano poi inevitabili, in un modo o
nell'altro, determinate conseguenze pratiche.
E' per questa ragione che nei confronti della memoria storica bisognerebbe
avere un rispetto molto più grande di quello che normalmente caratterizza la
cultura occidentale.
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