CATTOLICI E PROTESTANTI A CONFRONTO
Si dice che il protestantesimo abbia una concezione individualistica
dell'essere umano: in realtà il cattolicesimo non gli è da meno.
La differenza sta in questo, che i cattolici racchiudono quella che per loro
è l'impotenza umana a compiere il bene nella sfera nella subordinazione
politica al papato, mentre i protestanti, rinunciando all'ideale di
perfezione socio-religiosa che il cristianesimo ha sempre predicato (cioè la
società tutta cristiana), si disperdono nella vita della società borghese,
affrontando o con angoscia (se onesti) o con incredibile superficialità i
loro problemi esistenziali. Un protestante, essendo un individualista, è
sempre un anarchico con tendenze estremiste (quando non è acquiescente alla
volontà dello Stato, che per lui in un certo senso sostituisce la chiesa).
I cattolici credono in un ideale assoluto e, pur sapendo di non poterlo
realizzare (poiché, secondo loro, il "paradiso" è solo "nei cieli"), si
affidano, come pecore, all'autorità del loro supremo pastore; i più fanatici
attendono con impazienza i segni dell'apocalisse; la maggioranza, di fatto,
vive come i protestanti, cioè in modo conforme all'ideologia borghese,
benché sul piano sociale i cattolici siano meno individualisti o meno
statalisti dei protestanti, i quali appaiono, di primo acchito, più
organizzati e disciplinati dei cattolici semplicemente perché hanno
sacrificato una parte del loro individualismo alle esigenze dello
statalismo: essi non riescono a concepire l'adesione a una chiesa in
funzione antistatalista, come invece accade nei cattolici, specie nelle
frange integraliste.
Ormai l'unico simbolo rappresentativo della religione cattolica ufficiale è
rimasto il papato. In lui si realizza, maxime, la concezione
individualistica che i cattolici hanno dell'essere umano.
In effetti, è una peculiarità tipica dei cattolici quella di vivere
socialmente la religione (si pensi alla vita parrocchiale,
all'associazionismo giovanile, al volontariato, al movimento cooperativo, al
folclore, alle feste paesane.) e di avere nello stesso tempo un culto
individualistico ancora così forte per una persona che assomiglia a un
monarca, autoritario e addirittura infallibile. Normalmente l'autoritarismo
è figlio dell'individualismo e in effetti i cattolici sono individualisti
sul piano politico, cioè credono nella superiorità della gerarchia,
subordinano il concilio al papato, il vescovo domina nella diocesi ecc.
I cattolici sono medievali sul piano politico e non riescono a essere
moderni (cioè individualisti) come i protestanti sul piano sociale, anche se
oggi si può dire che i cattolici siano sempre più protestanti sul piano
sociale e sempre meno cattolici su quello politico. Questo è frutto di una
competizione impari tra capitalismo e cattolicesimo romano.
***
Una contraddizione insostenibile della chiesa cattolica, quella per cui, in
ultima istanza, è nato il protestantesimo, è rappresentata dalla seguente
domanda: se la natura umana è necessariamente incline al male, al causa del
peccato d'origine, come potrebbe essa restare fedele a un ideale assoluto,
oggettivo, teologicamente perfetto e immutabile?
"Non può" - questa la risposta dei protestanti, i quali hanno aggiunto che
la salvezza dell'uomo, stando le cose in termini così drammatici, dipende
solo da dio, mentre sul piano pratico ogni azione umana, nei limiti del buon
senso (che è ovviamente elastico), è lecita.
I cattolici invece insistono nel sostenere che l'uomo, benché condizionato
da quel peccato, può ugualmente essere perfetto: gli è sufficiente obbedire
alla gerarchia ecclesiastica e, soprattutto, al papato, vero deus
ex-machina. Essi cioè hanno risolto in maniera politico-autoritaria un
problema che non sono riusciti a risolvere in maniera socio-democratica.
Come si può notare, i protestanti non sono un'alternativa convincente alla
limitata soluzione cattolica, poiché, invece di affrontare il problema
ponendo un nuovo criterio per vivere i rapporti sociali, si rifugiano
nell'interiorità della loro coscienza, accettando la prassi sociale
dominante, che è quella borghese, e, siccome questa crea più problemi di
quanti ne risolva, si affidano ingenuamente all'autoritarismo statale (la
fiducia in questo tipo di autoritarismo è tanto più forte quanto più forti
sono gli antagonismi sociali).
La posizione protestantica, in ultima istanza, vanifica completamente il
primato della coscienza interiore, che in origine si era voluto porre in
contrasto al formalismo e all'autoritarismo della prassi cattolico-romana. I
protestanti hanno puntato la loro attenzione sulla libertà individuale e
sono diventati i più conformisti di tutti.
Tuttavia, se il protestantesimo ormai non ha più niente da dire al mondo
moderno, il cattolicesimo occidentale si pone ancor più fuori della storia.
Da un lato infatti si ostina a non concedere alcuna autonomia di pensiero al
laicato cattolico; dall'altro invece è costretto a constatare che
nell'ambito della società civile esso viene rifiutato per motivi non solo di
ordine politico, ma anche di ordine etico, in quanto il cittadino chiede una
separazione non solo istituzionale (fra Stato e chiesa), ma anche morale
(fra dogmi religiosi e concezione laica della vita).
L'unica speranza di sopravvivenza del cattolicesimo sta nella Teologia della
liberazione del Terzo Mondo. Ma questa teologia, portata alle sue logiche
conseguenze, è destinata a trasformarsi in una forma di socialismo
democratico.
PROTESTANTESIMO E CAPITALISMO
Il protestantesimo era l'ideale per il capitalismo del XVI secolo. Togliendo
all'uomo il senso "oggettivo" del peccato,
esso ha fatto del dio assoluto del mondo cattolico (coi suoi dogmi,
tradizioni, concili, gerarchia, papato...) una proiezione soggettiva del
singolo credente.
All'inizio il protestantesimo ha potuto affermare, a buon diritto, il valore
della coscienza soggettiva del peccato, di
fronte al formalismo di una religione (quella cattolica) che presumeva di
togliere ogni peccato attraverso l'espiazione
della colpa (pena e penitenza) o addirittura attraverso la compravendita
delle indulgenze. Ma subito dopo questa intelligente protesta, la Riforma è
caduta nell'arbitrio, non tanto per aver negato valore normativo a qualunque
mediazione ecclesiale che non fosse l'esperienza settaria messa in piedi
dallo spontaneismo più estremo, quanto per aver indotto i credenti ad
accettare nel loro individualismo i criteri di vita della prassi borghese,
al punto che per impedire proteste e rivoluzioni sociali in direzione del
socialismo (anzitutto agrario) si è stati costretti ad usare fortissime
repressioni.
La fede di questo credente post-feudale, dovrebbe restare, in teoria,
"angosciata" fino al giorno della sua morte, poiché egli non può sapere con
sicurezza se dio lo salverà. Anzi, di più: non solo le "opere" non
potrebbero servire a giustificare la coscienza del credente protestante, ma,
in definitiva, neppure la sua "fede", perché senza la "grazia divina" la
fede è impotente (qui sta il passaggio dal luteranesimo al calvinismo, che è
la vera religione del capitalismo). L'uomo dunque è predestinato o alla
salvezza o alla condanna. Se non ha fede, di sicuro è condannato; se ce l'ha
può solo sperare d'essere salvato.
Il protestantesimo prima ha privatizzato la fede, abolendo il valore
giustificativo delle opere (esso infatti afferma che si
possono compiere "opere buone" con una "coscienza cattiva", allo scopo
appunto di dimostrare agli altri che si è apparentemente "buoni"); poi ha
permesso l'agire individuale più anti-religioso, col pretesto che nessuno
può sindacare le intenzioni della coscienza. Se infatti le "opere" non
contano, poiché conta solo la fede nella grazia divina, allora opere e fede
marciano separate, al punto che, nei limiti della fede, ogni opera è
permessa.
Nei limiti di una fede individuale, necessariamente fragile, incoerente,
debole, le opere non religiose che di fatto si compiono sono molte di più.
La religione non è più un ostacolo alla prassi borghese di vita. In questo
senso il protestantesimo rappresenta un progresso verso la laicizzazione dei
costumi e verso l'ideologia ateo-scientifica, ma solo in questo senso,
poiché nella scelta a favore dell'individualismo esso non può superare i
limiti della religione.
Non si può dire però, con Weber, che il protestantesimo abbia determinato o
condizionato o promosso, in prima istanza, l'agire borghese. Si deve
piuttosto dire che se il sistema borghese aveva bisogno di una religione per
affermarsi socialmente, questa non poteva essere che il protestantesimo e
che questo, affermandosi, ha indubbiamente favorito il capitalismo. Cioè da
un lato il protestantesimo è stata la religione che meglio si è adeguata
all'agire borghese (Marx nel Capitale parla di "corrispondenza",
"conformazione", salvaguardando il primato, in ultima istanza, dei rapporti
sociali produttivi); dall'altro il protestantesimo, con la propria
ideologia, ha permesso al capitalismo di svilupparsi in maniera molto più
spedita, senza le riserve feudali della chiesa romana.
Come già detto, la soluzione dell'individualismo religioso era diventata,
col tempo, così insostenibile (impraticabile) per il credente protestante,
che ad un certo punto si avvertì la necessità di delegare ampi poteri allo
Stato. Nelle società borghesi di religione protestante, la coscienza laica
(quella che separa le opere dalla fede) ha permesso di affidare allo Stato
poteri incomparabilmente maggiori rispetto a quelli della Chiesa cattolica.
La nascita delle monarchie nazionali e dell'imperialismo di queste monarchie
può essere letto come il tentativo di far sopravvivere il protestantesimo
con l'appoggio dello Stato. Le uniche due eccezioni, in tal senso, sono
rappresentate da Spagna e Portogallo che optarono per l'imperialismo
soltanto per non soccombere all'avanzare dei paesi protestanti e che in
questo tentativo, non avendo maturato una mentalità protestante (l'unica
veramente adatta per il profitto capitalistico), fallirono miseramente. Come
fallì l'Italia sotto il fascismo.
In Italia il protestantesimo non si è sviluppato come in Germania,
Inghilterra, Svizzera, Paesi Scandinavi, Stati Uniti..., semplicemente
perché la borghesia, essendo divisa in tanti principati e signorie, cercò
subito (nel XVI secolo) un compromesso con la chiesa cattolica. Da noi la
borghesia era ricca e divisa, e anche se sostanzialmente agnostica o
deistica, in materia di religione, i suoi interessi erano meno radicali che
nel resto d'Europa. Ecco perché la nostra borghesia è stata protestante
nella prassi e cattolica nell'ideologia, seppur senza convinzione. Ecco
perché allo Stato borghese si è sempre contrapposta in Italia una forte
chiesa cattolica.
La caverna scolpita di Dénezé-sous-Doué
A sud della Loira, nei pressi di Saumur, in una regione in cui l'estrazione
intensiva del tufo e del falun (sabbia conchiglifera) ha prodotto
innumerevoli cavità, moltissime delle quali sono state trasformate in
abitati trogloditici di pianura, esiste un villaggio chiamato
Dénezé-sous-Doué.
Il sito venne scoperto per la prima volta nel 1663 dall'abate di Dénezé,
che però fece murare l'ingresso giudicando "eretiche" quelle sculture.
Nel 1740 un altro curato, scavando delle buche nel terreno per piantare
alberi da frutta, ruppe la volta della caverna e scoprì delle "teste
scolpite d'aspetto antico".
Il decano di Doué ne asportò alcune facendo nuovamente chiudere questo
tempio giudicato "pagano", e spedì una lettera al vescovo di Angers
informandolo dell'accaduto.
Più di un secolo dopo, l'archivista di Angers, Celestin Port, ritrovò quella
lettera e si recò sul posto per verificare di persona. La caverna gli
apparve strana ma non più di tanto e fissò una data approssimativa delle
sculture al XVIII secolo.
Nel 1956 J. e C. Fraysse, orientati dagli scritti di Port, si recarono in
quei posti e scattarono alcune foto, che poi vennero pubblicate nel 1964 in
un libro sui trogloditi dell'Anjou (si ricordi che con questo termine i
francesi intendono chiunque viva o abbia vissuto in grotte o caverne).
L'anno dopo alcuni specialisti erano già sul posto per controllare la natura
e l'autenticità del reperto artistico.
Nel 1968 l'abate P. Nollent intervenne presso il Ministero dei beni
culturali al fine d'assicurare la tutela del sito, e l'anno dopo la caverna
fu inclusa nell'inventario dei monumenti storici della Francia.
Dal '74 al '76 avviene il primo restauro della grotta grazie all'intervento
di una compagnia specializzata e con l'aiuto di numerosi volontari di
Dénezé.
Centinaia di personaggi scolpiti vengono alla luce, migliaia di frammenti
sono raccolti. Un'apposita intelaiatura sostituisce la volta sfondata.
Nel 1977 il sito viene aperto al pubblico. Dal '78 ad oggi tutti gli sforzi
sono stati indirizzati alla salvaguardia di questo prezioso gioiello, che
rischia di essere rovinato da vari processi di degrado (ad es. la luce del
giorno favorisce la proliferazione di muschio, alghe, ecc.; gli scoli
dell'acqua dei terreni limitrofi hanno fatto registrare la presenza nella
grotta di nitrati organici d'origine animale).
In assenza di testi scritti e di tradizione orale, la datazione di
quest'opera, unica nel suo genere, ha sollevato numerose polemiche. Dopo
laboriose ricerche sembra che si possa farla risalire alla seconda metà del
XVI sec.: lo indicano dettagli significativi come i vestiti, le acconciature
dei capelli e gli strumenti musicali:
una mandòla, l'antenata del mandolino, attesta p. es. l'influenza del
Rinascimento italiano in Francia;
un curioso décolleté che mostra i seni nudi (detto "alla veneziana") apparve
alla corte di Carlo IX sin dal 1561;
il colletto plissettato, la cui moda si diffuse in Francia al ritorno di
Francesco I dalle guerre in Italia;
le mutande femminili, ricalcate sul modello dei calzoni maschili e dotate di
bretelle (invenzione rivoluzionaria d'origine veneziana), introdotte in
Francia da Caterina dei Medici;
il nastrino di velluto nero della vedovanza, pendente sulla fronte: una moda
introdotta dalla stessa Caterina dopo la morte del marito Enrico Il
(avvenuta nel 1559) per distinguersi dalla sua rivale Diana di Poitiers,
precettrice e in seguito amante del defunto re, che portava con troppa
ostentazione il lutto.
Vi sono molti altri indizi che aiutano a datare il complesso scultoreo. Fra
i più interessanti è la presenza di due indios, con tanto di copricapi
piumati. Uno è nudo, seduto con le braccia incrociate; l'altro presenta un
volto con zigomi sporgenti, naso adunco e occhi socchiusi.
Il primo indio conosciuto in Anjou fu Essoméric, portato dal Brasile nel
1505; nel 1521 egli aveva sposato una angioina in seconde nozze.
Verso la metà del XVI secolo altri indios furono introdotti in Francia. Il
pannello scolpito, meglio conservato, evoca una sorta di "pietà"
michelangiolesca.
Al centro vi è una croce cristiana brandita come un'ascia e in parte infatti
lo è; a sinistra un gruppo di quattro figure: una donna, un vecchio e un
bambino seduto che tengono sulle loro ginocchia una persona stesa, a mo' di
deposizione dalla croce.
Alcuni particolari tuttavia sconcertano: il giacente non è morto, poiché
tiene il braccio della donna; questa, pur portando ornamenti da lutto, è
nuda fino alle cosce.
Un documento della Biblioteca Nazionale ha permesso agli studiosi di
scoprire il senso caricaturale di questa scena: il testo è un pamphlet
intitolato "Il risveglio dei francesi e dei loro vicini".
Esso riporta un avvenimento verificatosi nel 1560 durante il breve regno di
Francesco Il (1559-1560). Dopo la cospirazione d'Amboise ordita dai
protestanti e sventata dai Guisa, la repressione fu severa. Chi si trovò in
qualche modo coinvolto fu impiccato o decapitato.
Il papa Pio IV, soddisfatto di questo esempio dato dalla Francia, inviò a
sua nipote, Caterina dei Medici, un'opera di Michelangelo a titolo di
ringraziamento. Si trattava in realtà di una riproduzione disegnata della
famosa Pietà della cattedrale di Firenze, gruppo scolpito nel marmo e
comprendente Giuseppe d'Arimatea, la Vergine e S. Giovanni bambino, che
tiene il corpo di Cristo prima che lo si deponga nella tomba.
Il religioso che doveva portare questa tela a Blois cadde vittima della
peste e la Pietà passò fra le mani d'un mercante protestante che giurò sulla
Bibbia di consegnarla personalmente a Caterina dei Medici. Il che in effetti
avvenne, ma solo dopo che i suoi correligionari avevano modificato il
disegno originale.
A Blois, in occasione d'un sontuoso pranzo, la tela venne srotolata e
mostrata agli invitati, i quali rimasero allibiti. La Vergine era nuda e
somigliava molto alla stessa Caterina; al posto di Giuseppe d'Arimatea si
riconosceva il cardinale di Guisa, e la giovane regina Maria Stuart (sposa
di Francesco Il e nipote dei Guisa) figurava in luogo dell'apostolo
Giovanni. Sulle loro ginocchia il Cristo era diventato Francesco II, il
giovane re moribondo, e nell'angolo del disegno la croce s'era trasformata
in una scure.
La caricatura politica era osée ma chiara: dietro un re malconcio i
cattolici governavano la Francia con la scure e non con la croce. I Guisa,
privi di umorismo, non apprezzarono la satira e fecero immediatamente
distruggere la tela. Ma il pamphlet anonimo evidentemente non fu
dimenticato. Difficile però dire in che modo i tagliatori di pietra di
Dénezé ne vennero a conoscenza: forse attraverso la mediazione del loro
maestro, un certo Pierre d'Angers, che aveva soggiornato alla corte di
Blois.
Il pamphlet era firmato con uno pseudonimo rivelatore: Eusebio Filadelfia
Cosmopolita, libertario. E libertari, generalmente, i tagliatori di pietra
di Dénezé lo erano. Anzi, stando ad alcune scene erotiche, erano anche
"libertini".
Nel 1568 il villaggio di Dénezé, situato nei pressi della chiesa e popolato
prevalentemente da artigiani, tessitori e tagliatori di pietra, era stato
distrutto da mercenari dell'esercito protestante: solo la chiesa s'era
salvata.
I trogloditi della cave di Dénezé erano forse organizzati in una comunità
comprendente cattolici, protestanti e alcuni ebrei, esente da forme di
proselitismo.
I tagliatori di pietra costituivano un'associazione libertaria (al di sopra
delle religioni e delle razze), ma nel 1539 i divieti di Viller-Cotterets
che abolivano le corporazioni di mestiere li obbligarono a entrare nella
clandestinità. Non potendo riunirsi ufficialmente, essi lo fecero
sottoterra, esprimendo il loro talento sulle pareti della caverna.
Questo esempio unico d'arte popolare contestatrice e clandestina ha potuto
sopravvivere per molto tempo solo in virtù dell'appoggio più o meno
esplicito del villaggio intero.
Il curato dell'epoca, Nicolas de la Planche, concesse ai tagliatori di
pietra una cappella in cui il culto cattolico e quello protestante venivano
celebrati a turno: un sorprendente esempio di ecumenismo in piena guerra di
religione.
Le ricerche degli studiosi ancora oggi proseguono al fine di individuare le
radici profonde dell'ideologia di questa confraternita marginale, che sembra
aver poco in comune con le tradizionali associazioni massoniche e
corporative.
SALEM E LA CACCIA ALLE STREGHE:
La stregoneria non è una credenza le cui origini si perdono nel tempo, e
neppure una superstizione. E' piuttosto una rappresentazione del mondo e
delle forze invisibili che lo animano. Il sabba, i grandi processi
dell'Inquisizione e i roghi, le cui immagini ci colpiscono ancor oggi, hanno
una storia che ha un inizio e una fine.
A partire dal Medioevo, infatti, la Chiesa si preoccupò di ricondurre
all'ortodossia gli eretici, esaminando e stroncando, con l'istituzione del
tribunale dell'Inquisizione, tutti i fenomeni di devianza dottrinale.
Ufficialmente la "grande caccia alle streghe" venne bandita da Innocenzo
VIII, il 5 dicembre 1484, con la bolla Summis desiderantes affectibus in cui
si pronuncia sul fenomeno: "Abbiamo ultimamente saputo, con afflizione, che
in molte località, città, territori, regioni e diocesi della Germania .
parecchie persone, uomini e donne, incuranti della propria salvezza e sviati
dalla vera Fede, si danno ai diavoli incubi e succubi. Mediante formule,
incantesimi, scongiuri o altro abominevole sortilegio criminale operano
affinché le donne abortiscano e siano isteriliti, soppressi e distrutti i
feti degli animali, i prodotti della terra, l'uva delle viti, i frutti degli
alberi".
Della caccia furono protagonisti i frati domenicani Jakob Sprenger ed
Heinrich Institoris, gli autori del trattato Malleus maleficarum (Il
martello delle streghe), il testo ecclesiastico ufficiale della persecuzione
contro le streghe. I roghi si accesero in tutta Europa. Fu come l'inizio di
una persecuzione che si trascinò per molto tempo e travolse soprattutto
donne accusate di aver rinnegato la fede cristiana per il demonio,
compiendo, in suo nome, terribili malefici contro il genere umano.
Ma chi erano le streghe e perché erano soprattutto donne? Alla questione
rispondono gli autori del Martello quando affermano che le donne "sono
difettose di tutte le forze, tanto dell'anima quanto del corpo; [.] sembrano
appartenere a una specie diversa da quella degli uomini . e in effetti come
conseguenza del loro primo difetto, quello dell'intelligenza, sono più
portate a rinnegare la fede; come conseguenza del secondo, e cioè delle loro
inclinazioni e passioni smodate, studiano, escogitano varie vendette, sia
attraverso stregonerie sia in qualunque altro modo. Non c'è quindi da
stupirsi se in questo sesso c'è tanta abbondanza di streghe".
I due inquisitori spiegano meglio, rifacendosi anche a citazioni
classiche: "La ragione naturale è che essa è più carnale dell'uomo, come
risulta in molte sporcizie carnali. Si può notare che c'è come un difetto
nella formazione della prima donna, perché essa è stata fatta con una
costola curva, cioè una costola del petto ritorta come se fosse contraria
all'uomo. Da questo difetto deriva anche il fatto che, in quanto animale
imperfetto, la donna inganna sempre. Dice infatti Catone: "Quando piange,
una femmina tende insidie con le sue lacrime/ quando piange, una femmina sta
pensando al modo per imbrogliare l'uomo".
L'ottica antifemminista che vi prevale non è, in realtà, teologicamente
nuova, ma la donna è diventata qui l'intermediaria tra l'uomo e il demonio.
Siamo alla conclusione di un processo di "demonizzazione" femminile iniziato
secoli prima, che ricorre con frequenza nelle satire, nei "fabliaux"
medievali, nella trattatistica ascetica, mentre contemporaneamente in molti
trattati del XV e XVI secolo si discute sul suo ruolo nella vita coniugale.
Il male sta nel nome stesso della donna: "Femina dicitur a fe et minus, quia
semper minorem habet et servat fidem", sostengono gli inquisitori e perciò
maggiormente soggetta alle seduzioni del demonio.
La donna fa paura: i medici non conoscono quasi nulla della fisiologia del
corpo femminile e i teologi, lo abbiamo visto, la considerano un essere
incostante che bisogna sorvegliare. Dal punto di vista giuridico, infine,
essa è sotto la tutela del padre, prima, e del marito, poi. Solo con la
vedovanza acquista una relativa autonomia, ma il suo riconoscimento sociale
è messo in discussione forte ed è forte il rischio della marginalizzazione.
Il problema della stregoneria si intreccia dunque con quello del ruolo della
donna nella società cristiana.
In effetti, quelle che vengono colpite dalle accuse di stregoneria sono in
genere donne sole o vedove che hanno acquisito una relativa autonomia,
oppure anziane, che conoscono le proprietà curative delle erbe medicinali
(le "medichesse") o, ancora, levatrici, che assistono nei parti difficili o
aiutano ad interrompere gravidanze indesiderate. Si tratta di figure che
occupano una posizione sociale al limite dell'irregolarità, in una società
in cui la donna vede riconosciuta e giustificata la sua esistenza solo
all'interno di una famiglia.
Appartiene a questa categoria femminile anche Benvenuta Pincinella di Nave,
la cui vicenda è esemplare per la ricostruzione degli atteggiamenti mentali
dei contemporanei sulle streghe.
Benvenuta ha sessant'anni, quando denunciata per stregoneria, viene condotta
davanti all'inquisitore di Brescia per sottoporsi all'interrogatorio. La
donna ha già subito in precedenza un altro processo, concluso con un'ammenda
e con l'obbligo di indossare un abito da penitente davanti alla chiesa di
Nave, paesino della Valcamonica, e di non esercitare la sua "arte medica".
Questa volta però -siamo nel 1518- le accuse sono circostanziate e aggravano
ulteriormente la posizione dell'imputata, la quale non solo non ha smesso di
praticare i suoi rimedi, ma ha addirittura guarito la figlia di un nobile
della città.
Seguendo le procedure del Malleus, vengono registrate dal notaio le
testimonianze, rigorosamente anonime e il processo segue la prassi usuale:
la donna viene rasata nel corpo alla ricerca del bollo, l'infamante marchio
diabolico, (poteva essere semplicemente un neo o una particolare macchia
della pelle che si dimostrasse insensibile al dolore), si utilizza poi la
tortura come mezzo di confessione rapida dei malefici, segue, infine,
l'interrogatorio.
Le deposizioni pervenute di questo processo ci restituiscono i dati
biografici e la personalità dell'imputata, altrimenti scarni. Sono sequenze
in cui la realtà e la fantasia si fondono, lasciando emergere un complesso
sistema di credenze e di superstizioni arcaiche pagane, connotate
religiosamente e sopravvissute fino al XVI secolo. Dopo l'ennesima tortura,
Benvenuta confessa, esausta: ha partecipato al sabba, ha reso omaggio al
demonio, ha avuti rapporti sessuali con un demonio, Giuliano, che dice di
aver portato con sé nella propria gamba per tredici anni, ha operato
malefici contro persone e animali.
C'è però, nella sua confessione, una consapevolezza, quasi orgogliosa,
delle sue particolari conoscenze, tanto da essere richiesta perfino dal
podestà di Brescia. Ella conosce le proprietà medicinali delle erbe che sa
attivare grazie a formule magico-rituali, tramandate da una cultura orale,
tipica di una mentalità animistica e antiscientifica, soprattutto nell'uso
di simboli religiosi o di formule guaritorie: "Dio ve salvi, madonna ruta,
da parte che Jesu Cristo e san Zulian, vi prego de quella gratia che v'ho
domandato". E' un sapere tramandato oralmente che a differenza della cultura
medica dotta, quella scritta delle "auctoritates", concepisce il mondo
naturale dotato di personalità e volontà propria, e che per questo bisogna
invocare per ricevere aiuto.
La macchina giudiziaria ha ormai elementi sufficienti per emettere la
sentenza: "Iudichemo essere veramente rescada ne la eretica pravità, benché
al presente sei pentida [.] del iudicio nostro ecclesiastico ti getemo et
lassemo, overo noi te demo al brazo et iudicio secolar". La sentenza è la
morte capitale.
Bisognerà attendere due secoli prima che una revisione profonda degli
atteggiamenti mentali releghi la stregoneria al novero delle malattie
mentali. Nel 1749 l'opera dell'abate Girolamo Tartarotti, Il congresso
notturno delle lamie, chiude questa caccia alle streghe, indagando il
fenomeno con mezzi "scientifici". Quanto alla misoginia che ancora vi
trapela , occorrerà altro tempo perché il processo possa concludersi.
L'etimologia della parola "strega" è ancora dubbia. In linea di principio
dovrebbe discendere dal latino strix (plurale: striges), che indicava una
donna fattucchiera, capace di trasformarsi in uccello rapace notturno,
simile al barbagianni, in grado quindi di volare nell'aria. A sua volta il
termine strix sarebbe derivato, secondo l'inquisitore domenicano Bernardo da
Como, dal fiume infernale Stige.
Altri termini per indicare le streghe erano: lamie (da Lamia, mitica amante
di Giove, capace di trasformarsi a piacere), masche (in Piemonte e Val
Padana), baggiure (in Liguria), sagae (dal verbo latino sagire, cioè
sapere).
Le streghe più antiche che conosciamo sono quelle della letteratura greca.
Ecate p.es. era la dea della stregoneria e regina delle tenebre: le sue
serve più devote erano le streghe della Tessaglia (Grecia settentrionale),
capaci, secondo la tradizione mitologica, di trasformarsi in uccelli e altri
animali, di utilizzare i poteri delle erbe e cibarsi di altri esseri umani.
Anche la Diana dei romani (corrispondente all'Artemide dei greci e
all'Erodiade dei giudei) veniva spesso considerata una strega, anche se meno
maligna. Secondo documenti della chiesa, risalenti al IX sec., Diana
comandava "i cavalieri della notte". A lei ispirata era la dea germanica
Holda, che cavalcava i venti con le anime dei morti: era di aspetto bello e
maestoso, ma quando era adirata si manifestava come una megera dal naso
adunco.
L'ossessione vera e propria della stregoneria nasce solo nel III e IV secolo
dopo Cristo, che coincisero con l'affermazione statale del Cristianesimo
nell'impero romano, quando la chiesa cominciò a considerare manifestazione
diabolica tutti i riti del paganesimo.
Le persecuzioni si concentravano soprattutto nelle campagne, in quanto i
contadini restavano fedeli ai culti remoti della fertilità, della terra,
delle stagioni. Lo stesso termine "strega", comparso per la prima volta nel
589 d. C., si riferiva alle contadine.
In una lettera dell'arcivescovo Incmaro di Reims, dell'860, si sostiene per
la prima volta l'idea che le donne cosiddette "lascive" se si accorgono che
il loro amante vuol contrarre un matrimonio regolare, uccidono con arti
magiche il suo desiderio, cosicché egli non possa avere alcun rapporto con
sua moglie. L'idea dell'impotenza come frutto di magia trovò ampi consensi
presso i teologi medievali (Burcardo di Worms, Ivo di Chartres, Graziano,
Pietro Lombardo, Alberto Magno, Bonaventura, Tommaso d'Aquino).
A partire dall'inizio del XIII sec. sono innumerevoli i sinodi che si
pronunciano contro le streghe che impediscono ai coniugi di praticare il
rapporto coniugale. Era il periodo in cui la chiesa si preoccupava di
ricondurre all'ortodossia i movimenti ereticali, esaminando e stroncando,
con l'istituzione del Tribunale dell'Inquisizione, tutti i fenomeni di
devianza dottrinale. La cosiddetta "caccia alle streghe" non può essere
compresa al di fuori di queste premesse storiche.
Probabilmente la prima strega portata al rogo fu a Tolosa nel 1275.
Tuttavia, fino a tutto il XV sec. mai una vera e propria "caccia alle
streghe" fu organizzata metodicamente sul piano istituzionale. E' piuttosto
nell'epoca del Rinascimento, della Riforma e Controriforma, delle
rivoluzioni filosofiche (Cartesio) e scientifiche (Galilei) che si
organizzano persecuzioni su larga scala.
Il punto di partenza, sul piano giuridico, è la bolla di papa Innocenzo VIII
(1484), Summis desiderantes affectibus, che autorizza a procedere
formalmente contro la stregoneria, tramite procedure giudiziarie, funzionari
inquisitoriali, processi. Gli era stato infatti riferito che nelle diocesi
di Magonza, Colonia, Treviri e Salisburgo moltissimi uomini e donne
praticavano la stregoneria che "impediva agli uomini di generare, alle donne
di concepire e rendeva impossibile l'atto coniugale". La contraccezione e
l'aborto vengono considerati come omicidio e i colpevoli meritevoli di
morte.
Due anni dopo esce il trattato per gli inquisitori, Malleus maleficarum
(Martello delle streghe), scritto da due inquisitori domenicani tedeschi,
Heinrich Institoris e Jakob Sprenger, e approvato dai teologi di Colonia nel
1487. Dal 1486 al 1669 si fecero 39 edizioni del Malleus, per un totale di
50.000 copie, un vero best seller per quell'epoca. Il manuale, per chi
causava con la stregoneria impotenza e sterilità, chiedeva di applicare la
pena di morte.
Altre opere importanti sono quelle di Bernardo da Como (morto nel 1510,
responsabile nel solo anno 1485 di 41 roghi di streghe), De strigiis e
Lucerna inquisitorum; Formicarius di Johann Nider, un trattato demonologico
del 1437; il Compendium maleficarum di Francesco M. Guazzo (morto nel 1640)
e infine il De strigibus di Bartolomeo Spina (1474-1546), inquisitore di
Modena. I roghi si accesero presto in tutta Europa.
Le donne (il cui termine latino foemina derivava secondo il Malleus da
fe -fede- e minus -minore-) venivano sospettate proprio in virtù del loro
sesso. Le accuse erano vastissime: dal predire il futuro a preparare filtri
d'amore o il malocchio. Grillot de Givry scrisse nel suo Musée de sorciers
che le streghe "volano in aria cavalcando scope e caproni, uccidono i
bambini per cibarsene, guariscono le malattie senza conoscere la medicina,
si tramutano in animali, prendono le sembianze dei defunti, rinnegano la
religione e si affidano a Satana, accoppiandosi a lui nei Sabba".
La questione del volo notturno verso il Sabba fu dibattuta da teologi e
demonologi per quasi dieci secoli. Inquisitori come Bernardo da Como o
Silvestro Prierias erano convinti che si potesse affermare l'essenza
diabolica di una donna solo dimostrando che volava di notte. A nulla valsero
le opinioni di dotti rinascimentali, come Andrea Alciato o il giurista
piacentino Ponzinibio, secondo cui il volo era in realtà un effetto sulla
psiche prodotto da sostanze allucinogene.
L'ottica antifemminista che prevale in questi intellettuali non è, in
realtà, teologicamente nuova: di nuovo c'è ora il fatto che la donna viene
considerata come una sorta di intermediaria tra l'uomo e il demonio. Siamo
alla conclusione di un processo di "demonizzazione femminile" iniziato
secoli prima, che ricorre con frequenza nelle satire, nei fabliaux
medievali, nella trattatistica ascetica.
Uno dei primi ad avere un interesse scientifico per le sostanze psicoattive
usate dalle streghe fu il medico spagnolo Andreas Laguna nel '500. Fu lui
che si accorse di quali incredibili conoscenze naturalistiche avessero le
donne e dell'uso che facevano di erbe che potevano indurre eccitazione
psichica accompagnata da allucinazioni (anche la pelle di rospo e la coda di
lucertola contengono agenti allucinogeni). Questo, per le donne, era anche
un modo di emanciparsi dal ruolo di marginalità e sudditanza in cui erano
sempre state tenute.
La caccia alle streghe fu un fenomeno europeo ma soprattutto in Germania
(Friburgo, Bamberga...) fu particolarmente virulento. Intorno al 1590,
p.es., i cattolici tedeschi bruciarono tutte le donne di due villaggi alla
periferia di Treviri, nella regione del Palatinato. A Colonia, tra il 1627 e
il 1630, le levatrici della città furono quasi tutte eliminate. Erano
accusate di uccidere i bambini non battezzati, di praticare aborti e
contraccezione.
Ma venivano mandate sul rogo anche le donne che si dedicavano alla
guarigione dei malati, minacciando, con la loro conoscenza delle erbe, i
poteri dei sacerdoti esorcisti. Molto sospette erano anche le vedove (che a
causa delle tante guerre erano aumentate in maniera spropositata), le
nubili, le cuoche, le levatrici e non venivano risparmiati neppure
personaggi del mondo ecclesiale, come suore, badesse, preti e persino
qualche vescovo.
Il primo tedesco che si oppose alla credenza delle streghe fu il medico
calvinista Johann Weyer, morto nel 1588, ma la sua opera fu posta all'Indice
dei libri proibiti e lui stesso rischiò di finire sul rogo.
Oltre alla Germania (renana soprattutto) altre zone europee molto toccate
dal fenomeno furono la Stiria e il Tirolo austriaco, la Scozia calvinista, e
più in generale l'Inghilterra dell'Essex (la vittima più illustre degli
inglesi fu Giovanna d'Arco nel 1431), le Fiandre, la Polonia, la Svizzera,
la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, la Spagna, la Francia del sud (specie
la zona dei Pirenei). In Italia si registrano persecuzioni di massa in
Valcamonica, in Valtellina, nell'area del Tonale, presso i territori di
Brescia e Bergamo. Nel Canton Ticino il vescovo di Milano, Carlo Borromeo,
tra il 1565 e il 1583, presenziò a processi ed esecuzioni di centinaia di
fattucchiere. L'inquisizione italiana, nella sola Lombardia, nei primi 30
anni del XV sec., avrebbe mietuto non meno di 25.000 vittime.
Nel 1575 nel solo regno di Francia operavano più di 100.000 tra streghe,
stregoni, fattucchiere e maliarde. Ebbene, in questo periodo, nel solo
distretto di Saint Claude, il magistrato Boguet fece bruciare oltre 1500
streghe, mentre in Lorena un altro procuratore generale, Nicole Remy, riuscì
a far condannare a morte 800 persone in cinque anni.
Tra gli inizi del XIII sec. fino al XVII si calcola che siano state
inquisite, incarcerate, torturate non meno di nove milioni di persone, di
cui 1/4 o addirittura 1/3 finì sul rogo. Solo nell'anno 1486 l'inquisitore
spagnolo Tomas de Torquemada ne fece ardere 6.687 unicamente nella città di
Toledo. A lui si attribuiscono almeno 10.000 vittime l'anno per un
quindicennio.
Le persecuzioni si attenuarono temporaneamente nel decennio 1530-40,
allorché sembrava ventilarsi la ricomposizione tra cattolici e protestanti,
ma ripresero con più accanito vigore nella seconda metà del '500 e
soprattutto durante la Guerra dei Trent'anni (1618-1648).
Non erano soltanto i cattolici a praticare la caccia alle streghe, ma anche
i protestanti. Il giudice Benedikt Carpow, inquisitore di Wittenberg, si
vantò di averne mandate a morte almeno 20.000 tra il 1566 e il 1596. I
protestanti mandarono sul rogo nel 1589 a Quedlinburg ben 133 streghe e
altre 300 a Ellwaangen.
Solo verso la fine del 1600, quando ci si rese conto che la divisione del
mondo cristiano era un fatto acquisito, le persecuzioni di massa cessarono.
A dir il vero già nel corso di tutto il Seicento molti scienziati, filosofi
e teologi avevano messo in dubbio l'operato delle streghe. Il dubbio
cartesiano, lo sperimentalismo scientifico di Keplero, Galilei, Newton...
mal si adattavano a credere agli spiriti o alle forze soprannaturali.
E così, in Francia non si accettano denunce contro i maghi già a partire dal
1682. In Gran Bretagna le leggi contro la stregoneria vengono abrogate nel
1736. Nel 1749 l'opera dell'abate Girolamo Tartarotti, "Il congresso
notturno delle lamie", chiude la caccia alle streghe, indagando il fenomeno
con mezzi scientifici. Forse l'ultima grande persecuzione storica può essere
considerata quella di Salem nella Nuova Inghilterra, nel 1692. (Per
conoscere la storia di Salem clicca qui.)
Episodi sporadici si sono tuttavia verificati anche ai giorni nostri: nel
1976, in un villaggio tedesco, Elizabeth Hahn, un'anziana donna accusata di
tenere con sé, sotto forma di cani, alcuni diavoli, è stata bruciata viva;
l'anno seguente qualcosa di analogo è accaduto ad Alençon in Francia; nel
1981 una folla ha ucciso in Messico a colpi di pietra una donna accusata di
aver provocato, con un maleficio, l'attentato a papa Wojtyla.
Alla fine del 1998 i vertici della chiesa cattolica hanno iniziato a
prendere in esame, sul piano storiografico, le responsabilità
dell'Inquisizione nei secoli passati.
Alcune date di riferimento:
1233. Prima ordinanza papale che si occupa direttamente della stregoneria.
È una bolla di papa Gregorio IX diretta a Corrado di Marburgo, che ordina di
procedere contro i Luciferini.
1258. Bolla di papa Alessandro IV indirizzata agli inquisitori francescani,
che li invita ad astenersi dal giudicare qualsiasi caso di stregoneria, a
meno che non vi siano forti ragioni per supporre che ne possano derivare
pratiche eretiche.
1431. Giovanna d'Arco arsa viva a Rouen.
1484. Bolla di Innocezo VIII che dà agli inquisitori Sprenger e Kramer,
autori del Malleus Maleficarum, i diritti a procedere alla correzione, all'imprigionamento,
alla punizione di chiunque fosse indicato compiere attività di stregoneria.
1486. Massimiliano I, imperatore di Germania, offre il suo appoggio a
Sprenger e Kramer.
1515-1588. Weyer Johan, nato in Brabante, medico tedesco, credeva che la
maggior parte delle streghe fossero vecchie donne con disturbi mentali di
tipo depressivo, ma incapaci di recare danno. Egli riteneva che la credenza
nella stregoneria fosse invece causata dal demonio. Nel 1563 scrisse De
Praestigiis Daemonum. Fu scacciato dall'Olanda dal governatore cattolico,
Duca d'Alba.
1529-1596 (o 1530-1590). Bodin Jean, giudice francese, afferma che coloro
che negavano l'esistenza di streghe e stregoni lo erano essi stessi.
1584. Pubblicazione di The Discoverie of Witchcraft, di Reginald Scot, in
cui si ipotizza che forse le streghe non esistano.
1608. Pubblicazione del Compendium Maleficarum, di Francesco Maria Guazzo.
1628. Il 24 luglio Johannes Junius scrive una Lettera a sua figlia prima
dell'esecuzione per stregoneria.
1611. Il processo basco: l'inquisitore spagnolo voleva come usanza far
ardere sul rogo le streghe come eretiche, ma un inquisitore di nome Antonio
Salazar de Frias, dopo lunghe ricerche sulle storie di stregoneria, decise
che uomini e donne erano stati accusati in seguito a una isteria collettiva
e che le "streghe" non erano pericolose, ma anzi avevano bisogno di aiuto,
non certo di una condanna.
1645-1692. Il processo alle streghe nel New England.
1692. Il processo di Salem: molte condanne a morte tra luglio e settembre
(ci fu anche l'esecuzione di un cane!).
1782. Ultima strega arsa viva in Europa, Anna Goeldi, a Glaris, in Svizzera.
1920. Giovanna d'Arco proclamata santa.
RIFORMISMO RELIGIOSO FEMMINILE:
Il riformismo religioso femminile nel XVI e XVII secolo. Pochi personaggi
femminili hanno avuto un ruolo importante nella storia, e ciò è tanto più
vero se parliamo del XVI secolo e della riforma religiosa che investì l'Europa
dell'epoca. Purtroppo, infatti, le donne sono state per lungo tempo lasciate
ai margini della società, senza che fosse data loro la possibilità di agire
liberamente e di dare un contributo concreto e valido al
progredire dell'umanità.
Il mondo religioso in particolare, almeno nell'aspetto specifico delle
riforme, è stato un settore
riservato esclusivamente al mondo maschile; basti pensare che gli innovatori
della Riforma furono,
da Lutero a Calvino (tanto per citare solo i nomi più noti), tutti uomini.
Quando si parla di Riforma Protestante, infatti, il primo nome che ci viene
in mente è quello di
Martin Lutero per la Germania, di Calvino per la Svizzera, di Enrico VIII
per l'Inghilterra e così via.
Questo è infatti, almeno per la mia esperienza scolastica ed accademica,
quello che normalmente
viene insegnato.
Tuttavia questa è solo una visione parziale della verità, in quanto
studiando autonomamente mi
sono accorta dell'esistenza di un universo femminile del tutto sconosciuto
alla gente, tranne forse
che a qualche storico.
E non parlo solo di personaggi famosi come Elisabetta I d'Inghilterra o
Caterina da Genova, ma
anche di una serie di figure minori, di donne comuni che, sfidando le
consuetudini dell'epoca in cui
vissero, decisero di seguire un percorso nuovo ed innovativo.
Quindi scopo del mio lavoro è di mostrare che ci furono donne che seppero
dare un contributo
notevole anche in questo campo, donne che meriterebbero di essere ricordate
e studiate nei libri di
scuola.
E così obiettivo finale della ricerca è pertanto quello di far conoscere
realtà femminili fino ad oggi
pressoché ignote alla maggioranza, ovvero quello di fornire uno strumento
didattico a chi si accosti
allo studio della Riforma religiosa e voglia approfondire l'argomento.
Spero che il mio impegno possa essere utile nel raggiungere il fine che mi
sono proposta.
In particolare a me interessava mettere in luce un aspetto, cioè il fatto di
mostrare come queste
donne seppero trovare il coraggio per rompere gli schemi della società.
All'epoca infatti, per le donne che volevano o dovevano intraprendere la
vita religiosa, l'unica
possibilità era quella di farsi monache di clausura: non esisteva, non era
contemplata una vita
religiosa al di fuori del chiostro. In altre parole non esistevano le suore
come oggi noi le intendiamo,
ma solo le monache di clausura.
Per queste donne, dunque, l'unica spiritualità era quella interiore, la
preghiera all'interno delle mura
del convento e non era immaginabile che uscissero fuori per predicare o fare
opere di carità, per
soccorrere i bisognosi: al massimo potevano svolgere un'attività di
educazione delle ragazze di
buona famiglia.
Eppure vi furono personaggi che tentarono di cambiare questo stato di cose.
Tale è il caso di Mary Ward.
La donna nacque il 23/01/1585 nello Yorkshire, dunque nell'Inghilterra
riformata di Elisabetta I,
dove sostenere il cattolicesimo poteva essere cosa molto pericolosa. Ella
crebbe comunque in un
ambiente eminentemente cattolico, in quanto il padre viveva la sua fede con
costanza e coraggio ed
educava in essa i suoi figli.
Grazie all'educazione ricevuta, fin da piccola Mary mostrò una forte
propensione verso la
spiritualità in generale, ed intorno ai 10 anni maturò l'idea di farsi
suora.
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n. 4, 24 febbraio 2003
La sua vocazione, che deve però essere interpretata come desiderio di
seguire una vita religiosa
senza alcun riferimento ad un Ordine in particolare, doveva incontrare
moltissime difficoltà perché
il governo anglicano non solo non permetteva più a nessuno di professarsi
ancora cattolico, ma
cercava anche di impedire in ogni modo che i giovani lasciassero il Paese,
affinché non venissero
educati cattolicamente sul continente.
Mary era però determinata nel suo intento, così nella primavera del 1606,
all'età di 21 anni, arrivò a
St. Omer, nei Paesi Bassi spagnoli, zona dove il gesuita Robert Parson aveva
fondato il famoso
"Seminario inglese", cioè una scuola destinata non solo agli aspiranti al
sacerdozio, ma anche a tutti
i ragazzi inglesi che volevano intraprendere gli studi superiori.
È in questa città che, a partire dal 1610, Mary iniziò il suo tentativo di
riforma.
Ella acquistò una casa dove avrebbe vissuto con le sue discepole, come
religiose, indossando un
vestito uniforme ed austero, senza che fosse un abito prettamente religioso.
Insieme le donne
avrebbero condotto una vita attiva, di aiuto al prossimo, specialmente
prodigandosi nell'educazione
delle fanciulle, e tutto questo gratuitamente.
L'intento specifico di Mary Ward era quello di voler creare un "Ordine"
femminile uguale a quello,
maschile, dei Gesuiti.
Ma questa idea non doveva essere di facile realizzazione. Mary era infatti
molto in anticipo per i
suoi tempi e quello che lei cercò con tutte le forze di realizzare, anche se
fu un successo tra la
popolazione, essendo una novità, incontrò censure ed opposizioni da parte
della gerarchia cattolica
romana.
Non deve sorprenderci che questa donna fosse aperta a nuove idee: una delle
conseguenze della
perdita della gerarchia e del formalismo cattolico nel suo Paese durante la
Riforma fu infatti quella
di concedere alle persone, donne e uomini, libertà di iniziativa. E la suora
aveva un'alta
considerazione delle donne e di quello che esse potevano fare per il
cattolicesimo. Perciò ella decise
di educare le giovani per questo importante scopo, desiderando che le
appartenenti al suo "gruppo"
facessero nel loro campo quello che gli uomini facevano con la società dei
Gesuiti.
Il fine dell'Istituto era pertanto quello del bene del prossimo e la
principale attività che esso
prevedeva era quella dell'insegnamento, della formazione religiosa, etica ed
umana di fanciulle e
giovani. Ma questo lavoro apostolico non poteva essere realizzato
direttamente dalle monache di
clausura, in quanto la loro condizione di emarginazione dalla società
impediva di mischiarsi tra le
persone e di aiutare i bisognosi; perciò le suore, desiderose di essere
religiose e di dedicarsi pure
alle opere di carità spirituali, conducendo una vita mista di orazione e di
azione, domandavano di
vivere senza clausura e senza un abito propriamente religioso. Per poter
conseguire meglio questo
fine, chiedevano di essere esenti da qualsiasi giurisdizione che non fosse
quella del Papa.
Per quanto riguardava la vita interna dell'Istituto, proponevano che il
noviziato durasse due anni e
puntualizzavano l'obbedienza come mezzo efficacissimo di umiltà e di
disciplina religiosa.
S'impegnavano a recitare ogni giorno il breviario romano come i sacerdoti, e
mettevano in evidenza
la vigilanza che i superiori avrebbero esercitato nei loro confronti per far
sì che il voto di castità
fosse rispettato.
L'Istituto, in sostanza, nella sua ispirazione di fondo, era determinato dal
genere di vita della
Compagnia di Gesù.
Tutto questo costituiva una vera rivoluzione: a nessuno passava per la testa
un altro tipo di vita
religiosa per le donne che non fosse quella del monastero chiuso.
Ed infatti, grazie anche all'influenza dell'allora responsabile del clero
inglese a Roma, Thomas
Rant, acerrimo nemico dei Gesuiti, alla fine Mary ne uscì sconfitta.
Le accuse contro di lei erano piuttosto vaghe, ma furono ritenute efficaci,
ed alla suora inglese non
fu neanche data la possibilità di difendersi.
Il decreto fatale porta la data del 7 luglio 1628.
Il 13/01/1631, poi, Papa Urbano VIII firmò la Bolla "Pastoralis Romani
Pontificis", con la quale
sopprimeva in tutta la Chiesa l'Istituto fondato da Mary Ward.
Il 7 febbraio 1631 la fondatrice fu imprigionata con sentenza del S.
Uffizio, con l'accusa di essere
scismatica ed eretica. Fu liberata dopo 9 settimane.
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E così, miseramente, si concludeva l'avventura di una donna coraggiosa che
aveva precorso i tempi.
Ma il suo coraggio e la sua volontà non furono un fatto isolato, perché in
Italia Suor Angela Merici
era riuscita a creare la "Confraternita di Sant'Orsola".
Angela Merici nacque a Desenzano, una località del Lago di Garda, in una
data imprecisata fra il
1470 ed il 1474.
Come era accaduto a Mary Ward, anche l'italiana fin da piccola aveva capito
di essere destinata ad
una esistenza in unione con Dio e perciò, ancora in tenera età, decise di
iniziare un percorso
spirituale segnato dalla preghiera e dai lunghi digiuni, per purificare la
sua anima.
In seguito, ella decise di utilizzare la rendita del podere che possedeva
per provvedere ai poveri dei
dintorni, per vestire le fanciulle a cui insegnava le preghiere e raccontava
la vita dei Santi, per
soccorrere le madri di famiglia cariche di bambini.
Una corrente di simpatia e di gratitudine, di ammirazione e di rispetto,
nasceva così intorno alla
vergine di Desenzano, e ben presto la casa di questa donna che aveva scelto
di prodigarsi per tutti
quelli che avevano bisogno, senza risparmiare né denaro né fatiche, divenne
un punto di riferimento
per chiunque avesse bisogno di aiuto e conforto: poveri e ricchi, dotti ed
ignoranti, tutti ricorrevano
ad Angela Merici perché la stimavano profondamente, ritenendo che ella, con
le sue straordinarie
doti, li avrebbe aiutati ad ottenere il perdono di Dio per tutti peccati
commessi.
Ma l'opera svolta da Angela Merici andò ben al di là dell'aiuto agli
indigenti.
Ben presto attorno alla Santa si radunarono 12 ragazze, provenienti sia dall'aristocrazia
che dalla
borghesia. A queste giovani Angela confidò le sue aspirazioni di
rinnovamento e chiese
collaborazione per attuare un progetto rivoluzionario, ovvero la creazione
di un nuovo Istituto.
Per meglio comprendere l'importantissima opera svolta da Angela Merici è
necessario, tuttavia,
aprire una piccola parentesi su quella che era la situazione italiana dell'epoca.
Dopo il 1527 la situazione sociale dell'Italia era, infatti, disastrosa.
Chiuso il lungo periodo di
guerra, a pace conclusa, tanti e gravi erano i problemi che affliggevano il
Paese. In primo luogo la
crisi economica, poi quella politica, dato che l'Italia dovette, da allora
in poi, subire il pesante
predominio spagnolo.
La condizione femminile poi era cambiata, in quanto il Rinascimento aveva in
parte emancipato le
donne: alcune giovani si ribellavano al comando paterno di entrare in
convento; altre sventurate,
che, volenti o nolenti, erano costrette al sacrificio, trovavano nella
rilassatezza del monastero la
possibilità di soddisfare le proprie passioni.
Angela ebbe coscienza della necessità di dar vita ad una nuova istituzione
che ponesse rimedio a
questa situazione sociale, desiderando aiutare la donna non sposa né suora.
La Santa concepì la sua opera in assoluta originalità, in quanto, si noti, a
quel tempo, le nubili non
esistevano socialmente parlando. Ella, invece, che aveva conosciuto il
dramma delle loro sofferenze
e della loro pubblica umiliazione, diede loro una dignità che già
possedevano personalmente senza
averne coscienza. Nelle nubili, tanto disprezzate come classe sociale,
intravide la luminosa realtà di
una virtù spiritualmente cristiana: la verginità. Tornando ad una
terminologia usatissima nei primi
tempi della Chiesa, chiamò "vergini secolari" quelle nubili che essa
invitata a raccogliersi insieme
per formare una nuova classe sociale, accanto a quelle delle spose e delle
monache.
Quali erano le piaghe della società che Angela voleva curare? La sensualità,
la concezione pagana
della vita, la dissoluzione della famiglia, le affermazioni rivoluzionarie
del Protestantesimo. Ed ella
voleva riuscire nel suo intento tramite questa sua modesta iniziativa locale
di riforma cattolica, che
s'affiancava a quella generosa corrente di spiritualità che contrapponeva
alla disgregazione della
società e della famiglia la perenne vitalità del cattolicesimo, attraverso
la beneficenza e l'assistenza
caritatevole a tutti i bisogni sociali del tempo.
Secondo Angela Merici l'avvilimento in cui era caduta la società era in gran
parte frutto del basso
livello cui era sceso il gentil sesso. Ella propose quindi alle sue figlie
spirituali che l'opera loro si
rivolgesse proprio alla donna, cioè a quella che, madre, sposa o sorella,
era la formatrice più efficace
della famiglia.
La prima e fondamentale riforma che allora s'imponeva era quella del
costume: la nuova
generazione femminile doveva essere religiosamente rinnovata in quanto l'educazione
spirituale era
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n. 4, 24 febbraio 2003
necessaria alle donne affinché resistessero alle attrattive della seduzione
ed ai facili vanti del sedurre
altrui.
Ecco quindi la parola d'ordine delle discepole della Santa: santificare se
stesse per santificare le
famiglie e la società, restando nel secolo incredulo e sensuale come
elementi di reazione e di
conservazione cristiana.
Lo scopo era, in sostanza, quello di creare, in mezzo ai pericoli ed alle
insidie del mondo, un
chiostro ideale di religiose laiche, senza voti, senza abito distintivo,
senza prescrizioni fisse, ma
desiderose di far rivivere la santità, la purezza, l'operosità benefica
delle antiche vergini e vedove
dei primitivi tempi cristiani.
Angela volle dimostrare con la sua esperienza personale che la donna
consacrata poteva e doveva
restare, anche fuori dalle mura del monastero, la vergine saggia e prudente
che illumina la famiglia,
la parrocchia e la città, e questo con uno spirito non egoisticamente chiuso
nella propria
santificazione personale, ma apertamente proteso verso ogni bisogno ed ogni
piaga del prossimo, in
un continuo sforzo di sacrificio, di preghiera, di azione.
Come si può vedere, l'idea era nuova ed audace, determinata dai bisogni del
momento; Angela
Merici, comunque, non era isolata. Senza forse averne coscienza, ella era
all'avanguardia del
movimento riformatore cattolico che preparò il Concilio di Trento, essendo
profondamente inserita
nella società del suo tempo ed aperta ai bisogni più urgenti e concreti che
potessero manifestarsi.
Ufficialmente la Compagnia ebbe inizio il 25/11/1535 e nel 1544 Paolo III
approvò la nuova
fondazione come "Confraternita di Sant'Orsola".
Così, in quell'epoca rinascimentale in cui la vita veniva considerata da
troppi esclusiva fonte di
gioia e di piacere, madre Angela, precorrendo i tempi, gettò il seme di una
grande opera di
educazione, ed alle sue collaboratrici insegnò una consolante e sempre
attuale verità: la vita è serena
e benedetta non quando è culto della materia, ricerca continua del
benessere, ma quando è
considerata impiego di talenti ricevuti a servizio del prossimo. Solo in
questo modo l'esistenza
terrena diventa preambolo di eternità.
Per quanto riguarda la Francia, un'opera molto importante è stata svolta dal
monastero cistercense
femminile di Port-Royal, fondato nel 1204 in una zona vicino a Parigi da
Mathilde de Garlande ed
Eudes de Sully, Vescovo di Parigi.
Nel 1599, allorché era Badessa Jeanne de Boulehart, entrò nel monastero
Jacqueline Marie
Angelique Arnauld, una bambina di soli sette anni, discendente da una
importante famiglia
cattolica e destinata a divenire Badessa con il nome di Madre Angelica e
riformatrice di Port-Royal.
Angelique era una dei ben 20 figli di Antoine Arnauld (uno dei fondatori del
Giansenismo francese).
Fin da piccola ella aveva mostrato grande intelligenza, volontà e carattere,
doti che però non si
univano anche ad una vocazione religiosa. Tuttavia, come spesso accadeva all'epoca,
per compiacere
la sua famiglia, fu costretta ad entrare in convento.
A Port-Royal ella continuò a vivere come aveva fatto in precedenza, senza
aderire fedelmente e
rigorosamente alle regole del suo ordine ed addirittura senza mostrare alcun
fervore religioso;
cresciuta in piena libertà, nel lusso e nell'ignoranza, bambina lasciata
completamente a se stessa,
ella non voleva cedere alle regole della vita monastica e trascorreva i suoi
giorni fra passeggiate,
letture profane e visite fuori del monastero.
Questo comportamento continuò fino a quando Angelique si convertì grazie ad
un sermone tenuto
da un frate cappuccino in visita nel monastero nel 1608: si racconta che dal
1608 al 1609 la giovane
ebbe febbri continue, frammiste a crisi mistiche ed a visioni, e che,
malgrado ciò, si sottopose ad
una disciplina religiosa sempre più dura e severa, che culminò nell'esperienza
della ricezione della
Grazia Divina. Improvvisamente ella decise di cambiare tutto il suo stile di
vita, di dare un taglio
netto al passato e d'introdurre grandi cambiamenti, iniziando prima da se
stessa, imponendosi di
rispettare con il massimo rigore tutte le regole del suo ordine, ed in
particolar modo la clausura, e
poi passando alle riforme nel monastero.
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n. 4, 24 febbraio 2003
La badessa impose drastiche innovazioni: clausura rigorosa, comunione dei
beni, astinenza e
silenzio, e grande enfasi in merito alla disciplina interiore dello spirito.
Dopo la riforma a Port-Royal, ella decise di riformare anche il convento di
Maubuisson, dove gli
scandali erano assai frequenti (e dove aveva trascorso cinque anni della sua
vita).
In tutto questo suo agire Madre Angelique fu molto influenzata dall'opera di
S. Francesco di Sales e
provò, però senza successo, a lasciare il suo Ordine per unirsi alle suore
Visitandine, Ordine appena
fondato dal Sales. Non riuscendo nell'intento, la suora tornò quindi a
Port-Royal, e gli anni che
seguirono (1620 - 1630) furono i migliori nella storia del monastero, anni
di regolarità, di preghiera
e di vera felicità, anni in cui ci furono molte novizie ed in cui la
reputazione del convento andava
aumentando sempre più. Inoltre, dal 1636, cioè da quando l'abate di
Saint-Cyran ne divenne il
direttore spirituale, Port-Royal fu la residenza in cui, non lontano dal
monastero, ma in totale
eremitaggio, si ritirarono i seguaci di Giansenio, rendendo quel luogo un
faro della spiritualità
cattolica del XVII secolo.
In seguito Angelique fu coinvolta nella protesta contro l'attacco di
Innocenzo X al Giansenismo e
trascorse i suoi ultimi anni gettandosi direttamente nella lotta ed
incoraggiando i sostenitori del
movimento.
Sempre in Francia, agli inizi del XVII secolo, un ruolo importante fu svolto
dal Circolo della
mistica Barbe Avrillot, aljas M.me Acarie.
Ella era molto conosciuta per le sue virtù, per la sua bontà e carità verso
i bisognosi e gli ammalati
degli ospedali e la sua abitazione era luogo d'incontro per intellettuali e
devoti di Parigi.
La casa della nobildonna divenne perciò il principale centro in cui la
borghesia e la nobiltà
cattoliche si riunivano per condurre una vita di preghiera ed attuare le
opportune riforme spirituali.
Si studiavano Dionigi l' Aereopagita,il misticismo e Caterina da Genova, una
mistica ed asceta
italiana che ebbe una notevole influenza nella Francia controriformatrice.
M.me Acarie viveva così in ritiro dal mondo esterno, circondata da anime
pie, allorquando, verso la
fine del 1601, la sua vita fu sconvolta in seguito all'apparizione in
Francia di una traduzione della
vita di Teresa d'Avila. Barbe Avrillot studiò a fondo le opere della santa
spagnola e, addirittura, ci
fu una sorta di contatto mistico fra le due donne: Teresa d'Avila apparve
infatti per comunicare che
Dio voleva servirsi della nobildonna francese.
A questa prima apparizione ne fecero seguito delle altre e M.me Acarie si
mise all'opera, fondando
a Parigi il primo convento delle Carmelitane scalze.
La Bolla papale d'istituzione dell'Ordine fu emanata il 23 novembre del
1603, ed in breve tempo si
contavano molte case in tutto il regno, tanto che si può affermare che le
Carmelitane influenzarono
moltissimo la società francese dell'epoca.
M.me Acarie ebbe parte anche in altri due Ordini, quello degli Oratory e
quello delle Orsoline,
congregazione femminile introdotta a Parigi nel 1607, insieme a M.me de
Sainte-Beuve, dedita
all'educazione delle fanciulle.
Studiando il XVI ed il XVII secolo ci si accorge, purtroppo, di quanti
personaggi furono condannati
a morte per il credo che professavano. Il tribunale dell'Inquisizione fu in
questo senso un simbolo
fin troppo efficace delle persecuzioni a danno degli eretici.
Ma non fu solo il cattolicesimo a mietere vittime: anche il protestantesimo
vanta i suoi martiri.
L'Inghilterra anglicana, ad esempio, tra i tanti, conobbe il sacrificio di
una donna dai nobili natali,
Lady Jane Grey, nata nel 1537 da Henry Grey, marchese del Dorset e poi Duca
di Suffolk, e da
Frances Brandon, una nipote di Enrico VIII (in quanto figlia di Mary Tudor,
sorella del re, e di
Charles Brandon).
La posizione sociale dei Grey era, proprio grazie alla parentela con la
famiglia reale, assai elevata e
Frances Brandon era terza nella linea di successione al trono inglese.
I genitori di Jane erano persone fortemente religiose, ma estremamente
formali e severi ed avevano
inoltre una smania di grandezza che speravano di soddisfare vedendo la loro
figlia maggiore moglie
di Edoardo VI e regina d'Inghilterra.
in Storiadelmondo
n. 4, 24 febbraio 2003
In effetti questo loro desiderio sembrò realizzarsi allorquando il re, pur
non volendo sposare la
ragazza, la designò come sua erede al trono.
Così accadde che, quando nel 1553 Edoardo VI morì, la famiglia di Jane si
prodigò affinché ella
venisse incoronata regina, cercando in ogni modo di evitare che la notizia
del decesso del re
giungesse alle orecchie della sorellastra Mary Tudor, prima figlia di Enrico
VIII e quindi legittima
erede al trono.
In tutto questo Jane fu vittima del volere della sua famiglia, perché
personalmente non desiderava
affatto divenire regina ed anzi, al contrario, cercò in ogni modo di
dissuadere i suoi parenti da
questa malsana idea. Ella era terrorizzata dalla prospettiva di regnare su
un Paese in cui erano
ancora vivi i ricordi dei roghi e delle persecuzioni che avevano
caratterizzato il regno di Enrico VIII
e, purtroppo per lei, le sue paure non erano affatto immotivate.
Il 19 luglio successivo, infatti, tra la felicità popolare, il Consiglio
reale dichiarò ufficialmente che
Mary Tudor, e non la figlia dei Grey, sarebbe stata incoronata.
Jane fu così imprigionata nella Torre di Londra e condannata a morte.
I genitori della ragazza, che pure erano gli unici responsabili dell'accaduto,
firmarono l'atto e non
scrissero mai alla figlia, né tentarono di salvarla.
Finiva così la breve vita di una povera martire che, solo perché manipolata
dalla sua famiglia, si era
ritrovata a concorrere per il trono di uno dei regni più potenti nell'Europa
del XVI secolo. Pur
avendone in realtà il diritto (perché, comunque, Edoardo VI l'aveva
designata come sua erede), ella
nulla poté contro il volere del popolo che, stanco delle persecuzioni e
delle morti sistematiche ed
ingiustificate che Enrico VIII (il sovrano artefice dello scisma da Roma e
perciò autore del
diffondersi del protestantesimo in Inghilterra) aveva ordinato per eliminare
ogni forma di
opposizione al suo volere, in quel momento desiderava solo la pace e la
stabilità interne, e credeva
di trovarle in Mary Tudor. Ma gli inglesi si sbagliavano perché durante il
regno di questa regina le
persecuzioni sarebbero divenute ancora più aspre.
E così un'altra vita fu interrotta a causa del suo credo.
Jane Grey ci conduce al capitolo del mio lavoro dedicato alle riforme
religiose introdotte da donne
di potere.
È questo un settore che contempla i personaggi che regnarono da soli (come
Elisabetta I) e quelli
che sedevano a corte in quanto mogli di sovrani (ad esempio Catherine Parr e
M.me de Maintenon).
La differenza fra i due profili è sostanziale, in quanto se la regina
inglese poté agire autonomamente
ed apportare tutte le riforme che riteneva necessarie, le altre potevano
svolgere solo un'azione per
così dire marginale, sempre all'ombra dei loro mariti.
Per quanto riguarda Elisabetta I, non dovette essere molto difficile
immaginare quale sarebbe stata,
in linea di massima, la sua futura politica: la sua nascita e la sua
educazione, la sua condizione
durante il regno di Mary Tudor, le tendenze religiose tanto sue che del
seguito e degli amici che
aveva intorno, non lasciavano alcun dubbio.
Ella avrebbe con il tempo mostrato la sua volontà, ma per il momento la cosa
migliore da fare era
tenere a bada il clero ed i vescovi cattolici, ed impedire loro di provocare
dei disordini prima che il
Paese si fosse abituato alla nuova autorità.
La situazione era infatti molto seria, tanto in politica interna che estera.
Era in effetti quello un momento storico assai complesso, in cui l'Inghilterra
doveva affrontare
problemi gravi ed urgenti.
Alla data della sua successione, infatti, Elisabetta si era ritrovata nel
bel mezzo dei negoziati di pace
con la Francia e le relazioni con questo Paese erano ulteriormente
complicate dal fatto che Maria
Stuart, regina di Scozia e moglie del Delfino, accampava dei diritti alla
successione al trono
inglese.
All'interno, poi, le spese pubbliche superavano del 40% le entrate; il
debito risultava di
conseguenza molto forte e le casse del Tesoro erano vuote.
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n. 4, 24 febbraio 2003
Anche da un punto di vista sociale, inoltre, la situazione era molto
precaria, in quanto era cresciuto
sensibilmente il divario fra classi abbienti e non, e sempre più urgente si
profilava la questione
religiosa tra luterani, cattolici, calvinisti e puritani, ed in particolare
tra i primi due.
Elisabetta si dedicò prima alla soluzione della questione internazionale,
poi poté occuparsi dell'altro
suo grande obiettivo: la sistemazione religiosa del regno.
Le innovazioni in questo campo inizialmente furono poche: la regina non
voleva infierire contro i
vescovi "papisti" nominati dalla sorellastra Maria e, perciò, da principio,
si limitò ad affidare le sedi
vacanti ad ecclesiastici che accettavano la Riforma.
Nell'ambito liturgico vero e proprio, poi, consentì l'uso dei paramenti
sacri, dei canti e dei ceri nel
servizio divino e permise che la messa venisse celebrata nella cappella del
suo palazzo (pur
proibendo, però, l'elevazione in sua presenza e l'uso dell'incenso).
Tutto ciò si spiega con il fatto che Elisabetta, anche se dichiaratamente
protestante, era per lo più
un'opportunista e non aveva poi una fede così profonda.
Ella teneva soprattutto ad un concetto: l'unità del culto era vista come il
completamento
indispensabile dell'unità nazionale e perciò era necessario trovare una
formula di compromesso che
contasse il maggior numero possibile dei suoi sudditi.
Motivazioni per lo più politiche, quindi, e non una profonda vicinanza al
Credo protestante,
muovevano le azioni della regina e la spingevano ad orientare la nazione
verso il protestantesimo.
Ella cercò di farlo senza eccessive scosse né rigurgiti di violenza,
contando sul fatto che il
cattolicesimo, privo di sostegni finanziari e politici, si sarebbe
gradualmente estinto.
Del resto, grazie alle riforme di Enrico VIII, come Capo della Chiesa il
sovrano aveva ampliato il
campo della sua autorità e quindi quest'opera di conversione religiosa
doveva sembrarle ancora più
facile da portare a termine.
Sovrana politica soprattutto, la sua persecuzione religiosa non fu mai
ispirata da una fede
intollerante, ma si scatenava solo quando gruppi o sette religiose,
cattoliche o no, ritenevano di
proclamare e predicare la loro verità intransigente contro le norme spesso
contraddittorie della
religione della regina e dei suoi ministri. Questo spiega come ella in
futuro dovette perseguitare con
uguale indifferenza cattolici e protestanti, calvinisti e presbiteriani, e
perché ella dovette essere
particolarmente aspra con i gesuiti ed i puritani, ovvero con le frange per
così dire "estremistiche"
sia dei cattolici che dei protestanti.
Ed in effetti, per tutti questi motivi, Elisabetta dovette ben presto
incontrare una forte opposizione
sia da parte dei cattolici, che odiavano la regina protestante, che da parte
dei riformati, che non la
consideravano abbastanza ostile alle forme ed alle tradizioni della Chiesa.
Se in effetti ella era di religione protestante, talune sue idee non erano
perfettamente in linea con la
dottrina luterana. Così, ad esempio, allorquando dovette permettere il
matrimonio ai preti, ella
cedette solo a malincuore, perché avrebbe voluto rispettare il celibato
ecclesiastico anche nella
religione anglicana e, comunque, si riservò, per molto tempo, il diritto di
concedere ella stessa il
permesso caso per caso e non nascose mai il suo disappunto nel doverlo fare,
così come il suo
sarcasmo nei confronti delle mogli degli alti prelati.
Poste queste necessarie premesse, veniamo ora alla trattazione vera e
propria delle innovazioni
religiose effettuate da Elisabetta I.
All'inizio la regina dovette procedere con estrema prudenza: i protestanti,
esiliati più o meno
volontariamente durante il regno di Maria Tudor, stavano tornando in patria
in massa, mentre i
cattolici fuggivano prima ancora che il governo avesse manifestato
chiaramente le sue intenzioni,
oppure, se decidevano di rimanere in patria, fomentavano disordini e
discussioni. I vescovi erano
naturalmente alla testa dell'opposizione, ma la loro incisività doveva
essere indebolita dall'esiguità
del loro numero. In effetti una gran quantità di sedi era stata lasciata
vacante dal cardinal Pole nel
precedente regno e poi, entro il primo anno da che Elisabetta era salita al
trono, erano deceduti altri
quattro vescovi. La situazione, quindi, era tale che, su 27 vescovadi
essendone occupati solo 17, la
regina poteva approfittare per nominare alle sedi vacanti dei protestanti ed
anche per incamerare i
beni di tutti i vescovadi e farne una nuova, più economica, concessione.
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n. 4, 24 febbraio 2003
Il primo atto emanato dalla sovrana è l'"Atto di Supremazia", in cui veniva
ribadita la sottomissione
della Chiesa Anglicana al controllo esclusivo dello Stato ed in particolar
modo del suo capo, ovvero
il re.
Questo atto è molto importante in quanto dà vita ad un concetto nuovo ed
originale di Supremazia,
perché al momento della successione al trono di Elisabetta, era in dubbio se
una donna potesse
ereditare il titolo di "Capo Supremo" della Chiesa. Con questo documento la
questione viene risolta
affidando alla regina non già quell'appellativo, ma quello di "Supreme
Governor", cioè di
"protettrice" della Chiesa e "Suprema Governatrice in tutte le cause tanto
ecclesiastiche che civili
del regno".
Grazie a questo riconoscimento, quindi, viene esplicitamente ed
ufficialmente dichiarata l'autorità
ecclesiastica della regina e si rinuncia definitivamente ad ogni intervento
del potere, ritenuto
straniero, del Papa nelle cose religiose del regno.
Per quanto concerneva la posizione dei preti, essi erano obbligati (come
anche tutti i funzionari
pubblici) a prestare un giuramento o, meglio, un "corporal oath" effettuato
sui Vangeli, alla regina
ed alla sua autorità, e questo era inteso come conditio sine qua non della
legalità ed effettività della
loro posizione.
Tuttavia, si noti, questa specifica legislazione non voleva e non doveva
essere intransigente ed
eccessiva; ed infatti, nonostante tramite lettere patenti del 19 luglio del
1559 fossero state create
delle apposite commissioni ecclesiastiche permanenti, incaricate di vigilare
sull'effettivo rispetto
dell'obbligo al giuramento, se gli ecclesiastici avessero rifiutato di
adeguarsi a tale imposizione, essi
non sarebbero stati accusati di alto tradimento (e quindi sottoposti a pene
molto severe), ma
avrebbero soltanto perso il posto ed i benefici. Questa attenuazione del
carattere coercitivo della
norma altro non può essere, quindi, se non una dimostrazione del fatto che l'"Atto
di Supremazia"
non dev'essere visto solo come un documento di carattere religioso, ma anche
e soprattutto come
uno strumento politico grazie al quale il governo, obbligando anche gli alti
prelati (membri della
Camera Alta) a dimostrare la loro lealtà alla regina, si sarebbe assicurato
una maggioranza elevata in
Parlamento.
Complessivamente questo atto soddisfece la maggioranza della popolazione
inglese, poiché, dopo
tanti anni di lotta, la questione religiosa pareva finalmente risolta: si
era raggiunta una pacificazione
che sembrava definitiva, ed in realtà lo era.
L'"Act for the Uniformity", invece, pone definitivamente la Chiesa d'Inghilterra
dalla parte del
Protestantesimo, autorizzando una sola forma di servizio religioso in
Chiesa, cioè quello anglicano,
e proibendo tutte le altre, dietro miti pene per i dissidenti.
Va inoltre ancora sottolineato che esso impone la frequenza obbligatoria, la
domenica ed in tutte le
feste religiose, della chiesa parrocchiale, dietro pena di una multa (e, si
noti, questa clausola sarà
molto importante perché legata alla successiva legislazione di Elisabetta ed
in particolar modo alle
leggi penali contro i cattolici).
L'importanza primaria di quest'atto risiede nel fatto che, proprio grazie
alla creazione del "Book of
Common Prayers", viene finalmente elaborato un testo unico in cui sono
contenuti tutti gli elementi
essenziali del nuovo Credo: dopo anni di riforme, talora contrastanti fra di
loro, Elisabetta raggiunge
quindi l'importante obiettivo di proclamare una nuova fede alla fine
uniforme ed organica, ed il
regno può finalmente trovare una sistemazione definitiva e duratura del
problema religioso.
La Chiesa creata da Elisabetta non volle mai essere intransigente contro gli
oppositori, ed in effetti
nei primi dieci anni del suo regno, come abbiamo già detto, non vi furono
persecuzioni concrete e
sistematiche contro i cattolici.
Le cose però non tardarono a cambiare: ben presto infatti dovevano
subentrare nuovi fattori che
avrebbero modificato ed inevitabilmente guastato le relazioni fra l'Inghilterra
e Roma ed i suoi
fedeli.
La Chiesa cattolica, uscita rigenerata dal Concilio di Trento dichiarò l'eresia
come un fenomeno non
più tollerabile e decise di estinguerla, iniziando un'opera di soppressione
su vasta scala, che,
partendo dalla Francia, doveva poi toccare i Paesi Bassi per giungere infine
in Inghilterra ed in
Scozia.
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n. 4, 24 febbraio 2003
Così giunse la Bolla di scomunica di Pio V che John Felton affisse alla
porta della sede del vescovo
di Londra, in St. Paul's Churchyard.
La "Regnans in Excelsis" del 1570 è un documento di grande importanza, ma il
suo significato è
strettamente politico più che religioso. Scomunicando Elisabetta e
dichiarando che ella non regnava
per un giusto diritto in Inghilterra (essendo nata da un matrimonio non
benedetto da Dio), ed
esonerando, di conseguenza, i suoi sudditi dall'obbedienza, in pratica il
Papa si era schierato
chiaramente contro una principessa perché protestante, ed appoggiava le
pretese al trono
d'Inghilterra di un'altra (Maria Stuart) solo perché cattolica.
Secondo il punto di vista del Papa questo intervento era estremamente
necessario perché a quel
punto la questione non riguardava più soltanto la religione, ma la stabilità
del regno e la prosperità
del mondo intero.
In sostanza si può dire che la Bolla papale rese il tradimento nei confronti
di Elisabetta una parte
necessaria dei doveri religiosi di ogni buon cattolico inglese, perché non
era più possibile per nessun
suddito essere cattolico, ovvero fedele alla Chiesa di Roma, ed allo stesso
tempo patriota. In pratica,
con questo documento, la lealtà alla regina era posta in conflitto con la
devozione al Papa e
quest'ultimo, unilateralmente, decise di sciogliere i sudditi dall'obbligo
di fedeltà alla sovrana.
In Inghilterra l'effetto fu devastante. La svolta voluta dal Papa non fece
altro che contribuire a
rafforzare il colore protestante e militante del governo ed a giustificarlo
nel rafforzamento delle sue
leggi contro i cattolici: se da Roma si sanciva il diritto di uccidere la
regina ella rispondeva
elevando patiboli.
Elisabetta, che forse avrebbe potuto essere la sovrana conciliante, diveniva
inesorabilmente la
regina protestante; ella che non aveva mai odiato il cattolicesimo, dovette
subire il suo odio che le
insidiava ogni giorno la vita ed il regno. Quello stesso cattolicesimo che l'aveva
bandita, che di lei,
protestante e figlia di Anna Bolena, avrebbe fatto volentieri la sposa del
cristianissimo Filippo II, o
dei cattolici figli di Caterina de' Medici, ora che non era riuscito a
prenderla la malediceva.
Un'ondata di violenze si abbatté sui cattolici; centinaia di patiboli si
innalzavano sulle piazze
d'Inghilterra e preti e laici pagavano con la vita l'aver letto e diffuso la
Bolla papale.
Alla fine, purtroppo, anche la fede anglicana cadde nella prigionia dell'intolleranza
e si macchiò dei
sui stessi orrori.
Primo atto di questo mutato atteggiamento fu l'approvazione, nel 1571, dell'"Act
against Bulls from
Rome".
Il documento si apre ribadendo che nessuno nel regno avrebbe più dovuto
riconoscere, far
riferimento, rispettare e divulgare tutte quelle leggi che in passato erano
servite a mantenere in vita
il potere usurpato di Roma in Inghilterra, e questo dietro il pericolo di
incorrere nelle pene del
"Premunire" e dello "Statute of Provision"; in buona sostanza nessuno doveva
più fare riferimento
a Roma per nessuna ragione di carattere spirituale.
L'atto del 1571 governò i rapporti fra Roma e l'Inghilterra per i dieci anni
successivi alla sua
pubblicazione. Ma nel 1581 una nuova legislazione penale, determinata dal
nuovo pericolo dei
cosiddetti "preti del seminario" (o "Seminary Priests"), entrò in vigore.
In effetti nel 1580 sbarcarono in Inghilterra i primi gesuiti allo scopo di
riportare il popolo alla
vecchia fede. Il fenomeno era collegato a quel movimento dei "Seminary
Priests" che trovava
origine nel lontano 1568, allorquando un certo William Allen, uno dei più
abili e coraggiosi cattolici
del suo tempo, aveva aperto un seminario nella città universitaria di Douay,
nelle Fiandre.
Inizialmente si trattava solo di una scuola per l'educazione della gioventù
cattolica inglese esiliata,
ma a poco a poco esso si trasformò in un seminario in cui un corpo di preti
veniva istruito allo
scopo di prestare assistenza per la restaurazione, qualora le circostanze lo
avessero permesso in
futuro, del cattolicesimo in Inghilterra.
Il movimento dei seminaristi divenne quindi pian piano un simbolo dell'unione
delle potenze
cattoliche contro la riforma anglicana, rinnovando i sospetti di una Lega
Santa contro l'Inghilterra.
La risposta del governo fu quella di combattere tenacemente quei religiosi e
di punirli come
traditori.
La lotta contro questa fazione di cattolici venne presto vinta, ma le
conseguenze furono molte.
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n. 4, 24 febbraio 2003
Questa invasione di preti fu molto pericolosa principalmente perché era
fatale per la politica
elisabettiana di pacifico assorbimento nella Chiesa Anglicana: i
seminaristi, infatti, riuscirono,
almeno per un po', a fermare quell'opera di omogeneizzazione che la regina
stava cercando di
portare a termine fra i protestanti ed i cattolici.
Nel 1581, viene così approvato l'"Act against reconciliation to Rome".
Esso nasce principalmente per rendere più difficile e più pericolosa l'opera
svolta dai seminaristi
allo scopo di ricondurre individui e famiglie al cattolicesimo.
Con questo documento vengono infatti stabilite multe salatissime per chi non
aderiva alla Chiesa
riformata frequentando le chiese parrocchiali e per chi cercava di aizzare
le masse contro il legittimo
potere della regina.
Importantissimo è anche l'"Act against Jesuits and seminary priests", del
1585, che stabilisce che
tutti quegli ecclesiastici che erano stati ordinati o avevano ricevuto una
qualche nomina o investitura
da Roma non potevano più risiedere in nessuno dei dominii d'Inghilterra, e,
di conseguenza,
dovevano abbandonare il regno. In caso contrario, sarebbero stati accusati
di alto tradimento e
perciò sottoposti a tutte le pene e le conseguenze previste dalla vigente
legislazione in merito al
reato di "high treason".
Coloro che avessero invece nascosto o protetto, volontariamente e
consapevolmente, questi
ecclesiastici, sarebbero stati additati come "Felon" e, senza poter
usufruire di beneficio alcuno,
avrebbero sofferto tutte le pene previste dal reato di "Felony".
La colpa di alto tradimento si configurava infine anche per quanti, in
futuro, avessero frequentato
seminari o studiato presso scuole di gesuiti all'estero e, tornando poi in
Inghilterra, avessero
rifiutato di prestare giuramento di sottomissione alla Corona ed alle sue
leggi.
Con questo atto, a grandi linee, si concludeva la sistemazione religiosa
elisabettiana.
Complessivamente essa riuscì bene. Certo non mancarono le eccezioni, ma al
termine del regno di
Elisabetta I i cattolici osservanti erano divenuti una piccola minoranza, e
la Chiesa Anglicana si era
così affermata in tutto il Paese.
Ma Elisabetta non fu la prima regina protestante d'Inghilterra.
Prima di lei, regnante Enrico VIII, un ruolo importante era stato svolto da
Catherine Parr.
Ella, sesta moglie del re scismatico, era una di quelle donne che percorrono
la propria vita
dispensando benedizioni, amando ed essendo amata da tutti quelli che la
conoscevano.
Buona, colta, virtuosa, umile ed innocente, visse gran parte della sua vita
nelle valli del
Westmoreland ed a Kendale, dove nacque nel 1512.
Morto il padre, sua madre decise di non risposarsi, ma di dedicarsi all'educazione
dei figli;
Catherine divenne così una delle donne più istruite e colte del suo tempo,
riuscendo addirittura a
portare avanti un progetto assai ambizioso, ovvero quello di tradurre il
"Latin Paraphrase" sul
Nuovo Testamento di Erasmo come una guida in inglese allo studio della
Bibbia, da fornire alle
parrocchie; ella riuscì anche ad essere autrice di due lavori religiosi
sempre in lingua inglese,
entrambi firmati con il suo vero nome, contrariamente ai costumi dell'epoca
che incoraggiavano
(per non dire forzavano) le donne ad usare uno pseudonimo maschile per avere
maggiore credibilità.
Il 12 luglio del 1543, a meno di sessanta giorni dalla sua ultima vedovanza,
Catherine fu condotta
all'altare da Enrico VIII.
Nel complesso la vita coniugale fu meno infelice di quanto si sarebbe potuto
prevedere. Del resto la
salute del re era talmente peggiorata negli ultimi tempi che la nuova moglie
fu per lui poco più di
una infermiera. Ad ogni modo il sovrano aveva la più completa fiducia nelle
sue virtù e nel suo
buon senso, lasciò che ella esercitasse su di lui tutta la propria benefica
influenza e, addirittura, nel
1544, le affidò la reggenza del Paese allorquando dovette spostarsi in
Francia per una spedizione,
concedendole i più larghi poteri che fossero mai stati dati ad una donna
prima di allora.
Catherine sfruttò questo periodo di reggenza nel tentativo di conciliare le
varie tendenze religiose e
politiche del regno. Nel corso degli anni ella aveva maturato un forte
interesse per il
Protestantesimo e ben presto si era convertita alle nuove dottrine, delle
quali era divenuta ardente
fautrice, senza però abbandonarsi mai all'intolleranza nei confronti dei
cattolici.
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n. 4, 24 febbraio 2003
Tuttavia allora il problema religioso infuriava nel regno e patiboli e roghi
s'innalzavano ogni
giorno. La regina quindi, se non poté arrestare la mannaia del boia, si
adoperò in tutte le maniere per
far risparmiare la vita di alcuni sudditi.
Purtroppo per lei, però, a corte molti la invidiavano per la sua influenza
su Enrico VIII e la sua
benevolenza nei confronti dei perseguitati fu sfruttata dai suoi nemici per
accusarla di eresia.
La regina era una protestante, una protestante fervente, benché riservata e
tranquilla, ed i sospettosi
occhi dei cattolici sorvegliavano ogni suo atto ed ogni sua parola nella
speranza di coglierla in una
qualche mancanza contro la fede od in qualche offesa contro l'ortodossia per
poterla mandare al
patibolo.
Ed infatti tanto fecero ed intrigarono quei cattivi cattolici d'Inghilterra
che, al suo ritorno dalla
Francia, Enrico VIII trovò la moglie accusata di eresia.
Il decreto per l'arresto della regina era stato già firmato ed erano state
persino spedite le guardie che
la dovevano arrestare. Ma Catherine riuscì a parlare con il marito e si
salvò. Tuttavia i suoi tentativi
di pacificazione religiosa del Paese dovettero terminare qui.
Maggior fortuna ebbe invece Francoise d'Aubigne Maintenon, moglie di Luigi
XIV di Francia,
donna che ebbe una grande influenza sulla vita del regno.
Grazie a lei in effetti molte innovazioni furono apportate a corte (dove la
dissolutezza,
l'omosessualità e l'ubriachezza regnavano incontrastate): ad esempio non si
poteva giocare durante
la quaresima; furono banditi, con pena di morte, i giochi d'azzardo; era
vietatissimo parlare, sia pure
sottovoce, durante le funzioni religiose.
Madame de Maintenon influenzò anche l'operato del re, convincendolo, anche
se non era
personalmente religioso, a partecipare alle funzioni. Infine ella sostenne
la revoca dell'editto di
Nantes.
Si conclude così questa mia esposizione sui personaggi femminili che hanno
in qualche modo avuto
un ruolo nelle riforme religiose del '500 e del '600.
Naturalmente questo scritto non può essere esaustivo; tuttavia credo sia
utile per introdurre allo
studio di un argomento che, come detto all'inizio, è fin troppo trascurato.
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in Storiadelmondo
n. 4, 24 febbraio 2003
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Su Elisabetta I
. E. Cantani, La vita ed il tempo di Elisabetta, Milano, Mondadori, 1977,
126p.
. G. Dogliotti Frati, Elisabetta d'Inghilterra, Genova, ECIG, 1992, 67p.
. D. Kotnik, Elisabetta d'Inghilterra. Una donna al potere, Milano, Rusconi,
1984, 277p.
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