L'OLANDA IBERICA
Agli inizi del 1400 esistevano nella penisola iberica 5 Stati: Castiglia,
Aragona, Navarra, Granada (che poi formeranno l'odierna Spagna) e il
Portogallo. L'inizio dell'autonomia politica del Portogallo è legato alla
vittoria sugli arabi riportata nel 1139. Prima di allora il Portogallo era
stato una contea dipendente dal regno di Leòn-Castiglia (e per un certo
periodo di tempo dipendente anche dalla Borgogna francese). Dopo quella
vittoria il conte Alfonso Enriquez venne proclamato re del Portogallo, anche
se, per conservare il titolo, osteggiato dalla Castiglia, il re dovette
dichiararsi, almeno formalmente, "vassallo" del papato, pagando annualmente
una determinata somma di denaro. Era l'anno 1179. Da allora e per circa tre
secoli i re portoghesi (memori, in questo, dell'antico costume visigoto)
lottarono contro le pretese dei papi, e solo all'inizio del XV sec.
riuscirono a sottomettere il clero nazionale alla corona.
Alcuni storici si sono chiesti il motivo per cui la Castiglia non riuscì ad
assoggettare il Portogallo. Sono state date diverse spiegazioni e forse le
più convincenti sono le seguenti: a) quando il Portogallo proclamò
l'indipendenza nazionale, i vari regni spagnoli erano impegnati in dure
lotte dinastiche e nella guerra contro i mori; b) il Portogallo era sotto
uno speciale protettorato della Chiesa di Roma; c) la Spagna possedeva le
terre migliori, non era priva di porti sull'Atlantico e considerava
prioritari i suoi interessi con l'Italia e l'Africa. Oltre a ciò va
considerato che la Castiglia appariva al Portogallo più arretrata
economicamente, perché sostanzialmente estranea ai commerci: in Castiglia
l'interesse per i traffici maturò nei secoli XIV e XV. Si può anzi dire, in
questo senso, che l'unione della Castiglia con l'Aragona, dalla quale nacque
la Spagna, fu facilitata dal fatto che fallirono tutti i tentativi di
unificare Portogallo e Castiglia.
Il Portogallo, in un modo o nell'altro, con tempi più o meno lunghi, ha
sempre avuto la forza di opporsi ai tentativi egemonici della Castiglia
prima e della Spagna dopo. E questo nonostante che le molte analogie tra i
due Paesi avrebbero potuto rendere relativamente facile la conquista del
"piccolo" Portogallo da parte della "grande" Spagna. Ci si riferisce cioè al
fatto che le differenze culturali non sono mai state molto forti: entrambi
possedevano valori cattolici comuni; le istituzioni e le forme sociali erano
nate da più di un millennio di esperienza comune (le più importanti erano
state quelle sotto la monarchia visigota); i nobili spagnoli e portoghesi
viaggiavano liberamente da una corte all'altra; i rispettivi sovrani si
univano in matrimonio e possedevano feudi nei territori dell'altro; marinai
spagnoli e portoghesi navigavano sulle stesse navi; le leggi spagnole erano
alla base dell'istruzione dei magistrati "lusitani" ("Lusitania" è l'antico
nome del Portogallo).
Le differenze tra i due Paesi non erano sostanziali ma formali, in quanto
nel rapporto tra "ideali religiosi" e "interessi commerciali", cioè tra
necessità della tradizione ed esigenze della modernità, il Portogallo,
favorito in questo anche dalla sua posizione geografica, cercherà di
realizzare un maggiore compromesso. Al pari della Spagna, non permetterà mai
alla borghesia di costituirsi come classe autonoma, ovvero che il
capitalismo da commerciale si trasformasse in industriale, ma quando a tutta
la penisola iberica subentreranno, nel dominio mondiale dei commerci,
l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia, il Portogallo reagirà in maniera meno
scomposta, meno convulsa della Spagna, la quale invece si lancerà
nell'avventura dell'Inquisizione e della Controriforma. Il Portogallo subirà
un'involuzione neo-feudale sostanzialmente perché vi sarà costretto dalle
pressioni politico-militari della Spagna.
Diversamente da quella portoghese, la stessa espansione coloniale spagnola
fu, sin dall'inizio, un modo "feudale" d'impedire alla borghesia nazionale
(ebraica e saracena) di diventare politicamente forte (economicamente lo era
già). L'altro modo fu l'espulsione dal Paese o la conversione forzata al
cattolicesimo. L'antisemitismo portoghese è posteriore a quello spagnolo. Le
numerose comunità ebraiche che vivevano nelle principali città, avevano
posizioni solidissime nel commercio, nelle attività bancarie e finanziarie,
nell'amministrazione pubblica. Mentre in Spagna gli ebrei cercavano di
fuggire dalle persecuzioni e i viaggi oltreoceano poterono essere finanziati
anche con i beni loro confiscati, in Portogallo invece le prime spedizioni
commerciali ebbero il pieno appoggio degli ebrei. Solo quando il re
portoghese Manuel I sposò la figlia di Isabella di Castiglia e dopo che la
corona spagnola aveva cacciato gli ebrei dal Paese, furono promulgati, negli
anni 1496-97, i decreti di espulsione o di forzata conversione al
cattolicesimo, mentre l'inquisizione verrà introdotta nel 1547 (in Spagna
nel 1480).
La "Riconquista" lusitana
In Portogallo la cosiddetta "Riconquista", cioè la cristianizzazione
dell'intero Paese, si concluse prima che in Spagna: verso la metà del XIII
sec., e in maniera meno traumatica: i vincitori, infatti, concessero a mori
ed ebrei di conservare la loro fede e le loro proprietà, purché
riconoscessero la sovranità dei re cristiani e pagassero dei tributi.
Naturalmente i più fedeli alla propria religione abbandonarono il Paese, ma
molti accettarono le condizioni, continuando a svolgere importanti funzioni
economiche: i mori nell'artigianato e nell'agricoltura, gli ebrei nel
commercio e nella finanza.
La "Riconquista" fu comunque un danno per lo sviluppo dei rapporti borghesi:
essa creò una società in funzione della guerra e un sistema di valori dove
l'intraprendenza economica godeva di scarsa reputazione. Fonte primaria del
prestigio sociale era sempre il possesso di terre e di persone: commercio,
artigianato, attività bancarie e finanziarie si preferiva lasciarle in mano
agli ebrei e agli stranieri. Per queste ragioni non pochi borghesi
benestanti investivano i profitti delle loro attività nell'acquisto di
proprietà che garantivano redditi, e aspiravano allo status di "cavaliere"
(cioè di funzionario statale). I rapporti borghesi più sviluppati erano
quelli lungo la costa atlantica.
In ogni caso alla fine del XIII sec. l'economia portoghese presentava un
bilancio migliore di quella spagnola. Vi era maggiore equilibrio tra
agricoltura e allevamento, anche se la corona non riuscì mai a smembrare i
possessi di nobiltà e clero (che erano peraltro esenti da tasse) a vantaggio
dei piccoli proprietari. La ricchezza economica del Portogallo dipendeva
molto dal commercio delle città sulla fascia costiera: esse ricevevano da re
e feudatari ogni sorta di privilegi. Lisbona, già allora, era uno dei
maggiori porti europei: insieme a Oporto e a Venezia, essa garantiva gli
scambi commerciali fra Nordeuropa e Mediterraneo. Le abilità finanziarie
degli italiani, che avevano costituito sul litorale numerose colonie
commerciali, indussero i sovrani a garantire loro immunità fiscali e
giurisdizionali.
La nobiltà cittadina e la corona s'impegnavano spesso in vantaggiose
attività economiche (in particolare nel commercio con le Fiandre),
dimostrando così di non vivere solo delle proprie rendite e di non avere
pregiudizi contro il profitto economico. In ciò utilizzavano gran parte del
denaro ebraico e dell'Italia settentrionale. Molta di questa nobiltà diventò
"capitana di velieri", quando il Portogallo cominciò a espandersi
oltreoceano (vedi ad es. il figlio del re Giovanni I, Enrico, detto il
Navigatore, che aprì a Sagres un osservatorio astronomico e un'accademia
navale, avvalendosi dell'assistenza di geografi, astronomi, matematici,
cartografi e di esperti navigatori genovesi e catalani, per dare adeguata
preparazione tecnica alle spedizioni marinare da lui promosse). Viceversa, i
numerosi piccoli nobili portoghesi che consideravano intollerabile per il
proprio onore un'occupazione diversa da quella militare, si trovarono
praticamente "disoccupati" dopo l'avvenuta "Riconquista", per cui, una volta
decisa l'espansione, passarono direttamente all'attacco degli arabi e dei
berberi sulle coste africane. Questo, peraltro, era anche un modo per
saldare i molti debiti che avevano contratto presso gli usurai delle città.
Già si è detto che nella loro espansione coloniale, gli elementi borghesi
lusitani si univano "pacificamente" alle forze dinastiche e feudali: questo
naturalmente favorì la coesione interna. La borghesia era debole ma protetta
dalla corona, che se ne serviva anche per tenere a freno la nobiltà. La
collaborazione tra mercanti e nobiltà era stata molto forte nel sec. XIII,
allorché si aveva l'ambizione di impadronirsi delle proprietà arabe in
Africa, insediando scali commerciali sulle coste di Tunisia, Algeria e
Marocco: regioni, queste, ove era possibile trovare anche l'oro, divenuto
particolarmente scarso in Europa.
Tuttavia, ogniqualvolta la borghesia dava l'impressione di volersi rendere
autonoma, la nobiltà ne frenava gli entusiasmi. Infatti, durante la lotta
contro la corona di Castiglia, i nobili lusitani avevano sostenuto il
pretendente castigliano alla corona del Portogallo, mentre i ceti medi si
erano schierati con Giovanni, che fu poi eletto nel 1385. La nobiltà perse
credito nel XIV sec., e la monarchia, appoggiata dalla borghesia, consolidò
il vantaggio ottenuto concludendo con l'Inghilterra un trattato commerciale
e di assistenza militare. Sarà anche questo trattato che indurrà la
Castiglia a rinunciare a ogni pretesa sul Portogallo. I mercanti di Lisbona
videro confermato il loro statuto di "privilegiati", in grado di garantire
loro la protezione dalla concorrenza dei gruppi mercantili stranieri. Fu
appunto dopo la "rivoluzione" del 1385 che il Portogallo riprenderà le
spedizioni navali lungo le coste africane. Questa espansione servirà anche a
risolvere, seppure temporaneamente, i conflitti sociali interni tra
borghesia e aristocrazia.
Nascita e sviluppo del colonialismo
Inizialmente il Portogallo pensò di colonizzare l'Africa per paralizzare il
commercio carovaniero musulmano che attraverso l'Africa settentrionale e il
Sahara portava oro, schiavi e avorio dai grandi mercati del Sudan, di
Timbuktu e del Senegal, ai porti del Mediterraneo occidentale. Ma dopo che i
turchi occuparono Costantinopoli, i mercanti lusitani pensarono fosse
indispensabile raggiungere direttamente le fonti orientali ed
estremorientali della ricchezza musulmana, circumnavigando la costa
occidentale dell'Africa e aggirando lo sbarramento islamico dal Nordafrica
fino al Levante.
La prima tappa del colonialismo portoghese fu la conquista di Ceuta, nel
1415, che era una fortezza di pirati arabi posta sullo stretto di
Gibilterra, in Marocco. Nel 1432 s'impadronirono delle isole Azzorre, nel
'34 doppiarono il capo Bojador, a sud del quale si riteneva che la vita
fosse impossibile. L'uso della caravella s'impose proprio per verificare
direttamente se ciò era vero: occorreva, a tale scopo, uno strumento che
permettesse di allontanarsi di molto dalle coste. Nel 1441 una spedizione
fece ritorno col primo carico di schiavi neri di cui si sia a conoscenza.
Intorno al 1450 la loro importazione in Portogallo toccò le 700-800 unità
all'anno. Molti di questi schiavi finivano col lavorare nelle piantagioni
della canna da zucchero presenti nelle colonie. Nel 1442 i portoghesi
importarono dalla Guinea il primo quantitativo di oro (nei 20 anni seguenti
essi divennero i maggiori fornitori d'Europa). Oltre all'oro giungevano in
Europa dalle loro colonie: pepe di Cayenna, cotone, avorio, olio di balena,
pesce da salare, legno pregiato e molti prodotti esotici. Nel 1443 la corona
cominciò a regolamentare questo commercio.
Sul piano etico-giuridico, la conquista di tutte le coste africane libere
dalla presenza islamica, determinò un problema: quale giustificazione dare
all'occupazione di territori dove vivevano popolazioni pagane che non
avevano mai conosciuto Cristo? Si poteva parlare di "guerra giusta" come nel
caso dei mori? Dopo ampio dibattito teologico, si arrivò alla seguente
conclusione, avvallata dall'autorità pontificia: Cristo ha la signoria
materiale e spirituale su tutti i popoli; questo potere lo ha trasmesso ai
pontefici, i quali, a loro volta, lo possono delegare a sovrani cristiani,
che lo esercitano sulle terre degli "infedeli". Tali sovrani hanno la
responsabilità di convertire i pagani: se questi rifiutano, può essere
condotta contro di loro una "guerra giusta", con tanto di riduzione in
schiavitù della popolazione e di confisca delle sue proprietà.
La collaborazione coi capi berbero-arabi (da tempo razziatori) e la
collusione con capi-tribù indigeni si rivelarono subito proficui nella
caccia all'uomo nelle zone dell'interno. In cambio di cavalli e generi di
lusso, i sovrani dei grandi regni africani (Mali, Benin, ecc.) misero i
portoghesi in condizioni di spezzare il controllo arabo sulle rotte di
terraferma e costiera del traffico degli schiavi. Naturalmente i meccanismi
della schiavizzazione portoghese erano molto diversi da quella africana
pre-europea: in quest'ultima lo schiavo poteva sposarsi, possedere beni,
prestare giuramento, essere un testimone valido, diventare persino erede del
suo padrone... In quella europea tutto era strettamente finalizzato
all'accumulo di capitali.
Il Portogallo -a differenza della Spagna- evitò sempre d'avanzare nel
retroterra dei paesi conquistati. Nel 1415 aveva tentato di invadere il
Marocco, sotto il pretesto di una crociata antislamica, ma fu un fallimento
quasi totale (ci riproverà, ma inutilmente, nel 1578). Le forze colonialiste
portoghesi capirono ben presto che per loro era meglio controllare lo
smercio dei prodotti piuttosto che la produzione vera e propria. Questo non
solo perché disponevano di pochissime forze numeriche (la popolazione
nazionale nel 1450 non superava le 800.000 unità: un secolo dopo era sui 1,5
milioni: il numero delle navi che ogni anno il Portogallo inviava nelle
colonie non era superiore a 20 e quello degli uomini non superava i 1500);
ma anche perché le civiltà con cui vennero a contatto non erano di livello
culturale e tecnologico inferiore a quelle europee. India, Indocina e Cina
erano allo stadio del feudalesimo avanzato e, sul piano militare, erano
certamente più agguerriti degli indigeni incontrati dagli spagnoli. Da
notare che, proprio per questa incapacità di organizzare politicamente
l'entroterra, il colonialismo portoghese risulterà meno odioso di quello
spagnolo, anche se, inevitabilmente, lasciò tracce meno profonde.
Nel 1483 Colombo presentò a Lisbona il progetto di periplo terrestre in
direzione d'occidente: in tal modo cercava di rispondere all'idea di
raggiungere l'India per mare strappando ai musulmani il monopolio del
commercio coll'Oriente. Il progetto, come noto, venne bocciato: i portoghesi
preferirono proseguire nei loro tentativi, giudicati più sicuri, di
circumnavigazione africana. Infatti, quando nel 1487 Bartolomeo Diaz
raggiunse l'estremo lembo meridionale dell'Africa, da lui battezzato Capo
tempestoso e più tardi detto di Buona Speranza, la possibilità di
raggiungere le coste dell'India era diventata reale: Diaz però fu costretto
a ritornare a Lisbona, perché l'equipaggio era allo stremo delle forze. Sarà
la spedizione di Vasco de Gama, nel 1498, a gettare l'ancora nella città di
Calcutta, riportando in patria, dopo due anni di viaggio e con un equipaggio
dimezzato, il primo carico di spezie.
Profitto e religione
In un primo momento i portoghesi tentarono d'inserirsi pacificamente nei
circuiti commerciali asiatici. Ma ben presto, anche per non lasciarsi
precedere dai rivali spagnoli, decisero d'intraprendere una vasta azione
militare (pirateria, saccheggi e distruzioni di città costiere) per
controllare tutto il commercio asiatico, via mare, sino all'Estremo Oriente.
Che il primo obiettivo dei portoghesi fosse quello economico e non quello
religioso, è documentato anche dal fatto che la diffusione della fede
cristiana (scopo principale, teoricamente, delle imprese d'oltremare) fu
centrata dapprima sull'Asia e solo nel XVII anche sull'Africa. Le terre e le
città conquistate in India furono il punto di partenza per la loro ulteriore
espansione in Asia. Venezia fece di tutto per impedire che il Portogallo
modificasse lo status quo. Questo non deve apparire strano. E' vero infatti
che su tutti i trasporti gravavano le tasse e i dazi doganali dei turchi
ottomani e dei mamelucchi d'Egitto, ma è anche vero che l'importazione dei
prodotti orientali in Europa costituiva la fonte principale delle ricchezze
di Venezia. Nel 1509, sfruttando il vantaggio della superiorità navale, la
flotta portoghese inflisse una pesantissima sconfitta alla coalizione di
navi arabe ed egiziane, determinando la fine del monopolio arabo, dando
inizio alla decadenza di Venezia e trasformando il Mediterraneo in un "mare
interno", tagliato fuori dalle nuove, grandi vie commerciali. Lisbona era
praticamente diventata la capitale mondiale del commercio delle spezie e
degli schiavi.
Già nel 1454 i portoghesi avevano ottenuto da papa Nicola V il diritto alle
spedizioni militari contro i musulmani e al monopolio commerciale sulle
coste africane del Mediterraneo. In seguito, con la bolla Aeterni Regio
Clementia, ottennero dal papato il riconoscimento del possesso di tutti
territori africani conquistati. La dottrina nata per santificare la
conquista della Terrasanta aveva esteso la sua applicazione sino a
giustificare la conquista di regni e popolazioni che mai avevano minacciato
il Portogallo, sconosciuti anzi a tutta l'Europa. Nel 1493, con un'altra
bolla, Inter Coetera, il papato fu costretto a rispondere alla seguente
domanda: per "costa dell'Africa", a sud delle Canarie, doveva intendersi
tutto l'Oceano Atlantico? Naturalmente i portoghesi pensavano di sì e se
fosse passata la loro opinione, la Spagna avrebbe dovuto loro restituire
l'America.
Gli spagnoli invece ritenevano appartenesse alla Castiglia ciò che si
trovava a ovest e a nord delle Canarie. Papa Alessandro VI, che aveva già
riconosciuto i diritti di conquista alla Spagna sulle "Indie occidentali",
stabilì, per evitare conflitti tra le due potenze cattoliche, che i
territori a oriente di un linea ideale (100 leghe=circa 600 km, a ovest
delle isole di Capo Verde) restassero sotto l'influenza portoghese, mentre
quelli a occidente dovevano restare sotto l'influenza spagnola. Ogni altro
Stato veniva escluso, a priori, da qualunque conquista coloniale. L'anno
seguente però il trattato di Tordesillas, firmato dai sovrani portoghese e
spagnolo, spostava la linea di demarcazione a 370 leghe=oltre 2000 km, a
ovest delle suddette isole, sicché la zona d'influenza del Portogallo
arrivava a includere persino il Brasile. L'ultimo trattato bilaterale sarà
quello di Saragozza nel 1529, determinato dal fatto che con la prima
circumnavigazione americana di Magellano e la conquista spagnola delle isole
Filippine, si riproponeva il problema di una diversa spartizione delle sfere
d'influenza nel Pacifico. La Spagna tuttavia, nonostante quest'ultimo
trattato, si rifiuterà di restituire le Filippine al Portogallo.
Tipologia del colonialismo lusitano
I portoghesi arrivarono in Cina nel 1513 e in Giappone nel 1541. Quando nel
1521 gli spagnoli, circumnavigata l'America meridionale, giunsero
nell'odierno arcipelago malese, lo trovarono già in mano dei portoghesi.
Sintetizzando tutta l'attività coloniale dei portoghesi, si può dire ch'essi
anzitutto nel primo ventennio del XVI sec., istituirono una serie di basi
militari-navali lungo le coste occidentali e orientali dell'Africa
(imitando, in questo, la strategia delle città cristiane del Mediterraneo
nei riguardi dell'Islam afro-asiatico, ai tempi delle crociate); poi
occuparono alcune isole presso Ormuz, per impedire che le vie del Mar Rosso
e del Golfo Persico potessero essere utilizzate dai turchi o dagli egiziani
(le spezie andavano convogliate esclusivamente sulla rotta del Capo di Buona
Speranza); infine bloccarono tutti i passaggi obbligati del commercio
asiatico: Birmania, Malacca, Macao, Taiwan, isole Molucche, Goa e Bombay,
ecc. Praticamente l'espansione seguì, oltre alle direttive della corona,
anche quelle dell'Islam, che da secoli conosceva l'Oceano Indiano. I piccoli
signori feudali dell'Asia erano costretti a concedere gratuitamente o come
tributo o a prezzi fissi gran parte dei raccolti di spezie pregiate.
Il Portogallo, come del resto la Spagna, considerava di suo dominio anche le
acque territoriali di tutte le zone scoperte, per cui ogni nave che entrava
in queste acque, senza il relativo permesso, veniva confiscata e il suo
equipaggio era condannato a morte o ridotto in schiavitù. A queste
condizioni qualunque concorrente del Portogallo appariva un alleato
desiderabile. Anche per questa ragione i commercianti lusitani, in cambio di
oro, argento, rame e spezie, ad un certo punto saranno disposti ad offrire
armi da fuoco, tessuti di lana, velluti, tabacco, orologi, vetro, lenti per
gli occhiali, ecc.
Dunque, a partire dagli inizi del XVI sec. sino all'apertura del canale di
Suez negli anni '60 del secolo scorso, la via marittima aperta dai
portoghesi rappresenterà la strada principale del traffico commerciale tra
Europa e Asia. Tuttavia, il blocco totale del Mar Rosso, pur tentato a più
riprese, non riuscirà mai completamente: gli stessi buoni rapporti con la
Persia implicavano che i mercantili mori continuassero a giungere quasi
regolarmente nel Golfo Persico. Si può stimare che il monopolio lusitano del
commercio delle spezie s'aggirasse sul 60-70% (il pepe costituiva i 2/3 di
tutte le spezie). [Da notare che il livello commerciale raggiunto nel 1515
non sarà più superato in seguito].
Per valutare bene lo sforzo lusitano di espansione commerciale si deve tener
conto anche di un altro fattore: le grandi distanze che separavano la
metropoli dalle colonie, che erano causa di naufragi (almeno il 10-15%) e di
notevoli perdite umane (almeno il 15-25% su un viaggio di due anni). Non
dobbiamo infatti dimenticare che se dalla Spagna a Cuba (e viceversa)
bastavano meno di 5 mesi, da Lisbona a Goa (in India) occorrevano, per
andata e ritorno, almeno 18 mesi, e da Goa al Giappone (andata e ritorno)
almeno tre anni, senza considerare che la via del Capo dipendeva dai venti
stagionali: alisei sull'Atlantico e monsoni nell'Oceano Indiano. Anche per
questo motivo le spezie che passavano dal Capo di Buona Speranza erano di
qualità inferiore rispetto a quelle del Mar Rosso. Le enormi distanze che
dividevano la metropoli dalle colonie indurranno, col tempo, il Portogallo
(ma anche altri Paesi europei) ad abbandonare, in gran parte, i vascelli di
un centinaio di tonnellate, per impiegare sempre di più quelli sulle mille.
Ciò permetteva un risparmio relativo di circa la metà dei costi, grazie alla
riduzione del numero degli uomini e della quantità dei viveri. Inoltre
s'imporrà il sistema dei "convogli".
La fortuna del Portogallo declinò molto presto per due fondamentali ragioni:
a) Inghilterra, Olanda e Francia erano diventate delle nazioni militarmente
forti, soprattutto sul piano navale, in grado di minacciare tutte le colonie
del Portogallo, b) la Spagna assolutista degli Asburgo lo occupò nel 1580,
portandolo in breve tempo al dissesto economico e finanziario, tanto che
moltissime delle sue colonie (a causa della guerra tra Spagna e Olanda) gli
vennero sottratte dagli olandesi. Non solo ma nel 1654 la Spagna, in guerra
anche con l'Inghilterra, sarà costretta a firmare un trattato in virtù del
quale quest'ultima si assicurerà il controllo politico-economico dello
stesso Portogallo. Tuttavia, nel 1640, approfittando della rivolta
antigovernativa della Catalogna, nobiltà e borghesia portoghesi, appoggiati
dall'arcivescovo di Lisbona, riuscirono a organizzare una congiura,
occupando il palazzo reale di Lisbona. Ebbe così inizio la sollevazione
nazional-popolare che, sostenuta da Francia e Inghilterra, costringerà la
Spagna a riconoscere definitivamente l'indipendenza del Portogallo nel 1668.
Ciò tuttavia non permetterà al Portogallo di risollevarsi economicamente.
L'unico vasto territorio che il Portogallo cercò di colonizzare non solo
sulla costa ma anche all'interno fu il Brasile, occupato nel 1500. Allora il
Brasile era povero di popolazione e di ricchezze sfruttabili (i giacimenti
di oro e diamanti vennero scoperti solo verso la fine del XVIII sec.). Qui i
portoghesi metteranno in piedi una serie di piantagioni (soprattutto dello
zucchero) e un mercato di schiavi (gli indios brasiliani che non volevano
lavorare vennero sostituiti con schiavi negri importati dall'Africa),
adottando gli stessi metodi di sfruttamento esistenti nelle colonie
spagnole. Con una differenza però: i profitti derivati dai beni di commercio
più vantaggiosi finivano nelle casse dello Stato, poiché erano di monopolio
reale. Lo Stato prelevava i diritti di dogana e delle contrattazioni
commerciali e incamerava i diritti (5%) delle licenze reali. Per poter
riscuotere con sicurezza i dazi sul commercio, la corona aveva designato
Lisbona come unico porto per i viaggi in partenza e in arrivo.
I metodi amministrativi portoghesi furono meno efficaci di quelli spagnoli,
poiché il governo di Lisbona era molto autocratico e non permetteva ai
funzionari presenti nelle colonie di poterle controllare autonomamente. Lo
sfruttamento delle colonie portoghesi avveniva mediante un apparato statale
burocratico di tipo feudale. Il potere dei funzionari era enorme, poiché
erano responsabili solo di fronte al re. Le nomine restavano in vigore per
un triennio ed erano molto ambite. Questa burocrazia, che ebbe meno problemi
con la corona di quanti ne ebbero i conquistadores col governo spagnolo,
svolgeva funzioni amministrative, giudiziarie e commerciali. Essa acquistava
o raccoglieva come tributi le merci per la madrepatria. L'eccesso di quanto
poteva essere caricato sulle navi, veniva distrutto. Ogni singola colonia
era direttamente collegata con la metropoli: non esistevano legami tra
colonie. Il commercio tra singoli porti delle colonie era un monopolio
concesso come privilegio solo agli alti funzionari. Tutte le colonie vennero
chiuse al commercio degli stranieri nel 1591.
Da ultimo si può far notare che il Portogallo non è mai stato in grado di
smistare, da solo, tutte le merci che acquistava. Non disponendo di una
vasta rete commerciale e avendo una scarsa popolazione, esso era costretto a
servirsi d'intermediari (anche italiani), che naturalmente assorbivano una
buona parte dei profitti. Gran parte delle spezie e del pepe finivano
all'emporio reale di Anversa, dove vigeva la piena libertà commerciale e
finanziaria. Qui la Borsa fu istituita nel 1531. Quando le fortune di questa
città fiamminga cominciarono a declinare, salirono quelle di Genova, che per
mezzo secolo saprà attirare l'oro e l'argento, mentre le spezie e lo
zucchero convergeranno su Amsterdam. Saranno i portoghesi i primi a
introdurre ufficialmente il sistema monetario basato sull'oro, rinunciando
all'argento.
LE SCOPERTE GEOGRAFICHE
La caduta dell'impero bizantino. La caduta di Costantinopoli avvenne nel
1453 ad opera dei Turchi ottomani, che avevano preso il posto dei Turchi
selgiuchidi in Asia Minore. Essi erano di religione islamica. A Firenze nel
1439 era stato siglato un accordo fra l'imperatore bizantino e la chiesa di
Roma che prevedeva la sottomissione dell'Ortodossia al Cattolicesimo in
cambio di una crociata anti-turca. Ma la crociata non venne intrapresa
perché le masse bizantine rifiutarono gli accordi di quel concilio.
Le scoperte geografiche. Lo sbarramento ai traffici tra Oriente e Occidente
frapposto dall'impero ottomano spinse gli europei a cercare nuove vie di
comunicazione. L'unica città che ancora conservava la possibilità di
commerciare coll'Oriente attraverso il Mar Rosso e l'Oceano Indiano era
Venezia, che non voleva dividere i suoi privilegi con nessuno. Oltre a ciò l'Oriente
aveva bisogno di oro e argento per dare impulso alle nuove attività
produttive e commerciali della borghesia.
La via oceanica all'Oriente venne aperta quando il portoghese Bartolomeo
Diaz doppiò la punta estrema del continente africano (capo di Buona
Speranza). La nave delle grandi scoperte fu la caravella, un piccolo
veliero, agile e veloce. Naturalmente nessun viaggio oceanico si sarebbe
potuto fare senza il perfezionamento della bussola, lo studio dei venti e l'elaborazione
di carte nautiche più precise.
All'inizio le scoperte geografiche saranno il frutto dell'intraprendenza di
mercanti, nobili decaduti, avventurieri e navigatori privati (genovesi e
portoghesi soprattutto). In seguito i viaggi saranno organizzati dagli Stati
dell'Occidente europeo. L'esigenza di scoprire nuove vie di comunicazione e
nuove terre da colonizzare, partiva anche dal fatto che la formazione delle
monarchie nazionali implicava la costituzione di eserciti di massa, di un'amministrazione
burocratica complessa, di una politica edilizia di prestigio che col normale
prelievo fiscale non si poteva più garantire.
La scoperta dell'America (1492). Allorché si cominciò a credere che i
portoghesi erano ormai prossimi a raggiungere le Indie (India, Cina e
Giappone), i sovrani di Spagna (Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona)
decisero di finanziare il progetto del genovese Cristoforo Colombo, che si
proponeva di raggiungere le regioni dell'Estremo Oriente, navigando verso
Occidente, attraverso l'Atlantico. Il progetto di Colombo era motivato da
tre considerazioni: 1) che la forma della terra fosse sferica, 2) che fosse
relativamente modesta la distanza, per via di mare, tra le coste occidentali
europee e quelle orientali asiatiche, 3) che fra esse nessun altro
continente vi fosse. Questo progetto venne dapprima sottoposto ai
portoghesi, che però lo rifiutarono, accontentandosi dell'impresa di Diaz.
Lo scopo dell'impresa era unicamente commerciale e mirava ai ricchissimi
mercati di Cina e Giappone, di cui aveva già parlato Marco Polo (1271-91)
nel suo libro il Milione. Quando Colombo approdò nell'arcipelago delle
Antille era convinto d'essere giunto in Asia e grande fu il suo stupore nel
vedere che non c'erano quelle enormi ricchezze di cui si parlava in Europa.
Per questo motivo la sua fortuna conobbe un rapido declino, nonostante i
viaggi successivi. In seguito, i viaggi di Caboto, Vespucci e Magellano
dimostrarono che le terre scoperte da Colombo erano in realtà un nuovo
continente.
Le civiltà americane. Gli AZTECHI erano caratterizzati da una monarchia
elettiva molto forte. Il re aveva poteri assoluti, in qualità di capo dello
Stato e dell'esercito, nonché sommo sacerdote. Egli era affiancato da un
notevole apparato amministrativo. Le cariche civili e religiose erano
riservate a una casta ereditaria: la nobiltà, la quale era anche l'unica a
possedere privatamente la terra; i contadini invece la ricevevano in
usufrutto dalla comunità. Mercanti e artigiani erano un ceto intermedio di
privilegiati che si trasmettevano il mestiere di padre in figlio. Alla base
della piramide sociale stavano i servi e gli schiavi (prigionieri di guerra
o colpevoli di gravi delitti). Non conoscevano l'applicazione pratica della
ruota né gli utensili di metallo, nonostante conoscessero oro e rame. Molto
considerate erano l'architettura, la scultura, la musica, la danza e la
religione. Celebravano sacrifici umani. Ritenevano che la vita di ogni uomo
fosse rigorosamente predestinata, giorno dopo giorno, in ogni particolare.
La loro capitale aveva 300.000 ab. ed era tra le più grandi città del mondo.
I MAYA era organizzati in città-stato dotate di completa autonomia. Non
erano però centri urbani abitati da una popolazione stabile, ma luoghi di
culto, dove avevano sede i templi e le abitazioni del clero. La popolazione
viveva nelle campagne e si recava in città per il mercato e le cerimonie
religiose. Capo della città era il sommo sacerdote, che deteneva anche i
poteri politici e giudiziari. Il clero era affiancato da un potente ceto
nobiliare che aveva il privilegio della proprietà privata della terra. I
contadini lavoravano la terra in comune. La scrittura maya è ideografica e
molto complessa. Avevano conoscenze astronomiche superiori a quelle
occidentali: calcolavano l'anno solare in 365 giorni. Architettura,
scultura, pittura e ceramiche erano molto evolute.
Gli INCAS avevano l'impero più vasto, controllato da un esercito agguerrito
e da una struttura amministrativa efficiente. Non erano tuttavia bellicosi
perché non schiavizzavano i popoli vinti ma li associavano, fornendo loro
ciò di cui avevano bisogno. Bene organizzata era la rete stradale. L'impero
era suddiviso in circoscrizioni rette da governatori. Capo supremo era l'imperatore,
con poteri politici, militari e religiosi. Egli era coadiuvato da 4 alti
funzionari e dalla potente aristocrazia. Si serviva anche di un corpo di
ispettori per controllare tutto l'impero. L'economia era soprattutto
agricola. La proprietà individuale non esisteva. La terra era divisa in tre
categorie: terra del sovrano (per mantenere i nobili, i funzionari e gli
inabili al lavoro), terra dei sacerdoti e terra della comunità (per i
contadini). Si coltivava in maniera intensiva: mais, patate, cereali.
Conoscevano l'anestesia e una tecnica chirurgica molto avanzata. Praticavano
concimazioni e irrigazioni artificiali, allevano i lama. Tessitura e
ceramica erano molto sviluppate. Grande importanza attribuivano alla
divinazione. Praticavano sacrifici umani.
Aspetti comuni delle tre civiltà. L'agricoltura si basava sulla conoscenza d'importanti
piante alimentari: mais, patate, fagioli, pomodori, peperoni... Non
esistevano animali domestici: sconosciuti bue cavallo, asino e cane.
Sconosciuto l'uso della ruota, della moneta e del ferro. Mancavano contatti
e conoscenze tra loro (parlavano più di 100 lingue). Religioni politeistiche
con culto delle forze naturali, presenza di una divinità suprema circondata
da divinità minori. Concezione del mondo molto pessimistica. Quando vennero
distrutte erano all'apice della loro potenza.
La formazione degli imperi coloniali. L'impero PORTOGHESE risultò costituito
da una grande rete di minuscole colonie commerciali e militari, situate
lungo le coste occidentali e orientali dell'Africa, nei pressi del Mar Rosso
e del Golfo Persico (che controllavano completamente), e in quei passaggi
obbligati del commercio asiatico: Birmania, Malacca... In tal modo il
Portogallo poteva controllare tutto il commercio con l'Estremo Oriente. Essi
avevano distrutto l'intera flotta degli arabi d'Egitto. L'unica colonia in
cui il loro dominio si estese anche nell'entroterra fu il Brasile.
L'impero SPAGNOLO nacque non secondo piani preordinati, ma dalle feroci
imprese dei conquistadores che la febbre dell'oro spinse ad addentrarsi nei
territori a nord e a sud dell'America. Il loro impero era immenso: dal
Messico all'Argentina. Le popolazioni indigene vennero costrette ai lavori
forzati nelle miniere e nei campi, e ad accettare la religione cattolica.
Per regolare le rispettive sfere di espansione, evitando di ricorrere all'uso
della forza, Spagna e Portogallo firmarono il trattato di Tordesillas
(1494), secondo cui alla Spagna sarebbero toccate tutte le terre a occidente
del meridiano che divideva l'Artico dall'Antartico, distante 370 leghe dalle
isole di Capoverde; al Portogallo quelle a oriente. I più famosi
conquistatori spagnoli furono Cortés e Pizarro.
I mezzi della conquista. La facilità con cui il Nuovo Mondo cadde nelle mani
dei conquistatori trova la sua spiegazione in una serie di ragioni: 1)
armamento superiore (armi da fuoco leggere e pesanti, spade d'acciaio,
balestre, cavalli...), 2) buona parte delle popolazioni sottomesse da
aztechi e maya passarono dalla parte degli europei, 3) le conquiste furono
mantenute per mezzo di massacri militari e decimazioni attraverso il lavoro
forzato e le epidemie (ad es. in 120 anni la popolazione messicana passò da
25 a 2 milioni).
L'organizzazione delle conquiste. I conquistatori portoghesi e spagnoli
trasferirono nelle Americhe forme di organizzazione politico-sociale simili
al sistema feudale ancora diffuso, anche se morente, in quasi tutta Europa.
Nelle Americhe il modello feudale risultava molto più oppressivo: agli
indigeni venivano richieste prestazioni di lavoro illimitate e nessuna legge
o consuetudine poteva tutelarli. I villaggi indigeni venivano affidati a
quei capi militari che si erano distinti in guerra. L'attività economica più
integrata all'economia europea era l'industria mineraria. Si sottraevano
risorse (poi esportate in Europa, che in cambio forniva beni di consumo e di
lusso per i dominatori locali) senza creare investimenti.
Conseguenze dell'espansione coloniale in Europa.
La sovrabbondanza di argento e oro svaluta il potere d'acquisto delle monete
tradizionali e fa aumentare il costo della vita. Le classi borghesi ci
guadagnano, ma quelle a reddito fisso ci rimettono.
L'intero sistema mondiale dei rapporti commerciali si concentra rapidamente
attorno all'Atlantico e al Pacifico. Il Mediterraneo si avvia a inesorabile
declino e così pure l'economia italiana, asservita peraltro allo straniero.
Lo sviluppo capitalistico trova nel colonialismo un potente fattore di
sviluppo.
Dal Nuovo Mondo giunsero in Europa oro, argento, schiavi, spezie, zucchero,
tabacco e molti prodotti alimentari sconosciuti.
L'economia schiavista. Quando gli indios furono decimati dalle guerre, dai
lavori forzati e dalle epidemie, gli europei pensarono di sostituirli
trasferendo i neri dall'Africa all'America. Per oltre tre secoli i neri che
venivano schiavizzati in Africa, vennero esportati attraverso l'Atlantico,
vero i mercati di schiavi d'America. La tratta dei negri fu iniziata dalla
Spagna e dal Portogallo, e divenne subito una fonte di profitto per gli
Stati, che vendevano licenze ai trafficanti e imponevano delle imposte. Il
monopolio ispano-portoghese venne spezzato ben presto dalla concorrenza di
Olanda, Inghilterra e Francia.
L'OCCASIONE PERDUTA DI COLOMBO
Il 15 febbraio 1493, Cristoforo Colombo, dal Mar delle Azzorre, scrisse una
lettera al cancelliere dei Re Cattolici di Spagna, Luis de Santangel, che
l'aveva aiutato a trovare i finanziamenti per il suo primo viaggio
oltreoceano (una copia di questa lettera venne spedita a Gabriel Sanchez,
tesoriere della corte aragonese, anch'egli sostenitore del viaggio). Luis de
Santangel, il cui casato da generazioni era legato ai sovrani d'Aragona, era
un converso d'origine ebraica, salvatosi dall'Inquisizione solo perché
protetto da re Ferdinando. Fu proprio lui che suggerì a Isabella di
Castiglia, già moglie di Ferdinando, di vincolare il compenso, dovuto a
Colombo, al successo dell'impresa. Isabella accettò in prestito la somma
raccolta dal banchiere Santangel, impegnando ai rischi per quel primo
viaggio solo il suo regno di Castiglia, senza coinvolgere il marito e la sua
Aragona, più interessati alla politica mediterranea (sebbene da entrambi i
sovrani venne rilasciata a Colombo l'autorizzazione scritta a partire per le
Indie, senza la quale Colombo e il suo equipaggio sarebbero stati facilmente
sopraffatti dai portoghesi).
I finanziamenti -come sappiamo- non provennero solo dalle casse reali (in
misura peraltro assai modesta), ma anche da mercanti e banchieri genovesi e
fiorentini, dagli abitanti di Palos, che, condannati per un fatto di
pirateria o di contrabbando, furono costretti a fornire due delle tre navi,
e infine dallo stesso Colombo, che dovette provvedere per circa 1/3 delle
spese al noleggio della terza nave, ai salari dell'equipaggio, al costo
delle vettovaglie e ad altre cose.
La lettera servì appunto per rassicurare il suo "sponsor" più influente, con
dovizia di particolari e di buone promesse, che il viaggio aveva avuto un
felice esito e che i prossimi sarebbero stati ancora migliori.
Colombo la scrisse con la falsa dicitura: "All'altezza delle isole Canarie",
per non rivelare ai portoghesi (padroni delle Azzorre, mentre gli spagnoli
avevano occupato le Canarie nel 1402) la sua rotta di ritorno dal Nuovo
Mondo, che poi per quattro secoli resterà immutata. Non dobbiamo infatti
dimenticare che poche settimane prima d'essere accolto a Barcellona, con
grandi onori, dai re spagnoli, quello portoghese, Giovanni II, aveva avuto
intenzione di rivendicare come proprie le terre scoperte da Colombo, e solo
il timore della forza del nuovo regno spagnolo lo persuase a desistere.
Spedita da Lisbona il 4 marzo 1493, ove Colombo era riparato in seguito a
numerose tempeste, la lettera servì per annunciare ai sovrani spagnoli il
suo ritorno vittorioso. E' un documento molto interessante, poiché
racchiude, in modo sintetico, le principali concezioni di vita del suo
autore, le linee fondamentali della mentalità euroccidentale del suo tempo,
i presupposti basilari di quelli che sarebbero stati i rapporti coloniali
dell'emergente eurocapitalismo col cosiddetto "Nuovo Mondo". Se vogliamo, vi
sono anche i primissimi elementi di quelle scienze, come l'antropologia e
l'etnologia, che si costituiranno, abbandonando l'etnocentrismo europeo,
verso la fine dell'800.
L'importanza di tale lettera venne capita subito: stampata alla fine
dell'aprile 1493 a Barcellona, sarà tradotta in latino, italiano e tedesco,
conoscendo una vasta diffusione in tutta Europa.
Lo scopo del primo viaggio
Fra gli scopi della missione non appare nella lettera quello d'incontrare il
Gran Khan: Colombo lo dà semplicemente per scontato e ne parlerà in altri
documenti. Ad es. nel Giornale di bordo scriverà: a partire dal Milione di
Marco Polo "è da lungo tempo che l'imperatore del Cataio [Cina] ha chiesto
di poter avere dei sapienti che lo istruiscano nella fede di Cristo".
Colombo dunque nei confronti del Gran Khan era mosso da due forti esigenze:
quella del "gran commercio", per usare un'espressione della lettera in
oggetto, e quella della predicazione del cristianesimo.
Colombo, in effetti, non era solo un abile mercante di origine genovese, ma
anche un uomo di fede; anzi egli si considerava un "eletto di Dio"
incaricato di una "missione speciale": quella di aprire un fronte comune
mongolo-cristiano contro l'Islam, che avrebbe preparato il terreno per una
nuova crociata a Gersusalemme, al fine di liberare il Santo Sepolcro e
ricostituire la cristianità mondiale. Nella Lettera rarissima del 7 luglio
1503, egli, consapevole di vivere in un periodo storico in cui l'ideale
della fede, di per sé, non avrebbe potuto muovere nessuno verso la Terra
Santa, scrive che senza ingenti finanziamenti, che si potevano ottenere
acquisendo giacimenti auriferi, non si sarebbe potuto costituire un potente
esercito crociato.
L'idea della "guerra santa" era semplicemente utopica, sia perché l'unico
territorio dove ancora si facevano le crociate antislamiche era la penisola
iberica, sia perché da almeno un secolo e mezzo la dinastia dei Ming aveva
rimpiazzato in Cina quella del Gran Khan; senza considerare che una
cristianità mondiale sotto l'egida del papato da almeno 500 anni non
l'avevano accettata gli ortodossi, non la stavano accettando le forze laiche
nazionaliste e assolutiste d'Europa (in Italia rinascimentali) e non
l'accetterà, di lì a poco, il mondo protestante.
Tuttavia Colombo credette nella possibilità di una "megacrociata" sino alla
fine dei suoi giorni; anzi, col passare degli anni, quanto più i moventi
economici del viaggio e della conquista saranno frustrati da circostanze
avverse, tanto più aumenteranno in lui le preoccupazioni di carattere
mistico-allegorico, riscontrabili nell'esegesi biblica del Libro delle
profezie, ma anche nelle deliranti profezie della suddetta Lettera
rarissima.
Un altro motivo del viaggio era, come si è detto, quello di commerciare con
le Indie (solo nel terzo viaggio Colombo cominciò a ipotizzare l'esistenza
di un "otro mundo"), e addirittura di occupare quanti più territori
possibili, esattamente come da diversi decenni facevano i portoghesi a danno
di arabi, asiatici e africani.
Infine non vanno sottaciuti i grandi vantaggi personali che Colombo avrebbe
ottenuto se l'impresa fosse riuscita. Nei Capitolati di Santa Fe, firmati da
entrambi i sovrani, Colombo chiedeva come compenso cose che mai nessun
navigatore di quei tempi riuscì ad ottenere: il titolo di ammiraglio per
tutti i territori conquistati (equivalente al titolo di grande ammiraglio di
Castiglia); i titoli di vicerè e di governatore, con relativi stipendi, per
tutte le terre colonizzate; la decima parte di ogni transazione commerciale
che avvenisse entro i confini del suo vicereame; il titolo di giudice
esclusivo di tutte le controversie commerciali tra Spagna e nuovi territori;
il diritto di trasmettere questi privilegi al figlio primogenito.
Scoprire o conquistare?
Le armi messe a disposizione dai Re Cattolici per le tre caravelle erano
scarse e di tipo convenzionale: bombarde, falconetti, balestre e armi da
taglio, che dovevano servire per difendersi in caso di attacco, certo non
per occupare uno Stato. Al massimo, seguendo l'esempio dei portoghesi
nell'Africa sud-equatoriale, si potevano occupare territori privi di una
forte organizzazione. In ogni caso la corona spagnola avrebbe saputo
servirsi di eventuali "incidenti", come pretesto per inviare in un secondo
momento forze ben più imponenti. Come poi, in effetti, farà. Dunque
l'intenzione di questi naviganti e dei loro finanziatori, se non era quella
di dichiarare guerra a qualche potenza straniera, era però necessariamente
bellicosa, oltre che commerciale, non foss'altro perché solo così essi
avrebbero potuto contrastare i grandi successi dei portoghesi.
Infatti, Colombo fa subito notare, nella lettera, che i finanziamenti
ricevuti dalla corona avevano sortito l'effetto sperato: "moltissime isole
popolate da gente innumerevole" sono state occupate, "con bando e bandiera
reale spiegata", cioè con tutti i crismi e secondo il diritto vigente (in
Europa), servendosi del notaio di tutta la flotta, Rodrigo d'Escovedo. E
questo -sottolinea Colombo- "senza trovare resistenza": il che sta a
significare che la facilità della conquista doveva rassicurare i sovrani sul
buon esito dei futuri finanziamenti per imprese analoghe.
Già si è detto che Colombo, in quanto cattolico, era un uomo medievale, con
preoccupazioni anacronistiche per il suo tempo, comprensibili solo
nell'arretrata Spagna; in quanto mercante invece egli era sicuramente più
vicino agli ambienti liguri da cui proveniva o a quelli portoghesi che per
molto tempo aveva frequentato. Di qui l'estrema contraddittorietà delle sue
posizioni.
Il primo impatto
Il suo atteggiamento "imperialistico", che è di derivazione tardo-feudale
(vedasi la "Riconquista" spagnola) e che verrà ereditato e anzi approfondito
dal capitalismo emergente, a partire appunto dalla sua "scoperta", è ben
visibile anche laddove egli, pur sapendo che le isole posseggono il nome
attribuito loro dagli "indiani" (popolazioni che non avevano mai avuto alcun
contenzioso con gli europei), decide ugualmente di ribattezzarle coi nomi
della tradizione ispanico-cristiana: San Salvatore, Fernandina, Giovanna,
Isabella ecc.
Colombo giustifica il proprio atteggiamento col precisare che la gente
incontrata non si lasciava "incontrare", in quanto "fuggiva dalla paura".
Non c'è qui la pedagogia di chi, per poter incontrare una popolazione,
lontana dagli usi e costumi euroccidentali, si mette al suo livello e cerca
di avvicinarla lentamente, progressivamente, al fine di capirla. C'è invece
l'astuzia di chi sfrutta la paura altrui come una buona occasione per
imporsi. Colombo, abituato a ragionare in termini di rapporti di forza,
timoroso che la "tierra" tanto agognata possa essergli sottratta dal rivale
Portogallo, ha scoperto l'America -ha scritto Todorov- non gli americani.
Il popolo che per primo Colombo incontrò erano i Lucayo, un sottogruppo
Arawak di circa 30.000 persone che abitava le Bahamas e viveva di pesca e di
un'agricoltura primitiva, in piccoli villaggi indipendenti di non più di 15
capanne (la divisione in classi era inesistente). Commerciavano coi loro
vicini cotone, pappagalli e foglie di tabacco. Gli Arawak erano una
popolazione di lingua e di origine amazzonica. Colombo, in una lettera del
25 dicembre 1492 ne parla così: "E' un popolo affettuoso, privo di avidità e
duttile, e assicuro le Vostre Altezze che al mondo non c'è gente o terra
migliore di queste. Amano il prossimo come se stessi e hanno le voci più
dolci e delicate del mondo, e sono sempre sorridenti...nei contatti con gli
altri hanno ottimi costumi".
Per poter avvicinare gli "indiani", egli è costretto a "catturarne" alcuni,
obbligandoli a imparare lo spagnolo o comunque a comunicare e a fare da
interpreti per tutti gli altri indios. Colombo si sente autorizzato a
comportarsi così anche perché non scorgeva fra quelle popolazioni "nessun
indizio di ordinamento politico". L'assenza di istituzioni lo giudica come
un segno sicuro di arretratezza.
Colombo cerca nel "Nuovo Mondo" ciò che assomiglia all'Europa. Non trovando
alcun "ordinamento politico", egli ritiene legittimo conquistare ciò che gli
appare non difendibile da alcun proprietario in particolare, perché appunto
non rivendicato giuridicamente come "proprio". L'assenza di istituzioni gli
pare un motivo sufficiente per impadronirsi legalmente della terra e delle
risorse altrui. Qui Colombo ha in mente i principî feudali e borghesi della
proprietà privata, la cui tutela dipende dalle istituzioni civili oltre che
naturalmente dai proprietari "legali" o "ufficiali": non può neanche
immaginare che "assenza di istituzioni" e "proprietà comune" si
identificano. La proprietà collettiva è, per lui, senza proprietario, ed
essendo non protetta dalle istituzioni, può essere soggetta in qualunque
momento a esproprio, secondo la legge del più forte.
Colombo è così condizionato dalla mentalità dominante (feudale in Spagna,
sempre più borghese nel resto d'Europa, incluso il Portogallo), che persino
quando descrive l'ambiente naturale di Haiti (che per lui era il Catai),
parla di "usignoli" là dove non sono mai esistiti; e identifica il mondo
degli indios con la mitica età dell'oro (Eldorado), secondo i sogni arcadici
del Sannazaro e dello spagnolo Juan de la Encina. Per lui "quasi tutti i
fiumi trascinano oro" e vi sono "spezie in abbondanza e grandi miniere d'oro
e di altri metalli".
Michele da Cuneo, che fece con Colombo il secondo viaggio, racconta nel suo
reportage, che le sabbie piene d'oro dei fiumi erano solo nella fantasia di
Colombo e dei suoi uomini. Di fatto, egli ne troverà pochissimo, peraltro
già lavorato dagli indigeni (delle foglioline, una maschera...). Lo stesso
capitano della Pinta, Martin A. Pinzòn, si staccò dal convoglio per scoprire
nuove terre e impossessarsi dell'oro, senza però riuscirvi.
Tuttavia, Colombo cercava di vendere fumo anche per garantirsi ulteriori
finanziamenti per le future missioni, e forse anche perché, psicologicamente
parlando, gli sembrava impossibile che in territori così ricchi di
vegetazione non vi fossero importanti materie prime come l'oro e l'argento,
la cui scoperta gli pareva imminente. Ancora non gli era balenata l'idea di
schiavizzare quelle popolazioni per sfruttarne le risorse, o a titolo per
così dire di "risarcimento" per non aver trovato ciò che cercava. Durante il
primo viaggio, dopo aver costatato la sobrietà e la semplicità di costumi
degli indios, l'unica sua preoccupazione era quella di come dimostrare che
occorrevano i finanziamenti per organizzare un secondo viaggio: sia per la
ricerca dei giacimenti, che per l'estrazione dei minerali e il loro
trasporto in Spagna.
Innocenza e paura
Il tipo di rapporto che Colombo riesce a stabilire con gli indios è alquanto
superficiale, basato sulle mere impressioni. Non c'è una vera spiegazione
del fenomeno osservato, sulla base delle testimonianze e dei racconti degli
stessi Lucayo e di altri gruppi indigeni, ma solo una sua descrizione
sommaria, determinata dall'interesse contingente, che però pretende d'essere
obiettiva, perché fatta da un osservatore che si sente infinitamente
superiore al soggetto incontrato.
E così, la nudità fisica di uomini e donne è la prima cosa ch'egli nota, e
gli pare del tutto anomala, segno di povertà, di semplicità e primitivismo
(non però di lussuria); l'assenza delle armi viene attribuita alla "paura";
l'estrema generosità con cui offrono quello che hanno alla sprovvedutezza.
In particolare, Colombo scoprì il contrario di quanto s'andava predicando
nella Spagna del suo tempo, e cioè che il corpo è fonte di peccato. E' vero
che nell'Italia rinascimentale si era verificata una riscoperta del nudo
greco-romano, ma solo nel campo artistico, come tentativo di recuperare a
livello intellettuale ciò che sul piano della società civile non era più
possibile vivere in maniera naturale. Lo dimostra il fatto che proprio nel
Cinquecento vi sono delle descrizioni colme di pregiudizi riguardanti la
nudità e la sessualità degli indigeni.
Relativamente all'assenza di armi presso i Lucayo, Colombo afferma che ciò
dipende dalla paura. Questo però gli appare in contraddizione con la loro
robustezza fisica e alta statura (superiori, in questo, agli spagnoli. Da
notare che i Lucayo non mangiavano carne di animale, a parte quella dei
pesci). Colombo non riesce a comprendere che la paura dell'indio è
paragonabile a quella di un bambino disarmato nei confronti di un adulto
minaccioso e armato fino ai denti. Egli stesso dirà, più avanti nella
lettera, che appena giunse a Guanahanì "catturò con la forza" alcuni
indigeni, "perché imparassero la nostra lingua e mi dessero notizia di
quanto v'era da quelle parti".
Ancora Colombo scriverà nel Giornale di bordo ch'essi gli fecero
capire -quasi a volersi scusare del loro atteggiamento guardingo e
sospettoso- "come in quella terra venissero genti da altre isole vicine con
l'intenzione di catturarli, per ridurli in schiavitù" (è da presumere
fossero gli aztechi). In ogni caso è difficile pensare a un pregiudizio
quando furono gli stessi indios a ritenere gli spagnoli "venuti dal cielo".
La paura, di fronte a un "dio", non è pusillanimità ma solo timore, non è
vigliaccheria ma solo prudenza.
Colombo invece la considera come un elemento di debolezza che può essere
facilmente sfruttato da parte di chi è più forte. Così come potrà essere
sfruttata, su un altro versante, l'innocenza della nudità per compiere ogni
sorta di abuso sessuale (lo stesso Michele da Cuneo ne fu attivo
protagonista). Colombo cioè non si rende conto che se gli indios non hanno
armi non è per paura di possederle o di usarle, ma perché sono gente
pacifica, per cui non hanno motivo di costruirsele (se non per la pesca). Se
l'avesse capito non si sarebbe meravigliato ch'essi non si servivano delle
loro "canne con un bastoncino aguzzo in cima" contro l'equipaggio, neppure
contro i due o tre dei suoi uomini mandati "in qualche villaggio per trarre
informazioni".
Qui è ben visibile la grande differenza tra la paura "fisica" degli indios e
la paura "metafisica" degli spagnoli, cioè tra la paura istintiva,
immediata, precauzionale, circoscritta a fatti particolari, e la paura
profonda, inconscia, radicata in millenni di storia della proprietà privata.
Gli indios hanno paura di nemici esterni senza essere abituati ad averla nei
loro rapporti interni; gli spagnoli invece vi sono così abituati, nei loro
rapporti interni ed esterni, che solo con le armi credono di poterla
vincere. La loro grande paura è quella d'aver fatto un viaggio a vuoto:
domani sarà quella di poter perdere ciò per cui si erano tanto sacrificati.
Lo scambio ineguale
Colombo, che si rende conto quanto sia difficile convincere qualcuno
dell'occidente europeo a credere che gli indios fuggivano dalla paura senza
che gli spagnoli avessero fatto loro alcun torto o minaccia, precisa che,
nel tentativo di accattivarsi la loro fiducia, offrì "tutto quanto aveva,
come stoffa [per coprirsi?] e molti altri oggetti", cioè a dire: "cocci di
scodelle, frammenti di vetri rotti e pezzetti di nastro". Nel Giornale di
bordo dirà di aver regalato loro "alcuni berretti rossi e coroncine di vetro
che si mettevano al collo e altre cosette diverse, di poco valore", ed anche
"perline di vetro e sonagli", ricevendo in cambio "pappagalli, filo di
cotone in gomitoli, zagaglie e tante altre cose".
Egli quindi non diede loro "tutto quanto aveva" -questo semmai lo fecero gli
indios-, ma soltanto ciò di cui poteva fare tranquillamente a meno: in
particolare offrì ciò di cui gli indios non avevano alcun bisogno, aldilà
delle mere esigenze ornamentali. Da scaltro mercante qual è, Colombo vincola
la propria generosità all'interesse e giustifica quella degli indios, di
molto superiore, ribadendo la loro povertà! Che poi in altri passi egli
affermi d'aver donato loro "mille oggetti graziosi e utili", ciò può essere
inteso in due modi: o era aumentato l'interesse, per avere incontrato
popolazioni più esigenti, oppure Colombo voleva mostrare le sue buone
intenzioni agli occhi dei sovrani spagnoli, che sicuramente avrebbero
pubblicizzato la lettera.
Colombo conserva ancora qualche scrupolo medievale quando si rende conto che
la generosità del suo equipaggio era più scarsa rispetto a quella
incontrata. Obtorto collo è costretto ad ammettere che gli indios, "dopo che
si sono rassicurati e hanno deposto questi timori, sono tanto privi di
malizia e tanto liberali di quanto posseggono, che non lo può credere chi
non l'ha visto". Colombo avrebbe quasi preferito che la paura fosse stata
associata all'avarizia, alla cupidigia: l'avrebbe capita meglio, si sarebbe
sentito più giustificato nello scambio ineguale. Invece quella inconsueta
generosità lo disarma, lo sconcerta: qui ha ragiona Todorov quando afferma
che Colombo era un uomo del Medioevo. A patto però di considerare i suoi
scrupoli di coscienza come tipici di un businessman di religione cattolica,
che mentre predica l'unità politica dei cattolici e il valore universale
della fede cristiana, sul piano pratico si trova a difendere i principî
laici del Rinascimento e del capitalismo mercantile.
Egli infatti ha chiarissima l'idea che il valore di una cosa non sta solo
nell'uso o nella bellezza estetica, ma anche e soprattutto nel suo valore
monetario, di scambio contro l'oro. Ecco perché quegli indios "tanto
amorevoli" ad un certo punto gli appaiono anche come "bestie senza
discernimento". In Colombo si consuma la transizione dal basso Medioevo al
proto-capitalismo.
La differenza tra lui e la sua ciurma è solo soggettiva, poiché dal punto di
vista oggettivo del rapporto coloniale è del tutto irrilevante. Egli infatti
si preoccupa di sottolineare che cercò di proibire l'iniquo scambio quando
s'avvide che il suo equipaggio voleva giovarsi della semplicità degli indios
per rifilare loro una paccottiglia occasionale. I suoi regali invece
erano -come lui stesso scrive- "graziosi e utili".
La differenza, come si può notare, stava semplicemente nel fatto che mentre
l'incolto marinaio si limitava ad approfittare dell'innocenza-ignorante per
realizzare subito un guadagno, il mercante intellettuale invece vuole
guardare in prospettiva, in lontananza, e i suoi regali, in questo senso,
non possono essere brutti e insignificanti.
In effetti, anche se, quanto a valore, può rimetterci (il che poi non è), il
mercante intellettuale deve pensare a cos'altro potrà guadagnare in futuro,
in virtù di quel baratto. Lo scopo dei suoi regali è più tattico rispetto a
quello della ciurma rozza e incolta, e si pone a quattro livelli: 1)
acquistare la fiducia degli indios (aspetto psicologico); 2) pretendere
ch'essi diventino "cristiani" (aspetto etico-religioso); 3) pretendere che
diventino "sudditi" della corona (aspetto politico-istituzionale); 4)
esigere che lavorino come i "servi della gleba" già presenti in Spagna
(aspetto socio-economico). Gli indios -afferma testualmente Colombo-
dovranno "raccogliere e consegnarci i prodotti di cui abbondano e che ci
sono necessari".
Cioè, d'ora in avanti, gli indios non commerceranno spontaneamente il
surplus, ma saranno costretti a fornire quanto occorre agli spagnoli.
Colombo, preoccupandosi di non apparire un colonialista (un "portoghese"),
precisa, da un lato, che gli indios forniranno i prodotti di cui
"abbondano", ma poi, dall'altro, senza accorgersene, fa coincidere il
surplus con ciò di cui gli spagnoli necessitano. Il colonialismo, sul piano
economico, è già tutto qui sostanziato: specializzazione delle colture
indigene sulla base dei prodotti naturali prevalenti, selezionati dalla
domanda della madrepatria.
L'ateismo naturalistico
L'altra cosa che colpì l'attenzione di Colombo era l'ateismo naturalistico,
spontaneo, di quegli indigeni, in quanto "non professavano credenza né
idolatria di sorta". Al massimo essi "stimano che la potenza e il bene
stiano nel cielo". Nella loro ingenuità -rileva Colombo- credevano "che io,
con queste navi e questa gente, fossi venuto dal cielo".
Perché questa superstizione? Non perché non avessero la scienza, ché,
anzi -scrive Colombo-, "sono di ingegno molto sottile, e navigatori esperti
di tutti quei mari", tanto che "un nostro battello non tiene loro dietro
alla voga" (e questa affermazione la dice lunga sul concetto di progresso e
di quello tecnico in particolare); quanto piuttosto perché "non avevano mai
visto gente vestita [è da sottintendere: come gli spagnoli], né navigli
simili ai nostri".
Col che Colombo ha, senza volerlo, lasciato capire che se nell'ateismo
naturalistico di quelle popolazioni vi erano elementi di superstizione che
potevano far venire in mente una forma di religiosità primitiva, questa
comunque non aveva alcun carattere alienante, poiché da nessuno veniva usata
come strumento di potere. Gli indios, alle prese con un fenomeno per loro
assolutamente eccezionale, avevano cercato di decodificarlo con le categorie
del loro tempo, così come oggi -ma con molte meno giustificazioni- si cerca
di spiegare l'origine di certi fenomeni naturali o scientifici, o di certi
oggetti cosiddetti "non identificati", appellandosi alla presenza o alla
forza degli extraterrestri.
Colombo tuttavia non ha alcuna intenzione di misurarsi alla pari con
l'ateismo naturalistico degli indios: anzi, ritiene ch'esso sia il terreno
favorevole per indurli a credere nella dottrina cristiana, della quale egli
si sente banditore privilegiato. Non solo, ma Colombo cercò persino di
servirsi delle loro ingenue superstizioni per affermare un proprio potere.
Egli infatti scrive che dopo aver sradicato dai villaggi alcuni indios
portandoli con sé in Spagna per apprendere lo spagnolo e diventare
interpreti nelle colonie, si accorse che costoro continuavano a credere
ch'egli fosse giunto dal cielo. Il motivo di ciò appare poco chiaro. Colombo
lascia intendere che la causa stava nella loro ignoranza, ma non sarebbe
strano vedere in questo atteggiamento compiacente un modo di sopravvivere al
cospetto di un nemico ritenuto più forte.
In ogni caso Colombo non cerca di dissuadere questi indios, che esaltano la
sua vanità, dal mutare atteggiamento, anzi li esorta a propagandare la loro
fede magica in tutti i villaggi che incontrano. La tentazione di crearsi, in
quelle zone "primitive", un proprio "culto della personalità", era troppo
forte per non cedervi volentieri. Nel Giornale di bordo dirà chiaramente che
durante i primi tre mesi egli conquistò le isole nel nome del re di Spagna e
della fede cattolica e, piantando centinaia di croci, s'impadronì delle
terre degli Arawak e dei Carib, aprendo il fuoco dei moschetti e dei cannoni
per spaventare quei popoli e far credere d'essere venuto dal cielo.
Con una disinvoltura davvero notevole (ma non dobbiamo dimenticare che nelle
colonie "tutto era possibile"), egli stava già saggiando quali enormi
vantaggi poteva ottenere tenendo strettamente uniti il profitto borghese e
la fede cristiana. Per lui cristianesimo e guadagno non erano in contrasto,
né, tanto meno, cristianesimo e schiavizzazione del non-credente. La
conversione degli indigeni la dava per scontata in un futuro immediato. Egli
era convinto non solo di aver potuto conquistare quei territori per volontà
divina, ma anche che di ciò avrebbero tratto vantaggio sia la corona
spagnola e la chiesa cattolica (coll'ampliare entrambe i propri imperi), che
"tutti i cristiani" desiderosi di emanciparsi economicamente.
Da notare che sotto questo aspetto Colombo appare meno cattolico dei suoi
stessi sovrani, nonostante sia convinto d'essere un profeta della parusia
del Cristo: egli infatti credeva che il mondo sarebbe finito nel 7000, cioè
circa 150 anni dopo la sua impresa nelle Indie, per l'esecuzione della
quale -egli scrive in una lettera del 1501 indirizzata ai sovrani spagnoli-
non gli giovarono "né ragione, né matematica, né mappamondi: si compì
semplicemente ciò che aveva detto Isaia". Eppure furono proprio i suoi
sovrani a rifiutargli il diritto di vendere gli indiani come schiavi, e la
stessa Isabella, nel suo Testamento, che non nomina neanche Colombo,
difenderà gli indios.
Ciò naturalmente non ci può impedire di pensare che gli ideali d'uguaglianza
del cattolicesimo siano stati usati dai sovrani, in questo frangente, come
pretesto per rescindere il contratto firmato coi Capitolati di Santa Fe. E'
vero infatti che la corona spagnola s'opporrà a più riprese, sul piano
giuridico, alla schiavizzazione degli indios, ma è anche vero che sul piano
pratico assumerà sempre un atteggiamento tollerante. Se così non fosse
stato, Colombo non avrebbe avuto l'ardire di scrivere che i profitti della
sua impresa sarebbero dipesi dallo sfruttamento non solo delle risorse
naturali di maggior valore (oro, argento, spezie, cotone, mastice, legno
d'aloe, rabarbaro, cannella...), ma anche delle risorse umane, cioè degli
schiavi, naturalmente "scelti fra gli idolatri".
Singolare è il fatto che la religione professata da Colombo non manifesti,
nella lettera in oggetto, una vera superiorità nei confronti dell'ateismo
naturalistico (non scientifico) espresso dagli indigeni. Da un lato,
infatti, egli sbarcò su quelle isole convinto di trovare "uomini mostruosi,
come molti pensavano" (nel Medioevo e anche nell'Antichità); dall'altro
accettò di credere che in una provincia dell'isola di Giovanna esistessero
persone "con la coda", o che nell'isola di Matinino (o Guadalupe) vigesse da
sempre un totale matriarcato, o che nell'isola di Quaris tutti fossero
cannibali dalla nascita e cinocefali, o che in un'altra isola ancora ogni
abitante fosse rigorosamente calvo. Colombo arriverà persino a credere che
gli indigeni più "buoni" non erano che i superstiti delle dieci tribù
d'Israele e che nella regione dell'Orinoco doveva esserci il Paradiso
Terrestre!
In effetti, le "amazzoni" di Matinino si accoppiavano solo in una certa
stagione dell'anno e solo con uomini della loro razza (carib). Se nasceva un
maschio lo cedevano agli uomini, se femmina la tenevano, addestrandola
all'arte della guerra. Ma Colombo non riuscì a comprendere che questo
atteggiamento non era affatto dettato da particolari leggi "naturali" delle
tribù caribiche: anch'esso, al pari dell'antropofagia, era un modo estremo
di sopravvivere in una società che si stava disgregando.
La questione del cannibalismo
A proposito del cannibalismo, va detto che i Lucayo incontrati da Colombo
non lo praticavano, né i Taino dell'Hispaniola o Haiti (altro sottogruppo
Arawak). Era invece una prerogativa dei Carib, una tribù bellicosa di Haiti,
armata di "archi e frecce". Probabilmente -come affermano molti studiosi- il
cannibalismo era, in queste popolazioni, un modo di difendersi per non
cadere vittime dei tentativi di schiavizzazione altrui. Era un modo
disperato di spaventare un nemico ritenuto più forte, o di vendicarsi su di
lui: un nemico che aveva bisogno di schiavi per salvaguardare un sistema
diviso in classi o basato sulla proprietà privata, già in fase decadente. Si
trattava insomma di un rituale a sfondo guerriero e non anzitutto di una
risorsa alimentare, né quindi andava considerato come un fenomeno legato a
uno stadio ancora primitivo di un'umanità selvaggia. L'altro modo di farsi
valere era -dice Colombo- quello di "compiere scorrerie in tutte le isole
dell'India, rubando e depredando".
Anche gli aztechi erano antropofagi, ma per motivi religiosi. I sacrifici
umani servivano a un sistema ormai privo di legittimità per tenere
ideologicamente sottomessa la popolazione. Di fronte all'insofferenza degli
schiavi, i capi politico-religiosi esigevano sangue umano da sacrificare
agli dèi, al fine di placarne l'ira. Si voleva cioè far credere che essere
vittima sacrificale era un onore, poiché così si garantiva la sopravvivenza
a chi restava sulla terra.
Quando Colombo afferma, nel Memoriale, che "tra tutte le isole, quelle dei
cannibali sono numerose, grandi e assai popolate", non dobbiamo solo pensare
ch'egli lo faccia per ventilare l'ipotesi, ai sovrani spagnoli, di un
intervento militare nei prossimi viaggi, ma, indirettamente, dobbiamo anche
capire che la proprietà comune delle prime società egualitarie incontrate da
Colombo era ormai diventata un'eccezione alla regola, in quanto le civiltà
schiaviste mesoamericane stavano allargandosi a macchia d'olio.
La capacità d'intendersi
Colombo non riesce neppure a capacitarsi del fatto che sulla base di
un'esperienza comune si possano comprendere così facilmente, nei "costumi" e
nella "lingua", popolazioni che vivono praticamente divise le une dalle
altre, in quel grande arcipelago che poi si chiamerà delle Bahamas. Nel
Memoriale del 30 gennaio 1494, sul suo secondo viaggio, egli scriverà che
"siccome le genti di un'isola parlavano poco con quelle di un'altra, vi sono
alcune differenze nelle lingue, a seconda che vivano più vicino o più
lontano". Ciò tuttavia non farà scattare in lui l'esigenza di conoscere le
loro lingue, ma, al contrario, quella di costringere alcuni di loro ad
imparare lo spagnolo nella madrepatria.
In ogni caso l'intesa di quelle popolazioni lo stupisce. Egli infatti non
può aver dimenticato che nella Spagna da cui proviene lotte ferocissime
avevano diviso per secoli gli spagnoli di religione cattolica da quelli di
religione islamica. Era difficile comprendersi persino tra persone aventi
interessi comuni, come dimostrerà la rivolta haitiana di Francisco Roldàn
all'autorità di Colombo.
Questo può spiegare il motivo per cui nella seconda spedizione Colombo
permetterà che sei indios vengano arsi vivi semplicemente perché avevano
sepolto alcune immagini di Cristo e della Vergine, convinti di poter
ottenere un miglior raccolto di mais. Sarà proprio a partire dal secondo
viaggio ch'egli comincerà a sterminare alcune tribù che non volevano
lavorare il cotone per gli spagnoli. Nel 1495 egli trasferirà a Cadice ben
500 indigeni.
La capacità di difendersi
Non tutte le popolazioni autoctone erano così pacifiche come le descrive
Colombo. Il contingente militare di 38 coloni, lasciato a Navedad, cittadina
fondata sulla costa di Hispaniola, per difendere le proprietà conquistate
col primo sbarco, venne decimato dai "camballi" (cannibali) dell'isola, a
causa delle continue razzie d'oro e di donne. Questo perché già tra la
ciurma del primo viaggio vi erano stati molti avventurieri desiderosi
d'arricchirsi facilmente.
Colombo aveva capito subito quanto fossero necessari questi avamposti
commerciali-militari, ai fini della "resa" colonialistica, ed era convinto
che la guarnigione fosse in grado, da sola, di "spopolare tutta quella
terra". "Erano tanto vili -scriverà- che in mille non saprebbero attendere
tre dei miei uomini a piè fermo".
Quale alternativa?
Altri elementi conoscitivi Colombo non ne possiede con certezza in questo
primo viaggio, e d'altronde non aumenteranno di molto nei successivi, dove
anzi i rapporti con gli indios si faranno più conflittuali. Qui egli
aggiunge che gli sembra che "tutti gli uomini [i Taino?] si accontentino di
una sola donna, ma che al loro capo o re ne concedano fino a venti"; gli
pare che "le donne lavorino più degli uomini" e che tra loro abbiano "ogni
cosa in comune, specialmente in fatto di cibarie". Colombo non era un
antropologo o un etnologo, ma un ammiraglio e mercante: le notizie che ci ha
dato sono, per quanto approssimate, ugualmente interessanti.
E' proprio in virtù di quello che ha scritto che è possibile ipotizzare in
quale altro modo egli avrebbe potuto incontrarsi con quegli indigeni "pieni
di crudeltà e nemici nostri", così come li definisce nella Lettera
rarissima, spedita da quella Giamaica ove sentiva d'essere stato
abbandonato.
Tuttavia, l'ipotesi di un'alternativa può essere solo puramente teorica,
benché, per essere credibile, debba essere verosimile. Di fatto Colombo e il
suo equipaggio ebbero la fortuna d'imbattersi in una popolazione che aveva
un'antichissima civiltà comunitaria. Al contatto con quella straordinaria
diversità di costumi, di vita, di valori, non sarebbe stato innaturale che,
da parte degli europei, si cominciasse a ripensare i propri criteri
d'esistenza, superando i condizionamenti delle proprie tradizioni
antagonistiche. Non lo faranno forse grandi intellettuali come T. More
(Utopia), Erasmo da Rotterdam (Elogio della follia), T. Campanella (Città
del sole) e F. Bacon (Nuova Atlantide)?
Ciò naturalmente sarebbe potuto avvenire solo in virtù di un rapporto
pacifico e durevole con quelle popolazioni, in un confronto capace di
promuovere i valori umani universali. Il che, quando accadrà, sarà
patrimonio, purtroppo, solo di alcuni singoli esponenti del mondo
ispano-portoghese, giunti in America come colonialisti (si pensi p. es. ai
gesuiti presso i Guaranì). Gli europei più consapevoli, come ad es. Gonzalo
Guerrero, arrivarono persino a muovere guerra contro i conquistadores. Altri
invece s'immedesimarono nello stile di vita di quelle popolazioni (ad es.
presso i Tupinambas) più che altro per giustificare il proprio
libertinaggio.
In ogni caso, grazie a Colombo, indirettamente, noi abbiamo capito che nella
storia del genere umano è stato possibile da parte di molte popolazioni
realizzare rapporti pacifici ed egualitari tra uomo e uomo e tra uomo e
natura, rapporti basati sulla proprietà comune, sul senso del collettivo,
sul rispetto integrale della persona.
Distruggendo le culture pre-colombiane (soprattutto quelle
pre-schiavistiche), l'uomo ha distrutto una parte di se stesso, e quindi ha
perduto l'occasione di uno sviluppo tecnologico più equilibrato, meno
devastante dell'ambiente naturale, ma anche l'occasione di un equilibrio
sociale e spirituale che non conduce all'isolamento, all'emarginazione,
all'individualismo... E' vero, la conquista dell'America ha favorito -come
vuole l'ultimo Todorov- la mutua conoscenza del genere umano, l'integrazione
di milioni di europei, americani, africani e asiatici in una razza cosmica,
universale, anche se a prezzo di uno spaventoso genocidio. Ma è anche vero
che un'integrazione senza reciprocità, senza giustizia per tutti i
protagonisti, non è che un altro modo di continuare la logica del dominio.
La bolla Inter Coetera, di papa Alessandro VI, scritta il 3 maggio 1493, su
richiesta dei Re Cattolici di Spagna, è uno dei documenti più interessanti
della chiesa cattolica rinascimentale, poiché con esso non solo si sanziona
giuridicamente la nascita del colonialismo internazionale dell'Europa
occidentale, ma si inaugura anche il moderno colonialismo ideologico e
culturale del cattolicesimo romano, allora strettamente legato a quello
ispano-portoghese.
A dir il vero, la bolla nacque per rivedere un trattato di spartizione
imperiale circa le isole dell'Atlantico (isole già conosciute e ancora da
conoscere), già stipulato, senza mediazione pontificia, nel 1479, tra Spagna
e Portogallo, ad Alcaçovas (in virtù del quale la Spagna poté assicurarsi
solo le Canarie).
Con la scoperta dell'America (che allora si pensava fosse la Cina), la
Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente
al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un
nuovo trattato.
Il Portogallo, infatti, riteneva che proprio in virtù di quel trattato, le
terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue
proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato,
aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri
viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori.
La bolla di Alessandro VI è quindi un documento più importante del trattato
di Alcaçovas, poiché, essendo scritta dopo la scoperta dell'America,
riguarda per la prima volta dei territori planetari, per quanto solo alcuni
decenni dopo ci si convincerà dell'esistenza di un nuovo continente. La
bolla, d'altra parte, non perderà valore neppure dopo tale acquisizione
geografica, benché i successivi trattati di Tordesillas (1494) e soprattutto
di Saragozza (1529) costituiranno delle notevoli precisazioni che i
portoghesi vorranno fare a loro vantaggio. Saranno piuttosto le nuove
potenze europee capitalistiche: Olanda, Inghilterra e Francia, a rendere
inutile una qualunque mediazione pontificia.
Certo è che la chiesa non avrebbe mai prodotto questo documento se il
colonialismo portoghese (già sotto la sua "protezione") non avesse avuto
concorrenti di sorta: il documento infatti ha lo scopo di dirimere una
controversia territoriale emersa tra i due principali paesi colonialisti di
quel periodo, che la storia ha voluto fossero cattolici. Esso ha pure lo
scopo d'impedire che altri Stati cattolici vogliano diventare colonialisti
nelle stesse terre già occupate. La spartizione viene assicurata dalla
chiesa non solo sulle terre già scoperte ma anche su quelle da scoprire.
Come disse il gesuita Giovanni Botero, teorico della "ragion di stato", la
chiesa romana si sentiva in dovere di riconoscere i possessi coloniali
mondiali alle due nazioni europee che più avevano lottato contro ebrei e
musulmani, cioè che più avevano manifestato il proprio integralismo
politico-religioso.
Se il contenzioso fosse sorto tra un Portogallo cattolico e una Germania
protestante, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna mediazione
pontificia, non foss'altro perché non ne sarebbe stata riconosciuta
l'universalità da entrambe le parti. Se invece il contenzioso avesse
coinvolto altri Paesi europei di religione cattolica, quest'ultimi, disposti
certo a riconoscere l'universalità etico-religiosa della chiesa romana, non
altrettanta disponibilità avrebbero manifestato per la pretesa universalità
politico-giurisdizionale. E la chiesa post-medievale, dal canto suo, non
sarebbe stata in grado di rivendicarla. Gli stessi sovrani iberico-lusitani
gliela riconoscevano più che altro in maniera formale, in quanto, sul piano
pratico, era la chiesa che doveva adattarsi alla forza delle loro armi. Già
ai tempi di Sisto IV, che cercò d'imporre alla Castiglia vescovi di sua
nomina, Isabella vi si oppose energicamente, anche se poi accetterà la
proposta dello stesso papa di ripristinare l'antico tribunale
dell'Inquisizione, gestito dalla corona (1481).
Qui appare evidente che la Spagna intendeva servirsi della mediazione
pontificia per darsi una patente di legalità nel caso in cui l'opposizione
del Portogallo alla bolla avesse dovuto costringerla a dichiarargli guerra.
La storia comunque ha voluto che a legittimare il moderno colonialismo
internazionale non fosse un'istituzione laica ma religiosa. Questo a
prescindere dal fatto che le successive legittimazioni (laiche o
a-cattoliche) conterranno aspetti colonialistici assai più anti-democratici
del contenuto complessivo della bolla in oggetto.
Quadro storico
L'Inter Coetera venne scritta in un momento di grave crisi morale per la
chiesa di Roma. Le uniche vere preoccupazioni dei pontefici parevano essere
quelle di proteggere i loro parenti e di abbellire Roma con edifici
prestigiosi.
Sul piano politico invece la situazione sembrava offrire alla chiesa una
qualche possibilità di rivalsa, almeno nell'ambito dello Stato pontificio,
dopo i 70 anni della cosiddetta "cattività avignonese" e dopo la nascita e
lo sviluppo del movimento conciliarista (che negava al papato la priorità
sul concilio, trovando, in questo, molti appoggi da parte dei governi
laici).
Con grande tempismo politico, la chiesa di Roma seppe approfittare della
richiesta bizantina di aiuti militari contro l'invasore ottomano, per
imporre alla chiesa ortodossa, nel concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), il
riconoscimento della giurisdizione universale del pontefice. Il fenomeno
conciliarista occidentale sembrava aver perso, d'improvviso, una qualunque
giustificazione d'esistere.
Con la fine del "piccolo scisma d'occidente" (1439-49), che fu praticamente
l'ultimo tentativo del conciliarismo d'imporsi restando nell'ambito del
cattolicesimo, la Curia romana riprenderà totalmente il controllo della
chiesa. Centralismo, fiscalismo e mondanità saranno poi le cause che
scateneranno la Riforma protestante.
Tuttavia, il decreto d'unione non venne accettato dalle comunità ortodosse,
che alla delegazione, rientrata a Costantinopoli, fecero sapere di preferire
la dominazione turca a quella latina. Né il papato riuscì a organizzare una
potente crociata antislamica, per imporre il decreto, agli ortodossi, con la
forza. Ormai i tempi non invitavano più gli occidentali a impegnarsi in
crociate neo-medievali. Senza considerare che nei confronti del mondo
bizantino, l'occidente cattolico non ha mai nutrito alcuna simpatia.
Questo, benché, proprio a seguito di quel concilio, i teologi, i filosofi e
i maestri di greco della delegazione che decisero di restare in Italia,
contribuirono non poco allo sviluppo dell'Umanesimo e del neo-platonismo,
nonché alla diffusione della lingua greca e a un rinnovato interesse per le
tradizioni bizantine. Tanto per fare un es., un'opera fondamentale come
quella del Valla sulla falsa Donazione di Costantino (1440) sarebbe stata
impossibile con i soli strumenti della filologia.
Inoltre, le possibilità di fare affari, per i mercanti, si stavano
lentamente spostando verso le nuove rotte coloniali portoghesi o verso il
Mare del Nord, dove dominavano le città della Lega anseatica. In fondo
l'obiettivo principale delle crociate medievali (e cioè quello di aprirsi
uno spazio autonomo nel mercato mediterraneo, per commerciare in tutta
Europa i prodotti orientali), i mercanti l'avevano raggiunto da un pezzo.
E' vero che la parte del leone, in quell'impresa bisecolare che costò immani
sacrifici, l'aveva praticamente fatta Venezia (che costringerà Genova a
rivolgersi verso il Mediterraneo occidentale e i traffici
ispano-portoghesi); ed è anche vero che proprio a seguito della spinta
ottomana, Venezia era stata costretta a rivolgersi verso i porti del
Nordafrica, della Siria, dell'Egitto. Ma è anche vero che, nel complesso, la
borghesia occidentale (si pensi anche a quella, sempre più legata alla
manifattura, di paesi come Olanda, Inghilterra e Francia) stava vivendo un
momento di crescente benessere. Per cui il papato non poteva più contare
sulle stesse motivazioni sociali che nei secoli precedenti avevano spinto
migliaia di persone a combattere per la "giusta causa" del colonialismo.
Probabilmente, se dopo la caduta di Costantinopoli (1453), gli spagnoli non
avessero avuto il coraggio di attraversare l'Atlantico (emulando, in questo,
il coraggio portoghese di scendere sotto l'equatore), la borghesia
occidentale (Venezia esclusa) non avrebbe potuto disinteressarsi, con così
relativa facilità, dei traffici mediterranei (lo dimostra la discesa di
Carlo VIII in Italia, ma gli stessi aragonesi nel Mediterraneo svolgeranno
sempre una politica antiveneziana). D'altra parte fu anche l'atteggiamento
monopolistico di Venezia (che a questi traffici non vorrà rinunciare neppure
dopo il 1453) a indurre le borghesie degli altri paesi a cercare nuovi
sbocchi per le loro merci e soprattutto altre fonti (meno costose) per le
loro materie prime.
Il papato, quindi, in questa seconda metà del XV sec., deve tener testa a
tre avversari di tutto rispetto: 1) la crescente laicizzazione dei costumi e
dei valori (soprattutto nell'area di cultura umanistica e rinascimentale:
fenomeno, allora, tipico degli intellettuali); 2) l'emancipazione
socio-economica della borghesia, che vuole rinnovare profondamente la
struttura e l'ideologia della chiesa cattolica (da qui prenderà le mosse il
movimento riformistico); 3) l'affermata autonomia politica dei sovrani
cattolici, che vogliono agire senza dover rendere conto ad alcun
contropotere, senza cioè dover temere che l'arma della scomunica possa
bloccare ogni loro iniziativa.
Il papato è ancora potente economicamente, anche se politicamente il suo
potere lo esercita soprattutto, in maniera diretta, senza la mediazione del
sovrano cattolico, nell'ambito del proprio Stato. Illusosi di aver superato
la minaccia del movimento conciliarista, e relativamente soddisfatto della
fine dell'impero bizantino, il papato non sospetta neanche lontanamente che
tutte le idee conciliariste ed ereticali verranno riprese, di lì a poco,
dalla grande Riforma protestante, e che in Europa orientale la Russia degli
zar si farà carico di proseguire il conciliarismo della chiesa bizantina.
Alessandro VI (1492-1503)
Papa Alessandro VI rappresenta un esempio davvero illustre (ma i suoi
successori, Giulio II e Leone X, non gli furono da meno) del livello di
corruzione morale e di prepotenza politica della chiesa romana di quel
periodo.
Di origine spagnola, Rodrigo Borgia venne nominato cardinale a soli 25 anni;
salì al soglio pontificio per simonia; ebbe cinque figli, tra i quali Cesare
e Lucrezia, dei quali erano noti la spregiudicatezza morale e politica; fece
di tutto, senza però riuscirvi, a ricavare in Romagna un dominio per il
figlio Cesare; dilapidò il patrimonio della chiesa per arricchire i propri
familiari, anzi, fu il primo a trasformare la corte pontificia in reggia
principesca, strutturata in modo tale da mettere in risalto la venerazione
rituale riservata alla dinastia; fu responsabile della morte per
impiccagione e rogo del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, al quale
aveva offerto la porpora cardinalizia pur di farlo tacere. In conflitto con
gli aragonesi per i diritti su alcuni feudi nel regno napoletano, preferì
prendere le loro difese (perché li considerava più deboli) contro i francesi
che con Carlo VIII erano scesi in Italia per occuparla. Si sospetta infine
che sia stato avvelenato.
Questo, in sintesi, l'identikit dell'autore della bolla che stiamo per
prendere in esame.
Il testo
Il testo, che è il primo di una serie di quattro bolle, dedicate tutte al
medesimo argomento: Inter coetera, del giorno dopo, Dudum Siquidem
(26.09.1493) e Eximiae devotionis (16.11.1501), esordisce affermando due
cose: 1) "la fede cattolica" (e non ortodossa, benché anche questa pretenda
di far parte della "religione cristiana") va diffusa in ogni luogo; 2) "i
popoli barbari" (cioè non-europei o comunque tutti coloro che non
appartenevano a una delle tre religioni monoteistiche: cristiani, ebrei e
islamici. "Barbaro" infatti è un epiteto pesante, che la chiesa cattolica
riferiva soprattutto ai popoli "pagani", "politeisti" o "idolatri"): questi
popoli vanno "vinti" (sottinteso: militarmente) e poi "condotti alla fede"
(spada e croce sono indissolubili).
Il testo poi prosegue elencando i fatti e i motivi dai quali la chiesa di
Roma può, secondo ragione, far dipendere la concessione del riconoscimento
giuridico delle nuove proprietà spagnole in America (che ancora si pensava
fosse la Cina).
1) Imparzialità assoluta del pontefice, eletto "col favore della clemenza
divina (senza nostro merito)". Questa frase di Alessandro VI, che appare più
volte, può essere stata ispirata da due diverse preoccupazioni, non
antitetiche ma complementari: anzitutto quella di delegittimare una delle
accuse più gravi che a quel tempo gli intellettuali progressisti gli
muovevano (e per la quale il Savonarola verrà giustiziato nel 1498):
l'accusa di simonia. In questo senso la sottolineatura del pontefice
potrebbe anche stare a significare che, essendo la cathedra Petri
un'istituzione divina, che prescinde dalla personalità o dalle
caratteristiche soggettive di chi la occupa, ogni sovrano, di conseguenza,
era tenuto ad accettare la bolla senza discuterla, proprio perché scritta da
colui che, attraverso Pietro, rappresentava la volontà di Dio.
Il secondo motivo della precisazione può essere stato invece più etico e
meno politico, anche se ugualmente importante. Probabilmente Alessandro
VI -essendo di origine spagnola- aveva bisogno di difendersi in anticipo
dall'inevitabile insinuazione d'aver compiuto un favoritismo nei confronti
dei "Re Cattolici" (titolo, questo, ch'egli conferirà ai sovrani di Spagna
nel 1494).
2) Spontanea iniziativa del gesto ecclesiale: la concessione del
riconoscimento giuridico viene fatta -dice il papa- "per nostra pura
liberalità", "non dietro richiesta", "a titolo di favore". Qui si possono
precisare alcune cose: anzitutto, secondo il diritto ecclesiastico allora
vigente, tutta la terra (come pianeta) apparteneva al Cristo e, quindi,
essendone il vicario, al papa, il quale così poteva concederla in usufrutto
ai sovrani di religione cattolica; in secondo luogo, una terra non posseduta
da un sovrano cattolico veniva considerata "senza proprietario", anche se
essa era rivendicata da un proprietario non-cattolico; in terzo luogo, il
principio della "donazione delle terre scoperte" tutti i pontefici
precedenti ad Alessandro VI l'avevano applicato alle conquiste dei
portoghesi.
3) Il "favore" di cui parla il pontefice non va inteso in senso giuridico ma
morale. La concessione veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in
particolare Alessandro VI si riferisce a Isabella di Castiglia) i sacrifici
("fatiche, spese, pericoli") sostenuti contro i saraceni. Questo è dunque,
per la chiesa, un modo di ricompensare (senza obblighi legali) quella
nazione che più si era impegnata, per la fede religiosa, sul piano militare,
politico ed economico. La "conquista" del Nuovo Mondo non era che il premio
per la "riconquista" cattolica della Spagna.
Alessandro VI, in particolare, afferma che se la Spagna era arrivata
"seconda" sulle stesse terre che i lusitani avevano scoperto o conquistato
per altre vie (si ricordi che l'America corrispondeva alla Cina), ciò non
doveva penalizzarla nella spartizione delle colonie, poiché il ritardo era
dovuto a un fattore contingente assai importante: la Riconquista.
4) D'altra parte -dice ancora il pontefice- i sovrani spagnoli non solo
hanno desiderio di diffondere la fede cattolica, ma hanno anche l'esigenza
di doverlo fare in modo legittimo. Il "santo e lodevole proposito" di
evangelizzare tutta la terra (questa espressione viene ripetuta più volte
nel testo) è, secondo la chiesa, il motivo principale che giustifica il
colonialismo ispano-portoghese. Non c'è ragione, quindi, di non concedere in
dono e "in perpetuo", cioè anche agli eredi e successori dei sovrani
spagnoli (a prescindere cioè dal tipo o dalla qualità
dell'evangelizzazione), il favore in oggetto.
5) Anche il giudizio su Colombo è estremamente positivo. Benché l'avesse
conosciuto solo attraverso la Lettera a Santàngel, Alessandro VI lo chiama
"nostro diletto figlio": forse per suggerire l'idea, conoscendo la
"religiosità" del genovese, che il colonialismo era nato sotto buoni auspici
e che avrebbe continuato a dare buoni frutti se l'interesse della corona di
fosse strettamente unito a quello dell'altare. O forse il pontefice voleva
far leva sull'origine italiana di Colombo per dimostrare che indirettamente
la chiesa di Roma aveva concorso alla scoperta dell'America.
Non dobbiamo infatti dimenticare che questa bolla non è solo un documento
con cui si concede il favore del riconoscimento giuridico della conquista,
ma è anche un documento con cui, in cambio del favore, si chiede un compenso
relativo agli interessi della chiesa.
L'interesse della chiesa
Alessandro VI non si era servito solo della Lettera a Santàngel, per
scrivere la bolla, ma anche di altre fonti non citate. Nella Lettera infatti
non era stato detto che gli indigeni fossero vegetariani. In ogni caso,
ch'essi siano così o anche "numerosi", "pacifici" e "ignudi", ciò per
Alessandro VI non rappresenta più di una mera curiosità folclorica.
La vera caratteristica che gli preme sottolineare è che il loro "monoteismo"
primitivo, ingenuo, istintivo, va perfezionato col cattolicesimo, che, unico
al mondo, è in grado di "educare ai buoni costumi". Qui il pontefice dà per
scontato che le conversioni degli indigeni siano già relativamente facili.
Il pontefice ricorda anche la guarnigione lasciata da Colombo a Navedad, ad
Haiti, e senza volerlo si contraddice laddove afferma, dopo aver parlato di
"indios pacifici", che la "torre ben munita" doveva essere difesa dai
cristiani contro gli indios.
In effetti, al pontefice non interessava approfondire il discorso sulle
civiltà indigene: gli bastava credere (in fede o per convenienza non
importa) in ciò che Colombo aveva scritto circa la scoperta di "oro, spezie
e moltissime altre cose preziose". Anche per lui era del tutto normale unire
profitto e fede.
La chiesa giustificava il profitto in nome della fede; la Spagna lo
giustificava servendosi della fede: la differenza era minima. In fondo la
chiesa di Roma aveva le stesse esigenze della Spagna: recuperare nel Nuovo
Mondo ciò che non poteva più sperare di ottenere (o addirittura di
conservare) in Europa, soprattutto sul piano politico ed economico. La
Spagna voleva diventare una grande potenza europea restando sostanzialmente
feudale, mentre molte altre nazioni stavano diventando borghesi: e ciò la
costringerà a cercare uno sbocco "salvifico" nel Nuovo Mondo. La chiesa, che
non poteva più contare sulle proprie forze, cercava di ridiventare una
grande potenza appoggiandosi al colonialismo della Spagna. Questa si
limitava a usare la fede come uno strumento ideologico al servizio della
conquista militare e politica; quella invece credeva che la fede, come
ideale religioso, potesse sopravvivere politicamente soltanto su nuove basi
economiche.
Il papa concesse il favore tracciando una linea retta (raya) dall'Artico
all'Antartico, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde (al largo
dell'attuale Senegal), assegnando al Portogallo tutte le nuove scoperte a
oriente di quella linea, e alla Spagna tutte quelle a "occidente e
mezzogiorno".
In cambio di questo favore, il papa chiederà ai Re Cattolici: 1) che
istruiscano per l'America dei missionari qualificati, capaci di
evangelizzare nel miglior modo possibile; 2) che vietino a chiunque di
recarsi nelle Indie "per commercio o altre ragioni" (ad es. per scopi
missionari), "senza speciale permesso vostro", altrimenti il soggetto subirà
la scomunica latae sententiae, cioè immediata.
La chiesa, insomma, convinta che il sovrano spagnolo non voglia aver a che
fare con possibili recriminazioni da parte di altre potenze commerciali e
marittime europee, chiede anche che non vi siano, sul nuovo terreno
missionario, rivali nella predicazione.
A dir il vero, appena tre anni dopo la pubblicazione della bolla, Enrico
VII, re d'Inghilterra, violò la raya cogliendo come pretesto il fatto che
nel divieto del papa si erano citati l'ovest e il sud ma non il nord.
Convinto che Colombo avesse scoperto un'isola e non le Indie, e che queste
potessero essere scoperte con una rotta più settentrionale di quella di
Colombo, il re favorì la spedizione del veneziano Giovanni Caboto, che partì
da Bristol giungendo in Labrador, Terranova e Nuova Scozia. Anche Caboto
sarà però convinto d'aver scoperto una parte dei domini del Gran Khan.
Probabilmente non scoppiò una guerra, in quell'occasione, solo perché il
successore di Enrico VII, Enrico VIII, si disinteressò dell'America, vedendo
che non si realizzavano i profitti previsti. Tuttavia i commerci
continuarono, anche se i mercanti inglesi, con capitale a rischio, per un
certo periodo di tempo non poterono colonizzare o lasciare depositi stabili
nelle colonie.
Piuttosto fu il Portogallo che non soddisfatto della bolla del pontefice,
pretese, col trattato di Tordesillas, di spostare la raya di altre 170 leghe
a ovest: cosa che poi lo porterà ad annettersi il Brasile.
Grazie dunque ai sovrani cattolici, il papato potè approfittare della
situazione per far valere la propria autorità morale e giuridica, mostrando,
in particolare, che senza la sua mediazione legittimante, non sarebbe stato
possibile proseguire in modo "corretto" la gestione politica ed economica
delle colonie acquisite. Il pontefice, tuttavia, doveva essere ben
consapevole che se il Portogallo non avesse accettato le proposte indicate
in questo documento, una guerra contro la Spagna sarebbe stata inevitabile,
poiché egli non avrebbe avuto la forza d'impedirla. La guerra poi scoppierà
un secolo dopo e porterà il Portogallo a una disastrosa rovina.
CORTES E GLI AZTECHI:
Correva l'anno 1519 dell'era cristiana, a Tecochtitlan, capitale dei domini
aztechi. Moctezuma II, nono tlatoani a regnare (la definizione tlatoani
indica il governante supremo scelto tra i membri della nobiltà ereditaria
detta pipiltin), era inquieto. Chi erano quegli uomini "pallidi come la
luna, coperti di metallo, su enormi animali sconosciuti, con strane lance
senza punta che sputano fuoco, orci che eruttano fiamme e distruggono tutto
fino a mille passi?"[1]. Moctezuma II Xocoyotzin Il Giovane, nel 1519, era
il signore degli Aztechi, che
Hernan Cortés, el Conquistador
possedevano un impero che si estendeva dalla capitale Tenochtitlàn (con
300.000 abitanti) fino all'Atlantico. Era salito al trono nel 1502, quando
l'impero viveva un periodo di decadenza a causa di frequenti rivolte dei
popoli subordinati, tenuti a freno dalla sola forza militare[2].
Gli Aztechi - Mexica, detti il popolo "del cactus, dell'aquila e del
serpente sul cuore palpitante", immagine tramandata nei codici dipinti ed
ora simbolo centrale nella bandiera messicana, sono famosi e ricordati
soprattutto per quegli inquietanti riti legati ai sacrifici umani che tanto
inorridirono gli spietati Conquistadores spagnoli[3] che, guidati da Hernàn
Cortés, s'impadronirono del Messico per conto della corona di Spagna a
partire dal 1519. Gli Spagnoli, trenta anni dopo Colombo, faticarono ad
addentrarsi nella penisola dello Yucatan per le difficili condizioni
ambientali. Ottimo capitano, buon soldato, uomo dal carattere rude e
battagliero, crudele e coraggioso, Hernán Cortés impersona, come nessun
altro, la figura del "conquistador".
Fedele al Re di Spagna e religioso quanto basta, Cortés cercava la ricchezza
per sé e per la sua patria ed era invaso dallo spirito di avventura che lo
spinse a non fermarsi mai. Nato a Medellin, nel 1485, da famiglia di piccola
nobiltà, dopo un paio d'anni di studi letterari all'Università di Salamanca,
scelse la carriera militare. Nel 1504 venne inviato a Santo Domingo, dove
iniziò il suo rapporto burrascoso con Diego Velásquez, futuro governatore di
Cuba, che, prima lo mise agli arresti, e poi gli affidò la terza spedizione
in Messico, dopo i falliti tentativi dei capitani Francisco de Córdoba e
Juan de Grijalva. Dal 1515 Cuba aveva soppiantato Hispaniola come roccaforte
spagnola. Di lì cominciò l'espansione verso il Messico. In realtà è
controverso l'appoggio ufficiale alla sua spedizione.
Nella scoperta del Nuovo Mondo, e poi nella sua conquista, l'iniziativa
individuale fu un elemento importante: a compiere entrambe furono piccoli
gruppi di uomini, non la cristianità nel suo complesso. Nel 1519 Cortés
approdò a Cozumel, dove recuperò il naufrago spagnolo Jerónimo de Aguilar.
Sulla costa del Golfo il capitano venne accolto amichevolmente dai
Totonachi, che divennero suoi alleati nella guerra contro l'Impero
azteco-mexica. Nel frattempo, il governatore di Cuba si pentì di questa
spedizione e cercò di richiamare Cortés, che, per tutta risposta, fece
incendiare le proprie navi e fondò simbolicamente la città di Veracruz,
dichiarandosi sotto la diretta autorità del Re di Spagna; la città fu
trasformata in una municipalità, entità territoriale sottoposta direttamente
alla giurisdizione del re e di cui solo Cortés era arbitro, scavalcando così
l'autorità dei viceré spagnoli fino ad allora insediatisi.
L'hidalgo[4], che aveva come seguito 550 uomini, fra cui 32 balestrieri e 13
archibugieri, 16 cavalli e 10 cannoni su 11 vascelli, proseguì la marcia
verso Tenochtitlán: quando giunse nella capitale azteca, fu trattato con
grande riguardo, accompagnato dal re al Templo Mayor[5] (la più grande
piramide azteca) della Città di Dio. L'impero azteco, affascinante, potente
e misterioso, era all'apice della sua potenza e della sua espressione
artistica e culturale. Una cultura complessa, caratterizzata da un lato
dall'esaltazione della vita, della bellezza, della natura e delle grandi
architetture, ma dall'altro segnata da una cupa religiosità, timorosa degli
eventi naturali, dominata dall'oroscopo e dai presagi e legata i
terrificanti sacrifici umani
Gli Spagnoli erano stupefatti ed ammirati per l'alto livello di sviluppo
raggiunto da quella inaspettata civiltà del Nuovo Mondo, i Mexica - Aztechi,
eredi dei Toltechi, che avevano fondato un grande regno con capitale Tula a
90 Km circa da Città del Messico. L'incontro tra i due mondi, presto
tragicamente trasformato in conflitto, portò all'inesorabile declino del
popolo azteco. Ma, procediamo con ordine. "La grande città [.] è costruita
sulla laguna salata e dista, in qualunque punto, due leghe dalla riva. Vi si
può accedere da quattro parti attraverso strade ben costruite, della
larghezza di due lance. È grande come Siviglia o Cordoba. [.] La piazza più
grande è due volte quella della città di Salamanca, interamente circondata
di portici. Dove, ogni girono, tra compratori e venditori, ci saranno più di
sessantamila persone":
Cortés sbarca in Messico
Così si legge ne "La conquista del Messico"[6], la cronaca di una vittoria
annunciata scritta dallo stesso Cortés, che giunse a Tenochtitlàn l'8
novembre 1519, dopo un viaggio durato sei mesi. Arrivò in una città di circa
300.000 abitanti, più grande di Londra o Parigi in quel tempo, con strade
ampie e pulite, canali percorsi incessantemente da canoe che la rifornivano
di tutti i beni dell'Impero. Proprio nel 1519, secondo le credenze azteche,
era predestinato il ritorno del Dio Quetzalcoatl atteso ogni 52 anni, il
famoso Serpente Piumato, che, dal caos primitivo aveva creato gli uomini e
la Terra ( un disco con 9-13 cieli e mondi sotterranei), poi si era
consumato tra le fiamme, ma era destinato a tornare per redimere gli uomini
sotto forma di "nuvola bianca".
Gli Dei del Sole si nutrivano con il sangue del cuore umano: di qui i
crudeli riti sacrificali alla presenza del popolo (estirpazione del cuore e
consumazione dell'offerta). In quel tempo era continuamente vagheggiato, dai
sacerdoti e dai poeti, il ritorno di Quetzalcoatl. A Texcoco, il preveggente
re Nezahualpilli aveva preannunciato drammatici cambiamenti. Moctezuma II
era stato turbato da alcuni segni premonitori, presagi dell'arrivo di un
disastro: gli era apparsa una cometa, un tempio si era incendiato
spontaneamente, la laguna di Mexico si era gonfiata di onde spaventose in
assenza di vento e sembrava ribollire.
Il "popolo del Sole" era rimasto sconcertato da questa serie di presagi e
prodigi che avevano preannunciato ciò che sarebbe accaduto: quando nel Golfo
del Messico comparvero navi "grandi come montagne", che trasportavano "cervi
enormi" (i cavalli) con in groppa uomini armati di cui si scorgevano solo i
volti, l'impressione che il destino si stesse per compiere fu notevole.
Quetzalcoatl era venuto da Est: ad Est era tornato; era bianco e barbuto. E
l'Est era il luogo di origine degli eroici antenati dei Maya. Gli Aztechi
scorsero nei Castigliani gli dei che tornavano. Nella fattispecie si trattò
dell'arrivo di Cortés che, inizialmente, fu accolto come un Dio: Moctezuma
gli offrì doni e vittime da sacrificare, rifiutate, queste ultime, dallo
sdegnato Cortés.
Allora il re azteco, descritto dai cronisti come un uomo incerto e
rassegnato, cambiò atteggiamento ed ordinò l'espulsione degli intrusi. Gli
Spagnoli, con i loro cavalli, mostri sconosciuti, e le armi da fuoco,
resistettero. Ed avanzarono verso l'interno. Trascorsero sei mesi di scontri
e promesse, durante i quali Cortés stringeva un numero crescente di alleanze
con gli indios, stanchi del predominio azteco, e Moctezuma si convinceva
sempre più, non intimorito non dalle armature e dalle armi potenti, ma
dall'interpretazione di alcuni segni profetici, che il conquistador spagnolo
fosse almeno un messo del Dio e così gli si rivolgeva:
"Per il fatto che voi dite di venire da quella parte del mondo dove si leva
il Sole, e per tutto quello che raccontate del potente re che vi ha mandati,
siamo convinti che egli sia il nostro antico signore"[7]. Cortés non perse
tempo a far valere l'autorità di Carlo V, imperatore di Germania e
cristianissimo re di Spagna[8]: esortò i sudditi a giurare fedeltà alla
Spagna, fece abbattere gli idoli, ponendo, al loro posto, nei templi, le
immagini della Vergine, non prima di aver fatto lavare il sangue dei
sacrifici. Mise al potere i suoi uomini e, il 22 maggio del 1520, data della
Festa di Toxcal, Pedro De Alvarado, braccio destro di Cortés, massacrò
l'intera nobiltà messicana, disarmata, riunita per celebrare il Dio
Huitzilpochtli: 10.000 morti.
Nel frattempo, il governatore Velasquez, dopo aver accusato Cortés presso la
Corte spagnola, l'aveva fatto dichiarare ribelle, ottenendo l'invio contro
di lui di un contingente di truppe comandate da Narvàez. La notizia dello
sbarco di quest'ultimo indusse Cortés a lasciare a Tenochtitlàn una piccola
guarnigione, mentre egli stesso, con truppe raccogliticce, piombava sul
rivale, sbaragliandolo: i soldati di Narvàez si unirono a Cortés, che
rientrò nella capitale messicana il 24 giugno del 1520, proprio alla vigilia
di una insurrezione generale contro gli Spagnoli da parte degli Aztechi
esasperati dalle imposizioni e persecuzioni di Alvarado.
Battaglia fra spagnoli e aztechi
Moctezuma venne preso in ostaggio nella cittadella sacra. L'orgoglio azteco
rifulse. Tenochtitlàn insorse, liberando il suo re, che rimase ucciso negli
scontri (27 giugno 1520) e gli Spagnoli furono costretti a fuggire dalla
città, assediati da forze preponderanti. Durante la ritirata, sulla grande
massicciata che congiungeva Tenochtitlàn con la terraferma, gli Spagnoli ed
i loro alleati indigeni di Tlaxcala furono assaliti e, in parte, massacrati
in un feroce corpo a corpo notturno nella notte senza luna o Noche triste
del 30 giugno del 1520. Presero il potere il fratello del re, Cuittlahuac,
ed il nipote, Cuauhtemoc. Ormai la "triplice alleanza" era in pezzi. La
città di Texcoco passò dalla parte dei conquistatori. Con l'aiuto degli
alleati traditori, la capitale venne assediata, riconquistata e distrutta,
cadendo il 13 agosto del 1521, a due anni dall'arrivo degli europei, con
perdite umane che ammontavano a 120.000 uomini.
Nel 1525 terminò, definitivamente, la resistenza azteca, con l'impiccagione
degli ultimi capi. La disfatta e la sconfitta della popolazione azteca non
può non essere collegata alle manifestazioni psicologico-ritualistiche
collettive dell'attesa di eventi che avrebbero segnato, tra angoscia e
tragedia, il loro destino. Gli Aztechi decifrarono la Conquista in chiave
magica e nell'ottica profetica del ritorno dal mare del dio Quetzalcoatl (il
conquistador fu molto abile ad alimentare questa convinzione).
In altre parole, l'imperatore Moctezuma non era riuscito ad inserire
l'arrivo di Cortés nel suo universo mentale e, di conseguenza, non era
riuscito a comprenderlo. Ma, di fronte alla cupidigia ed alla furia
devastatrice degli Spagnoli, presto si ricredette, ma a nulla servì. Gli
storici aztechi riferiscono del trauma profondo che investì la popolazione
dopo una conquista drammatica e tragica, come testimonia il "canto triste"
degli ultimi difensori della capitale Tenochtilan. Per gli Aztechi la caduta
della città non fu un semplice episodio militare, ma la fine del "regno del
Sole", nato per sottomettere i popoli che, ai quattro punti cardinali,
circondavano il Messico, disfatta, comunque, subita con rassegnazione, in
quanto voluta dagli Dei.
L'aspetto che più colpisce della conquista dell'impero azteco è proprio la
rapidità e facilità con cui fu effettuata. Più fattori concorsero alla
vittoria di un pugno di uomini guidati da Cortés su un impero organizzato
con eserciti numerosi. Superiorità militare? Nella fattispecie si trattò di
una superiorità tutt'altro che assoluta. Gli Amerindi non conoscevano le
armi da fuoco e restarono inizialmente disorientati di fronte agli
archibugi. Ben presto, però, superarono lo smarrimento iniziale anche perché
nelle zone umide la polvere da sparo era inutilizzabile, così come
inutilizzabile era l'armatura in ferro dei Castigliani.
Entrambi gli eserciti coprivano il loro busto con una tunica di pelle
imbottita (escaupil) che resisteva alla freccia scagliata dalla balestra
castigliana. I conquistatori, inoltre, impiegavano nei combattimenti i
cavalli ed i cani addestrati. I primi, sconosciuti nelle Americhe, potevano
essere utilizzati solo in campo aperto a differenza dei cani utilizzabili
soltanto sugli altipiani scoscesi. Anche in questi casi la resistenza
amerindiana seppe trovare soluzioni adeguate. Per fermare la corsa dei
cavalli furono introdotte le baleadoras (fasce di cuoio cui erano legate dei
sassi) lanciate tra le zampe dei cavalli. Si tenga anche presente la diversa
tecnica di combattimento degli Aztechi rispetto a quella dei popolacas
(barboni venuti dal mare).
I primi preferivano abbattere un cavallo piuttosto che "dieci cristiani",
come narrano le cronache spagnole. Ciò perché il cavaliere catturato sarebbe
stato sacrificato agli dei. Cortés puntò sulle divisioni esistenti
all'interno dell'Impero. Infatti, sul piano militare contarono molto di più
le alleanze che i Castigliani stabilirono coi popoli sottomessi: infatti,
gli Alaxtaltechi furono preziosi alleati dei conquistatori nelle battaglie
campali contro gli Aztechi, appena usciti da una grave crisi economica che
aveva falcidiato la popolazione. Complici decisivi dei conquistatori furono
anche le caste dominanti intermedie degli Imperi amerindi, quali militari e
funzionari.
La conquista non si limitò al piano militare:
La sconfitta di Montezuma:
Cortès lo fa incatenare
essa imponeva la disarticolazione della società azteca e, nel lungo periodo,
dei sistemi di vita e di pensiero. Si trattava di "conquistare" le
coscienze. La dimensione religiosa della conquista si scagliò sull'universo
magico dei segni premonitori che i grandi sacerdoti aztechi provvedevano a
decifrare[9]. Impadronitisi dell'Impero azteco, iniziò lo sfruttamento delle
risorse. Bernal Diaz Del Castillo ha narrato l'emozione spagnola[10] quando
furono scoperti gli ori aztechi, che furono ridotti in barre, più facilmente
trasportabili, custoditi presso la Casa del Tesoro. Tenochtitlán-Città del
Messico divenne la capitale della "Nuova Spagna del Mare Oceano"[11] e
Cortés, dopo le sue prestigiose vittorie, aveva riqualificato il suo
prestigio presso Carlo V, che lo nominò governatore (1522).
Il conquistatore seppe far fruttare la propria vittoria e diede avvio allo
sfruttamento economico delle colonie. Dopo aver depredato gli Aztechi delle
proprie ricchezze, inviò spedizioni nel cratere del Popocatepetl alla
ricerca di zolfo con cui fabbricare polvere da cannone. Favorì l'estrazione
di rame e di stagno e cominciò ad impiantare rudimentali fonderie per la
fabbricazione di cannoni di bronzo, utilizzando manodopera locale, mantenuta
in una condizione servile. Cortés fu anche gratificato di una encomienda[12]
di 40.000 chilometri quadrati con una popolazione di 100.000 unità, ma il
suo potere fu esautorato nel 1535 dall'arrivo del viceré della Nuova Spagna.
Lasciando dietro di sé una popolazione stremata dalla guerra e dimezzata
dalle stragi e dalle malattie portate dagli Europei, Cortés partì con le sue
truppe alla conquista di tutte le terre dominate un tempo dall'Impero
azteco, spingendosi fino in Honduras. Nel 1528 Cortés, ormai ricco, ma poco
stimato per il suo carattere indisciplinato e per alcune presunte
irregolarità amministrative, fu richiamato in Spagna, dove gli venne tolta
la carica di governatore. Dopo pochi mesi ripartì per il Messico con il
titolo di Marchese della Valle di Oaxaca. Il nuovo Vicerè aveva poca
simpatia per lui, che preferì imbarcarsi con le sue truppe alla ricerca di
nuove terre e, nel 1535, raggiunse la California. Ma il Re lo rivolle in
Spagna per combattere in Algeria, una sfortunata spedizione che vide
l'esercito spagnolo sconfitto nel 1541. Cortés decise, allora, di ritirarsi
a vita privata nella sua proprietà a Castileja di Cuesta, dove morì nel
1547. La sua salma, come egli stesso aveva chiesto prima di morire, fu
inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno. Di lui
rimangono le cinque lunghe lettere inviate a Carlo V, che compongono la
Relazione della conquista del Messico, redatte tra il 1519 ed il 1526.
NOTE
[1] Di grande aiuto, per la stesura di questo saggio, sono stati due
articoli pubblicati su Specchio della Stampa N. 132 di sabato 1 agosto 1998:
La fine degli Aztechi. Anche il Dio piange, di Piero Soria, e Cortés,
destino che veniva dall'Est, di Giordano Stabile.
[2] Gli Aztechi erano giunti in Messico da nord verso il 1100, guidati,
secondo la leggenda, da Hiutzilopochtli, un dio tribale, e si erano
sovrapposti alla preesistente civiltà dei Toltechi. Più precisamente, per
ragioni misteriose, nel 1168, l'ultimo sacerdote ed il dio stesso,
abbandonarono Tula, capitale tolteca, favorendo la dispersione dell'intero
popolo. La città venne inghiottita dalla foresta. Le prime tribù azteche si
stanziarono vicino all'antica Tula, sulle sponde della laguna di Mexico. I
nuovi arrivati si ritagliarono uno spazio vitale tra le tante città-Stato
che componevano il mosaico mesoamericano. Soltanto nei primi decenni del XV
secolo riuscirono ad assoggettare tutti i popoli che abitavano la regione,
fondando saldamente il loro dominio. La svolta si ebbe nel 1428, quando i
tre principali centri aztechi, Tenochtitlàn, Texcoco e Tlacopàn, fondarono
la 'triplice alleanza'. In pochi decenni le tre città sottomisero quasi
tutti i piccoli Stati dell'attuale Messico meridionale. Grande artefice
dell'espansione fu Moctezuma I, bisnonno di quello che incontrò Cortés. Vi
erano oltre 317 città tributarie con un efficiente sistema di tassazione; i
registri erano tenuti da un grande Cacique. L'aristocrazia esercitava il
potere politico attraverso cariche amministrative e religiose e la carica di
sovrano era elettiva. Le strutture di base della società azteca erano i
calpulli, ossia delle entità amministrative che possedevano la terra,
essendo la società azteca fondata sull'agricoltura; gli Aztechi facevano
oggetto di culto un dio-mais. C'era un fiorente artigianato che alimentava
il commercio con i paesi vicini, effettuato per mezzo del baratto, senza
l'uso della moneta. Nel codice Mendoza, nella pagina di apertura, si
racconta la fondazione di Tenochtitlán da parte degli Aztechi-Mexica nel
1325. Essi terminarono la loro migrazione quando giunsero su un'isoletta
della laguna di Texcoco e videro un'aquila (simbolo del Sole) appollaiata su
una pianta di cactus, il cui frutto è una rappresentazione del cuore umano.
Gli Aztechi-Méxica, dediti a sacrifici umani durante i quali alle vittime
veniva strappato il cuore, videro nella scena il simbolismo riguardante
proprio le loro pratiche sociali e religiose.
[3] Con il nome di Conquistadores erano noti gli avventurieri spagnoli che,
nel XVI secolo, esplorarono e conquistarono gran parte dell'America centrale
e meridionale. Spesso di umili origini, ma nella maggior parte dei casi
appartenenti alla piccola nobiltà, essi costituivano in Spagna un gruppo
sociale abbastanza numeroso che aveva fatto per secoli della guerra il
proprio mestiere, impegnandosi contro gli Arabi nella reconquista della
Penisola Iberica. Rimasti privi d un ruolo dopo la caduta di Granada (1492),
ultimo baluardo musulmano, trovarono nell'impresa americana un'occasione per
arricchirsi. Spietati e coraggiosi seppero approfittare delle proprie
capacità come soldati per imporsi alle popolazioni amerinde. Spesso in
queste imprese erano finanziati dalla Corona, ma, ancora più frequentemente,
come era nella loro natura di mercenari, da privati. Non avendo alcun
interesse ad instaurare metodi di convivenza pacifica con i nativi, il loro
unico scopo fu sfruttare le risorse umane e materiali delle zone
assoggettate. L'avidità li pose spesso in contrasto fra loro e li rese assai
poco affidabili come amministratori delle colonie. Furono, pertanto, subito
rimpiazzati dai funzionari regi e non ottennero mai cariche di rilievo nei
territori conquistati.
[4] Gli Hidalgos erano membri della piccola nobiltà spagnola che si
distingueva dalla grande aristocrazia dei ricoshombres. Al titolo erano
connessi una serie di privilegi che lo rendevano molto desiderabile, ma
raramente ad esso erano associate grandi ricchezze. Anzi gli hidalgos, per
la loro povertà, vennero chiamati 'affamati'.
[5] Il Templo Mayor, così soprannominata dagli Spagnoli, era un'imponente
costruzione costruita nel 1486 e dedicata a Huitzilopochtli (dio del Sole) e
Tlaloc (dio della pioggia), con una base di 100 metri per 80 ed era alta 40
metri. Era formata da 4 o 5 gradoni con le pareti molto inclinate, con una
scalinata laterale con oltre 100 gradini, in cima alla quale venivano
sacrificate agli dei le vittime umane. Gli Aztechi ritenevano che il ciclo
del Sole potesse fermarsi in assenza di sacrifici umani. I cuori delle
vittime erano considerati il 'nutrimento' del dio-astro, che così poteva
continuare il suo corso. Gli annali registrano che l'inaugurazione richiese
84.000 sacrifici umani. La Grande Piramide, come veniva anche definito, era
stata costruita su una piramide precedente più piccola. Cortés scriveva a
Carlo V: 'Sia la parte in muratura sia le parti di legno sono lavorate in
modo perfetto e non credo che se ne trovino di migliori in alcuna città del
mondo'.
[6] Hernàn Cortés, La conquista del Messico, Rizzoli, Milano.
[7] William H. Prescott, La conquista del Messico, Einaudi.
[8] I Conquistadores spagnoli imposero un pendente, il Chimalli, sullo
scudo, come simbolo di guerra, con il monogramma di Carlo V e del Sacro
Romano Impero con le C coronate. Alcuni esemplari, insieme ad oltre 350
capolavori dell'arte azteca provenienti dai Musei di Città del Messico, si
possono ammirare alla mostra 'I tesori degli Aztechi', a Palazzo Ruspali,
Roma, via del Corso 418, dal lunedì al sabato fino al 18 luglio 2004.
[9] Già l'arrivo di Cristoforo Colombo ad Hispaniola aveva significato anche
l'apertura di immensi spazi all'evangelizzazione. Colombo stesso diede
risalto all'aspetto religioso della Conquista, allorché si firmava
orgogliosamente Christum ferens (Colui che porta il Cristo). La religione
imposta dai Castigliani si rivelò, in effetti, una forma complementare della
Conquista, tanto più sofisticata ed incisiva perché affondava nella
coscienza degli uomini , ne ridisegnava la geografia interiore. Insomma
venne fuori la diversa concezione religiosa esistente fra il cattolicesimo
mediterraneo e le credenze, i triti, la concezione della morte degli
amerindi. Di fronte all'assalto della religione dei conquistatori, i popoli
indigeni riuscirono a far sopravvivere i loro dei e le loro credenze, dando
vita ad un cattolicesimo latinoamericano sincretistico. Nell'adorazione
della Vergine di Guadalupe, ad esempio, sopravvive la credenza 'Madre Terra'
e presso i popoli degli altipiani andini l'adorazione di Inti Illimani si
confonde con la Resurrezione. Processi di osmosi, quindi, come nelle
festività religiose in Guatemala o come nell'universo sincretistico della
religiosità brasiliana.
[10] Bernal Diaz Del Castillo, Storia della conquista del Messico, Tea.
[11] I possedimenti spagnoli in America furono organizzati in viceregni: ne
furono immediatamente creati due, la Nuova Spagna del Mare Oceano (1535),
che comprendeva tutto il territorio spagnolo a nord dell'istmo di Panama, ed
il Perù (1542), che copriva tutta la parte a sud dell'istmo, ad eccezione
della costa venezuelana. Il viceré che dominava era soggetto al controllo di
un visitador, un ispettore mandato all'improvviso dalla Corte. Alla fine del
mandato il viceré si sottoponeva alla residencia, una revisione giudiziaria
imposta dalla Corona. Sotto l'autorità del viceré erano collocate le
Audiencias, ossia dei tribunali locali sorti allo scopo di porre un freno
all'eccessiva indipendenza degli adelantados, i conquistatori.
[12] L'encomienda era la cessione, da parte della autorità spagnole, di una
comunità o di un gruppo indio ad un unico conquistatore (encomiendero), che
aveva il diritto di riscuotere quelle tasse che gli amerindi erano tenuti a
pagare in qualità di sudditi del Re. Era un sistema di tipo feudale, essendo
gli indigeni legati alla terra come i servi della gleba: infatti, le tasse
potevano esser riscosse sotto forma di danaro, beni o, addirittura, lavoro.
Questo sistema distrusse l'economia indigena, in quanto gli amerindi
abbandonarono ogni cura anche delle opere pubbliche che costituiva forma di
pagamento dei tributi dovuti alla Corona, in particolar modo quelle di
irrigazione. Conseguenza di ciò fu l'abbandono della produzione di beni
essenziali per le popolazioni indigene, che ne accelerò la distruzione ed il
completo assoggettamento al modo di produzione europeo.
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