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LA CONQUISTA DELL'AMERICA

CONQUISTA DELL'AMERICA E CORTES E GLI AZTECHI
 
 

L'OLANDA IBERICA Agli inizi del 1400 esistevano nella penisola iberica 5 Stati: Castiglia, Aragona, Navarra, Granada (che poi formeranno l'odierna Spagna) e il Portogallo. L'inizio dell'autonomia politica del Portogallo è legato alla vittoria sugli arabi riportata nel 1139. Prima di allora il Portogallo era stato una contea dipendente dal regno di Leòn-Castiglia (e per un certo periodo di tempo dipendente anche dalla Borgogna francese). Dopo quella vittoria il conte Alfonso Enriquez venne proclamato re del Portogallo, anche se, per conservare il titolo, osteggiato dalla Castiglia, il re dovette dichiararsi, almeno formalmente, "vassallo" del papato, pagando annualmente una determinata somma di denaro. Era l'anno 1179. Da allora e per circa tre secoli i re portoghesi (memori, in questo, dell'antico costume visigoto) lottarono contro le pretese dei papi, e solo all'inizio del XV sec. riuscirono a sottomettere il clero nazionale alla corona. Alcuni storici si sono chiesti il motivo per cui la Castiglia non riuscì ad assoggettare il Portogallo. Sono state date diverse spiegazioni e forse le più convincenti sono le seguenti: a) quando il Portogallo proclamò l'indipendenza nazionale, i vari regni spagnoli erano impegnati in dure lotte dinastiche e nella guerra contro i mori; b) il Portogallo era sotto uno speciale protettorato della Chiesa di Roma; c) la Spagna possedeva le terre migliori, non era priva di porti sull'Atlantico e considerava prioritari i suoi interessi con l'Italia e l'Africa. Oltre a ciò va considerato che la Castiglia appariva al Portogallo più arretrata economicamente, perché sostanzialmente estranea ai commerci: in Castiglia l'interesse per i traffici maturò nei secoli XIV e XV. Si può anzi dire, in questo senso, che l'unione della Castiglia con l'Aragona, dalla quale nacque la Spagna, fu facilitata dal fatto che fallirono tutti i tentativi di unificare Portogallo e Castiglia. Il Portogallo, in un modo o nell'altro, con tempi più o meno lunghi, ha sempre avuto la forza di opporsi ai tentativi egemonici della Castiglia prima e della Spagna dopo. E questo nonostante che le molte analogie tra i due Paesi avrebbero potuto rendere relativamente facile la conquista del "piccolo" Portogallo da parte della "grande" Spagna. Ci si riferisce cioè al fatto che le differenze culturali non sono mai state molto forti: entrambi possedevano valori cattolici comuni; le istituzioni e le forme sociali erano nate da più di un millennio di esperienza comune (le più importanti erano state quelle sotto la monarchia visigota); i nobili spagnoli e portoghesi viaggiavano liberamente da una corte all'altra; i rispettivi sovrani si univano in matrimonio e possedevano feudi nei territori dell'altro; marinai spagnoli e portoghesi navigavano sulle stesse navi; le leggi spagnole erano alla base dell'istruzione dei magistrati "lusitani" ("Lusitania" è l'antico nome del Portogallo). Le differenze tra i due Paesi non erano sostanziali ma formali, in quanto nel rapporto tra "ideali religiosi" e "interessi commerciali", cioè tra necessità della tradizione ed esigenze della modernità, il Portogallo, favorito in questo anche dalla sua posizione geografica, cercherà di realizzare un maggiore compromesso. Al pari della Spagna, non permetterà mai alla borghesia di costituirsi come classe autonoma, ovvero che il capitalismo da commerciale si trasformasse in industriale, ma quando a tutta la penisola iberica subentreranno, nel dominio mondiale dei commerci, l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia, il Portogallo reagirà in maniera meno scomposta, meno convulsa della Spagna, la quale invece si lancerà nell'avventura dell'Inquisizione e della Controriforma. Il Portogallo subirà un'involuzione neo-feudale sostanzialmente perché vi sarà costretto dalle pressioni politico-militari della Spagna. Diversamente da quella portoghese, la stessa espansione coloniale spagnola fu, sin dall'inizio, un modo "feudale" d'impedire alla borghesia nazionale (ebraica e saracena) di diventare politicamente forte (economicamente lo era già). L'altro modo fu l'espulsione dal Paese o la conversione forzata al cattolicesimo. L'antisemitismo portoghese è posteriore a quello spagnolo. Le numerose comunità ebraiche che vivevano nelle principali città, avevano posizioni solidissime nel commercio, nelle attività bancarie e finanziarie, nell'amministrazione pubblica. Mentre in Spagna gli ebrei cercavano di fuggire dalle persecuzioni e i viaggi oltreoceano poterono essere finanziati anche con i beni loro confiscati, in Portogallo invece le prime spedizioni commerciali ebbero il pieno appoggio degli ebrei. Solo quando il re portoghese Manuel I sposò la figlia di Isabella di Castiglia e dopo che la corona spagnola aveva cacciato gli ebrei dal Paese, furono promulgati, negli anni 1496-97, i decreti di espulsione o di forzata conversione al cattolicesimo, mentre l'inquisizione verrà introdotta nel 1547 (in Spagna nel 1480). La "Riconquista" lusitana In Portogallo la cosiddetta "Riconquista", cioè la cristianizzazione dell'intero Paese, si concluse prima che in Spagna: verso la metà del XIII sec., e in maniera meno traumatica: i vincitori, infatti, concessero a mori ed ebrei di conservare la loro fede e le loro proprietà, purché riconoscessero la sovranità dei re cristiani e pagassero dei tributi. Naturalmente i più fedeli alla propria religione abbandonarono il Paese, ma molti accettarono le condizioni, continuando a svolgere importanti funzioni economiche: i mori nell'artigianato e nell'agricoltura, gli ebrei nel commercio e nella finanza. La "Riconquista" fu comunque un danno per lo sviluppo dei rapporti borghesi: essa creò una società in funzione della guerra e un sistema di valori dove l'intraprendenza economica godeva di scarsa reputazione. Fonte primaria del prestigio sociale era sempre il possesso di terre e di persone: commercio, artigianato, attività bancarie e finanziarie si preferiva lasciarle in mano agli ebrei e agli stranieri. Per queste ragioni non pochi borghesi benestanti investivano i profitti delle loro attività nell'acquisto di proprietà che garantivano redditi, e aspiravano allo status di "cavaliere" (cioè di funzionario statale). I rapporti borghesi più sviluppati erano quelli lungo la costa atlantica. In ogni caso alla fine del XIII sec. l'economia portoghese presentava un bilancio migliore di quella spagnola. Vi era maggiore equilibrio tra agricoltura e allevamento, anche se la corona non riuscì mai a smembrare i possessi di nobiltà e clero (che erano peraltro esenti da tasse) a vantaggio dei piccoli proprietari. La ricchezza economica del Portogallo dipendeva molto dal commercio delle città sulla fascia costiera: esse ricevevano da re e feudatari ogni sorta di privilegi. Lisbona, già allora, era uno dei maggiori porti europei: insieme a Oporto e a Venezia, essa garantiva gli scambi commerciali fra Nordeuropa e Mediterraneo. Le abilità finanziarie degli italiani, che avevano costituito sul litorale numerose colonie commerciali, indussero i sovrani a garantire loro immunità fiscali e giurisdizionali. La nobiltà cittadina e la corona s'impegnavano spesso in vantaggiose attività economiche (in particolare nel commercio con le Fiandre), dimostrando così di non vivere solo delle proprie rendite e di non avere pregiudizi contro il profitto economico. In ciò utilizzavano gran parte del denaro ebraico e dell'Italia settentrionale. Molta di questa nobiltà diventò "capitana di velieri", quando il Portogallo cominciò a espandersi oltreoceano (vedi ad es. il figlio del re Giovanni I, Enrico, detto il Navigatore, che aprì a Sagres un osservatorio astronomico e un'accademia navale, avvalendosi dell'assistenza di geografi, astronomi, matematici, cartografi e di esperti navigatori genovesi e catalani, per dare adeguata preparazione tecnica alle spedizioni marinare da lui promosse). Viceversa, i numerosi piccoli nobili portoghesi che consideravano intollerabile per il proprio onore un'occupazione diversa da quella militare, si trovarono praticamente "disoccupati" dopo l'avvenuta "Riconquista", per cui, una volta decisa l'espansione, passarono direttamente all'attacco degli arabi e dei berberi sulle coste africane. Questo, peraltro, era anche un modo per saldare i molti debiti che avevano contratto presso gli usurai delle città. Già si è detto che nella loro espansione coloniale, gli elementi borghesi lusitani si univano "pacificamente" alle forze dinastiche e feudali: questo naturalmente favorì la coesione interna. La borghesia era debole ma protetta dalla corona, che se ne serviva anche per tenere a freno la nobiltà. La collaborazione tra mercanti e nobiltà era stata molto forte nel sec. XIII, allorché si aveva l'ambizione di impadronirsi delle proprietà arabe in Africa, insediando scali commerciali sulle coste di Tunisia, Algeria e Marocco: regioni, queste, ove era possibile trovare anche l'oro, divenuto particolarmente scarso in Europa. Tuttavia, ogniqualvolta la borghesia dava l'impressione di volersi rendere autonoma, la nobiltà ne frenava gli entusiasmi. Infatti, durante la lotta contro la corona di Castiglia, i nobili lusitani avevano sostenuto il pretendente castigliano alla corona del Portogallo, mentre i ceti medi si erano schierati con Giovanni, che fu poi eletto nel 1385. La nobiltà perse credito nel XIV sec., e la monarchia, appoggiata dalla borghesia, consolidò il vantaggio ottenuto concludendo con l'Inghilterra un trattato commerciale e di assistenza militare. Sarà anche questo trattato che indurrà la Castiglia a rinunciare a ogni pretesa sul Portogallo. I mercanti di Lisbona videro confermato il loro statuto di "privilegiati", in grado di garantire loro la protezione dalla concorrenza dei gruppi mercantili stranieri. Fu appunto dopo la "rivoluzione" del 1385 che il Portogallo riprenderà le spedizioni navali lungo le coste africane. Questa espansione servirà anche a risolvere, seppure temporaneamente, i conflitti sociali interni tra borghesia e aristocrazia. Nascita e sviluppo del colonialismo Inizialmente il Portogallo pensò di colonizzare l'Africa per paralizzare il commercio carovaniero musulmano che attraverso l'Africa settentrionale e il Sahara portava oro, schiavi e avorio dai grandi mercati del Sudan, di Timbuktu e del Senegal, ai porti del Mediterraneo occidentale. Ma dopo che i turchi occuparono Costantinopoli, i mercanti lusitani pensarono fosse indispensabile raggiungere direttamente le fonti orientali ed estremorientali della ricchezza musulmana, circumnavigando la costa occidentale dell'Africa e aggirando lo sbarramento islamico dal Nordafrica fino al Levante. La prima tappa del colonialismo portoghese fu la conquista di Ceuta, nel 1415, che era una fortezza di pirati arabi posta sullo stretto di Gibilterra, in Marocco. Nel 1432 s'impadronirono delle isole Azzorre, nel '34 doppiarono il capo Bojador, a sud del quale si riteneva che la vita fosse impossibile. L'uso della caravella s'impose proprio per verificare direttamente se ciò era vero: occorreva, a tale scopo, uno strumento che permettesse di allontanarsi di molto dalle coste. Nel 1441 una spedizione fece ritorno col primo carico di schiavi neri di cui si sia a conoscenza. Intorno al 1450 la loro importazione in Portogallo toccò le 700-800 unità all'anno. Molti di questi schiavi finivano col lavorare nelle piantagioni della canna da zucchero presenti nelle colonie. Nel 1442 i portoghesi importarono dalla Guinea il primo quantitativo di oro (nei 20 anni seguenti essi divennero i maggiori fornitori d'Europa). Oltre all'oro giungevano in Europa dalle loro colonie: pepe di Cayenna, cotone, avorio, olio di balena, pesce da salare, legno pregiato e molti prodotti esotici. Nel 1443 la corona cominciò a regolamentare questo commercio. Sul piano etico-giuridico, la conquista di tutte le coste africane libere dalla presenza islamica, determinò un problema: quale giustificazione dare all'occupazione di territori dove vivevano popolazioni pagane che non avevano mai conosciuto Cristo? Si poteva parlare di "guerra giusta" come nel caso dei mori? Dopo ampio dibattito teologico, si arrivò alla seguente conclusione, avvallata dall'autorità pontificia: Cristo ha la signoria materiale e spirituale su tutti i popoli; questo potere lo ha trasmesso ai pontefici, i quali, a loro volta, lo possono delegare a sovrani cristiani, che lo esercitano sulle terre degli "infedeli". Tali sovrani hanno la responsabilità di convertire i pagani: se questi rifiutano, può essere condotta contro di loro una "guerra giusta", con tanto di riduzione in schiavitù della popolazione e di confisca delle sue proprietà. La collaborazione coi capi berbero-arabi (da tempo razziatori) e la collusione con capi-tribù indigeni si rivelarono subito proficui nella caccia all'uomo nelle zone dell'interno. In cambio di cavalli e generi di lusso, i sovrani dei grandi regni africani (Mali, Benin, ecc.) misero i portoghesi in condizioni di spezzare il controllo arabo sulle rotte di terraferma e costiera del traffico degli schiavi. Naturalmente i meccanismi della schiavizzazione portoghese erano molto diversi da quella africana pre-europea: in quest'ultima lo schiavo poteva sposarsi, possedere beni, prestare giuramento, essere un testimone valido, diventare persino erede del suo padrone... In quella europea tutto era strettamente finalizzato all'accumulo di capitali. Il Portogallo -a differenza della Spagna- evitò sempre d'avanzare nel retroterra dei paesi conquistati. Nel 1415 aveva tentato di invadere il Marocco, sotto il pretesto di una crociata antislamica, ma fu un fallimento quasi totale (ci riproverà, ma inutilmente, nel 1578). Le forze colonialiste portoghesi capirono ben presto che per loro era meglio controllare lo smercio dei prodotti piuttosto che la produzione vera e propria. Questo non solo perché disponevano di pochissime forze numeriche (la popolazione nazionale nel 1450 non superava le 800.000 unità: un secolo dopo era sui 1,5 milioni: il numero delle navi che ogni anno il Portogallo inviava nelle colonie non era superiore a 20 e quello degli uomini non superava i 1500); ma anche perché le civiltà con cui vennero a contatto non erano di livello culturale e tecnologico inferiore a quelle europee. India, Indocina e Cina erano allo stadio del feudalesimo avanzato e, sul piano militare, erano certamente più agguerriti degli indigeni incontrati dagli spagnoli. Da notare che, proprio per questa incapacità di organizzare politicamente l'entroterra, il colonialismo portoghese risulterà meno odioso di quello spagnolo, anche se, inevitabilmente, lasciò tracce meno profonde. Nel 1483 Colombo presentò a Lisbona il progetto di periplo terrestre in direzione d'occidente: in tal modo cercava di rispondere all'idea di raggiungere l'India per mare strappando ai musulmani il monopolio del commercio coll'Oriente. Il progetto, come noto, venne bocciato: i portoghesi preferirono proseguire nei loro tentativi, giudicati più sicuri, di circumnavigazione africana. Infatti, quando nel 1487 Bartolomeo Diaz raggiunse l'estremo lembo meridionale dell'Africa, da lui battezzato Capo tempestoso e più tardi detto di Buona Speranza, la possibilità di raggiungere le coste dell'India era diventata reale: Diaz però fu costretto a ritornare a Lisbona, perché l'equipaggio era allo stremo delle forze. Sarà la spedizione di Vasco de Gama, nel 1498, a gettare l'ancora nella città di Calcutta, riportando in patria, dopo due anni di viaggio e con un equipaggio dimezzato, il primo carico di spezie. Profitto e religione In un primo momento i portoghesi tentarono d'inserirsi pacificamente nei circuiti commerciali asiatici. Ma ben presto, anche per non lasciarsi precedere dai rivali spagnoli, decisero d'intraprendere una vasta azione militare (pirateria, saccheggi e distruzioni di città costiere) per controllare tutto il commercio asiatico, via mare, sino all'Estremo Oriente. Che il primo obiettivo dei portoghesi fosse quello economico e non quello religioso, è documentato anche dal fatto che la diffusione della fede cristiana (scopo principale, teoricamente, delle imprese d'oltremare) fu centrata dapprima sull'Asia e solo nel XVII anche sull'Africa. Le terre e le città conquistate in India furono il punto di partenza per la loro ulteriore espansione in Asia. Venezia fece di tutto per impedire che il Portogallo modificasse lo status quo. Questo non deve apparire strano. E' vero infatti che su tutti i trasporti gravavano le tasse e i dazi doganali dei turchi ottomani e dei mamelucchi d'Egitto, ma è anche vero che l'importazione dei prodotti orientali in Europa costituiva la fonte principale delle ricchezze di Venezia. Nel 1509, sfruttando il vantaggio della superiorità navale, la flotta portoghese inflisse una pesantissima sconfitta alla coalizione di navi arabe ed egiziane, determinando la fine del monopolio arabo, dando inizio alla decadenza di Venezia e trasformando il Mediterraneo in un "mare interno", tagliato fuori dalle nuove, grandi vie commerciali. Lisbona era praticamente diventata la capitale mondiale del commercio delle spezie e degli schiavi. Già nel 1454 i portoghesi avevano ottenuto da papa Nicola V il diritto alle spedizioni militari contro i musulmani e al monopolio commerciale sulle coste africane del Mediterraneo. In seguito, con la bolla Aeterni Regio Clementia, ottennero dal papato il riconoscimento del possesso di tutti territori africani conquistati. La dottrina nata per santificare la conquista della Terrasanta aveva esteso la sua applicazione sino a giustificare la conquista di regni e popolazioni che mai avevano minacciato il Portogallo, sconosciuti anzi a tutta l'Europa. Nel 1493, con un'altra bolla, Inter Coetera, il papato fu costretto a rispondere alla seguente domanda: per "costa dell'Africa", a sud delle Canarie, doveva intendersi tutto l'Oceano Atlantico? Naturalmente i portoghesi pensavano di sì e se fosse passata la loro opinione, la Spagna avrebbe dovuto loro restituire l'America. Gli spagnoli invece ritenevano appartenesse alla Castiglia ciò che si trovava a ovest e a nord delle Canarie. Papa Alessandro VI, che aveva già riconosciuto i diritti di conquista alla Spagna sulle "Indie occidentali", stabilì, per evitare conflitti tra le due potenze cattoliche, che i territori a oriente di un linea ideale (100 leghe=circa 600 km, a ovest delle isole di Capo Verde) restassero sotto l'influenza portoghese, mentre quelli a occidente dovevano restare sotto l'influenza spagnola. Ogni altro Stato veniva escluso, a priori, da qualunque conquista coloniale. L'anno seguente però il trattato di Tordesillas, firmato dai sovrani portoghese e spagnolo, spostava la linea di demarcazione a 370 leghe=oltre 2000 km, a ovest delle suddette isole, sicché la zona d'influenza del Portogallo arrivava a includere persino il Brasile. L'ultimo trattato bilaterale sarà quello di Saragozza nel 1529, determinato dal fatto che con la prima circumnavigazione americana di Magellano e la conquista spagnola delle isole Filippine, si riproponeva il problema di una diversa spartizione delle sfere d'influenza nel Pacifico. La Spagna tuttavia, nonostante quest'ultimo trattato, si rifiuterà di restituire le Filippine al Portogallo. Tipologia del colonialismo lusitano I portoghesi arrivarono in Cina nel 1513 e in Giappone nel 1541. Quando nel 1521 gli spagnoli, circumnavigata l'America meridionale, giunsero nell'odierno arcipelago malese, lo trovarono già in mano dei portoghesi. Sintetizzando tutta l'attività coloniale dei portoghesi, si può dire ch'essi anzitutto nel primo ventennio del XVI sec., istituirono una serie di basi militari-navali lungo le coste occidentali e orientali dell'Africa (imitando, in questo, la strategia delle città cristiane del Mediterraneo nei riguardi dell'Islam afro-asiatico, ai tempi delle crociate); poi occuparono alcune isole presso Ormuz, per impedire che le vie del Mar Rosso e del Golfo Persico potessero essere utilizzate dai turchi o dagli egiziani (le spezie andavano convogliate esclusivamente sulla rotta del Capo di Buona Speranza); infine bloccarono tutti i passaggi obbligati del commercio asiatico: Birmania, Malacca, Macao, Taiwan, isole Molucche, Goa e Bombay, ecc. Praticamente l'espansione seguì, oltre alle direttive della corona, anche quelle dell'Islam, che da secoli conosceva l'Oceano Indiano. I piccoli signori feudali dell'Asia erano costretti a concedere gratuitamente o come tributo o a prezzi fissi gran parte dei raccolti di spezie pregiate. Il Portogallo, come del resto la Spagna, considerava di suo dominio anche le acque territoriali di tutte le zone scoperte, per cui ogni nave che entrava in queste acque, senza il relativo permesso, veniva confiscata e il suo equipaggio era condannato a morte o ridotto in schiavitù. A queste condizioni qualunque concorrente del Portogallo appariva un alleato desiderabile. Anche per questa ragione i commercianti lusitani, in cambio di oro, argento, rame e spezie, ad un certo punto saranno disposti ad offrire armi da fuoco, tessuti di lana, velluti, tabacco, orologi, vetro, lenti per gli occhiali, ecc. Dunque, a partire dagli inizi del XVI sec. sino all'apertura del canale di Suez negli anni '60 del secolo scorso, la via marittima aperta dai portoghesi rappresenterà la strada principale del traffico commerciale tra Europa e Asia. Tuttavia, il blocco totale del Mar Rosso, pur tentato a più riprese, non riuscirà mai completamente: gli stessi buoni rapporti con la Persia implicavano che i mercantili mori continuassero a giungere quasi regolarmente nel Golfo Persico. Si può stimare che il monopolio lusitano del commercio delle spezie s'aggirasse sul 60-70% (il pepe costituiva i 2/3 di tutte le spezie). [Da notare che il livello commerciale raggiunto nel 1515 non sarà più superato in seguito]. Per valutare bene lo sforzo lusitano di espansione commerciale si deve tener conto anche di un altro fattore: le grandi distanze che separavano la metropoli dalle colonie, che erano causa di naufragi (almeno il 10-15%) e di notevoli perdite umane (almeno il 15-25% su un viaggio di due anni). Non dobbiamo infatti dimenticare che se dalla Spagna a Cuba (e viceversa) bastavano meno di 5 mesi, da Lisbona a Goa (in India) occorrevano, per andata e ritorno, almeno 18 mesi, e da Goa al Giappone (andata e ritorno) almeno tre anni, senza considerare che la via del Capo dipendeva dai venti stagionali: alisei sull'Atlantico e monsoni nell'Oceano Indiano. Anche per questo motivo le spezie che passavano dal Capo di Buona Speranza erano di qualità inferiore rispetto a quelle del Mar Rosso. Le enormi distanze che dividevano la metropoli dalle colonie indurranno, col tempo, il Portogallo (ma anche altri Paesi europei) ad abbandonare, in gran parte, i vascelli di un centinaio di tonnellate, per impiegare sempre di più quelli sulle mille. Ciò permetteva un risparmio relativo di circa la metà dei costi, grazie alla riduzione del numero degli uomini e della quantità dei viveri. Inoltre s'imporrà il sistema dei "convogli". La fortuna del Portogallo declinò molto presto per due fondamentali ragioni: a) Inghilterra, Olanda e Francia erano diventate delle nazioni militarmente forti, soprattutto sul piano navale, in grado di minacciare tutte le colonie del Portogallo, b) la Spagna assolutista degli Asburgo lo occupò nel 1580, portandolo in breve tempo al dissesto economico e finanziario, tanto che moltissime delle sue colonie (a causa della guerra tra Spagna e Olanda) gli vennero sottratte dagli olandesi. Non solo ma nel 1654 la Spagna, in guerra anche con l'Inghilterra, sarà costretta a firmare un trattato in virtù del quale quest'ultima si assicurerà il controllo politico-economico dello stesso Portogallo. Tuttavia, nel 1640, approfittando della rivolta antigovernativa della Catalogna, nobiltà e borghesia portoghesi, appoggiati dall'arcivescovo di Lisbona, riuscirono a organizzare una congiura, occupando il palazzo reale di Lisbona. Ebbe così inizio la sollevazione nazional-popolare che, sostenuta da Francia e Inghilterra, costringerà la Spagna a riconoscere definitivamente l'indipendenza del Portogallo nel 1668. Ciò tuttavia non permetterà al Portogallo di risollevarsi economicamente. L'unico vasto territorio che il Portogallo cercò di colonizzare non solo sulla costa ma anche all'interno fu il Brasile, occupato nel 1500. Allora il Brasile era povero di popolazione e di ricchezze sfruttabili (i giacimenti di oro e diamanti vennero scoperti solo verso la fine del XVIII sec.). Qui i portoghesi metteranno in piedi una serie di piantagioni (soprattutto dello zucchero) e un mercato di schiavi (gli indios brasiliani che non volevano lavorare vennero sostituiti con schiavi negri importati dall'Africa), adottando gli stessi metodi di sfruttamento esistenti nelle colonie spagnole. Con una differenza però: i profitti derivati dai beni di commercio più vantaggiosi finivano nelle casse dello Stato, poiché erano di monopolio reale. Lo Stato prelevava i diritti di dogana e delle contrattazioni commerciali e incamerava i diritti (5%) delle licenze reali. Per poter riscuotere con sicurezza i dazi sul commercio, la corona aveva designato Lisbona come unico porto per i viaggi in partenza e in arrivo. I metodi amministrativi portoghesi furono meno efficaci di quelli spagnoli, poiché il governo di Lisbona era molto autocratico e non permetteva ai funzionari presenti nelle colonie di poterle controllare autonomamente. Lo sfruttamento delle colonie portoghesi avveniva mediante un apparato statale burocratico di tipo feudale. Il potere dei funzionari era enorme, poiché erano responsabili solo di fronte al re. Le nomine restavano in vigore per un triennio ed erano molto ambite. Questa burocrazia, che ebbe meno problemi con la corona di quanti ne ebbero i conquistadores col governo spagnolo, svolgeva funzioni amministrative, giudiziarie e commerciali. Essa acquistava o raccoglieva come tributi le merci per la madrepatria. L'eccesso di quanto poteva essere caricato sulle navi, veniva distrutto. Ogni singola colonia era direttamente collegata con la metropoli: non esistevano legami tra colonie. Il commercio tra singoli porti delle colonie era un monopolio concesso come privilegio solo agli alti funzionari. Tutte le colonie vennero chiuse al commercio degli stranieri nel 1591. Da ultimo si può far notare che il Portogallo non è mai stato in grado di smistare, da solo, tutte le merci che acquistava. Non disponendo di una vasta rete commerciale e avendo una scarsa popolazione, esso era costretto a servirsi d'intermediari (anche italiani), che naturalmente assorbivano una buona parte dei profitti. Gran parte delle spezie e del pepe finivano all'emporio reale di Anversa, dove vigeva la piena libertà commerciale e finanziaria. Qui la Borsa fu istituita nel 1531. Quando le fortune di questa città fiamminga cominciarono a declinare, salirono quelle di Genova, che per mezzo secolo saprà attirare l'oro e l'argento, mentre le spezie e lo zucchero convergeranno su Amsterdam. Saranno i portoghesi i primi a introdurre ufficialmente il sistema monetario basato sull'oro, rinunciando all'argento. LE SCOPERTE GEOGRAFICHE La caduta dell'impero bizantino. La caduta di Costantinopoli avvenne nel 1453 ad opera dei Turchi ottomani, che avevano preso il posto dei Turchi selgiuchidi in Asia Minore. Essi erano di religione islamica. A Firenze nel 1439 era stato siglato un accordo fra l'imperatore bizantino e la chiesa di Roma che prevedeva la sottomissione dell'Ortodossia al Cattolicesimo in cambio di una crociata anti-turca. Ma la crociata non venne intrapresa perché le masse bizantine rifiutarono gli accordi di quel concilio. Le scoperte geografiche. Lo sbarramento ai traffici tra Oriente e Occidente frapposto dall'impero ottomano spinse gli europei a cercare nuove vie di comunicazione. L'unica città che ancora conservava la possibilità di commerciare coll'Oriente attraverso il Mar Rosso e l'Oceano Indiano era Venezia, che non voleva dividere i suoi privilegi con nessuno. Oltre a ciò l'Oriente aveva bisogno di oro e argento per dare impulso alle nuove attività produttive e commerciali della borghesia. La via oceanica all'Oriente venne aperta quando il portoghese Bartolomeo Diaz doppiò la punta estrema del continente africano (capo di Buona Speranza). La nave delle grandi scoperte fu la caravella, un piccolo veliero, agile e veloce. Naturalmente nessun viaggio oceanico si sarebbe potuto fare senza il perfezionamento della bussola, lo studio dei venti e l'elaborazione di carte nautiche più precise. All'inizio le scoperte geografiche saranno il frutto dell'intraprendenza di mercanti, nobili decaduti, avventurieri e navigatori privati (genovesi e portoghesi soprattutto). In seguito i viaggi saranno organizzati dagli Stati dell'Occidente europeo. L'esigenza di scoprire nuove vie di comunicazione e nuove terre da colonizzare, partiva anche dal fatto che la formazione delle monarchie nazionali implicava la costituzione di eserciti di massa, di un'amministrazione burocratica complessa, di una politica edilizia di prestigio che col normale prelievo fiscale non si poteva più garantire. La scoperta dell'America (1492). Allorché si cominciò a credere che i portoghesi erano ormai prossimi a raggiungere le Indie (India, Cina e Giappone), i sovrani di Spagna (Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona) decisero di finanziare il progetto del genovese Cristoforo Colombo, che si proponeva di raggiungere le regioni dell'Estremo Oriente, navigando verso Occidente, attraverso l'Atlantico. Il progetto di Colombo era motivato da tre considerazioni: 1) che la forma della terra fosse sferica, 2) che fosse relativamente modesta la distanza, per via di mare, tra le coste occidentali europee e quelle orientali asiatiche, 3) che fra esse nessun altro continente vi fosse. Questo progetto venne dapprima sottoposto ai portoghesi, che però lo rifiutarono, accontentandosi dell'impresa di Diaz. Lo scopo dell'impresa era unicamente commerciale e mirava ai ricchissimi mercati di Cina e Giappone, di cui aveva già parlato Marco Polo (1271-91) nel suo libro il Milione. Quando Colombo approdò nell'arcipelago delle Antille era convinto d'essere giunto in Asia e grande fu il suo stupore nel vedere che non c'erano quelle enormi ricchezze di cui si parlava in Europa. Per questo motivo la sua fortuna conobbe un rapido declino, nonostante i viaggi successivi. In seguito, i viaggi di Caboto, Vespucci e Magellano dimostrarono che le terre scoperte da Colombo erano in realtà un nuovo continente. Le civiltà americane. Gli AZTECHI erano caratterizzati da una monarchia elettiva molto forte. Il re aveva poteri assoluti, in qualità di capo dello Stato e dell'esercito, nonché sommo sacerdote. Egli era affiancato da un notevole apparato amministrativo. Le cariche civili e religiose erano riservate a una casta ereditaria: la nobiltà, la quale era anche l'unica a possedere privatamente la terra; i contadini invece la ricevevano in usufrutto dalla comunità. Mercanti e artigiani erano un ceto intermedio di privilegiati che si trasmettevano il mestiere di padre in figlio. Alla base della piramide sociale stavano i servi e gli schiavi (prigionieri di guerra o colpevoli di gravi delitti). Non conoscevano l'applicazione pratica della ruota né gli utensili di metallo, nonostante conoscessero oro e rame. Molto considerate erano l'architettura, la scultura, la musica, la danza e la religione. Celebravano sacrifici umani. Ritenevano che la vita di ogni uomo fosse rigorosamente predestinata, giorno dopo giorno, in ogni particolare. La loro capitale aveva 300.000 ab. ed era tra le più grandi città del mondo. I MAYA era organizzati in città-stato dotate di completa autonomia. Non erano però centri urbani abitati da una popolazione stabile, ma luoghi di culto, dove avevano sede i templi e le abitazioni del clero. La popolazione viveva nelle campagne e si recava in città per il mercato e le cerimonie religiose. Capo della città era il sommo sacerdote, che deteneva anche i poteri politici e giudiziari. Il clero era affiancato da un potente ceto nobiliare che aveva il privilegio della proprietà privata della terra. I contadini lavoravano la terra in comune. La scrittura maya è ideografica e molto complessa. Avevano conoscenze astronomiche superiori a quelle occidentali: calcolavano l'anno solare in 365 giorni. Architettura, scultura, pittura e ceramiche erano molto evolute. Gli INCAS avevano l'impero più vasto, controllato da un esercito agguerrito e da una struttura amministrativa efficiente. Non erano tuttavia bellicosi perché non schiavizzavano i popoli vinti ma li associavano, fornendo loro ciò di cui avevano bisogno. Bene organizzata era la rete stradale. L'impero era suddiviso in circoscrizioni rette da governatori. Capo supremo era l'imperatore, con poteri politici, militari e religiosi. Egli era coadiuvato da 4 alti funzionari e dalla potente aristocrazia. Si serviva anche di un corpo di ispettori per controllare tutto l'impero. L'economia era soprattutto agricola. La proprietà individuale non esisteva. La terra era divisa in tre categorie: terra del sovrano (per mantenere i nobili, i funzionari e gli inabili al lavoro), terra dei sacerdoti e terra della comunità (per i contadini). Si coltivava in maniera intensiva: mais, patate, cereali. Conoscevano l'anestesia e una tecnica chirurgica molto avanzata. Praticavano concimazioni e irrigazioni artificiali, allevano i lama. Tessitura e ceramica erano molto sviluppate. Grande importanza attribuivano alla divinazione. Praticavano sacrifici umani. Aspetti comuni delle tre civiltà. L'agricoltura si basava sulla conoscenza d'importanti piante alimentari: mais, patate, fagioli, pomodori, peperoni... Non esistevano animali domestici: sconosciuti bue cavallo, asino e cane. Sconosciuto l'uso della ruota, della moneta e del ferro. Mancavano contatti e conoscenze tra loro (parlavano più di 100 lingue). Religioni politeistiche con culto delle forze naturali, presenza di una divinità suprema circondata da divinità minori. Concezione del mondo molto pessimistica. Quando vennero distrutte erano all'apice della loro potenza. La formazione degli imperi coloniali. L'impero PORTOGHESE risultò costituito da una grande rete di minuscole colonie commerciali e militari, situate lungo le coste occidentali e orientali dell'Africa, nei pressi del Mar Rosso e del Golfo Persico (che controllavano completamente), e in quei passaggi obbligati del commercio asiatico: Birmania, Malacca... In tal modo il Portogallo poteva controllare tutto il commercio con l'Estremo Oriente. Essi avevano distrutto l'intera flotta degli arabi d'Egitto. L'unica colonia in cui il loro dominio si estese anche nell'entroterra fu il Brasile. L'impero SPAGNOLO nacque non secondo piani preordinati, ma dalle feroci imprese dei conquistadores che la febbre dell'oro spinse ad addentrarsi nei territori a nord e a sud dell'America. Il loro impero era immenso: dal Messico all'Argentina. Le popolazioni indigene vennero costrette ai lavori forzati nelle miniere e nei campi, e ad accettare la religione cattolica. Per regolare le rispettive sfere di espansione, evitando di ricorrere all'uso della forza, Spagna e Portogallo firmarono il trattato di Tordesillas (1494), secondo cui alla Spagna sarebbero toccate tutte le terre a occidente del meridiano che divideva l'Artico dall'Antartico, distante 370 leghe dalle isole di Capoverde; al Portogallo quelle a oriente. I più famosi conquistatori spagnoli furono Cortés e Pizarro. I mezzi della conquista. La facilità con cui il Nuovo Mondo cadde nelle mani dei conquistatori trova la sua spiegazione in una serie di ragioni: 1) armamento superiore (armi da fuoco leggere e pesanti, spade d'acciaio, balestre, cavalli...), 2) buona parte delle popolazioni sottomesse da aztechi e maya passarono dalla parte degli europei, 3) le conquiste furono mantenute per mezzo di massacri militari e decimazioni attraverso il lavoro forzato e le epidemie (ad es. in 120 anni la popolazione messicana passò da 25 a 2 milioni). L'organizzazione delle conquiste. I conquistatori portoghesi e spagnoli trasferirono nelle Americhe forme di organizzazione politico-sociale simili al sistema feudale ancora diffuso, anche se morente, in quasi tutta Europa. Nelle Americhe il modello feudale risultava molto più oppressivo: agli indigeni venivano richieste prestazioni di lavoro illimitate e nessuna legge o consuetudine poteva tutelarli. I villaggi indigeni venivano affidati a quei capi militari che si erano distinti in guerra. L'attività economica più integrata all'economia europea era l'industria mineraria. Si sottraevano risorse (poi esportate in Europa, che in cambio forniva beni di consumo e di lusso per i dominatori locali) senza creare investimenti. Conseguenze dell'espansione coloniale in Europa. La sovrabbondanza di argento e oro svaluta il potere d'acquisto delle monete tradizionali e fa aumentare il costo della vita. Le classi borghesi ci guadagnano, ma quelle a reddito fisso ci rimettono. L'intero sistema mondiale dei rapporti commerciali si concentra rapidamente attorno all'Atlantico e al Pacifico. Il Mediterraneo si avvia a inesorabile declino e così pure l'economia italiana, asservita peraltro allo straniero. Lo sviluppo capitalistico trova nel colonialismo un potente fattore di sviluppo. Dal Nuovo Mondo giunsero in Europa oro, argento, schiavi, spezie, zucchero, tabacco e molti prodotti alimentari sconosciuti. L'economia schiavista. Quando gli indios furono decimati dalle guerre, dai lavori forzati e dalle epidemie, gli europei pensarono di sostituirli trasferendo i neri dall'Africa all'America. Per oltre tre secoli i neri che venivano schiavizzati in Africa, vennero esportati attraverso l'Atlantico, vero i mercati di schiavi d'America. La tratta dei negri fu iniziata dalla Spagna e dal Portogallo, e divenne subito una fonte di profitto per gli Stati, che vendevano licenze ai trafficanti e imponevano delle imposte. Il monopolio ispano-portoghese venne spezzato ben presto dalla concorrenza di Olanda, Inghilterra e Francia. L'OCCASIONE PERDUTA DI COLOMBO Il 15 febbraio 1493, Cristoforo Colombo, dal Mar delle Azzorre, scrisse una lettera al cancelliere dei Re Cattolici di Spagna, Luis de Santangel, che l'aveva aiutato a trovare i finanziamenti per il suo primo viaggio oltreoceano (una copia di questa lettera venne spedita a Gabriel Sanchez, tesoriere della corte aragonese, anch'egli sostenitore del viaggio). Luis de Santangel, il cui casato da generazioni era legato ai sovrani d'Aragona, era un converso d'origine ebraica, salvatosi dall'Inquisizione solo perché protetto da re Ferdinando. Fu proprio lui che suggerì a Isabella di Castiglia, già moglie di Ferdinando, di vincolare il compenso, dovuto a Colombo, al successo dell'impresa. Isabella accettò in prestito la somma raccolta dal banchiere Santangel, impegnando ai rischi per quel primo viaggio solo il suo regno di Castiglia, senza coinvolgere il marito e la sua Aragona, più interessati alla politica mediterranea (sebbene da entrambi i sovrani venne rilasciata a Colombo l'autorizzazione scritta a partire per le Indie, senza la quale Colombo e il suo equipaggio sarebbero stati facilmente sopraffatti dai portoghesi). I finanziamenti -come sappiamo- non provennero solo dalle casse reali (in misura peraltro assai modesta), ma anche da mercanti e banchieri genovesi e fiorentini, dagli abitanti di Palos, che, condannati per un fatto di pirateria o di contrabbando, furono costretti a fornire due delle tre navi, e infine dallo stesso Colombo, che dovette provvedere per circa 1/3 delle spese al noleggio della terza nave, ai salari dell'equipaggio, al costo delle vettovaglie e ad altre cose. La lettera servì appunto per rassicurare il suo "sponsor" più influente, con dovizia di particolari e di buone promesse, che il viaggio aveva avuto un felice esito e che i prossimi sarebbero stati ancora migliori. Colombo la scrisse con la falsa dicitura: "All'altezza delle isole Canarie", per non rivelare ai portoghesi (padroni delle Azzorre, mentre gli spagnoli avevano occupato le Canarie nel 1402) la sua rotta di ritorno dal Nuovo Mondo, che poi per quattro secoli resterà immutata. Non dobbiamo infatti dimenticare che poche settimane prima d'essere accolto a Barcellona, con grandi onori, dai re spagnoli, quello portoghese, Giovanni II, aveva avuto intenzione di rivendicare come proprie le terre scoperte da Colombo, e solo il timore della forza del nuovo regno spagnolo lo persuase a desistere. Spedita da Lisbona il 4 marzo 1493, ove Colombo era riparato in seguito a numerose tempeste, la lettera servì per annunciare ai sovrani spagnoli il suo ritorno vittorioso. E' un documento molto interessante, poiché racchiude, in modo sintetico, le principali concezioni di vita del suo autore, le linee fondamentali della mentalità euroccidentale del suo tempo, i presupposti basilari di quelli che sarebbero stati i rapporti coloniali dell'emergente eurocapitalismo col cosiddetto "Nuovo Mondo". Se vogliamo, vi sono anche i primissimi elementi di quelle scienze, come l'antropologia e l'etnologia, che si costituiranno, abbandonando l'etnocentrismo europeo, verso la fine dell'800. L'importanza di tale lettera venne capita subito: stampata alla fine dell'aprile 1493 a Barcellona, sarà tradotta in latino, italiano e tedesco, conoscendo una vasta diffusione in tutta Europa. Lo scopo del primo viaggio Fra gli scopi della missione non appare nella lettera quello d'incontrare il Gran Khan: Colombo lo dà semplicemente per scontato e ne parlerà in altri documenti. Ad es. nel Giornale di bordo scriverà: a partire dal Milione di Marco Polo "è da lungo tempo che l'imperatore del Cataio [Cina] ha chiesto di poter avere dei sapienti che lo istruiscano nella fede di Cristo". Colombo dunque nei confronti del Gran Khan era mosso da due forti esigenze: quella del "gran commercio", per usare un'espressione della lettera in oggetto, e quella della predicazione del cristianesimo. Colombo, in effetti, non era solo un abile mercante di origine genovese, ma anche un uomo di fede; anzi egli si considerava un "eletto di Dio" incaricato di una "missione speciale": quella di aprire un fronte comune mongolo-cristiano contro l'Islam, che avrebbe preparato il terreno per una nuova crociata a Gersusalemme, al fine di liberare il Santo Sepolcro e ricostituire la cristianità mondiale. Nella Lettera rarissima del 7 luglio 1503, egli, consapevole di vivere in un periodo storico in cui l'ideale della fede, di per sé, non avrebbe potuto muovere nessuno verso la Terra Santa, scrive che senza ingenti finanziamenti, che si potevano ottenere acquisendo giacimenti auriferi, non si sarebbe potuto costituire un potente esercito crociato. L'idea della "guerra santa" era semplicemente utopica, sia perché l'unico territorio dove ancora si facevano le crociate antislamiche era la penisola iberica, sia perché da almeno un secolo e mezzo la dinastia dei Ming aveva rimpiazzato in Cina quella del Gran Khan; senza considerare che una cristianità mondiale sotto l'egida del papato da almeno 500 anni non l'avevano accettata gli ortodossi, non la stavano accettando le forze laiche nazionaliste e assolutiste d'Europa (in Italia rinascimentali) e non l'accetterà, di lì a poco, il mondo protestante. Tuttavia Colombo credette nella possibilità di una "megacrociata" sino alla fine dei suoi giorni; anzi, col passare degli anni, quanto più i moventi economici del viaggio e della conquista saranno frustrati da circostanze avverse, tanto più aumenteranno in lui le preoccupazioni di carattere mistico-allegorico, riscontrabili nell'esegesi biblica del Libro delle profezie, ma anche nelle deliranti profezie della suddetta Lettera rarissima. Un altro motivo del viaggio era, come si è detto, quello di commerciare con le Indie (solo nel terzo viaggio Colombo cominciò a ipotizzare l'esistenza di un "otro mundo"), e addirittura di occupare quanti più territori possibili, esattamente come da diversi decenni facevano i portoghesi a danno di arabi, asiatici e africani. Infine non vanno sottaciuti i grandi vantaggi personali che Colombo avrebbe ottenuto se l'impresa fosse riuscita. Nei Capitolati di Santa Fe, firmati da entrambi i sovrani, Colombo chiedeva come compenso cose che mai nessun navigatore di quei tempi riuscì ad ottenere: il titolo di ammiraglio per tutti i territori conquistati (equivalente al titolo di grande ammiraglio di Castiglia); i titoli di vicerè e di governatore, con relativi stipendi, per tutte le terre colonizzate; la decima parte di ogni transazione commerciale che avvenisse entro i confini del suo vicereame; il titolo di giudice esclusivo di tutte le controversie commerciali tra Spagna e nuovi territori; il diritto di trasmettere questi privilegi al figlio primogenito. Scoprire o conquistare? Le armi messe a disposizione dai Re Cattolici per le tre caravelle erano scarse e di tipo convenzionale: bombarde, falconetti, balestre e armi da taglio, che dovevano servire per difendersi in caso di attacco, certo non per occupare uno Stato. Al massimo, seguendo l'esempio dei portoghesi nell'Africa sud-equatoriale, si potevano occupare territori privi di una forte organizzazione. In ogni caso la corona spagnola avrebbe saputo servirsi di eventuali "incidenti", come pretesto per inviare in un secondo momento forze ben più imponenti. Come poi, in effetti, farà. Dunque l'intenzione di questi naviganti e dei loro finanziatori, se non era quella di dichiarare guerra a qualche potenza straniera, era però necessariamente bellicosa, oltre che commerciale, non foss'altro perché solo così essi avrebbero potuto contrastare i grandi successi dei portoghesi. Infatti, Colombo fa subito notare, nella lettera, che i finanziamenti ricevuti dalla corona avevano sortito l'effetto sperato: "moltissime isole popolate da gente innumerevole" sono state occupate, "con bando e bandiera reale spiegata", cioè con tutti i crismi e secondo il diritto vigente (in Europa), servendosi del notaio di tutta la flotta, Rodrigo d'Escovedo. E questo -sottolinea Colombo- "senza trovare resistenza": il che sta a significare che la facilità della conquista doveva rassicurare i sovrani sul buon esito dei futuri finanziamenti per imprese analoghe. Già si è detto che Colombo, in quanto cattolico, era un uomo medievale, con preoccupazioni anacronistiche per il suo tempo, comprensibili solo nell'arretrata Spagna; in quanto mercante invece egli era sicuramente più vicino agli ambienti liguri da cui proveniva o a quelli portoghesi che per molto tempo aveva frequentato. Di qui l'estrema contraddittorietà delle sue posizioni. Il primo impatto Il suo atteggiamento "imperialistico", che è di derivazione tardo-feudale (vedasi la "Riconquista" spagnola) e che verrà ereditato e anzi approfondito dal capitalismo emergente, a partire appunto dalla sua "scoperta", è ben visibile anche laddove egli, pur sapendo che le isole posseggono il nome attribuito loro dagli "indiani" (popolazioni che non avevano mai avuto alcun contenzioso con gli europei), decide ugualmente di ribattezzarle coi nomi della tradizione ispanico-cristiana: San Salvatore, Fernandina, Giovanna, Isabella ecc. Colombo giustifica il proprio atteggiamento col precisare che la gente incontrata non si lasciava "incontrare", in quanto "fuggiva dalla paura". Non c'è qui la pedagogia di chi, per poter incontrare una popolazione, lontana dagli usi e costumi euroccidentali, si mette al suo livello e cerca di avvicinarla lentamente, progressivamente, al fine di capirla. C'è invece l'astuzia di chi sfrutta la paura altrui come una buona occasione per imporsi. Colombo, abituato a ragionare in termini di rapporti di forza, timoroso che la "tierra" tanto agognata possa essergli sottratta dal rivale Portogallo, ha scoperto l'America -ha scritto Todorov- non gli americani. Il popolo che per primo Colombo incontrò erano i Lucayo, un sottogruppo Arawak di circa 30.000 persone che abitava le Bahamas e viveva di pesca e di un'agricoltura primitiva, in piccoli villaggi indipendenti di non più di 15 capanne (la divisione in classi era inesistente). Commerciavano coi loro vicini cotone, pappagalli e foglie di tabacco. Gli Arawak erano una popolazione di lingua e di origine amazzonica. Colombo, in una lettera del 25 dicembre 1492 ne parla così: "E' un popolo affettuoso, privo di avidità e duttile, e assicuro le Vostre Altezze che al mondo non c'è gente o terra migliore di queste. Amano il prossimo come se stessi e hanno le voci più dolci e delicate del mondo, e sono sempre sorridenti...nei contatti con gli altri hanno ottimi costumi". Per poter avvicinare gli "indiani", egli è costretto a "catturarne" alcuni, obbligandoli a imparare lo spagnolo o comunque a comunicare e a fare da interpreti per tutti gli altri indios. Colombo si sente autorizzato a comportarsi così anche perché non scorgeva fra quelle popolazioni "nessun indizio di ordinamento politico". L'assenza di istituzioni lo giudica come un segno sicuro di arretratezza. Colombo cerca nel "Nuovo Mondo" ciò che assomiglia all'Europa. Non trovando alcun "ordinamento politico", egli ritiene legittimo conquistare ciò che gli appare non difendibile da alcun proprietario in particolare, perché appunto non rivendicato giuridicamente come "proprio". L'assenza di istituzioni gli pare un motivo sufficiente per impadronirsi legalmente della terra e delle risorse altrui. Qui Colombo ha in mente i principî feudali e borghesi della proprietà privata, la cui tutela dipende dalle istituzioni civili oltre che naturalmente dai proprietari "legali" o "ufficiali": non può neanche immaginare che "assenza di istituzioni" e "proprietà comune" si identificano. La proprietà collettiva è, per lui, senza proprietario, ed essendo non protetta dalle istituzioni, può essere soggetta in qualunque momento a esproprio, secondo la legge del più forte. Colombo è così condizionato dalla mentalità dominante (feudale in Spagna, sempre più borghese nel resto d'Europa, incluso il Portogallo), che persino quando descrive l'ambiente naturale di Haiti (che per lui era il Catai), parla di "usignoli" là dove non sono mai esistiti; e identifica il mondo degli indios con la mitica età dell'oro (Eldorado), secondo i sogni arcadici del Sannazaro e dello spagnolo Juan de la Encina. Per lui "quasi tutti i fiumi trascinano oro" e vi sono "spezie in abbondanza e grandi miniere d'oro e di altri metalli". Michele da Cuneo, che fece con Colombo il secondo viaggio, racconta nel suo reportage, che le sabbie piene d'oro dei fiumi erano solo nella fantasia di Colombo e dei suoi uomini. Di fatto, egli ne troverà pochissimo, peraltro già lavorato dagli indigeni (delle foglioline, una maschera...). Lo stesso capitano della Pinta, Martin A. Pinzòn, si staccò dal convoglio per scoprire nuove terre e impossessarsi dell'oro, senza però riuscirvi. Tuttavia, Colombo cercava di vendere fumo anche per garantirsi ulteriori finanziamenti per le future missioni, e forse anche perché, psicologicamente parlando, gli sembrava impossibile che in territori così ricchi di vegetazione non vi fossero importanti materie prime come l'oro e l'argento, la cui scoperta gli pareva imminente. Ancora non gli era balenata l'idea di schiavizzare quelle popolazioni per sfruttarne le risorse, o a titolo per così dire di "risarcimento" per non aver trovato ciò che cercava. Durante il primo viaggio, dopo aver costatato la sobrietà e la semplicità di costumi degli indios, l'unica sua preoccupazione era quella di come dimostrare che occorrevano i finanziamenti per organizzare un secondo viaggio: sia per la ricerca dei giacimenti, che per l'estrazione dei minerali e il loro trasporto in Spagna. Innocenza e paura Il tipo di rapporto che Colombo riesce a stabilire con gli indios è alquanto superficiale, basato sulle mere impressioni. Non c'è una vera spiegazione del fenomeno osservato, sulla base delle testimonianze e dei racconti degli stessi Lucayo e di altri gruppi indigeni, ma solo una sua descrizione sommaria, determinata dall'interesse contingente, che però pretende d'essere obiettiva, perché fatta da un osservatore che si sente infinitamente superiore al soggetto incontrato. E così, la nudità fisica di uomini e donne è la prima cosa ch'egli nota, e gli pare del tutto anomala, segno di povertà, di semplicità e primitivismo (non però di lussuria); l'assenza delle armi viene attribuita alla "paura"; l'estrema generosità con cui offrono quello che hanno alla sprovvedutezza. In particolare, Colombo scoprì il contrario di quanto s'andava predicando nella Spagna del suo tempo, e cioè che il corpo è fonte di peccato. E' vero che nell'Italia rinascimentale si era verificata una riscoperta del nudo greco-romano, ma solo nel campo artistico, come tentativo di recuperare a livello intellettuale ciò che sul piano della società civile non era più possibile vivere in maniera naturale. Lo dimostra il fatto che proprio nel Cinquecento vi sono delle descrizioni colme di pregiudizi riguardanti la nudità e la sessualità degli indigeni. Relativamente all'assenza di armi presso i Lucayo, Colombo afferma che ciò dipende dalla paura. Questo però gli appare in contraddizione con la loro robustezza fisica e alta statura (superiori, in questo, agli spagnoli. Da notare che i Lucayo non mangiavano carne di animale, a parte quella dei pesci). Colombo non riesce a comprendere che la paura dell'indio è paragonabile a quella di un bambino disarmato nei confronti di un adulto minaccioso e armato fino ai denti. Egli stesso dirà, più avanti nella lettera, che appena giunse a Guanahanì "catturò con la forza" alcuni indigeni, "perché imparassero la nostra lingua e mi dessero notizia di quanto v'era da quelle parti". Ancora Colombo scriverà nel Giornale di bordo ch'essi gli fecero capire -quasi a volersi scusare del loro atteggiamento guardingo e sospettoso- "come in quella terra venissero genti da altre isole vicine con l'intenzione di catturarli, per ridurli in schiavitù" (è da presumere fossero gli aztechi). In ogni caso è difficile pensare a un pregiudizio quando furono gli stessi indios a ritenere gli spagnoli "venuti dal cielo". La paura, di fronte a un "dio", non è pusillanimità ma solo timore, non è vigliaccheria ma solo prudenza. Colombo invece la considera come un elemento di debolezza che può essere facilmente sfruttato da parte di chi è più forte. Così come potrà essere sfruttata, su un altro versante, l'innocenza della nudità per compiere ogni sorta di abuso sessuale (lo stesso Michele da Cuneo ne fu attivo protagonista). Colombo cioè non si rende conto che se gli indios non hanno armi non è per paura di possederle o di usarle, ma perché sono gente pacifica, per cui non hanno motivo di costruirsele (se non per la pesca). Se l'avesse capito non si sarebbe meravigliato ch'essi non si servivano delle loro "canne con un bastoncino aguzzo in cima" contro l'equipaggio, neppure contro i due o tre dei suoi uomini mandati "in qualche villaggio per trarre informazioni". Qui è ben visibile la grande differenza tra la paura "fisica" degli indios e la paura "metafisica" degli spagnoli, cioè tra la paura istintiva, immediata, precauzionale, circoscritta a fatti particolari, e la paura profonda, inconscia, radicata in millenni di storia della proprietà privata. Gli indios hanno paura di nemici esterni senza essere abituati ad averla nei loro rapporti interni; gli spagnoli invece vi sono così abituati, nei loro rapporti interni ed esterni, che solo con le armi credono di poterla vincere. La loro grande paura è quella d'aver fatto un viaggio a vuoto: domani sarà quella di poter perdere ciò per cui si erano tanto sacrificati. Lo scambio ineguale Colombo, che si rende conto quanto sia difficile convincere qualcuno dell'occidente europeo a credere che gli indios fuggivano dalla paura senza che gli spagnoli avessero fatto loro alcun torto o minaccia, precisa che, nel tentativo di accattivarsi la loro fiducia, offrì "tutto quanto aveva, come stoffa [per coprirsi?] e molti altri oggetti", cioè a dire: "cocci di scodelle, frammenti di vetri rotti e pezzetti di nastro". Nel Giornale di bordo dirà di aver regalato loro "alcuni berretti rossi e coroncine di vetro che si mettevano al collo e altre cosette diverse, di poco valore", ed anche "perline di vetro e sonagli", ricevendo in cambio "pappagalli, filo di cotone in gomitoli, zagaglie e tante altre cose". Egli quindi non diede loro "tutto quanto aveva" -questo semmai lo fecero gli indios-, ma soltanto ciò di cui poteva fare tranquillamente a meno: in particolare offrì ciò di cui gli indios non avevano alcun bisogno, aldilà delle mere esigenze ornamentali. Da scaltro mercante qual è, Colombo vincola la propria generosità all'interesse e giustifica quella degli indios, di molto superiore, ribadendo la loro povertà! Che poi in altri passi egli affermi d'aver donato loro "mille oggetti graziosi e utili", ciò può essere inteso in due modi: o era aumentato l'interesse, per avere incontrato popolazioni più esigenti, oppure Colombo voleva mostrare le sue buone intenzioni agli occhi dei sovrani spagnoli, che sicuramente avrebbero pubblicizzato la lettera. Colombo conserva ancora qualche scrupolo medievale quando si rende conto che la generosità del suo equipaggio era più scarsa rispetto a quella incontrata. Obtorto collo è costretto ad ammettere che gli indios, "dopo che si sono rassicurati e hanno deposto questi timori, sono tanto privi di malizia e tanto liberali di quanto posseggono, che non lo può credere chi non l'ha visto". Colombo avrebbe quasi preferito che la paura fosse stata associata all'avarizia, alla cupidigia: l'avrebbe capita meglio, si sarebbe sentito più giustificato nello scambio ineguale. Invece quella inconsueta generosità lo disarma, lo sconcerta: qui ha ragiona Todorov quando afferma che Colombo era un uomo del Medioevo. A patto però di considerare i suoi scrupoli di coscienza come tipici di un businessman di religione cattolica, che mentre predica l'unità politica dei cattolici e il valore universale della fede cristiana, sul piano pratico si trova a difendere i principî laici del Rinascimento e del capitalismo mercantile. Egli infatti ha chiarissima l'idea che il valore di una cosa non sta solo nell'uso o nella bellezza estetica, ma anche e soprattutto nel suo valore monetario, di scambio contro l'oro. Ecco perché quegli indios "tanto amorevoli" ad un certo punto gli appaiono anche come "bestie senza discernimento". In Colombo si consuma la transizione dal basso Medioevo al proto-capitalismo. La differenza tra lui e la sua ciurma è solo soggettiva, poiché dal punto di vista oggettivo del rapporto coloniale è del tutto irrilevante. Egli infatti si preoccupa di sottolineare che cercò di proibire l'iniquo scambio quando s'avvide che il suo equipaggio voleva giovarsi della semplicità degli indios per rifilare loro una paccottiglia occasionale. I suoi regali invece erano -come lui stesso scrive- "graziosi e utili". La differenza, come si può notare, stava semplicemente nel fatto che mentre l'incolto marinaio si limitava ad approfittare dell'innocenza-ignorante per realizzare subito un guadagno, il mercante intellettuale invece vuole guardare in prospettiva, in lontananza, e i suoi regali, in questo senso, non possono essere brutti e insignificanti. In effetti, anche se, quanto a valore, può rimetterci (il che poi non è), il mercante intellettuale deve pensare a cos'altro potrà guadagnare in futuro, in virtù di quel baratto. Lo scopo dei suoi regali è più tattico rispetto a quello della ciurma rozza e incolta, e si pone a quattro livelli: 1) acquistare la fiducia degli indios (aspetto psicologico); 2) pretendere ch'essi diventino "cristiani" (aspetto etico-religioso); 3) pretendere che diventino "sudditi" della corona (aspetto politico-istituzionale); 4) esigere che lavorino come i "servi della gleba" già presenti in Spagna (aspetto socio-economico). Gli indios -afferma testualmente Colombo- dovranno "raccogliere e consegnarci i prodotti di cui abbondano e che ci sono necessari". Cioè, d'ora in avanti, gli indios non commerceranno spontaneamente il surplus, ma saranno costretti a fornire quanto occorre agli spagnoli. Colombo, preoccupandosi di non apparire un colonialista (un "portoghese"), precisa, da un lato, che gli indios forniranno i prodotti di cui "abbondano", ma poi, dall'altro, senza accorgersene, fa coincidere il surplus con ciò di cui gli spagnoli necessitano. Il colonialismo, sul piano economico, è già tutto qui sostanziato: specializzazione delle colture indigene sulla base dei prodotti naturali prevalenti, selezionati dalla domanda della madrepatria. L'ateismo naturalistico L'altra cosa che colpì l'attenzione di Colombo era l'ateismo naturalistico, spontaneo, di quegli indigeni, in quanto "non professavano credenza né idolatria di sorta". Al massimo essi "stimano che la potenza e il bene stiano nel cielo". Nella loro ingenuità -rileva Colombo- credevano "che io, con queste navi e questa gente, fossi venuto dal cielo". Perché questa superstizione? Non perché non avessero la scienza, ché, anzi -scrive Colombo-, "sono di ingegno molto sottile, e navigatori esperti di tutti quei mari", tanto che "un nostro battello non tiene loro dietro alla voga" (e questa affermazione la dice lunga sul concetto di progresso e di quello tecnico in particolare); quanto piuttosto perché "non avevano mai visto gente vestita [è da sottintendere: come gli spagnoli], né navigli simili ai nostri". Col che Colombo ha, senza volerlo, lasciato capire che se nell'ateismo naturalistico di quelle popolazioni vi erano elementi di superstizione che potevano far venire in mente una forma di religiosità primitiva, questa comunque non aveva alcun carattere alienante, poiché da nessuno veniva usata come strumento di potere. Gli indios, alle prese con un fenomeno per loro assolutamente eccezionale, avevano cercato di decodificarlo con le categorie del loro tempo, così come oggi -ma con molte meno giustificazioni- si cerca di spiegare l'origine di certi fenomeni naturali o scientifici, o di certi oggetti cosiddetti "non identificati", appellandosi alla presenza o alla forza degli extraterrestri. Colombo tuttavia non ha alcuna intenzione di misurarsi alla pari con l'ateismo naturalistico degli indios: anzi, ritiene ch'esso sia il terreno favorevole per indurli a credere nella dottrina cristiana, della quale egli si sente banditore privilegiato. Non solo, ma Colombo cercò persino di servirsi delle loro ingenue superstizioni per affermare un proprio potere. Egli infatti scrive che dopo aver sradicato dai villaggi alcuni indios portandoli con sé in Spagna per apprendere lo spagnolo e diventare interpreti nelle colonie, si accorse che costoro continuavano a credere ch'egli fosse giunto dal cielo. Il motivo di ciò appare poco chiaro. Colombo lascia intendere che la causa stava nella loro ignoranza, ma non sarebbe strano vedere in questo atteggiamento compiacente un modo di sopravvivere al cospetto di un nemico ritenuto più forte. In ogni caso Colombo non cerca di dissuadere questi indios, che esaltano la sua vanità, dal mutare atteggiamento, anzi li esorta a propagandare la loro fede magica in tutti i villaggi che incontrano. La tentazione di crearsi, in quelle zone "primitive", un proprio "culto della personalità", era troppo forte per non cedervi volentieri. Nel Giornale di bordo dirà chiaramente che durante i primi tre mesi egli conquistò le isole nel nome del re di Spagna e della fede cattolica e, piantando centinaia di croci, s'impadronì delle terre degli Arawak e dei Carib, aprendo il fuoco dei moschetti e dei cannoni per spaventare quei popoli e far credere d'essere venuto dal cielo. Con una disinvoltura davvero notevole (ma non dobbiamo dimenticare che nelle colonie "tutto era possibile"), egli stava già saggiando quali enormi vantaggi poteva ottenere tenendo strettamente uniti il profitto borghese e la fede cristiana. Per lui cristianesimo e guadagno non erano in contrasto, né, tanto meno, cristianesimo e schiavizzazione del non-credente. La conversione degli indigeni la dava per scontata in un futuro immediato. Egli era convinto non solo di aver potuto conquistare quei territori per volontà divina, ma anche che di ciò avrebbero tratto vantaggio sia la corona spagnola e la chiesa cattolica (coll'ampliare entrambe i propri imperi), che "tutti i cristiani" desiderosi di emanciparsi economicamente. Da notare che sotto questo aspetto Colombo appare meno cattolico dei suoi stessi sovrani, nonostante sia convinto d'essere un profeta della parusia del Cristo: egli infatti credeva che il mondo sarebbe finito nel 7000, cioè circa 150 anni dopo la sua impresa nelle Indie, per l'esecuzione della quale -egli scrive in una lettera del 1501 indirizzata ai sovrani spagnoli- non gli giovarono "né ragione, né matematica, né mappamondi: si compì semplicemente ciò che aveva detto Isaia". Eppure furono proprio i suoi sovrani a rifiutargli il diritto di vendere gli indiani come schiavi, e la stessa Isabella, nel suo Testamento, che non nomina neanche Colombo, difenderà gli indios. Ciò naturalmente non ci può impedire di pensare che gli ideali d'uguaglianza del cattolicesimo siano stati usati dai sovrani, in questo frangente, come pretesto per rescindere il contratto firmato coi Capitolati di Santa Fe. E' vero infatti che la corona spagnola s'opporrà a più riprese, sul piano giuridico, alla schiavizzazione degli indios, ma è anche vero che sul piano pratico assumerà sempre un atteggiamento tollerante. Se così non fosse stato, Colombo non avrebbe avuto l'ardire di scrivere che i profitti della sua impresa sarebbero dipesi dallo sfruttamento non solo delle risorse naturali di maggior valore (oro, argento, spezie, cotone, mastice, legno d'aloe, rabarbaro, cannella...), ma anche delle risorse umane, cioè degli schiavi, naturalmente "scelti fra gli idolatri". Singolare è il fatto che la religione professata da Colombo non manifesti, nella lettera in oggetto, una vera superiorità nei confronti dell'ateismo naturalistico (non scientifico) espresso dagli indigeni. Da un lato, infatti, egli sbarcò su quelle isole convinto di trovare "uomini mostruosi, come molti pensavano" (nel Medioevo e anche nell'Antichità); dall'altro accettò di credere che in una provincia dell'isola di Giovanna esistessero persone "con la coda", o che nell'isola di Matinino (o Guadalupe) vigesse da sempre un totale matriarcato, o che nell'isola di Quaris tutti fossero cannibali dalla nascita e cinocefali, o che in un'altra isola ancora ogni abitante fosse rigorosamente calvo. Colombo arriverà persino a credere che gli indigeni più "buoni" non erano che i superstiti delle dieci tribù d'Israele e che nella regione dell'Orinoco doveva esserci il Paradiso Terrestre! In effetti, le "amazzoni" di Matinino si accoppiavano solo in una certa stagione dell'anno e solo con uomini della loro razza (carib). Se nasceva un maschio lo cedevano agli uomini, se femmina la tenevano, addestrandola all'arte della guerra. Ma Colombo non riuscì a comprendere che questo atteggiamento non era affatto dettato da particolari leggi "naturali" delle tribù caribiche: anch'esso, al pari dell'antropofagia, era un modo estremo di sopravvivere in una società che si stava disgregando. La questione del cannibalismo A proposito del cannibalismo, va detto che i Lucayo incontrati da Colombo non lo praticavano, né i Taino dell'Hispaniola o Haiti (altro sottogruppo Arawak). Era invece una prerogativa dei Carib, una tribù bellicosa di Haiti, armata di "archi e frecce". Probabilmente -come affermano molti studiosi- il cannibalismo era, in queste popolazioni, un modo di difendersi per non cadere vittime dei tentativi di schiavizzazione altrui. Era un modo disperato di spaventare un nemico ritenuto più forte, o di vendicarsi su di lui: un nemico che aveva bisogno di schiavi per salvaguardare un sistema diviso in classi o basato sulla proprietà privata, già in fase decadente. Si trattava insomma di un rituale a sfondo guerriero e non anzitutto di una risorsa alimentare, né quindi andava considerato come un fenomeno legato a uno stadio ancora primitivo di un'umanità selvaggia. L'altro modo di farsi valere era -dice Colombo- quello di "compiere scorrerie in tutte le isole dell'India, rubando e depredando". Anche gli aztechi erano antropofagi, ma per motivi religiosi. I sacrifici umani servivano a un sistema ormai privo di legittimità per tenere ideologicamente sottomessa la popolazione. Di fronte all'insofferenza degli schiavi, i capi politico-religiosi esigevano sangue umano da sacrificare agli dèi, al fine di placarne l'ira. Si voleva cioè far credere che essere vittima sacrificale era un onore, poiché così si garantiva la sopravvivenza a chi restava sulla terra. Quando Colombo afferma, nel Memoriale, che "tra tutte le isole, quelle dei cannibali sono numerose, grandi e assai popolate", non dobbiamo solo pensare ch'egli lo faccia per ventilare l'ipotesi, ai sovrani spagnoli, di un intervento militare nei prossimi viaggi, ma, indirettamente, dobbiamo anche capire che la proprietà comune delle prime società egualitarie incontrate da Colombo era ormai diventata un'eccezione alla regola, in quanto le civiltà schiaviste mesoamericane stavano allargandosi a macchia d'olio. La capacità d'intendersi Colombo non riesce neppure a capacitarsi del fatto che sulla base di un'esperienza comune si possano comprendere così facilmente, nei "costumi" e nella "lingua", popolazioni che vivono praticamente divise le une dalle altre, in quel grande arcipelago che poi si chiamerà delle Bahamas. Nel Memoriale del 30 gennaio 1494, sul suo secondo viaggio, egli scriverà che "siccome le genti di un'isola parlavano poco con quelle di un'altra, vi sono alcune differenze nelle lingue, a seconda che vivano più vicino o più lontano". Ciò tuttavia non farà scattare in lui l'esigenza di conoscere le loro lingue, ma, al contrario, quella di costringere alcuni di loro ad imparare lo spagnolo nella madrepatria. In ogni caso l'intesa di quelle popolazioni lo stupisce. Egli infatti non può aver dimenticato che nella Spagna da cui proviene lotte ferocissime avevano diviso per secoli gli spagnoli di religione cattolica da quelli di religione islamica. Era difficile comprendersi persino tra persone aventi interessi comuni, come dimostrerà la rivolta haitiana di Francisco Roldàn all'autorità di Colombo. Questo può spiegare il motivo per cui nella seconda spedizione Colombo permetterà che sei indios vengano arsi vivi semplicemente perché avevano sepolto alcune immagini di Cristo e della Vergine, convinti di poter ottenere un miglior raccolto di mais. Sarà proprio a partire dal secondo viaggio ch'egli comincerà a sterminare alcune tribù che non volevano lavorare il cotone per gli spagnoli. Nel 1495 egli trasferirà a Cadice ben 500 indigeni. La capacità di difendersi Non tutte le popolazioni autoctone erano così pacifiche come le descrive Colombo. Il contingente militare di 38 coloni, lasciato a Navedad, cittadina fondata sulla costa di Hispaniola, per difendere le proprietà conquistate col primo sbarco, venne decimato dai "camballi" (cannibali) dell'isola, a causa delle continue razzie d'oro e di donne. Questo perché già tra la ciurma del primo viaggio vi erano stati molti avventurieri desiderosi d'arricchirsi facilmente. Colombo aveva capito subito quanto fossero necessari questi avamposti commerciali-militari, ai fini della "resa" colonialistica, ed era convinto che la guarnigione fosse in grado, da sola, di "spopolare tutta quella terra". "Erano tanto vili -scriverà- che in mille non saprebbero attendere tre dei miei uomini a piè fermo". Quale alternativa? Altri elementi conoscitivi Colombo non ne possiede con certezza in questo primo viaggio, e d'altronde non aumenteranno di molto nei successivi, dove anzi i rapporti con gli indios si faranno più conflittuali. Qui egli aggiunge che gli sembra che "tutti gli uomini [i Taino?] si accontentino di una sola donna, ma che al loro capo o re ne concedano fino a venti"; gli pare che "le donne lavorino più degli uomini" e che tra loro abbiano "ogni cosa in comune, specialmente in fatto di cibarie". Colombo non era un antropologo o un etnologo, ma un ammiraglio e mercante: le notizie che ci ha dato sono, per quanto approssimate, ugualmente interessanti. E' proprio in virtù di quello che ha scritto che è possibile ipotizzare in quale altro modo egli avrebbe potuto incontrarsi con quegli indigeni "pieni di crudeltà e nemici nostri", così come li definisce nella Lettera rarissima, spedita da quella Giamaica ove sentiva d'essere stato abbandonato. Tuttavia, l'ipotesi di un'alternativa può essere solo puramente teorica, benché, per essere credibile, debba essere verosimile. Di fatto Colombo e il suo equipaggio ebbero la fortuna d'imbattersi in una popolazione che aveva un'antichissima civiltà comunitaria. Al contatto con quella straordinaria diversità di costumi, di vita, di valori, non sarebbe stato innaturale che, da parte degli europei, si cominciasse a ripensare i propri criteri d'esistenza, superando i condizionamenti delle proprie tradizioni antagonistiche. Non lo faranno forse grandi intellettuali come T. More (Utopia), Erasmo da Rotterdam (Elogio della follia), T. Campanella (Città del sole) e F. Bacon (Nuova Atlantide)? Ciò naturalmente sarebbe potuto avvenire solo in virtù di un rapporto pacifico e durevole con quelle popolazioni, in un confronto capace di promuovere i valori umani universali. Il che, quando accadrà, sarà patrimonio, purtroppo, solo di alcuni singoli esponenti del mondo ispano-portoghese, giunti in America come colonialisti (si pensi p. es. ai gesuiti presso i Guaranì). Gli europei più consapevoli, come ad es. Gonzalo Guerrero, arrivarono persino a muovere guerra contro i conquistadores. Altri invece s'immedesimarono nello stile di vita di quelle popolazioni (ad es. presso i Tupinambas) più che altro per giustificare il proprio libertinaggio. In ogni caso, grazie a Colombo, indirettamente, noi abbiamo capito che nella storia del genere umano è stato possibile da parte di molte popolazioni realizzare rapporti pacifici ed egualitari tra uomo e uomo e tra uomo e natura, rapporti basati sulla proprietà comune, sul senso del collettivo, sul rispetto integrale della persona. Distruggendo le culture pre-colombiane (soprattutto quelle pre-schiavistiche), l'uomo ha distrutto una parte di se stesso, e quindi ha perduto l'occasione di uno sviluppo tecnologico più equilibrato, meno devastante dell'ambiente naturale, ma anche l'occasione di un equilibrio sociale e spirituale che non conduce all'isolamento, all'emarginazione, all'individualismo... E' vero, la conquista dell'America ha favorito -come vuole l'ultimo Todorov- la mutua conoscenza del genere umano, l'integrazione di milioni di europei, americani, africani e asiatici in una razza cosmica, universale, anche se a prezzo di uno spaventoso genocidio. Ma è anche vero che un'integrazione senza reciprocità, senza giustizia per tutti i protagonisti, non è che un altro modo di continuare la logica del dominio. La bolla Inter Coetera, di papa Alessandro VI, scritta il 3 maggio 1493, su richiesta dei Re Cattolici di Spagna, è uno dei documenti più interessanti della chiesa cattolica rinascimentale, poiché con esso non solo si sanziona giuridicamente la nascita del colonialismo internazionale dell'Europa occidentale, ma si inaugura anche il moderno colonialismo ideologico e culturale del cattolicesimo romano, allora strettamente legato a quello ispano-portoghese. A dir il vero, la bolla nacque per rivedere un trattato di spartizione imperiale circa le isole dell'Atlantico (isole già conosciute e ancora da conoscere), già stipulato, senza mediazione pontificia, nel 1479, tra Spagna e Portogallo, ad Alcaçovas (in virtù del quale la Spagna poté assicurarsi solo le Canarie). Con la scoperta dell'America (che allora si pensava fosse la Cina), la Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un nuovo trattato. Il Portogallo, infatti, riteneva che proprio in virtù di quel trattato, le terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato, aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori. La bolla di Alessandro VI è quindi un documento più importante del trattato di Alcaçovas, poiché, essendo scritta dopo la scoperta dell'America, riguarda per la prima volta dei territori planetari, per quanto solo alcuni decenni dopo ci si convincerà dell'esistenza di un nuovo continente. La bolla, d'altra parte, non perderà valore neppure dopo tale acquisizione geografica, benché i successivi trattati di Tordesillas (1494) e soprattutto di Saragozza (1529) costituiranno delle notevoli precisazioni che i portoghesi vorranno fare a loro vantaggio. Saranno piuttosto le nuove potenze europee capitalistiche: Olanda, Inghilterra e Francia, a rendere inutile una qualunque mediazione pontificia. Certo è che la chiesa non avrebbe mai prodotto questo documento se il colonialismo portoghese (già sotto la sua "protezione") non avesse avuto concorrenti di sorta: il documento infatti ha lo scopo di dirimere una controversia territoriale emersa tra i due principali paesi colonialisti di quel periodo, che la storia ha voluto fossero cattolici. Esso ha pure lo scopo d'impedire che altri Stati cattolici vogliano diventare colonialisti nelle stesse terre già occupate. La spartizione viene assicurata dalla chiesa non solo sulle terre già scoperte ma anche su quelle da scoprire. Come disse il gesuita Giovanni Botero, teorico della "ragion di stato", la chiesa romana si sentiva in dovere di riconoscere i possessi coloniali mondiali alle due nazioni europee che più avevano lottato contro ebrei e musulmani, cioè che più avevano manifestato il proprio integralismo politico-religioso. Se il contenzioso fosse sorto tra un Portogallo cattolico e una Germania protestante, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna mediazione pontificia, non foss'altro perché non ne sarebbe stata riconosciuta l'universalità da entrambe le parti. Se invece il contenzioso avesse coinvolto altri Paesi europei di religione cattolica, quest'ultimi, disposti certo a riconoscere l'universalità etico-religiosa della chiesa romana, non altrettanta disponibilità avrebbero manifestato per la pretesa universalità politico-giurisdizionale. E la chiesa post-medievale, dal canto suo, non sarebbe stata in grado di rivendicarla. Gli stessi sovrani iberico-lusitani gliela riconoscevano più che altro in maniera formale, in quanto, sul piano pratico, era la chiesa che doveva adattarsi alla forza delle loro armi. Già ai tempi di Sisto IV, che cercò d'imporre alla Castiglia vescovi di sua nomina, Isabella vi si oppose energicamente, anche se poi accetterà la proposta dello stesso papa di ripristinare l'antico tribunale dell'Inquisizione, gestito dalla corona (1481). Qui appare evidente che la Spagna intendeva servirsi della mediazione pontificia per darsi una patente di legalità nel caso in cui l'opposizione del Portogallo alla bolla avesse dovuto costringerla a dichiarargli guerra. La storia comunque ha voluto che a legittimare il moderno colonialismo internazionale non fosse un'istituzione laica ma religiosa. Questo a prescindere dal fatto che le successive legittimazioni (laiche o a-cattoliche) conterranno aspetti colonialistici assai più anti-democratici del contenuto complessivo della bolla in oggetto. Quadro storico L'Inter Coetera venne scritta in un momento di grave crisi morale per la chiesa di Roma. Le uniche vere preoccupazioni dei pontefici parevano essere quelle di proteggere i loro parenti e di abbellire Roma con edifici prestigiosi. Sul piano politico invece la situazione sembrava offrire alla chiesa una qualche possibilità di rivalsa, almeno nell'ambito dello Stato pontificio, dopo i 70 anni della cosiddetta "cattività avignonese" e dopo la nascita e lo sviluppo del movimento conciliarista (che negava al papato la priorità sul concilio, trovando, in questo, molti appoggi da parte dei governi laici). Con grande tempismo politico, la chiesa di Roma seppe approfittare della richiesta bizantina di aiuti militari contro l'invasore ottomano, per imporre alla chiesa ortodossa, nel concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), il riconoscimento della giurisdizione universale del pontefice. Il fenomeno conciliarista occidentale sembrava aver perso, d'improvviso, una qualunque giustificazione d'esistere. Con la fine del "piccolo scisma d'occidente" (1439-49), che fu praticamente l'ultimo tentativo del conciliarismo d'imporsi restando nell'ambito del cattolicesimo, la Curia romana riprenderà totalmente il controllo della chiesa. Centralismo, fiscalismo e mondanità saranno poi le cause che scateneranno la Riforma protestante. Tuttavia, il decreto d'unione non venne accettato dalle comunità ortodosse, che alla delegazione, rientrata a Costantinopoli, fecero sapere di preferire la dominazione turca a quella latina. Né il papato riuscì a organizzare una potente crociata antislamica, per imporre il decreto, agli ortodossi, con la forza. Ormai i tempi non invitavano più gli occidentali a impegnarsi in crociate neo-medievali. Senza considerare che nei confronti del mondo bizantino, l'occidente cattolico non ha mai nutrito alcuna simpatia. Questo, benché, proprio a seguito di quel concilio, i teologi, i filosofi e i maestri di greco della delegazione che decisero di restare in Italia, contribuirono non poco allo sviluppo dell'Umanesimo e del neo-platonismo, nonché alla diffusione della lingua greca e a un rinnovato interesse per le tradizioni bizantine. Tanto per fare un es., un'opera fondamentale come quella del Valla sulla falsa Donazione di Costantino (1440) sarebbe stata impossibile con i soli strumenti della filologia. Inoltre, le possibilità di fare affari, per i mercanti, si stavano lentamente spostando verso le nuove rotte coloniali portoghesi o verso il Mare del Nord, dove dominavano le città della Lega anseatica. In fondo l'obiettivo principale delle crociate medievali (e cioè quello di aprirsi uno spazio autonomo nel mercato mediterraneo, per commerciare in tutta Europa i prodotti orientali), i mercanti l'avevano raggiunto da un pezzo. E' vero che la parte del leone, in quell'impresa bisecolare che costò immani sacrifici, l'aveva praticamente fatta Venezia (che costringerà Genova a rivolgersi verso il Mediterraneo occidentale e i traffici ispano-portoghesi); ed è anche vero che proprio a seguito della spinta ottomana, Venezia era stata costretta a rivolgersi verso i porti del Nordafrica, della Siria, dell'Egitto. Ma è anche vero che, nel complesso, la borghesia occidentale (si pensi anche a quella, sempre più legata alla manifattura, di paesi come Olanda, Inghilterra e Francia) stava vivendo un momento di crescente benessere. Per cui il papato non poteva più contare sulle stesse motivazioni sociali che nei secoli precedenti avevano spinto migliaia di persone a combattere per la "giusta causa" del colonialismo. Probabilmente, se dopo la caduta di Costantinopoli (1453), gli spagnoli non avessero avuto il coraggio di attraversare l'Atlantico (emulando, in questo, il coraggio portoghese di scendere sotto l'equatore), la borghesia occidentale (Venezia esclusa) non avrebbe potuto disinteressarsi, con così relativa facilità, dei traffici mediterranei (lo dimostra la discesa di Carlo VIII in Italia, ma gli stessi aragonesi nel Mediterraneo svolgeranno sempre una politica antiveneziana). D'altra parte fu anche l'atteggiamento monopolistico di Venezia (che a questi traffici non vorrà rinunciare neppure dopo il 1453) a indurre le borghesie degli altri paesi a cercare nuovi sbocchi per le loro merci e soprattutto altre fonti (meno costose) per le loro materie prime. Il papato, quindi, in questa seconda metà del XV sec., deve tener testa a tre avversari di tutto rispetto: 1) la crescente laicizzazione dei costumi e dei valori (soprattutto nell'area di cultura umanistica e rinascimentale: fenomeno, allora, tipico degli intellettuali); 2) l'emancipazione socio-economica della borghesia, che vuole rinnovare profondamente la struttura e l'ideologia della chiesa cattolica (da qui prenderà le mosse il movimento riformistico); 3) l'affermata autonomia politica dei sovrani cattolici, che vogliono agire senza dover rendere conto ad alcun contropotere, senza cioè dover temere che l'arma della scomunica possa bloccare ogni loro iniziativa. Il papato è ancora potente economicamente, anche se politicamente il suo potere lo esercita soprattutto, in maniera diretta, senza la mediazione del sovrano cattolico, nell'ambito del proprio Stato. Illusosi di aver superato la minaccia del movimento conciliarista, e relativamente soddisfatto della fine dell'impero bizantino, il papato non sospetta neanche lontanamente che tutte le idee conciliariste ed ereticali verranno riprese, di lì a poco, dalla grande Riforma protestante, e che in Europa orientale la Russia degli zar si farà carico di proseguire il conciliarismo della chiesa bizantina. Alessandro VI (1492-1503) Papa Alessandro VI rappresenta un esempio davvero illustre (ma i suoi successori, Giulio II e Leone X, non gli furono da meno) del livello di corruzione morale e di prepotenza politica della chiesa romana di quel periodo. Di origine spagnola, Rodrigo Borgia venne nominato cardinale a soli 25 anni; salì al soglio pontificio per simonia; ebbe cinque figli, tra i quali Cesare e Lucrezia, dei quali erano noti la spregiudicatezza morale e politica; fece di tutto, senza però riuscirvi, a ricavare in Romagna un dominio per il figlio Cesare; dilapidò il patrimonio della chiesa per arricchire i propri familiari, anzi, fu il primo a trasformare la corte pontificia in reggia principesca, strutturata in modo tale da mettere in risalto la venerazione rituale riservata alla dinastia; fu responsabile della morte per impiccagione e rogo del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, al quale aveva offerto la porpora cardinalizia pur di farlo tacere. In conflitto con gli aragonesi per i diritti su alcuni feudi nel regno napoletano, preferì prendere le loro difese (perché li considerava più deboli) contro i francesi che con Carlo VIII erano scesi in Italia per occuparla. Si sospetta infine che sia stato avvelenato. Questo, in sintesi, l'identikit dell'autore della bolla che stiamo per prendere in esame. Il testo Il testo, che è il primo di una serie di quattro bolle, dedicate tutte al medesimo argomento: Inter coetera, del giorno dopo, Dudum Siquidem (26.09.1493) e Eximiae devotionis (16.11.1501), esordisce affermando due cose: 1) "la fede cattolica" (e non ortodossa, benché anche questa pretenda di far parte della "religione cristiana") va diffusa in ogni luogo; 2) "i popoli barbari" (cioè non-europei o comunque tutti coloro che non appartenevano a una delle tre religioni monoteistiche: cristiani, ebrei e islamici. "Barbaro" infatti è un epiteto pesante, che la chiesa cattolica riferiva soprattutto ai popoli "pagani", "politeisti" o "idolatri"): questi popoli vanno "vinti" (sottinteso: militarmente) e poi "condotti alla fede" (spada e croce sono indissolubili). Il testo poi prosegue elencando i fatti e i motivi dai quali la chiesa di Roma può, secondo ragione, far dipendere la concessione del riconoscimento giuridico delle nuove proprietà spagnole in America (che ancora si pensava fosse la Cina). 1) Imparzialità assoluta del pontefice, eletto "col favore della clemenza divina (senza nostro merito)". Questa frase di Alessandro VI, che appare più volte, può essere stata ispirata da due diverse preoccupazioni, non antitetiche ma complementari: anzitutto quella di delegittimare una delle accuse più gravi che a quel tempo gli intellettuali progressisti gli muovevano (e per la quale il Savonarola verrà giustiziato nel 1498): l'accusa di simonia. In questo senso la sottolineatura del pontefice potrebbe anche stare a significare che, essendo la cathedra Petri un'istituzione divina, che prescinde dalla personalità o dalle caratteristiche soggettive di chi la occupa, ogni sovrano, di conseguenza, era tenuto ad accettare la bolla senza discuterla, proprio perché scritta da colui che, attraverso Pietro, rappresentava la volontà di Dio. Il secondo motivo della precisazione può essere stato invece più etico e meno politico, anche se ugualmente importante. Probabilmente Alessandro VI -essendo di origine spagnola- aveva bisogno di difendersi in anticipo dall'inevitabile insinuazione d'aver compiuto un favoritismo nei confronti dei "Re Cattolici" (titolo, questo, ch'egli conferirà ai sovrani di Spagna nel 1494). 2) Spontanea iniziativa del gesto ecclesiale: la concessione del riconoscimento giuridico viene fatta -dice il papa- "per nostra pura liberalità", "non dietro richiesta", "a titolo di favore". Qui si possono precisare alcune cose: anzitutto, secondo il diritto ecclesiastico allora vigente, tutta la terra (come pianeta) apparteneva al Cristo e, quindi, essendone il vicario, al papa, il quale così poteva concederla in usufrutto ai sovrani di religione cattolica; in secondo luogo, una terra non posseduta da un sovrano cattolico veniva considerata "senza proprietario", anche se essa era rivendicata da un proprietario non-cattolico; in terzo luogo, il principio della "donazione delle terre scoperte" tutti i pontefici precedenti ad Alessandro VI l'avevano applicato alle conquiste dei portoghesi. 3) Il "favore" di cui parla il pontefice non va inteso in senso giuridico ma morale. La concessione veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in particolare Alessandro VI si riferisce a Isabella di Castiglia) i sacrifici ("fatiche, spese, pericoli") sostenuti contro i saraceni. Questo è dunque, per la chiesa, un modo di ricompensare (senza obblighi legali) quella nazione che più si era impegnata, per la fede religiosa, sul piano militare, politico ed economico. La "conquista" del Nuovo Mondo non era che il premio per la "riconquista" cattolica della Spagna. Alessandro VI, in particolare, afferma che se la Spagna era arrivata "seconda" sulle stesse terre che i lusitani avevano scoperto o conquistato per altre vie (si ricordi che l'America corrispondeva alla Cina), ciò non doveva penalizzarla nella spartizione delle colonie, poiché il ritardo era dovuto a un fattore contingente assai importante: la Riconquista. 4) D'altra parte -dice ancora il pontefice- i sovrani spagnoli non solo hanno desiderio di diffondere la fede cattolica, ma hanno anche l'esigenza di doverlo fare in modo legittimo. Il "santo e lodevole proposito" di evangelizzare tutta la terra (questa espressione viene ripetuta più volte nel testo) è, secondo la chiesa, il motivo principale che giustifica il colonialismo ispano-portoghese. Non c'è ragione, quindi, di non concedere in dono e "in perpetuo", cioè anche agli eredi e successori dei sovrani spagnoli (a prescindere cioè dal tipo o dalla qualità dell'evangelizzazione), il favore in oggetto. 5) Anche il giudizio su Colombo è estremamente positivo. Benché l'avesse conosciuto solo attraverso la Lettera a Santàngel, Alessandro VI lo chiama "nostro diletto figlio": forse per suggerire l'idea, conoscendo la "religiosità" del genovese, che il colonialismo era nato sotto buoni auspici e che avrebbe continuato a dare buoni frutti se l'interesse della corona di fosse strettamente unito a quello dell'altare. O forse il pontefice voleva far leva sull'origine italiana di Colombo per dimostrare che indirettamente la chiesa di Roma aveva concorso alla scoperta dell'America. Non dobbiamo infatti dimenticare che questa bolla non è solo un documento con cui si concede il favore del riconoscimento giuridico della conquista, ma è anche un documento con cui, in cambio del favore, si chiede un compenso relativo agli interessi della chiesa. L'interesse della chiesa Alessandro VI non si era servito solo della Lettera a Santàngel, per scrivere la bolla, ma anche di altre fonti non citate. Nella Lettera infatti non era stato detto che gli indigeni fossero vegetariani. In ogni caso, ch'essi siano così o anche "numerosi", "pacifici" e "ignudi", ciò per Alessandro VI non rappresenta più di una mera curiosità folclorica. La vera caratteristica che gli preme sottolineare è che il loro "monoteismo" primitivo, ingenuo, istintivo, va perfezionato col cattolicesimo, che, unico al mondo, è in grado di "educare ai buoni costumi". Qui il pontefice dà per scontato che le conversioni degli indigeni siano già relativamente facili. Il pontefice ricorda anche la guarnigione lasciata da Colombo a Navedad, ad Haiti, e senza volerlo si contraddice laddove afferma, dopo aver parlato di "indios pacifici", che la "torre ben munita" doveva essere difesa dai cristiani contro gli indios. In effetti, al pontefice non interessava approfondire il discorso sulle civiltà indigene: gli bastava credere (in fede o per convenienza non importa) in ciò che Colombo aveva scritto circa la scoperta di "oro, spezie e moltissime altre cose preziose". Anche per lui era del tutto normale unire profitto e fede. La chiesa giustificava il profitto in nome della fede; la Spagna lo giustificava servendosi della fede: la differenza era minima. In fondo la chiesa di Roma aveva le stesse esigenze della Spagna: recuperare nel Nuovo Mondo ciò che non poteva più sperare di ottenere (o addirittura di conservare) in Europa, soprattutto sul piano politico ed economico. La Spagna voleva diventare una grande potenza europea restando sostanzialmente feudale, mentre molte altre nazioni stavano diventando borghesi: e ciò la costringerà a cercare uno sbocco "salvifico" nel Nuovo Mondo. La chiesa, che non poteva più contare sulle proprie forze, cercava di ridiventare una grande potenza appoggiandosi al colonialismo della Spagna. Questa si limitava a usare la fede come uno strumento ideologico al servizio della conquista militare e politica; quella invece credeva che la fede, come ideale religioso, potesse sopravvivere politicamente soltanto su nuove basi economiche. Il papa concesse il favore tracciando una linea retta (raya) dall'Artico all'Antartico, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde (al largo dell'attuale Senegal), assegnando al Portogallo tutte le nuove scoperte a oriente di quella linea, e alla Spagna tutte quelle a "occidente e mezzogiorno". In cambio di questo favore, il papa chiederà ai Re Cattolici: 1) che istruiscano per l'America dei missionari qualificati, capaci di evangelizzare nel miglior modo possibile; 2) che vietino a chiunque di recarsi nelle Indie "per commercio o altre ragioni" (ad es. per scopi missionari), "senza speciale permesso vostro", altrimenti il soggetto subirà la scomunica latae sententiae, cioè immediata. La chiesa, insomma, convinta che il sovrano spagnolo non voglia aver a che fare con possibili recriminazioni da parte di altre potenze commerciali e marittime europee, chiede anche che non vi siano, sul nuovo terreno missionario, rivali nella predicazione. A dir il vero, appena tre anni dopo la pubblicazione della bolla, Enrico VII, re d'Inghilterra, violò la raya cogliendo come pretesto il fatto che nel divieto del papa si erano citati l'ovest e il sud ma non il nord. Convinto che Colombo avesse scoperto un'isola e non le Indie, e che queste potessero essere scoperte con una rotta più settentrionale di quella di Colombo, il re favorì la spedizione del veneziano Giovanni Caboto, che partì da Bristol giungendo in Labrador, Terranova e Nuova Scozia. Anche Caboto sarà però convinto d'aver scoperto una parte dei domini del Gran Khan. Probabilmente non scoppiò una guerra, in quell'occasione, solo perché il successore di Enrico VII, Enrico VIII, si disinteressò dell'America, vedendo che non si realizzavano i profitti previsti. Tuttavia i commerci continuarono, anche se i mercanti inglesi, con capitale a rischio, per un certo periodo di tempo non poterono colonizzare o lasciare depositi stabili nelle colonie. Piuttosto fu il Portogallo che non soddisfatto della bolla del pontefice, pretese, col trattato di Tordesillas, di spostare la raya di altre 170 leghe a ovest: cosa che poi lo porterà ad annettersi il Brasile. Grazie dunque ai sovrani cattolici, il papato potè approfittare della situazione per far valere la propria autorità morale e giuridica, mostrando, in particolare, che senza la sua mediazione legittimante, non sarebbe stato possibile proseguire in modo "corretto" la gestione politica ed economica delle colonie acquisite. Il pontefice, tuttavia, doveva essere ben consapevole che se il Portogallo non avesse accettato le proposte indicate in questo documento, una guerra contro la Spagna sarebbe stata inevitabile, poiché egli non avrebbe avuto la forza d'impedirla. La guerra poi scoppierà un secolo dopo e porterà il Portogallo a una disastrosa rovina. CORTES E GLI AZTECHI: Correva l'anno 1519 dell'era cristiana, a Tecochtitlan, capitale dei domini aztechi. Moctezuma II, nono tlatoani a regnare (la definizione tlatoani indica il governante supremo scelto tra i membri della nobiltà ereditaria detta pipiltin), era inquieto. Chi erano quegli uomini "pallidi come la luna, coperti di metallo, su enormi animali sconosciuti, con strane lance senza punta che sputano fuoco, orci che eruttano fiamme e distruggono tutto fino a mille passi?"[1]. Moctezuma II Xocoyotzin Il Giovane, nel 1519, era il signore degli Aztechi, che Hernan Cortés, el Conquistador possedevano un impero che si estendeva dalla capitale Tenochtitlàn (con 300.000 abitanti) fino all'Atlantico. Era salito al trono nel 1502, quando l'impero viveva un periodo di decadenza a causa di frequenti rivolte dei popoli subordinati, tenuti a freno dalla sola forza militare[2]. Gli Aztechi - Mexica, detti il popolo "del cactus, dell'aquila e del serpente sul cuore palpitante", immagine tramandata nei codici dipinti ed ora simbolo centrale nella bandiera messicana, sono famosi e ricordati soprattutto per quegli inquietanti riti legati ai sacrifici umani che tanto inorridirono gli spietati Conquistadores spagnoli[3] che, guidati da Hernàn Cortés, s'impadronirono del Messico per conto della corona di Spagna a partire dal 1519. Gli Spagnoli, trenta anni dopo Colombo, faticarono ad addentrarsi nella penisola dello Yucatan per le difficili condizioni ambientali. Ottimo capitano, buon soldato, uomo dal carattere rude e battagliero, crudele e coraggioso, Hernán Cortés impersona, come nessun altro, la figura del "conquistador". Fedele al Re di Spagna e religioso quanto basta, Cortés cercava la ricchezza per sé e per la sua patria ed era invaso dallo spirito di avventura che lo spinse a non fermarsi mai. Nato a Medellin, nel 1485, da famiglia di piccola nobiltà, dopo un paio d'anni di studi letterari all'Università di Salamanca, scelse la carriera militare. Nel 1504 venne inviato a Santo Domingo, dove iniziò il suo rapporto burrascoso con Diego Velásquez, futuro governatore di Cuba, che, prima lo mise agli arresti, e poi gli affidò la terza spedizione in Messico, dopo i falliti tentativi dei capitani Francisco de Córdoba e Juan de Grijalva. Dal 1515 Cuba aveva soppiantato Hispaniola come roccaforte spagnola. Di lì cominciò l'espansione verso il Messico. In realtà è controverso l'appoggio ufficiale alla sua spedizione. Nella scoperta del Nuovo Mondo, e poi nella sua conquista, l'iniziativa individuale fu un elemento importante: a compiere entrambe furono piccoli gruppi di uomini, non la cristianità nel suo complesso. Nel 1519 Cortés approdò a Cozumel, dove recuperò il naufrago spagnolo Jerónimo de Aguilar. Sulla costa del Golfo il capitano venne accolto amichevolmente dai Totonachi, che divennero suoi alleati nella guerra contro l'Impero azteco-mexica. Nel frattempo, il governatore di Cuba si pentì di questa spedizione e cercò di richiamare Cortés, che, per tutta risposta, fece incendiare le proprie navi e fondò simbolicamente la città di Veracruz, dichiarandosi sotto la diretta autorità del Re di Spagna; la città fu trasformata in una municipalità, entità territoriale sottoposta direttamente alla giurisdizione del re e di cui solo Cortés era arbitro, scavalcando così l'autorità dei viceré spagnoli fino ad allora insediatisi. L'hidalgo[4], che aveva come seguito 550 uomini, fra cui 32 balestrieri e 13 archibugieri, 16 cavalli e 10 cannoni su 11 vascelli, proseguì la marcia verso Tenochtitlán: quando giunse nella capitale azteca, fu trattato con grande riguardo, accompagnato dal re al Templo Mayor[5] (la più grande piramide azteca) della Città di Dio. L'impero azteco, affascinante, potente e misterioso, era all'apice della sua potenza e della sua espressione artistica e culturale. Una cultura complessa, caratterizzata da un lato dall'esaltazione della vita, della bellezza, della natura e delle grandi architetture, ma dall'altro segnata da una cupa religiosità, timorosa degli eventi naturali, dominata dall'oroscopo e dai presagi e legata i terrificanti sacrifici umani Gli Spagnoli erano stupefatti ed ammirati per l'alto livello di sviluppo raggiunto da quella inaspettata civiltà del Nuovo Mondo, i Mexica - Aztechi, eredi dei Toltechi, che avevano fondato un grande regno con capitale Tula a 90 Km circa da Città del Messico. L'incontro tra i due mondi, presto tragicamente trasformato in conflitto, portò all'inesorabile declino del popolo azteco. Ma, procediamo con ordine. "La grande città [.] è costruita sulla laguna salata e dista, in qualunque punto, due leghe dalla riva. Vi si può accedere da quattro parti attraverso strade ben costruite, della larghezza di due lance. È grande come Siviglia o Cordoba. [.] La piazza più grande è due volte quella della città di Salamanca, interamente circondata di portici. Dove, ogni girono, tra compratori e venditori, ci saranno più di sessantamila persone": Cortés sbarca in Messico Così si legge ne "La conquista del Messico"[6], la cronaca di una vittoria annunciata scritta dallo stesso Cortés, che giunse a Tenochtitlàn l'8 novembre 1519, dopo un viaggio durato sei mesi. Arrivò in una città di circa 300.000 abitanti, più grande di Londra o Parigi in quel tempo, con strade ampie e pulite, canali percorsi incessantemente da canoe che la rifornivano di tutti i beni dell'Impero. Proprio nel 1519, secondo le credenze azteche, era predestinato il ritorno del Dio Quetzalcoatl atteso ogni 52 anni, il famoso Serpente Piumato, che, dal caos primitivo aveva creato gli uomini e la Terra ( un disco con 9-13 cieli e mondi sotterranei), poi si era consumato tra le fiamme, ma era destinato a tornare per redimere gli uomini sotto forma di "nuvola bianca". Gli Dei del Sole si nutrivano con il sangue del cuore umano: di qui i crudeli riti sacrificali alla presenza del popolo (estirpazione del cuore e consumazione dell'offerta). In quel tempo era continuamente vagheggiato, dai sacerdoti e dai poeti, il ritorno di Quetzalcoatl. A Texcoco, il preveggente re Nezahualpilli aveva preannunciato drammatici cambiamenti. Moctezuma II era stato turbato da alcuni segni premonitori, presagi dell'arrivo di un disastro: gli era apparsa una cometa, un tempio si era incendiato spontaneamente, la laguna di Mexico si era gonfiata di onde spaventose in assenza di vento e sembrava ribollire. Il "popolo del Sole" era rimasto sconcertato da questa serie di presagi e prodigi che avevano preannunciato ciò che sarebbe accaduto: quando nel Golfo del Messico comparvero navi "grandi come montagne", che trasportavano "cervi enormi" (i cavalli) con in groppa uomini armati di cui si scorgevano solo i volti, l'impressione che il destino si stesse per compiere fu notevole. Quetzalcoatl era venuto da Est: ad Est era tornato; era bianco e barbuto. E l'Est era il luogo di origine degli eroici antenati dei Maya. Gli Aztechi scorsero nei Castigliani gli dei che tornavano. Nella fattispecie si trattò dell'arrivo di Cortés che, inizialmente, fu accolto come un Dio: Moctezuma gli offrì doni e vittime da sacrificare, rifiutate, queste ultime, dallo sdegnato Cortés. Allora il re azteco, descritto dai cronisti come un uomo incerto e rassegnato, cambiò atteggiamento ed ordinò l'espulsione degli intrusi. Gli Spagnoli, con i loro cavalli, mostri sconosciuti, e le armi da fuoco, resistettero. Ed avanzarono verso l'interno. Trascorsero sei mesi di scontri e promesse, durante i quali Cortés stringeva un numero crescente di alleanze con gli indios, stanchi del predominio azteco, e Moctezuma si convinceva sempre più, non intimorito non dalle armature e dalle armi potenti, ma dall'interpretazione di alcuni segni profetici, che il conquistador spagnolo fosse almeno un messo del Dio e così gli si rivolgeva: "Per il fatto che voi dite di venire da quella parte del mondo dove si leva il Sole, e per tutto quello che raccontate del potente re che vi ha mandati, siamo convinti che egli sia il nostro antico signore"[7]. Cortés non perse tempo a far valere l'autorità di Carlo V, imperatore di Germania e cristianissimo re di Spagna[8]: esortò i sudditi a giurare fedeltà alla Spagna, fece abbattere gli idoli, ponendo, al loro posto, nei templi, le immagini della Vergine, non prima di aver fatto lavare il sangue dei sacrifici. Mise al potere i suoi uomini e, il 22 maggio del 1520, data della Festa di Toxcal, Pedro De Alvarado, braccio destro di Cortés, massacrò l'intera nobiltà messicana, disarmata, riunita per celebrare il Dio Huitzilpochtli: 10.000 morti. Nel frattempo, il governatore Velasquez, dopo aver accusato Cortés presso la Corte spagnola, l'aveva fatto dichiarare ribelle, ottenendo l'invio contro di lui di un contingente di truppe comandate da Narvàez. La notizia dello sbarco di quest'ultimo indusse Cortés a lasciare a Tenochtitlàn una piccola guarnigione, mentre egli stesso, con truppe raccogliticce, piombava sul rivale, sbaragliandolo: i soldati di Narvàez si unirono a Cortés, che rientrò nella capitale messicana il 24 giugno del 1520, proprio alla vigilia di una insurrezione generale contro gli Spagnoli da parte degli Aztechi esasperati dalle imposizioni e persecuzioni di Alvarado. Battaglia fra spagnoli e aztechi Moctezuma venne preso in ostaggio nella cittadella sacra. L'orgoglio azteco rifulse. Tenochtitlàn insorse, liberando il suo re, che rimase ucciso negli scontri (27 giugno 1520) e gli Spagnoli furono costretti a fuggire dalla città, assediati da forze preponderanti. Durante la ritirata, sulla grande massicciata che congiungeva Tenochtitlàn con la terraferma, gli Spagnoli ed i loro alleati indigeni di Tlaxcala furono assaliti e, in parte, massacrati in un feroce corpo a corpo notturno nella notte senza luna o Noche triste del 30 giugno del 1520. Presero il potere il fratello del re, Cuittlahuac, ed il nipote, Cuauhtemoc. Ormai la "triplice alleanza" era in pezzi. La città di Texcoco passò dalla parte dei conquistatori. Con l'aiuto degli alleati traditori, la capitale venne assediata, riconquistata e distrutta, cadendo il 13 agosto del 1521, a due anni dall'arrivo degli europei, con perdite umane che ammontavano a 120.000 uomini. Nel 1525 terminò, definitivamente, la resistenza azteca, con l'impiccagione degli ultimi capi. La disfatta e la sconfitta della popolazione azteca non può non essere collegata alle manifestazioni psicologico-ritualistiche collettive dell'attesa di eventi che avrebbero segnato, tra angoscia e tragedia, il loro destino. Gli Aztechi decifrarono la Conquista in chiave magica e nell'ottica profetica del ritorno dal mare del dio Quetzalcoatl (il conquistador fu molto abile ad alimentare questa convinzione). In altre parole, l'imperatore Moctezuma non era riuscito ad inserire l'arrivo di Cortés nel suo universo mentale e, di conseguenza, non era riuscito a comprenderlo. Ma, di fronte alla cupidigia ed alla furia devastatrice degli Spagnoli, presto si ricredette, ma a nulla servì. Gli storici aztechi riferiscono del trauma profondo che investì la popolazione dopo una conquista drammatica e tragica, come testimonia il "canto triste" degli ultimi difensori della capitale Tenochtilan. Per gli Aztechi la caduta della città non fu un semplice episodio militare, ma la fine del "regno del Sole", nato per sottomettere i popoli che, ai quattro punti cardinali, circondavano il Messico, disfatta, comunque, subita con rassegnazione, in quanto voluta dagli Dei. L'aspetto che più colpisce della conquista dell'impero azteco è proprio la rapidità e facilità con cui fu effettuata. Più fattori concorsero alla vittoria di un pugno di uomini guidati da Cortés su un impero organizzato con eserciti numerosi. Superiorità militare? Nella fattispecie si trattò di una superiorità tutt'altro che assoluta. Gli Amerindi non conoscevano le armi da fuoco e restarono inizialmente disorientati di fronte agli archibugi. Ben presto, però, superarono lo smarrimento iniziale anche perché nelle zone umide la polvere da sparo era inutilizzabile, così come inutilizzabile era l'armatura in ferro dei Castigliani. Entrambi gli eserciti coprivano il loro busto con una tunica di pelle imbottita (escaupil) che resisteva alla freccia scagliata dalla balestra castigliana. I conquistatori, inoltre, impiegavano nei combattimenti i cavalli ed i cani addestrati. I primi, sconosciuti nelle Americhe, potevano essere utilizzati solo in campo aperto a differenza dei cani utilizzabili soltanto sugli altipiani scoscesi. Anche in questi casi la resistenza amerindiana seppe trovare soluzioni adeguate. Per fermare la corsa dei cavalli furono introdotte le baleadoras (fasce di cuoio cui erano legate dei sassi) lanciate tra le zampe dei cavalli. Si tenga anche presente la diversa tecnica di combattimento degli Aztechi rispetto a quella dei popolacas (barboni venuti dal mare). I primi preferivano abbattere un cavallo piuttosto che "dieci cristiani", come narrano le cronache spagnole. Ciò perché il cavaliere catturato sarebbe stato sacrificato agli dei. Cortés puntò sulle divisioni esistenti all'interno dell'Impero. Infatti, sul piano militare contarono molto di più le alleanze che i Castigliani stabilirono coi popoli sottomessi: infatti, gli Alaxtaltechi furono preziosi alleati dei conquistatori nelle battaglie campali contro gli Aztechi, appena usciti da una grave crisi economica che aveva falcidiato la popolazione. Complici decisivi dei conquistatori furono anche le caste dominanti intermedie degli Imperi amerindi, quali militari e funzionari. La conquista non si limitò al piano militare: La sconfitta di Montezuma: Cortès lo fa incatenare essa imponeva la disarticolazione della società azteca e, nel lungo periodo, dei sistemi di vita e di pensiero. Si trattava di "conquistare" le coscienze. La dimensione religiosa della conquista si scagliò sull'universo magico dei segni premonitori che i grandi sacerdoti aztechi provvedevano a decifrare[9]. Impadronitisi dell'Impero azteco, iniziò lo sfruttamento delle risorse. Bernal Diaz Del Castillo ha narrato l'emozione spagnola[10] quando furono scoperti gli ori aztechi, che furono ridotti in barre, più facilmente trasportabili, custoditi presso la Casa del Tesoro. Tenochtitlán-Città del Messico divenne la capitale della "Nuova Spagna del Mare Oceano"[11] e Cortés, dopo le sue prestigiose vittorie, aveva riqualificato il suo prestigio presso Carlo V, che lo nominò governatore (1522). Il conquistatore seppe far fruttare la propria vittoria e diede avvio allo sfruttamento economico delle colonie. Dopo aver depredato gli Aztechi delle proprie ricchezze, inviò spedizioni nel cratere del Popocatepetl alla ricerca di zolfo con cui fabbricare polvere da cannone. Favorì l'estrazione di rame e di stagno e cominciò ad impiantare rudimentali fonderie per la fabbricazione di cannoni di bronzo, utilizzando manodopera locale, mantenuta in una condizione servile. Cortés fu anche gratificato di una encomienda[12] di 40.000 chilometri quadrati con una popolazione di 100.000 unità, ma il suo potere fu esautorato nel 1535 dall'arrivo del viceré della Nuova Spagna. Lasciando dietro di sé una popolazione stremata dalla guerra e dimezzata dalle stragi e dalle malattie portate dagli Europei, Cortés partì con le sue truppe alla conquista di tutte le terre dominate un tempo dall'Impero azteco, spingendosi fino in Honduras. Nel 1528 Cortés, ormai ricco, ma poco stimato per il suo carattere indisciplinato e per alcune presunte irregolarità amministrative, fu richiamato in Spagna, dove gli venne tolta la carica di governatore. Dopo pochi mesi ripartì per il Messico con il titolo di Marchese della Valle di Oaxaca. Il nuovo Vicerè aveva poca simpatia per lui, che preferì imbarcarsi con le sue truppe alla ricerca di nuove terre e, nel 1535, raggiunse la California. Ma il Re lo rivolle in Spagna per combattere in Algeria, una sfortunata spedizione che vide l'esercito spagnolo sconfitto nel 1541. Cortés decise, allora, di ritirarsi a vita privata nella sua proprietà a Castileja di Cuesta, dove morì nel 1547. La sua salma, come egli stesso aveva chiesto prima di morire, fu inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno. Di lui rimangono le cinque lunghe lettere inviate a Carlo V, che compongono la Relazione della conquista del Messico, redatte tra il 1519 ed il 1526. NOTE [1] Di grande aiuto, per la stesura di questo saggio, sono stati due articoli pubblicati su Specchio della Stampa N. 132 di sabato 1 agosto 1998: La fine degli Aztechi. Anche il Dio piange, di Piero Soria, e Cortés, destino che veniva dall'Est, di Giordano Stabile. [2] Gli Aztechi erano giunti in Messico da nord verso il 1100, guidati, secondo la leggenda, da Hiutzilopochtli, un dio tribale, e si erano sovrapposti alla preesistente civiltà dei Toltechi. Più precisamente, per ragioni misteriose, nel 1168, l'ultimo sacerdote ed il dio stesso, abbandonarono Tula, capitale tolteca, favorendo la dispersione dell'intero popolo. La città venne inghiottita dalla foresta. Le prime tribù azteche si stanziarono vicino all'antica Tula, sulle sponde della laguna di Mexico. I nuovi arrivati si ritagliarono uno spazio vitale tra le tante città-Stato che componevano il mosaico mesoamericano. Soltanto nei primi decenni del XV secolo riuscirono ad assoggettare tutti i popoli che abitavano la regione, fondando saldamente il loro dominio. La svolta si ebbe nel 1428, quando i tre principali centri aztechi, Tenochtitlàn, Texcoco e Tlacopàn, fondarono la 'triplice alleanza'. In pochi decenni le tre città sottomisero quasi tutti i piccoli Stati dell'attuale Messico meridionale. Grande artefice dell'espansione fu Moctezuma I, bisnonno di quello che incontrò Cortés. Vi erano oltre 317 città tributarie con un efficiente sistema di tassazione; i registri erano tenuti da un grande Cacique. L'aristocrazia esercitava il potere politico attraverso cariche amministrative e religiose e la carica di sovrano era elettiva. Le strutture di base della società azteca erano i calpulli, ossia delle entità amministrative che possedevano la terra, essendo la società azteca fondata sull'agricoltura; gli Aztechi facevano oggetto di culto un dio-mais. C'era un fiorente artigianato che alimentava il commercio con i paesi vicini, effettuato per mezzo del baratto, senza l'uso della moneta. Nel codice Mendoza, nella pagina di apertura, si racconta la fondazione di Tenochtitlán da parte degli Aztechi-Mexica nel 1325. Essi terminarono la loro migrazione quando giunsero su un'isoletta della laguna di Texcoco e videro un'aquila (simbolo del Sole) appollaiata su una pianta di cactus, il cui frutto è una rappresentazione del cuore umano. Gli Aztechi-Méxica, dediti a sacrifici umani durante i quali alle vittime veniva strappato il cuore, videro nella scena il simbolismo riguardante proprio le loro pratiche sociali e religiose. [3] Con il nome di Conquistadores erano noti gli avventurieri spagnoli che, nel XVI secolo, esplorarono e conquistarono gran parte dell'America centrale e meridionale. Spesso di umili origini, ma nella maggior parte dei casi appartenenti alla piccola nobiltà, essi costituivano in Spagna un gruppo sociale abbastanza numeroso che aveva fatto per secoli della guerra il proprio mestiere, impegnandosi contro gli Arabi nella reconquista della Penisola Iberica. Rimasti privi d un ruolo dopo la caduta di Granada (1492), ultimo baluardo musulmano, trovarono nell'impresa americana un'occasione per arricchirsi. Spietati e coraggiosi seppero approfittare delle proprie capacità come soldati per imporsi alle popolazioni amerinde. Spesso in queste imprese erano finanziati dalla Corona, ma, ancora più frequentemente, come era nella loro natura di mercenari, da privati. Non avendo alcun interesse ad instaurare metodi di convivenza pacifica con i nativi, il loro unico scopo fu sfruttare le risorse umane e materiali delle zone assoggettate. L'avidità li pose spesso in contrasto fra loro e li rese assai poco affidabili come amministratori delle colonie. Furono, pertanto, subito rimpiazzati dai funzionari regi e non ottennero mai cariche di rilievo nei territori conquistati. [4] Gli Hidalgos erano membri della piccola nobiltà spagnola che si distingueva dalla grande aristocrazia dei ricoshombres. Al titolo erano connessi una serie di privilegi che lo rendevano molto desiderabile, ma raramente ad esso erano associate grandi ricchezze. Anzi gli hidalgos, per la loro povertà, vennero chiamati 'affamati'. [5] Il Templo Mayor, così soprannominata dagli Spagnoli, era un'imponente costruzione costruita nel 1486 e dedicata a Huitzilopochtli (dio del Sole) e Tlaloc (dio della pioggia), con una base di 100 metri per 80 ed era alta 40 metri. Era formata da 4 o 5 gradoni con le pareti molto inclinate, con una scalinata laterale con oltre 100 gradini, in cima alla quale venivano sacrificate agli dei le vittime umane. Gli Aztechi ritenevano che il ciclo del Sole potesse fermarsi in assenza di sacrifici umani. I cuori delle vittime erano considerati il 'nutrimento' del dio-astro, che così poteva continuare il suo corso. Gli annali registrano che l'inaugurazione richiese 84.000 sacrifici umani. La Grande Piramide, come veniva anche definito, era stata costruita su una piramide precedente più piccola. Cortés scriveva a Carlo V: 'Sia la parte in muratura sia le parti di legno sono lavorate in modo perfetto e non credo che se ne trovino di migliori in alcuna città del mondo'. [6] Hernàn Cortés, La conquista del Messico, Rizzoli, Milano. [7] William H. Prescott, La conquista del Messico, Einaudi. [8] I Conquistadores spagnoli imposero un pendente, il Chimalli, sullo scudo, come simbolo di guerra, con il monogramma di Carlo V e del Sacro Romano Impero con le C coronate. Alcuni esemplari, insieme ad oltre 350 capolavori dell'arte azteca provenienti dai Musei di Città del Messico, si possono ammirare alla mostra 'I tesori degli Aztechi', a Palazzo Ruspali, Roma, via del Corso 418, dal lunedì al sabato fino al 18 luglio 2004. [9] Già l'arrivo di Cristoforo Colombo ad Hispaniola aveva significato anche l'apertura di immensi spazi all'evangelizzazione. Colombo stesso diede risalto all'aspetto religioso della Conquista, allorché si firmava orgogliosamente Christum ferens (Colui che porta il Cristo). La religione imposta dai Castigliani si rivelò, in effetti, una forma complementare della Conquista, tanto più sofisticata ed incisiva perché affondava nella coscienza degli uomini , ne ridisegnava la geografia interiore. Insomma venne fuori la diversa concezione religiosa esistente fra il cattolicesimo mediterraneo e le credenze, i triti, la concezione della morte degli amerindi. Di fronte all'assalto della religione dei conquistatori, i popoli indigeni riuscirono a far sopravvivere i loro dei e le loro credenze, dando vita ad un cattolicesimo latinoamericano sincretistico. Nell'adorazione della Vergine di Guadalupe, ad esempio, sopravvive la credenza 'Madre Terra' e presso i popoli degli altipiani andini l'adorazione di Inti Illimani si confonde con la Resurrezione. Processi di osmosi, quindi, come nelle festività religiose in Guatemala o come nell'universo sincretistico della religiosità brasiliana. [10] Bernal Diaz Del Castillo, Storia della conquista del Messico, Tea. [11] I possedimenti spagnoli in America furono organizzati in viceregni: ne furono immediatamente creati due, la Nuova Spagna del Mare Oceano (1535), che comprendeva tutto il territorio spagnolo a nord dell'istmo di Panama, ed il Perù (1542), che copriva tutta la parte a sud dell'istmo, ad eccezione della costa venezuelana. Il viceré che dominava era soggetto al controllo di un visitador, un ispettore mandato all'improvviso dalla Corte. Alla fine del mandato il viceré si sottoponeva alla residencia, una revisione giudiziaria imposta dalla Corona. Sotto l'autorità del viceré erano collocate le Audiencias, ossia dei tribunali locali sorti allo scopo di porre un freno all'eccessiva indipendenza degli adelantados, i conquistatori. [12] L'encomienda era la cessione, da parte della autorità spagnole, di una comunità o di un gruppo indio ad un unico conquistatore (encomiendero), che aveva il diritto di riscuotere quelle tasse che gli amerindi erano tenuti a pagare in qualità di sudditi del Re. Era un sistema di tipo feudale, essendo gli indigeni legati alla terra come i servi della gleba: infatti, le tasse potevano esser riscosse sotto forma di danaro, beni o, addirittura, lavoro. Questo sistema distrusse l'economia indigena, in quanto gli amerindi abbandonarono ogni cura anche delle opere pubbliche che costituiva forma di pagamento dei tributi dovuti alla Corona, in particolar modo quelle di irrigazione. Conseguenza di ciò fu l'abbandono della produzione di beni essenziali per le popolazioni indigene, che ne accelerò la distruzione ed il completo assoggettamento al modo di produzione europeo. 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Antologia della conquista, Feltrinelli Ribeiro, D., Le Americhe e la civiltà, Einaudi Mires, F., In nome della croce, La piccola editrice A cura di Kalci, G., A 500 anni dalla conquista, La piccola editrice Milanesi, M., Il primo secolo della dominazione europea in Asia, Sansoni Tenenti, A., La civiltà europea nella storia mondiale, Il Mulino A cura di Schiavina, E., Noi e gli altri, Proteo de Sahagun, B., Storia indiana della conquista di Messico, Sellerio " , I colloqui dei Dodici, Sellerio Konetzke, R., America centrale e meridionale: la colonizzazione ispano-portoghese, Feltrinelli Giglio, C., Origine e sviluppo dei grandi imperi coloniali fino al 1789; Borlandi, F., L'età delle scoperte e la rivoluzione economica del sec. XVI; Livermore, H.V., L'espansione portoghese, in "Nuove questioni di storia moderna", Marzorati, vol. I. Harrison, J.B., L'espansione coloniale: Asia e Africa; Spooner, F.C., L'economia dell'Europa dal 1559 al 1609, in "Storia del mondo moderno", Garzanti, vol. 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